La mia vita da “tagliato” 20 anni di editto bulgaro

L’accusa che non fai ridere è la più ridicola: basta il dvd di un tuo spettacolo, dove fai ridere una platea di duemila persone per due ore e mezzo, a smentirla. E comunque la risata non è un criterio: le battute satiriche non fanno ridere i propri bersagli. L’accusa che sei fazioso, invece, è da ignoranti: la satira nasce faziosa, perché esprime un giudizio, è inevitabilmente politica. (…) Quanto alla volgarità, anche di Boccaccio e Lenny Bruce i parrucconi dicevano che erano volgari; ma la volgarità è la tecnica della satira: scandalizzarsi delle parole, e non delle nequizie che denunciano, dimostra una scala di valori corrotta. (…) Si inventano fatti mai accaduti: nel 2004, l’Ansa scrive che in una scena dei miei Dialoghi platonici “Andreotti denuda e sodomizza il cadavere di Moro. Uno spettacolo choc” che però non c’è stato. Il Giornale, Libero e il Messaggero mi attaccano lo stesso, e Mauro Mazza, direttore del Tg2 in quota An, lo fa nell’edizione delle 13 e 30. Mostro il video della serata, ma nessuno rettifica. Nel 2011 Mario Giordano, sul Giornale, afferma che Satyricon faceva parte di un piano anti-berlusconiano concordato, in vista delle elezioni, dal presidente Rai Zaccaria durante una fantomatica riunione a casa sua. Lo aveva scritto Vespa nel 2002: Zaccaria lo querelò e vinse la causa. Su La7, il giornalista di Libero Francesco Specchia sentenzia incontrastato che Decameron fu chiuso perché non faceva ascolti. Neppure il dirigente tv che cassò il programma usò questo argomento falso. Freccero supera tutti due anni fa: “Niente programma di Luttazzi su Rai2 perché chiede 100 mila euro a puntata”. Una balla (cfr. bit.ly/3iSMspU), ma i giornaloni la pubblicano e, con le altre, è ancora in Rete. (…)

Ha gioco facile chi sostiene che in Italia non c’è la censura: in apparenza, chiunque può dire e fare ciò che vuole. Ma non in tv, che ha ancora l’impatto maggiore, dove puoi dire e fare ciò che vuoi finché te lo permettono i clan al potere (di destra, di sinistra, di centro, massonici, cattolici, confindustriali & c.) (…). 1989: a Fate il vostro gioco (Rai2) cassano all’istante, durante la prova generale, il monologo sulla notizia del giorno, un caso di pedofilia (…). Nella Rai2 craxiana. Tempo un minuto e il regista mi porta il necrologio: “A Roma hanno visto il monologo in bassa frequenza. Per questa puntata non fai nulla. Le prossime vediamo”. Mi pagano per 13 puntate, come da contratto, per fare tappezzeria. (…) Barracuda (Italia 1, direttore Giorgio Gori): prima puntata, intervisto Claudio Martelli. Senza dirmelo, Fatma Ruffini, direttrice dei programmi RtI, taglia la risposta di Martelli: “Berlusconi non è un politico, è un piazzista”. La penale miliardaria prevista dal contratto mi impedisce di andarmene subito come vorrei. Nel 2001 passo alla Rai, e a Satyricon invito ospiti come Marco Pannella, che attacca la Chiesa su droga, aborto e anticoncezionali; e Marco Travaglio, che parla delle origini misteriose della fortuna di B. Succede il finimondo, e nel 2002, durante una visita di Stato in Bulgaria, Silvio pronuncia il famigerato “editto bulgaro”. Mi estromettono dai palinsesti Rai (a Rai3 i comici lavorano anche durante il regno birbonico, ma solo se pidini). Nonostante il grande successo di Satyricon (o meglio: “a causa” del suo successo), non posso tornare in Rai da 20 anni (“Normale turn over”, lo definì Vincino, che infatti faceva vignette sul Foglio). 2004: Baudo mi invita a parlare di censura, e poi taglia via le battute politiche più caustiche, sviando con una menzogna (“Luttazzi era presente al montaggio”) i giornalisti che gli chiedono informazioni. Nel 2007, a La7, Campo Dall’Orto chiude Decameron col pretesto di una battuta su Giuliano Ferrara. Così non va in onda la puntata successiva, già registrata e montata, con un monologo satirico sulla Spe Salvi di Ratzinger e sulle ingerenze della Chiesa nella vita civile. (…) 2016: GQ Italia, mensile della Condé Nast, mi chiede un articolo per il numero 200 in quanto firma storica (i primi tre anni scrivevo la rubrica di apertura). Il direttore Emanuele Farneti legge il pezzo e mi propone entusiasta una collaborazione annuale. Due settimane dopo, salta tutto: ai piani alti, mi spiega, temono ripercussioni dagli sponsor. 2019: il neo-sovranista Freccero annuncia che non mi farà fare il nuovo programma, che aveva tanto annunciato, anche perché faccio satira sulla religione, nessuno obietta. Abbiamo pure la censura preventiva: lo iettatorio Huffington Post allora titola “Perché oggi Luttazzi farebbe flop tornando in tv”. Fammi provare, almeno.

