“Vaccini efficaci al 96% contro ricoveri e decessi”

L’efficacia dei vaccini, per ora, non diminuisce. Questo almeno è quanto emerge con chiarezza dal report esteso dell’Istituto superiore di Sanità, che ha aggiornato all’8 settembre i dati sulla protezione e sull’efficacia dei vaccini, evidenziando ancora una volta una “forte” protezione dal contagio e dagli effetti gravi e letali della malattia.

Nello specifico, dai dati raccolti tra il 4 aprile e il 29 agosto emerge che l’efficacia complessiva della vaccinazione incompleta (solo una dose) nel prevenire l’infezione è pari al 63,0%, mentre quella della vaccinazione completa è sale al 77,3%. L’efficacia nel prevenire l’ospedalizzazione, invece, si attesta all’84,1% dopo una dose e al 93,4% per chi ha fatto anche il richiamo. Quanto all’efficacia nel prevenire i ricoveri in terapia intensiva, la protezione è pari al 90,8% per la vaccinazione con ciclo incompleto e al 95,7% per quella con ciclo completo. Infine, l’efficacia nel prevenire il decesso è pari all’83,8% dopo una dose e al 96,3% quando si è completamente immunizzati.

“La maggior parte dei casi notificati negli ultimi 30 giorni – scrive l’Iss – sono stati diagnosticati in persone non vaccinate”. Il tasso di ospedalizzazione negli ultimi 30 giorni per i non vaccinati, infatti, è stato circa nove volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo (219,1 rispetto a 24,5 ricoveri per 100.000 abitanti). E fra gli over 80 negli ultimi 30 giorni il tasso di ricoveri in terapia intensiva dei vaccinati con ciclo completo è stato ben 13 volte più basso dei non vaccinati (1,1 contro 14,8 per 100.000 abitanti) mentre il tasso di decesso è stato 15 volte più alto nei non vaccinati rispetto ai vaccinati con ciclo completo (76,2 contro il 5,0 per 100.000 abitanti).

L’Iss, inoltre, conferma la crescita dei contagi tra i bambini alla vigilia dell’apertura dell’anno scolastico. Nell’ultima settimana poco più del 50% dei casi nella popolazione 0-19 anni si è osservata nella fascia di età inferiore ai 12 anni, cioè in quella per la quale non è ancora disponibile un vaccino anti Covid: “Il persistente aumento dell’incidenza nella popolazione con età sotto i 12 anni che si è osservato nelle ultime settimane – si spiega nel report – potrebbe essere dovuto a un aumento del numero dei tamponi in questa fascia di età, vista l’apertura della scuole materne e l’imminente inizio del nuovo anno scolastico per la scuola primaria e secondaria”.

Ieri, intanto, ci sono stati 5.193 nuovi contagi, 57 le vittime in un giorno. Il tasso di positività sul totale dei tamponi effettuati (333.741) scende all’1,6%. I pazienti ricoverati in terapia intensiva sono 547, uno in meno rispetto a venerdì nel saldo tra entrate (40 nelle ultime 24 ore) e uscite. I ricoverati con sintomi nei reparti ordinari, infine, sono 4.117, 47 in meno rispetto a ieri.

Torino, il Regio non aspetta il governo: lo chiede a tutti

Il Teatro Regio di Torino non aspetta il governo e decide in autonomia, primo in Italia, di imporre da domani l’obbligo di Green pass a tutti i lavoratori, dipendenti o esternalizzati, che operano all’interno del teatro. Se non vaccinati si può accedere con un tampone negativo fatto a proprie spese entro le 48 precedenti. Pena, la sospensione dallo stipendio. La decisione ha spaccato i sindacati locali. La dura presa di posizione di Cgil, Cisl, Uil e Fials che parlano di “una fuga in avanti inaccettabile”, è stata contestata dalla delegazione Rsu del teatro, che in comunicato scrive che la posizione delle segreterie “scredita quei rappresentanti dei lavoratori che fanno parte del Comitato Covid e che hanno condiviso una scelta sulla base di richieste e necessità della maggioranza” in quanto le rappresentanze “hanno intravisto nel Green pass una possibilità di cantare senza mascherine, senza altre implicazioni ideologiche. L’alternativa è chiudere i teatri fino alla conclusione della pandemia”. Fonti interne al teatro parlano di circa 25 lavoratori, su 300 totali, in questo momento non in possesso di pass.