“La guerra fu una pessima idea e Biden ha fatto la cosa giusta”

Èun’icona del giornalismo investigativo americano. Seymour Hersh ha scavato negli angoli più oscuri del suo governo, con inchieste entrate nella leggenda. Dalle rivelazioni sul massacro di My Lai durante la guerra in Vietnam – con cui vinse un premio Pulitzer, quando era ancora un giovane freelance – a quelle sulle torture di Abu Ghraib, durante la guerra in Iraq, uno dei simboli della barbarie della War on terror, condotta dagli Stati Uniti.

Vent’anni dopo l’11 settembre, l’Afghanistan è perso, l’Iraq è un incubo e Guantanamo è ancora aperto…

Possiamo parlare all’infinito dell’incapacità degli Stati Uniti di capire le culture straniere o anche dell’interesse di capirle, che ha portato all’11 settembre, ma è quello che non abbiamo fatto dopo l’11 settembre che, adesso, è veramente importante. Nella società Pashtun, gli ospiti sono rispettati. Nelle settimane prima che il presidente (George W. Bush) rispondesse militarmente agli attacchi, ci fu fatto sapere che i Talebani non erano i nostri nemici in questo caso. Posso assicurarle che ci furono contatti segretissimi, prima che ebbe inizio la guerra in Afghanistan, in cui i talebani e altri ci dissero che Osama bin Laden e al Qaeda non erano loro ospiti e potevamo fare di loro quello che volevamo. Nonostante tutto, siamo finiti a fare la guerra contro i talebani, che non si è rivelata una grande idea. Voglio dire una cosa: credo che Joe Biden abbia fatto la cosa giusta. È un presidente che ha detto la verità ai cittadini americani: abbiamo perso la guerra. Penso che la cosa migliore che avremmo potuto fare, dopo aver annunciato il ritiro, sarebbe stata quella di arruolare i professionisti dei concerti rock, piuttosto che lasciare i soldati Usa a gestire l’intera esfiltrazione – è questo il termine militare per indicare l’operazione di portare fuori dal paese chi ha aiutato le truppe Usa in Afghanistan –. Quei professionisti sanno come gestire anche le folle più turbolente. Mi creda: non era difficile prevedere che moltissima gente sarebbe andata nel panico. E potremmo anche andare avanti a parlare dell’incapacità degli Usa di agire sulla base delle informazioni di intelligence, che io so che erano disponibili. Posso dirle che, molte settimane prima, avevamo raccolto una gran quantità di informazioni: l’impatto dell’avanzata dei talebani era noto. La ragione per cui tutto questo sia sfuggito alla Casa Bianca dovrebbe essere oggetto di indagine del Congresso, ma chissà se avrà mai luogo.

Perché gli Stati Uniti non hanno capito che il collasso era imminente?

Perché pensavamo che i sud-vietnamiti potessero resistere a lungo nella guerra del Vietnam? Perché non capimmo cosa era accaduto ai francesi? I francesi avevano combattuto contro i nord-vietnamiti dal 1946 al 1954, quando furono sconfitti. A quella guerra avevano partecipato 500mila soldati francesi e non erano riusciti a vincere. Perché noi avremmo potuto fare meglio di loro? Come potevamo non renderci conto? È l’incapacità di vedere quello che non si vuole vedere. Il nostro grande successo, che ancora celebriamo, è la vittoria contro l’isola di Grenada nel 1983! (ride). Le truppe dell’82ª Divisione Aviotrasportata – un’unità molto seria e ben addestrata – dovevano essere in grado di usare i mortai a Grenada. Ma non avevano le mappe dell’isola. E così le truppe dovettero andare a un distributore di benzina a comprare quelle disponibili, per cercare di individuare e colpire i bersagli con i mortai. Erano andate a fare la guerra senza le mappe… Questo non significa che non ci siano molte persone straordinarie, brillanti e interessanti, che io ho conosciuto, sia tra i militari sia nella comunità di intelligence. Significa che tra i molti soldati e uomini dell’intelligence brillanti, e i loro leader, c’è un grande gap.

Cosa accadrà all’Afghanistan, adesso?

In un mondo ideale, torneremmo a ragionare. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di tagliare fuori i talebani dall’accesso ai fondi: c’erano circa 9 miliardi di dollari nella banca nazionale. Temo per le donne: passata l’adolescenza, credo che non potranno più fare quello che hanno fatto finora e anche questo è un grande problema. Ma tagliare i fondi a una nazione con molte persone ridotte alla fame è un errore terribile. I talebani stanno prendendo in mano il governo di una nazione che ha impianti di trattamento delle acque. Kabul è diventata una città molto moderna, con palazzi a più piani, ristoranti, e i talebani non hanno idea di come gestire un Paese, sebbene sappiano indubbiamente coltivare papaveri da oppio e produrre eroina. Credo che la cosa più importante che dovremmo fare sia quella di cercare qualche sistema – senza strisciare, con la nostra dignità, che per noi è molto importante – per aiutare i talebani, in qualche modo, per assicurarci che riescano a gestire il Paese. Sanno come operare un impianto di depurazione o uno fognario? Non credo che sappiano nulla di queste tecnologie. Una cosa che abbiamo in comune con i talebani – e dico qualcosa di molto ovvio – è che il loro disprezzo per al Qaeda e l’Isis è grande quanto il nostro: questo è un punto su cui possiamo lavorare. Come ho detto, credo che Biden abbia fatto la cosa giusta nel dire basta. E ora viene massacrato per l’incredibile disastro dell’esfiltrazione.

Gli Usa hanno speso 1.000 miliardi per l’intelligence a partire dall’11 settembre: perché hanno fallito così miseramente in Iraq, in Afghanistan e ovunque?

Se avessi la risposta giusta, la metterei in una bottiglia e la venderei a un dollaro ciascuna. C’è ovviamente un enorme scollamento. La mia esperienza con i militari è che, anche se ci sono sempre meravigliose eccezioni, quelli che arrivano ai vertici, spesso, non sono i migliori: sono i migliori dal punto di vista politico, ma non dal punto di vista dell’intelligenza e della conoscenza. Non è una bella situazione.

“Dopo l’attacco alle Torri nell’impero americano prevalse il lato oscuro”

The unimaginable fact. Pochi giorni dopo l’11 settembre 2001, lo scrittore Jonathan Lethem pubblica un pezzo per il New York Times Magazine, in cui l’attacco è descritto come “l’evento inimmaginabile”, quello che stravolge per sempre i confini della realtà e allarga all’infinito la categoria del possibile. Lethem riflette così su quell’“evento inimmaginabile” a 20 anni di distanza.

Dove si trovava alle 8.46 dell’11 settembre 2001?

Nel mio appartamento di Brooklyn. Dormivo quando il primo aereo colpì la Torre Nord. Mi svegliò il rumore mostruoso dell’impatto del secondo aereo contro la Torre Sud. Corsi fuori di casa. Davanti a me c’era solo del fumo. Rientrai. Accesi la tv per cercare di capire. Finii la giornata sulla Brooklyn Heights Promenade, fisso a guardare il fumo che saliva dalle rovine. Il vento soffiava da Manhattan. Ci portava la cenere nera e le carte degli uffici delle Torri crollate. Mi misi a leggere alcuni di quei fogli. Appunti. Resti di qualche libro.

Cosa ricorda dei giorni successivi?

Il dolore. Ma anche un incredibile senso di solidarietà tra tutti noi, cittadini di New York. Pur nell’orrore, c’era la fiducia che fosse possibile stabilire nuove forme di comprensione. Un nuovo umanesimo, che si creava grazie al dolore. Durò pochissimo. La militarizzazione prese il sopravvento. Non l’ho capito subito e oggi me ne pento. Ma era difficile capire, in quei giorni convulsi.

Il 7 ottobre 2001 gli Usa invadono l’Afghanistan dei talebani, per distruggere al Qaeda. L’America va in guerra in una sorta di sbornia patriottica collettiva, di rabbia e voglia di rivincita. La guerra era evitabile?

No. Eravamo terrorizzati. Poche ore dopo l’attacco, l’amministrazione stava già parlando di invadere l’Afghanistan. Il 13 settembre Dick Cheney andò in tv a parlare del dark side, il lato oscuro dell’azione americana nel mondo. In quelle parole c’era tutto quello che sarebbe successo dopo. La guerra. Gli assassini extra-giudiziali. Guantanamo. Le torture. La persecuzione interna dei musulmani. Il primo incubo era stato l’attacco a New York. Il secondo, quello che stava succedendo all’America.

Furono in pochissimi a opporsi.

Non si poteva parlare liberamente. Susan Sontag scrisse sul New Yorker che i codardi non erano quelli che si erano fatti esplodere sulle Torri, ma i piloti americani che da distante lanciavano missili sulla popolazione. Bill Maher, il comico e conduttore tv, disse qualcosa di simile. Vennero zittiti, insultati, minacciati.