Una misura che ricorda quella presa dalla Biennale di Venezia il 4 agosto, ma in una situazione allora molto più precaria per numero di vaccinazioni effettuate: in quel caso furono circa 150 le lavoratrici e i lavoratori costretti a tamponi antigenici per procurarsi il pass, in molti in attesa della semplice validazione della vaccinazione. I lavoratori chiedevano un punto tamponi nell’area della Biennale, ottenuto solo 20 giorni dopo.

Il commissario del Teatro Regio, Rosanna Purchia, parla di “grande maturità delle Rsu”, ma restano i dubbi sulla necessità di un balzo in avanti di questo genere, in un momento in cui si riflette su misure da estendere sul piano nazionale.

Primo giorno di scuola, prof. e studenti: è tutto un rebus

Terzo anno di scuola in pandemia, ben arrivato. L’operato e le decisioni del ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, fino a oggi primo declamatore dei record raggiunti, a suo dire, come non mai nella storia della Repubblica, saranno alla prova dei 4 milioni di studenti e del milione e mezzo di lavoratori che rientrano. Ebbene, è già chiaro che non tutto è così perfetto come si annuncia. La complessità della macchina scuola non lo permette, ancora meno l’emergenza. Ecco perché.

Si parte dalla temperatura: la si misura a casa, anche quest’anno la responsabilità è in capo alle famiglie. Si controllerà però il Green pass dei docenti, ci sarà la prova del nove della piattaforma ministeriale con cui le segreterie sapranno subito chi ha il certificato e chi no. E se non dovesse funzionare? Controllo manuale e poi si vede. Chi è senza, avrà cinque giorni per mettersi in regola oltre i quali ci saranno sospensione (anche dello stipendio) e nomina del supplente.

Gli studenti invece non hanno obbligo di Green pass, ma di mascherina sì, anche alla primaria. Sarà fornita dalla scuola come lo scorso anno. Si mantiene il distanziamento di un metro, ma dove non sarà possibile si può derogare tranquillamente. Il personale aggiuntivo è infatti confermato solo fino a dicembre e può fare solo potenziamento. Niente classi diluite, anzi: si riassembrano. In compenso, sono essenziali le finestre aperte. Recita il protocollo: “Nelle aule scolastiche, è opportuno tenere aperte leggermente e contemporaneamente una o più ante delle finestre e/o di eventuali balconi e la porta dell’aula in modo intermittente o continuo”. Anche d’inverno, anche a Bolzano. È lasciata alla pietà degli istituti la gestione della pratica così come la possibilità di acquistare filtri o strumenti di areazione per i quali spesso non sono arrivati i soldi. In palestra si può invece andare senza mascherina ma sono vietati gli sport di squadra, mentre a mensa si va a turno e con obbligatorio il distanziamento. Turni brevi anche per ingressi e uscite, insieme a percorsi anti-assembramenti.

Turni più lunghi, soprattutto nelle grandi città, per le scuole superiori. Sui mezzi pubblici si viaggia con capienza all’80% ma si sono smarriti i controllori annunciati dal ministro Giovannini che avrebbero dovuto anche vegliare su distanziamento e mascherine. E che succede in caso di un positivo in classe? Come lo scorso anno, viene isolato e poi consegnato ai genitori che, col referente Covid, attivano il protocollo con la Asl. Per i compagni di classe e i docenti 10 giorni di quarantena (con tampone) per i non vaccinati e 7 giorni (con molecolare) per chi lo è. Un bel problema organizzativo visto che ci si potrebbe trovare con una parte di classe in presenza e una parte in Dad.

Infine, ogni persona che entrerà in una scuola dovrà essere in possesso di Green pass, inclusi i genitori e i nonni dei più piccoli. “Da lunedì sarà un delirio controllare il pass a tutti”, spiega Andrea Muto, dirigente del comprensivo “Ardigo” di Padova. Le verifiche dovranno essere eseguite in qualsiasi momento della giornata e anche per gli altri ospiti esterni come esperti; rappresentanti dei libri; addetti informatici.

A sollevare una critica ragionata e basata è il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli: “L’operazione è fattibile, ma si doveva rimpolpare l’organico. Servono 42 mila collaboratori scolastici in più e un incremento di ottomila impiegati. Gli stanziamenti messi a disposizione consentono di arrivare al massimo a 20mila in più tra bidelli e amministrativi”. Una decisione “contraddittoria” per Ludovico Arte, dell’istituto “Marco Polo” di Firenze: “Mentre attivano una piattaforma per controllare i Green pass del personale ed evitare le code all’ingresso, introducano una norma che ripristina mille verifiche. Il Green pass obbligatorio nelle scuole non esiste praticamente in nessun Paese d’Europa. Comprendo un’estensione a educatori od operatori delle mense che stanno a contatto continuo con i ragazzi, ma non per persone che stanno pochissimo a scuola e non incontrano gli studenti”.

Dipendenti statali: in 80 mila sono senza certificato

La pacchia per i dipendenti pubblici è finita, come piace ripetere a Renato Brunetta. Il ministro della Funzione pubblica ha già pronto il Dpcm per riportare 2,7 milioni di lavoratori in presenza nei ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici ed enti locali, a esclusione di una quota del 15% delle categorie fragili. Le cose per Brunetta con lo smart working non hanno funzionato e i cittadini non avrebbero avuto i servizi di cui hanno bisogno. Poco importa però che, ad esempio, i dipendenti Inps o dell’Agenzia delle Entrate abbiano dimostrato di aver fatto un ottimo lavoro in smart working. Indietro non si torna. Anzi. La fine del lavoro agile per i dipendenti della Pa sarà la mossa finale in attesa che la prossima settimana in Consiglio dei ministri venga esteso a tutti i dipendenti pubblici l’obbligatorietà del Green pass. Esattamente con le stesse modalità con cui il governo ha già approvato il decreto che ha ampliato l’uso del certificato verde nelle scuole, università e Rsa.

Insomma, una scelta politicamente già presa che, però, non solo deve vedersela con una situazione giuridica assai complessa, ma che non fa i conti con un dettaglio di non poco conto. Attualmente, secondo la Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche (Flp), ci sarebbero 82 mila dipendenti pubblici sprovvisti di Green pass non solo per la solita quota residuata del 10% di no-vax, ma soprattutto perché la stragrande maggioranza dei lavoratori ha sì completato il ciclo vaccinale, ma ha ancora difficoltà a ottenere la certificazione nonostante tutti gli sforzi. “Secondo il nostro monitoraggio – spiega Marco Carlomagno, segretario generale Flp – abbiamo accertato un numero elevatissimo di dipendenti pubblici sprovvisti di Green pass che se entrasse in vigore la prossima settimana il decreto non potrebbero più recarsi a lavoro anche se non hanno nessuna colpa”.

Il dato degli 82 mila lavoratori rappresenta, quindi, un enorme ostacolo alla volontà del premier Mario Draghi e del ministro Brunetta di estendere il certificato verde ai dipendenti pubblici difficile da risolvere in tempi brevissimi, anche se la platea interessata potrebbe essersi leggermente ridotta dopo che nelle scorse settimane la Regione Lazio ha risolto il problema del mancato aggiornamento della piattaforma vaccinale in seguito all’hackeraggio di agosto. “Il punto qui non è cercare di convincere le persone a vaccinarsi, ma risolvere un enorme vuoto burocratico di chi già si è vaccinato e rischia di non poter tornare a lavoro perché si trova abbandonato a se stesso”, sottolinea Carlomagno. In questo limbo c’è, ad esempio, il 30% del personale della Farnesina che magari ha fatto la prima dose vaccinale in missione all’estero e la seconda in Italia ma che ora, viste le tortuosità amministrative, non è ancora riuscito a ottenere l’agognato codice Authcode per scaricare la certificazione. Ma c’è anche chi ha preso il Covid dopo la prima dose vaccinale ed ora, scaduti i 6 mesi dalla guarigione, non ha più ilGreen pass. E, come in tutti gli altri casi che il Fatto ha raccontato in questi giorni, ai malcapitati non è servito a molto rivolgersi a medici di base, farmacie, hub vaccinali o alle stesse Regioni. “Per garantire il diritto a lavoro dei dipendenti pubblici obbligati a recarsi fisicamente a lavoro dovrebbero essere installati subito degli sportelli in grado di consegnare a vista il Green pass”, chiede Carlomagno. Intanto se scatta l’obbligo del certificato e la fine dello smart working, in migliaia rischiano di restare senza stipendio.

Treni, aerei e bus (col pass). I controlli partono col buco

Controllate anche il Green pass? Al primo varco per l’accesso ai binari della stazione Termini, la risposta è categorica: “No”, dice l’addetto. I passeggeri avvicinano il biglietto al lettore ottico e la porta a vetri si apre. A Roma Tiburtina, ieri pomeriggio, non controllavano neanche il biglietto. Siamo entrati e usciti più volte, come tanti anni fa quando le stazioni erano aperte e il mondo non era peggiore, arrivando fino ai treni a lunga percorrenza con obbligo di Green pass.