Che ruolo ebbe la stampa?

Non si può generalizzare. Ma buona parte della stampa, soprattutto le tv, si piegarono. Pubblicizzavano la versione del governo. In altre parole, dovevamo rinunciare alle libertà civili e andare in guerra.

L’Amministrazione Bush e i neocons parlavano della necessità di esportare la democrazia. Ci ha mai creduto?

No. Perché prima di esportare la democrazia, la devi avere. E non era il caso dell’America.

L’11 settembre è il punto di non ritorno per le libertà civili negli Stati Uniti?

Dopo l’11 settembre, l’America è diventata meno libera. La trasformazione degli Usa in senso securitario, di sorveglianza poliziesca, era in corso da anni. L’11 settembre dà uno straordinario impulso a quel processo. Oggi col trionfo delle tecnologie e della sorveglianza su scala industriale, il processo si è completato. Le nostre libertà civili non saranno mai più le stesse.

In uno dei suoi più celebri romanzi post-11 settembre, Chronic City, Manhattan è minacciata da una gigantesca tigre. Quanto fu determinante l’attacco terrorista nella scrittura di quel romanzo?

Fu fondamentale. Volevo scrivere dell’11 settembre senza mai nominarlo. Volevo che il terrore e l’orrore fossero percepiti, senza essere capaci di dar forma a quel terrore.

Nel romanzo ci sono i newyorchesi che comprano una versione del New York Timeswar free”, senza riferimenti alle guerre americane. Perché?

Perché l’orrore dell’11 settembre e delle guerre fu rapidamente sublimato. Fu il modo per elaborare un lutto che ci aveva devastato. Ci si buttò a capofitto nel lavoro. Non si parlava altro che di ripresa economica. Wall Street esplose. A New York c’erano feste ovunque. Era come se volessimo dimenticare quello che succedeva in medioriente e le ferite che l’America stava infliggendo al mondo. Nel 2005/2006 non parlavamo d’altro che di rinascita. Il crollo del 2008 era alle porte.

L’11 settembre, l’esito disastroso delle guerre in Iraq e Afghanistan, segnano la fine dell’impero americano?

La metterei così. L’11 settembre e le guerre sono la fine definitiva della fiducia nella “moralità” dell’impero americano.

Che cosa ha provato di fronte alle immagini del ritiro americano dall’Afghanistan?

Tristezza. È stata una triste catastrofe. Ma cosa ci aspettavamo, dopo il caos che abbiamo imposto a quella gente e al mondo?

Il fallimento strategico: dopo al Qaeda è nato anche l’Isis

Vent’anni dopo l’11 settembre 2001, è cambiata la percezione della minaccia più che l’efficienza nel contrastarla, anche perché il terrorismo conserva i vantaggi della imprevedibilità e della ‘non convenzionalità’, nella scelta degli obiettivi da colpire e di come, dove, quando colpirli. Tra la suggestione della ricorrenza e lo choc della sconfitta in Afghanistan, gli Stati Uniti si sono avvicinati al 20° anniversario cercando di esorcizzare la paura di un nuovo attacco: nelle città, specie a New York, è scattato lo stato d’allerta rafforzata. Al Qaeda, ma anche l’Isis e lupi solitari tornano a incutere timore. Nel 2001, l’attacco colse gli Usa con la guardia abbassata, nonostante i numerosi sanguinosi precedenti ‘interni’, Oklahoma City, l’Unabomber, le Olimpiadi di Atlanta. Gli europei, che si erano già misurati con il terrorismo, si erano assuefatti a controlli e precauzioni.