Al binario 12 c’era il treno delle 16:45 per Venezia Santa Lucia: “Il controllo lo facciamo noi, con questa app”, spiega il capotreno squadernando un tablet. Il pass si dichiara al momento di comprare il biglietto e la verifica la fanno a bordo, durante il viaggio: biglietto e pass, prego. Lo dicono le linee guida di Trenitalia e di Italo. “Se serve chiediamo anche i documenti”. I passeggeri senza certificato verde vengono multati (400 euro) e fatti scendere e alla prima stazione disponibile. È successo a centinaia di persone dal 1° settembre, da quando c’è l’obbligo su Av e Intercity (ma non i regionali), voli nazionali e traghetti e autobus che collegano più Regioni. Il ministro Enrico Giovannini ha detto che sono lo 0,2 per cento dei viaggiatori. Cioè quanti? Trenitalia non lo dice, segreto industriale.

Con i treni quasi pieni (il limite non è più il 50 ma l’80 per cento dei posti e qualche volta, secondo le segnalazioni giunte al Fatto, viene superato) non ha senso far salire un passeggero potenzialmente infetto e farlo scendere dopo un paio d’ore, quando magari ha contagiato i vicini. Converrebbe fermarlo prima. “È un po’ come se al ristorante venissero a chiederti il Green pass quando hai finito il primo e aspetti il secondo… – ironizza un giovane ferroviere –. Ma ci hanno detto di fare così e così facciamo”. Ci mancherebbe. Al ristorante, poi, non sempre controllano. Qualche controllo alla partenza in stazione viene segnalato a Firenze, a Napoli, a Bologna: li fanno sul binario per agevolare i capitreno. Ma ai varchi no, anche per evitare code troppo lunghe. Sarà ma ieri, tra le 16 e le 18, a Tiburtina e a Termini non c’era ressa. Comunque, spiegano da Trenitalia, sarebbe impossibile controllare tutte le stazioni. Restano l’igienizzazione e le mascherine: ma insomma, se bastano non c’è bisogno del pass; se ce n’è bisogno sarebbe più utile verificarlo prima. Dicono che i controlli si fanno a inizio viaggio, ma il tempo ci vuole. E a noi raccontano che su tratte brevi, come Roma-Napoli e Bologna-Firenze, a volte non controllano neanche a bordo. Chiedono il Green pass alla partenza, o almeno così dicono, autisti e controllori degli autobus privati che dal piazzale della stazione Tiburtina collegano Roma con l’Abruzzo e le Marche, tratte su cui le ferrovie offrono tempistiche da primi del 900. “Sì certo controlliamo noi, con la app. Poi magari, se non c’è tempo, si fa a vista. Possono farci vedere quello che vogliono? È vero, ma…”, allarga le braccia un autista di Gaspari Bus. Il collega di Flixbus dice di usare la app per tutti. Quello di Tua, Trasporto unico abruzzese, non controlla: “C’è l’obbligo solo se si attraversano tre Regioni” e lui va solo a L’Aquila. Ha ragione, lo dice l’ordinanza del ministro della Salute.

E i voli? A Fiumicino c’è un controllo solo visivo ai varchi di sicurezza: passa anche il Qr con il menu di un ristorante. “Si presentano stranieri con i certificati più improbabili, chi giallo, chi arancione, sembrano quelli delle vaccinazioni dei cani – racconta un addetto alla security –. Tutti cartacei. Gli americani hanno foglietti scritti a mano spillati nel portafoglio, magari c’è scritto Pfizer ma potremmo averlo scritto io e te”. I controlli li fanno le compagnie, al banco del check-in e soprattutto al gate, all’imbarco. Ma a volte solo a vista. Secondo Alitalia la normativa lo consente. Un passeggero partito da Ciampino: “Controllo solo al gate, ma prima c’erano file assurde”. Chi doveva contagiarsi era già infetto, ma col pass.

Colti sul Fatto

Noi giornalisti, si sa, siamo capaci di tutto. Infatti ieri ho letto l’anticipazione sul Corriere del prossimo libro di Sabino Cassese (ma me la pagherà). La prima reazione è stata domandarmi perché gli americani a Guantanamo, tra le varie forme di tortura per far cantare i loro prigionieri, non abbiano mai provato a leggergli qualche brano scelto di Cassese: quelli confesserebbero pure la Shoah. La seconda attiene alla tesi del libro, davvero sorprendente, per non dire sconvolgente, tanto è originale. Si domanda Cassese: se “gli intellettuali nutrono la democrazia”, e io modestamente lo nacqui, perché non mi si fila più nessuno? Si risponde Cassese: colpa dell’“epidemia dell’ignoranza” e del “trionfo dei populisti” che “pensano di poter fare a meno degli esperti”. Conclude Cassese: se la gente non mi dà retta, sfido che poi si sbaglia a votare; insomma “tempi bui, sia per gli intellettuali sia per i mezzi di cui si valgono”; dove andremo a finire, signora mia. Noi, pur notoriamente populisti e dunque ignoranti, siamo vicini al prof. Cassese nell’ora della prova. Ma segnaliamo sommessamente un piccolo equivoco sul concetto di intellettuale: che, da che mondo è mondo (e non Italia), è persona abbastanza colta da mettere in crisi le imposture del potere. Se invece è sempre dalla parte del potere per certificarne le bugie, è un giullare di corte, al massimo un servo erudito.

Se il prof. Cassese siede nel Cda di Atlantia (Benetton, Autostrade), ne esce con 700mila euro in saccoccia e poi scrive soffietti ai concessionari autostradali a edicole unificate, anche dopo i 43 morti sotto il ponte di Genova, ridergli in faccia non è ignoranza o populismo: è il minimo sindacale. Se il prof. Cassese paragona Conte a Orbán perché proroga lo stato d’emergenza Covid, paventando la dittatura sanitaria perché “senza emergenza non c’è stato di emergenza” e poi, quando lo proroga e riproroga Draghi, lo esalta come un sincero democratico e lo sprona financo a imporre l’obbligo vaccinale, che è un Tso per 5 milioni di persone, cosa deve pensare la gente, colta o ignorante che sia: che è un intellettuale o che è un voltagabbana un filo meno autorevole del divino Otelma? Si dirà: ma è un giudice emerito della Consulta! Sì, ma non è un’attenuante: è un’aggravante. È grazie a presunti intellettuali come lui che la gente preferisce i “populisti”. Fossero vivi Flaiano, Montanelli, Pasolini e Carmelo Bene, per citarne alcuni fra i più geniali e disparati, la categoria non sarebbe così sputtanata: il guaio è che sono rimasti i Cassese, talmente abituati a dividere il mondo fra chi dà retta ai Cassese e chi no, da non vedere che nessuno si fila più gli intellettuali da quando gli intellettuali sono loro. Per carità, tutta gente colta. Sul fatto.

Mostri in Mostra: i veri “Freaks out” sfilano sul red carpet, da Burioni alle influencer (ai morti)

“Ma che ci fa Francesco Chiofalo sul red carpet?”. La domanda per nulla peregrina è subito circolata in Rete dopo che l’ex volto di Temptation Island era apparso a fianco dell’ereditiera Drusilla Gucci sul tappeto rosso della Mostra del Cinema di Venezia. Passerella che forse mai come quest’anno ha visto un fitto alternarsi di talenti e freaks. Non come quelli del film in gara Freaks Out di Gabriele Mainetti.

Qui è una sfilata di imbucati nel mondo del cinema, influencer, partecipanti a reality vecchi e nuovi, figli, mogli e mariti di. Quasi che la Mostra fosse un noioso salone dell’editoria e non bastassero ad animarla gli attori veri. Così, big come Penelope Cruz, Valeria Golino e Charlotte Gainsbourg hanno finito per sfilare sullo stesso terreno, letteralmente, di una Federica Panicucci in abito seminuziale – “Ma che c’azzecca Federica Panicucci?”, si sono chiesti in molti sul web anche se non proprio con eleganza (“alla Mostra cani e porci”), oppure di una Elisabetta Gregoraci travestita da iceberg in via di scioglimento, o ancora dell’influencer incinta Rosa Perrotta, che sui suoi social ha spiegato di aver optato per un look pro gravidanza salvo presentarsi mezza nuda al grido di “il carpet incinte, si può”. E poi, tra gli altri, Yasmine Carrisi col padre Al Bano, l’influencer tedesca Leonie Hanne con un abito giallo schiumoso con strascico, l’ex miss Giulia Ragazzini vestita da odalisca. Tutti davanti ai flash – tranne una, Nancy Brilli, testimonial di una marca di gioielli alla quale è stato chiesto di entrare dal retro (ma l’attrice non l’ha presa bene: “Da dietro ci entra tua sorella”).