Gli americani, invece, dovettero farci i conti allora: procedure di sicurezza negli aeroporti e sugli aerei, metal detector all’ingresso degli edifici pubblici, documenti da esibire a ogni piè sospinto. Prassi magari allentatesi negli anni, ma che l’anniversario riporta d’attualità. L’intelligence assicura che al Qaeda è indebolita e l’Isis pure. Ma la lunga guerra ha logorato più l’Occidente che i talebani; e lascia ovunque schegge di organizzazioni terroristiche che possono ancora colpire e fare proseliti. Soprattutto il conflitto ha allargato i fossati, non ha costruito dei ponti fra le genti, le ideologie, le religioni. La sproporzione fra le risorse investite è paurosa: l’11 settembre costo ad al Qaeda mezzo milione di dollari, scuole di volo e biglietti aerei compresi; la guerra al terrore è costata agli Usa 3.300 miliardi di dollari – stima del NYT –, di cui 600 investiti in sicurezza interna e meno di 200 spesi per riparare i danni. Ritirandosi dall’Afghanistan, l’Amministrazione Biden ha sostenuto che la missione, almeno quella di debellare al Qaeda, era compiuta. Un colpo di coda ora darebbe un’ulteriore spallata al prestigio e alla credibilità del presidente, che s’è impegnato a continuare la lotta al terrorismo senza più boots on the ground, ma con capacità over the horizon, ovvero con tutti i mezzi che offre la tecnologia, dai droni ai satelliti. Ma Biden dovrà evitare fallimenti nel monitorare e intercettare cellule che vivano e agiscano nell’Unione. Facendo il quadro dei cambiamenti innescati dall’11 settembre, il Washington Post avanza persino dubbi anche su quello che, fino alla rotta afghana, appariva un punto fermo: l’indebolimento di al Qaeda. Quando il World Trade Center crollò e il Pentagono bruciava, fu chiaro che Washington, nonostante i cruenti allarmi di Nairobi e Dar es Salaam, aveva sottostimato la potenziale minaccia del gruppo integralista islamico, guidato da un ricco saudita, Osama bin Laden, andato a infrattarsi in Afghanistan e che sognava di riunire l’Islam – obiettivo fallito – e di distruggere “il mito dell’invincibilità Usa”: obiettivo centrato, ora due volte. Osama è stato ucciso in Pakistan nel 2011 da un commando di Navy Seals; Qassim al Raymi è stato ‘neutralizzato’ nel 2020 da un drone in Yemen. Ma al Qaeda resta attiva: il network terrorista ha appena diffuso una nuova copia del magazine Inspire, dopo oltre quattro anni di silenzio editoriale. Ma non è solo lo spettro di al Qaeda a fare paura. C’è pure lo Stato Islamico e le sue filiali, come l’Isis-K afghano, che ha rivendicato il cruento attacco a Kabul il 26 agosto. L’eliminazione nel 2019 dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi in Siria non attenua le preoccupazioni, perché l’Isis s’è molto ramificato geograficamente dall’Afghanistan all’Africa, esercitando influenza e portando lutti anche in Estremo Oriente e in Oceania. In questi vent’anni il terrorismo ha colpito ancora e ovunque, in forme e con sigle diverse. Anche per questo, il segretario alla sicurezza interna Alejandro Mayorkas denuncia la rafforzata minaccia negli Usa di attacchi terroristici. Più che un mega-attentato, c’è l’attesa di azioni di singoli radicalizzati negli Usa o infiltratisi, com’è già accaduto nelle basi militari che addestravano ufficiali sauditi.

Ksm e Adayfi: la mente delle Torri e un innocente insieme per 14 anni

Circa 780 detenuti dal 2002: 12 accusati di crimini di guerra. Ancora in attesa di processo: 10. Ne restano 39 a Guantanamo Bay, la prigione militare statunitense a Cuba: 17 sono trattenuti a tempo indefinito, per altri 10 è stato ordinato il trasferimento. La prigione caraibica riempita a partire dall’11 gennaio 2002, è per gli Usa un’onta che neanche il presidente democratico Barack Obama è riuscito a lavare, nonostante l’ordine del 2009 della chiusura delle operazioni di detenzione entro un anno con la sospensione delle udienze e la revisione della task force sullo stato dei prigionieri. Nel 2012 il Congresso sventa la chiusura del carcere e cinque prigionieri sonno citati in giudizio per l’11 settembre.

A rimescolare le carte però arriva cinque anni dopo Donald Trump che inverte l’ordine. Poi Joe Biden promette di trasferire le tute arancioni: al 19 luglio un solo detenuto è stato trasferito e Guantanamo è aperto. Come aperto è pure il più grande processo della storia del crimine Usa e il più controverso. Fissato per l’11 gennaio scorso, rinviato causa pandemia e dimissioni di due giudici, l’8 settembre è iniziato con l’esame di 35 mila pagine di accuse su Khaled Cheikh Mohammed, Ammar al-Baluchi, Walid bin Attash, Ramzi bin al-Shibh e Mustafa al Hawsawi, in prigione da 15 anni. Ad accusare i sauditi è colui che si è detto la mente dell’attentato, QaidaKhalid Sheikh Mohammed noto come Ksm. Catturato in Pakistan, paese natale nel 2003 e trattenuto per tre anni nelle prigioni nere all’estero, “interrogato secondo i metodi di tortura vigenti in esse, compresa la tecnica del soffocamento nota come waterboarding”, Mohammed, “si è vantato di essere l’artefice degli attacchi dell’11 settembre 2001, ‘dalla A alla Z’”, si legge nella sua scheda. Accanto al nome, l’asterisco indica le torture subite, secondo il report del Comitato dell’Intelligence in Senato del 2014, a cui si appella la difesa per invalidare le accuse: il rischio è che il processo duri 20 anni.