Come mai tanta umanità eccentrica, per essere generosi, sul red carpet di quest’anno? Una risposta l’ha data proprio l’uomo dei salotti televisivi Francesco Chiofalo: “Riconosco che sono un coglione qualsiasi. Mi invitano perché non c’entro un ca**o lì in mezzo. Pare strano ma penso sia per questo. Meglio io che me ne rendo conto”. A differenza, forse, del virologo Roberto Burioni, anche lui sul red carpet qualche giorno fa, “anche per testimoniare l’importanza delle vaccinazioni” (?). In ogni caso, freak per freak, valeva la pena di tirare sul red carpet – con un biglietto chiunque può sfilare, ma ovviamente è teoria – anche certi bizzarri ospiti, come la signora che girava con una maschera d’ossigeno attaccata a una pianta sulle spalle. Magari insieme all’attore Hernan Mendoza e compagna, arrivati a Venezia con due macabre maschere messicane della festa dei morti. In fondo, in questo pacchiano carnevale che differenza farebbe?

“Dove ci porta Cuore”: l’Italia nata col romanzo di De Amicis

“Con I promessi sposi e Pinocchio, Cuore rappresenta la gamba popolare di una triade che ha generato, per rifiuto o adesione, il pensiero letterario del nostro Paese”. Marcello Fois, nel suo L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore, in libreria per Einaudi, torna a interrogarsi su un classico che, se un tempo era una lettura obbligata per generazioni di ragazzi, oggi sembra accumulare polvere sugli scaffali.

L’autore sardo è persuaso che l’impatto di Edmondo De Amicis sull’immaginario nazionale resti intatto. La sua è una sfida che tenta di riscattare un libro che “ha inventato gli italiani, ne ha espresso le coordinate di un popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario”. A dispetto di stroncatori celebri come Umberto Eco che, insofferente al “gran mare di languorosa melassa”, in Diario minimo definì appunto Franti, il codardo che se la prende con i deboli, l’unico personaggio veramente positivo. Fois contesta ai detrattori di non avere considerato il merito di avere inventato “una società attraverso l’applicazione di un’utopia”. De Amicis è uno stratega raffinato, un creatore di modelli sociali. “Dando anima e corpo alla formula italiani brava gente” scrive Fois, “Cuore nasce per spostare sul buono l’indice della Nazione percepita. E modifica il grado di coscienza civica attraverso la quale noi ancora oggi giudichiamo la nostra storia patria”.

Questo diario di un intero anno scolastico nella Torino di fine Ottocento – pubblicato per la prima volta il 17 ottobre 1886 – “è l’unico classico della letteratura italiana che non sia scaturito da esigenze prettamente letterarie ma da un impegno etico”. De Amicis crede che il segreto di una nazione coesa sia nella retorica di se stessi. Ecco allora un presepe di tipi umani memorabili: il maestro Perboni; Bottini la voce narrante; Derossi il primo della classe, intelligente e vestito d’azzurro con bottoni dorati; Franti il cattivo per eccellenza, il bullo che non ha rispetto di nessuno; Garrone, figlio di un ferroviere, gigante buono che difende tutti; Crossi, capelli rossi e braccio paralizzato; Coretti, vispo e allegro che aiuta il padre rivenditore di legna; Precossi, figlio del fabbro che non lavora e che beve… Senza dimenticare i ragazzi eroici protagonisti dei nove racconti mensili, uno per ogni mese dell’anno didattico: la vedetta che decide di salire sull’albero, Ferruccio che decide di salvare la nonna, Marco che decide di raggiungere la madre in Argentina, il piccolo scrivano che decide di aiutare il padre nottetempo, il tamburino sardo che esegue un ordine e perde una gamba.

La scuola di Cuore è l’opposto del mondo reale, qui il bambino piemontese deve abbracciare e dare il benvenuto al migrante calabrese, qui il bambino benestante ha come compagno di banco il bambino povero, qui si agisce “perché la comunità proceda univoca nonostante le disparità che si presentano fuori dalla classe”. Fois è netto: “Il corpo del maestro incarna un progetto di irrealtà, che pure prepara alla vita. Il maestro è colui che allinea le storture della società”.

La classe come luogo di iniziazione è una formalizzazione di De Amicis e nessuno dei maestri successivi riesce a sottrarsi da questo punto di riferimento. Derivano da Perboni il maestro Giovanni Mosca, protagonista di Ricordi di scuola del 1939, il maestro D’Angelo della miniserie Rai del 1973 Diario di un maestro di Vittorio De Seta, il maestro Alberto Manzi della trasmissione Non è mai troppo tardi, il maestro Marcello D’Orta di Io speriamo che me la cavo. Fois individua anche emuli nel cinema come il capitano James Staros, un Perboni in divisa, di La sottile linea rossa di Malick, e il maestro Richet di Gli anni in tasca di Truffaut.