È stato per 14 anni a Guantanamo da innocente, invece, Mansoor Adayfi, uno dei tanti detenuti senza prove che nel libro Don’t Forget Us Here: Lost and Found at Guantanamo, racconta come da diciottenne pastore e guardia di sicurezza in Yemen, dopo l’11 settembre viene rapito da combattenti afghani e consegnato alla Cia in cambio di una grossa taglia. Da lì finisce a Kandahar, spogliato, picchiato, accatastato con altri uomini e interrogato per i presunti legami con al Qaeda. Poi di nuovo incappucciato, legato e portato a Guantanamo. Detenuto 441, Adayfi si fa leader della resistenza carceraria. In udienza dichiara di considerare un “onore” essere un nemico degli Usa, loda gli attacchi dell’11 settembre e si definisce “figlio” di Bin Laden. “Volevo insegnare loro che non potevano ucciderci e torturarci e aspettarsi che li amassimo. No. Volevo che vedessero cosa avevano creato”.

Il “finto attentato”: cosa resta di complottismi e fake news

Nel mondo parallelo e popolatissimo delle teorie del complotto, l’11 settembre ha creato una serie di fake news ancora molto seguite.

Il filo rosso che le collega è la convinzione che l’attacco sia stato un inside job, un piano concepito da parti deviate dell’apparato americano, il cosiddetto deep state, o che almeno il deep state ne fosse al corrente e lo abbia lasciato accadere per giustificare la guerra in Iraq e Afghanistan e la crociata anti-islamica.

In questa ottica deviata, le Torri sarebbero crollate per una serie di esplosioni controllate, alcuni trader si sarebbero arricchiti speculando in anticipo sulla tragedia, le drammatiche telefonate partite dagli aeroplani dirottati sarebbero completamente false, l’impatto sul Pentagono sarebbe spiegabile solo come una montatura e così via.

Teorie tutte ampiamente confutate da fonti diverse: quella delle esplosioni controllate, per esempio, è stata smontata rispettivamente nel 2002 dalla US Federal Emergency Management Agency (Fema) e nel 2005 dalla National Institute of Standards and Technology, oltre che da una notissima ricostruzione del sito Popular Mechanics diventata un libro. La conclusione condivisa è che il crollo sia stato dovuto non all’impatto diretto degli aerei, ma alla forza distruttiva dei roghi provocati negli edifici da quell’impatto, che si è incanalata nei vani degli ascensori, ha fuso la struttura e ha provocato il collasso in sequenza dei piani.

E cosa ne è del sospetto principale, che cioè la Cia sapesse ma non abbia voluto intervenire? La verità è molto più banale, anche se altrettanto spaventosa, ed è contenuta nel rapporto della Commissione Nazionale, un gruppo di lavoro indipendente e bipartisan creata proprio per fare luce su quegli attacchi: 567 pagine e 13 capitoli di analisi, testimonianze, proposte di riorganizzazione dei sistemi di intelligence. Il rapporto contiene un intero capitolo chiamato “Il sistema lampeggiava rosso”. Segnalazioni e allarmi erano accurati e reiterati, ma nessuno al vertice li ha saputi collegare in un contesto diverso, allora inimmaginabile. “L’attacco è finito nel vuoto fra minacce all’estero e in terreno americano. Le agenzie di intelligence estere (come la Cia) monitoravano gli avvertimenti dall’estero, quelle interne (come l’Fbi) aspettavano prove di pericoli da cellule dormienti in Usa. Nessuno immaginava un attacco straniero in territorio americano”.

E poi, la folle rivalità e di conseguenza la scarsa collaborazione fra agenzie, ottimamente ricostruita nel libro e poi nella serie televisiva The Looming Tower: la Cia che sa dell’ingresso negli Stati Uniti dei 19 attentatori ma non ne informa l’Fbi, che non ha gli elementi per mettere in relazione la loro presenza con i piani di attacco di cui era al corrente. Il tutto non arriva al capo della Sicurezza Nazionale, Condoleezza Rice, o viene da lei sottovalutato.

Un nuovo fronte di analisi, e di nuove teorie del complotto, potrebbe aprirsi con la recente decisione del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di declassificare una serie di documenti, carte che le famiglie delle vittime hanno tentato di ottenere per due decenni, scontrandosi contro il no delle Amministrazioni precedenti.

In particolare, i parenti delle vittime vogliono fare chiarezza sul ruolo del governo saudita nel supporto agli attentatori, sauditi e pachistani. Il rapporto della Commissione d’inchiesta aveva concluso che non ci fossero prove di un coinvolgimento di funzionari governativi sauditi, ma le famiglie, alcune delle quali sono in causa con il governo di Ryad, sono convinte ci siano prove di compromissione di alcuni funzionari, anche se di basso livello. L’ex governatore del New Jersey ed ex presidente della Commissione, Tom Kean, che ha letto la prima tranche del dossier saudita e ha commentato: “Non c’è nessuna pistola fumante”.

Siamo tutti europei, e scettici al 10%

Il successodel programma di vaccinazione dal Covid dipende dalla partecipazione di massa. Il messaggio conciso e persuasivo è fondamentale, dati i livelli sostanziali di esitazione ai nuovi vaccini. Questo è stato un punto debole in tutta la campagna vaccinale. Il problema non è solo italiano. Un’interessante pubblicazione su Lancet, dal titolo Effect of different types of written vaccination information on Covid vaccine hesitansy in the UK: a single blind, parallel group, randomized controlled trial (Effetto di diversi tipi di informazioni scritte sulla vaccinazione in tema di esitazione al vaccino contro il Covid nel Regno Unito: uno studio cieco controllato randomizzato e a gruppi paralleli) raggiunge importanti risultati, che potrebbero essere d’aiuto alla sanità pubblica. Una prima importante considerazione sui gruppi in studio è che nella popolazione fortemente titubante (in media 10% in tutti i Paesi Ue) l’informazione sui benefici personali riduce l’esitazione in misura maggiore rispetto alle informazioni sui benefici collettivi. In particolare, i messaggi che sottolineano i vantaggi personali, soprattutto controbilanciati ai rischi, si dimostrano più efficaci. Informare che un vaccino è sicuro ed efficace, senza nascondere alcune inevitabili reazioni indesiderate, aumenta l’accettazione rispetto a una condizione d’assenza di informazioni o eccessive rassicurazioni. Fornire informazioni sul beneficio dell’immunità di gregge non ha mostrato alcun effetto sull’accettazione del vaccino: i riluttanti sono solitamente i meno aperti a una visione collettiva. I livelli d’esitazione di tali individui sono stati ridotti in piccola misura da informazioni che hanno evidenziato i benefici personali della vaccinazione o hanno affrontato direttamente problemi di velocità di sviluppo. Bisogna poi mostrare particolare attenzione per i titubanti moderati, i più difficili nella comunicazione. Anche genere ed etnia potrebbero influenzare l’impatto delle informazioni. Gli opinion leader, spesso enfatizzati dai media, restano il veicolo più impattante per tutti. Lo studio è utile non certo per individuare colpe, ma per ottimizzare la comunicazione.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Ergastolo ostativo:come salvarlo

Nell’aderire a quanto stabilito nel 2019 dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e mutando la valutazione operata il 24 aprile 2003, la Corte costituzionale (ord. 15 aprile 2021, n. 97) ha creato i presupposti per ammettere i mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia al beneficio della liberazione condizionale, una volta espiati 26 anni di reclusione, decurtabili di 45 giorni ogni semestre di pena scontata, in virtù della liberazione anticipata, e dunque dopo circa un ventennio.

Ha ritenuto, infatti, il regime vigente incompatibile con il principio di rieducazione della pena: scelta che di fatto potrebbe cancellare l’ergastolo ostativo, fulcro della normativa antimafia promossa da Giovanni Falcone. Se appare apprezzabile l’aver rimesso al legislatore l’intervento normativo entro il 10 maggio 2022 per disciplinare la materia senza procedere a un intervento “demolitorio” immediato, occorre chiedersi se la disciplina vigente sia davvero incompatibile con la Carta costituzionale e quali soluzioni possano essere adottate. Invero, l’incostituzionalità non sussiste se si considera che la condotta del mafioso ergastolano incide direttamente o indirettamente su plurimi valori costituzionali, vale a dire i diritti inviolabili (art. 2 Cost.) – quali la libertà personale, l’uguaglianza, il diritto alla vita e alla sicurezza – ed entra in tensione anche con il principio per cui le prestazioni personali e patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge (impone il pagamento di tributi paralleli rispetto a quelli previsti dallo Stato, come il sistematico pizzo agli operatori economici), incide sull’iniziativa economica privata libera, sul diritto di proprietà e sulla sua funzione sociale. Si ingerisce, infatti, ancor oggi nella gestione delle imprese attraverso l’erogazione di prestiti e nella successiva loro appropriazione a fronte dell’incapacità di onorare i debiti. Condiziona la libera concorrenza, vulnerando l’uguaglianza tra tutti gli operatori economici. Esponenti di cosa nostra sono giunti ad attuare attacchi terroristico-eversivi al cuore dello Stato, ponendo in essere otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) nel triennio ’92-’94, con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni (abolire l’ergastolo, eliminare il 41 bis e la legge sui collaboratori di giustizia in cambio della cessazione delle stragi), condizionando la politica e la funzione legislativa, che è riservata al Parlamento e al governo, arrivando persino a condizionare, con la strage di Capaci, la nomina del presidente della Repubblica (Scalfaro), riservata al Parlamento in seduta comune dei suoi membri. E non è stata accertata tutta la verità in ordine a tali eventi stragisti, uno dei principali esecutori di quello stragismo, Matteo Messina Denaro, continua a essere latitante. Si tratta di una specifica realtà criminale non conosciuta dal resto d’Europa.