Cuore ha esteso la sua influenza ovunque. Fois cita esempi dal piccolo schermo: lo spot anni 90 sull’Aids nel quale un professore entra in classe, trova sul pavimento un preservativo e alla sua domanda: Di chi è questo?, risponde il nerd della classe che come un Garrone moderno scandisce: È mio. O ancora il meccanismo di un format come Carramba! Che sorpresa: “Pochi si sono resi conto di quanto Cuore ci sia in quei ricongiungimenti tra parenti lontani”. Fois distilla un pamphlet per rammentarci che in un’epoca consacrata all’egoismo rivolgersi ancora al vangelo laico di De Amicis sarebbe un salutare vaccino: “De Amicis aveva in mente una scuola che modificasse, che forgiasse la realtà, ma ci siamo trovati davanti a una società che ha modificato, e forgiato, la scuola”.

Caccia al Leone d’oro

Ogni scarrafone è bell’a mamma soja. Forse non come pronostico, ma il compianto Pino Daniele val bene come auspicio (e avvertenza): ci sarà l’impronta italiana, segnatamente napoletana sul palmares della 78esima Mostra di Venezia?

Il verdetto questa sera, per ora una doppia confutazione del nemo propheta in patria: per i critici italiani, chiamati a raccolta dal daily di Ciak, i film migliori del Concorso, meritevoli di 3,9 stelle su 5, sono È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che proprio a Pino Daniele affida i titoli di coda su Napul’è, e Qui rido io di Mario Martone. Napoli vincit omnia? Gli scongiuri sono d’obbligo, certo è che l’autobiografia immaginata di Sorrentino e l’Eduardo Scarpetta di Martone non hanno solo esaltato la stampa nazionale, ma convinto gli stranieri, che viceversa hanno riservato pochi entusiasmi a Il buco speleologico di Michelangelo Frammartino e maramaldeggiato su Freaks Out di Gabriele Mainetti, cassato sotto la lente del politically correct, e America Latina dei fratelli D’Innocenzo. Ne rimarrà solo uno, e quale l’highlander tra il Dio di Sorrentino e l’io di Martone?

Negli Usa hanno già messo le mani avanti per noi, consigliandoci – intimandoci – di candidare È stata la mano di Dio nella corsa agli Oscar (film internazionale): reduce da Telluride, Paolo ha le spalle grosse, e ancor più protette, e Netflix gli garantisce il cordone sanitario e i cordoni della borsa per arrivare a quel traguardo. Ma che lo start veneziano possa beneficiare del Leone, d’Oro o d’Argento (Regia e Gran Premio), è tutto da vedere, e proprio il servizio streaming potrebbe condizionare la scelta: la giuria presieduta da Bong Joon-ho potrà premiare, almeno a cuor leggero, entrambi i titoli Netflix in competizione?

Il secondo è The Power of the Dog di Jane Campion, prima donna a vincere la Palma d’Oro con Lezioni di piano (1993) e digiuna di film dal 2009 (Bright Star): Variety lo individua quale primo – se non unico – candidato di Netflix alle statuette, sicché una doppietta in Laguna non converrebbe a nessuno, né allo streamer né alla Mostra ribattezzata della “ripartenza in sala”. Sorrentino e Martone condividono Toni Servillo, che incolpevolmente è una delle ragioni per cui il suo terzo film in cartellone al Lido, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, non compete: avrebbe meritato, eccome, ancor più dopo aver visto America Latina e Freaks Out. La prova per Sorrentino quale valore aggiunto, alla Coppa Volpi ambisce con Scarpetta: se la batte con il Vincent Lindon manager in crisi del francese Un autre monde, il russo Jurij Borisov di Kapitan Volkonogov, l’americano Oscar Isaac per The Card Counter di Paul Schrader e l’inglese Tim Roth per Sundown di Michel Franco, possibile sorpresa.

È stato un festival, va detto, in cui gli attori hanno catalizzato, monopolizzato e sovente superato in bravura i film che li ospitavano, e vale pure per le attrici: Penélope Cruz batte sia Madres paralelas di Pedro Almodóvar che Competencia oficial; la Lady Diana Kristen Stewart, sebbene non brilli, vale più di Spencer. Al contrario, è una bella gara tra la protagonista, Anamaria Vartolomei, e il film tutto, L’événement di Audrey Diwan: tratto da Annie Ernaux, focalizzato sul suo aborto clandestino nella Francia anni 60, può contendere alla Campion perfino il Leone.

Per la regia, e non solo, papabili anche il balzachiano Illusions perdues di Xavier Giannoli e il gangstermovie filippino e fluviale (tre ore e mezza) On the Job: The Missing 8: rozzo, cafone e inscalfibile, può sparigliare.

Fuori Concorso, infine, un vertice di Venezia 78: Ennio, il bellissimo documentario che Giuseppe Tornatore ha dedicato al collaboratore e amico di una vita, Morricone. “Non ha mai preso coscienza fino in fondo della sua grandezza, era un uomo insieme semplicissimo e fuori dall’ordinario”, e allora a rendergli giustizia un generoso, commovente lavoro pensato e montato come fosse una partitura musicale, in cui l’archivio e le talking heads, da Bruce Springsteen a Hans Zimmer, si predispongono al futuro: “Non un’opera fine a se stessa, ma materiale per ulteriori indagini e documentari. Mi auguro non venga solo visto, Ennio, ma consultato”.

 

Macché “Piano B.”: Silvio senza politica non sembra lui…

Si poteva fare una mostra agiografica ma divertente, sul Silvio Berlusconi imprenditore, genio della tv privata d’importazione (da Dallas a Uccelli di rovo, da Drive in a Non è la Rai, dai Puffi a Bim bum bam) che ha segnato gli anni Ottanta di tutti gli italiani, quelli che lo hanno amato e quelli che lo hanno odiato. Invece “Piano B” è solo agiografica. “Immersiva” soltanto perché chi la visita sta in piedi per più d’un’ora nel salone di un albergone milanese sulla strada per Musocco, circondato da disegni proiettati sulle quattro pareti attorno, con musica pimpante e voce che fa il riassuntino wikipedia della storia di Canale 5 e prima di Milano 2 e dopo della Standa alle cui commesse Silvio mandò mazzi di rose rosse e infine del Milan che vinse tutto quello che c’era da vincere. “Volevamo raccontare la favola di Berlusconi come l’hanno vissuta gli italiani che negli anni Settanta e Ottanta sono rimasti affascinati dalle sue realizzazioni imprenditoriali”, cerca di spiegare Edoardo Scarpellini, giovane imprenditore che ha fondato MilanoCard (il gruppo che nel 2009 ha lanciato la prima tourist card per la città, che sul modello di esperienze simili in altre grandi città del mondo offre ai turisti trasporti, servizi e ingressi ai musei). “Niente politica, raccontiamo solo il Berlusconi imprenditore, dal 1956 al 1993”. Inutile replicare che la politica c’era, eccome, già nella costruzione di Milano 2, con le rotte degli aerei di Linate fatte deviare da qualche santo in paradiso. Che c’era, eccome, anche nello sviluppo delle tv, con Bettino Craxi gran protettore dell’amico Silvio. Che i film comprati dall’America arrivavano a Canale 5 lasciando nei paradisi fiscali una scia di fondi neri che gli sono costati una condanna definitiva per frode fiscale. Che i fidi delle banche arrivavano grazie ai banchieri della P2. Che alcuni boss di mafia sostengono che tra chi investì nella tv di Silvio c’era anche Cosa nostra. Che i suoi più stretti collaboratori, Cesare Previti (nel cui studio nacque la Fininvest) e Marcello Dell’Utri (gran maestro di Publitalia), sono stati condannati per corruzione e mafia. Inutile. Silvio è stato anche un uomo divertente e la sua tv è stata un crogiuolo di storie, avventure, innovazioni, piraterie, furbate, fascinazioni, magie, colpi di scena. Avremmo goduto nel vedere un’agiografia intelligente di una storia comunque scintillante. Invece ecco qua i disegnetti a colori con uno Sgarbi fumettizzato che diventa il massimo del controcanto a una narrazione senza slancio. Di fronte al risultato finale, cadono anche le spiegazioni complottistiche: se la sarà pagata Silvio per celebrare le sue gesta; l’avranno progettata per tirargli la volata al Quirinale… Ma no: gli 80 mila euro del costo li ha messi tutti il povero Scarpellini, che pure in passato aveva realizzato mostre suggestive come quella di Bill Viola nella magica Cripta di San Sepolcro e aveva avuto belle idee come quella del Cinema Bianchini. E ora tenta meritoriamente di rilanciare le edicole con la catena Quotidiana. Comunque: per chi è curioso di vedere con i suoi occhi, la mostra “Piano B” è dal 17 settembre a Milano, all’Enterprise Hotel, corso Sempione 91.