Rimuovere gli ostacoli che limitano i diritti fondamentali è compito precipuo della Repubblica, che lo ha fatto sino a oggi efficacemente con il varo di un’appropriata legislazione, che ha saputo incentivare la collaborazione con la giustizia. Una scelta che costituisce una direttrice di politica criminale propria del legislatore incompatibile con la mera dissociazione manifestata dal detenuto con l’assunzione delle proprie responsabilità. Pertanto, la sola collaborazione dovrebbe espressamente essere indicata quale criterio vincolante per il giudice al fine di escludere la possibilità di accedere al beneficio della liberazione condizionale, posto che, ove fosse per così dire ‘istituzionalizzata’ la dissociazione, ne deriverebbe una valenza evidentemente disincentivante per le collaborazioni non esponendo a conseguenze il condannato, non essendo la scelta irreversibile (a differenza della collaborazione) e non creando pregiudizio al sodalizio, consentendogli di perpetuare la sua esistenza.

Vari esponenti del crimine mafioso hanno cercato di ricorrere alla dissociazione nel quadro di una precisa strategia funzionale a ottenere benefici: sul finire del 2000-inizi del 2001, alcuni esponenti di vertice di cosa nostra, tentarono di avviare un dialogo mostrando una disponibilità ad ammettere le proprie responsabilità, senza accusare i propri complici; di recente anche Filippo Graviano ed esponenti della camorra stanno percorrendo la medesima strada. I mafiosi irriducibili che non accedono alla collaborazione giurano fedeltà perpetua all’organizzazione e il loro status è per sempre. Si può fuoriuscire dal sodalizio solo con la morte o con la collaborazione, sicché la rieducazione dell’ergastolano mafioso non può funzionare per gli irriducibili. L’appartenente al sodalizio che collabora realmente compie una scelta irreversibile di rottura, che lo espone addirittura al pericolo concreto di vita una volta ritornato in libertà (a titolo esemplificativo, si pensi all’assassinio di Claudio Sicilia, esponente della Banda della Magliana) o a vendette “trasversali”, rischio che non viene corso da chi si limita a una dissociazione.

Perciò, il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato che non collabora, pur essendo nelle condizioni di farlo, sino all’annientamento della relativa organizzazione e ciò limitatamente agli esponenti di vertice dei tradizionali gruppi mafiosi che siano in grado di fornire collaborazioni di peso, documentate da provvedimenti giurisdizionali e da relazioni delle Procure distrettuali interessate dalla gestione del collaboratore e dalla Procura Nazionale. Senza il decisivo requisito della collaborazione severamente controllata e riscontrata manca ogni fattore obiettivo a cui ricollegare il distacco dal consorzio mafioso. L’accesso alla liberazione condizionale, come agli altri benefici della semilibertà o al lavoro esterno, potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso, come ci ricorda il recente esempio di Antonio Gallea, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione (stidda). È razionale differenziare nell’accesso ai benefici penitenziari il condannato mafioso, soprattutto se riveste ruoli di comando, dagli altri condannati che rientrano nella categoria del I c. dell’art. 4 bis O. P. e, in particolare, dal condannato terrorista all’ergastolo, perché difformi sono le strutture associative di appartenenza.

 

La solidarietà internazionale non ha bisogno di “poliziotti”

Nel ventennale dell’11 settembre è probabile si chiuda un ventennio e un ciclo anche più lungo. L’attacco a New York si inserì all’interno della strategia globale degli Stati Uniti che dopo il 1989, la “fine della storia” e “lo scontro di civiltà”, e la constatazione della loro impasse, riprogettavano la propria proiezione nel mondo.

Questi venti anni sono stati un fallimento, come è evidente ai più dopo il ritiro precipitoso dall’Afghanistan. Nel giorno dell’anniversario, allora, la domanda è: come saranno i prossimi venti anni? Quale lezione sarà davvero tratta? La linea globale e internazionalista degli allora neocons ha paradossalmente ottenuto il risultato di alimentare le chiusure nazionali e i sovranismi. La guerra al terrorismo ha alimentato una nuova ondata di paure e chiusure che è servita da base di consenso al nuovo nazionalismo xenofobo. L’Europa in particolare ha pagato il prezzo maggiore. Ma oggi gli Stati Uniti potrebbero, come spiega l’ultimo Foreign Affairs, invertire di 180 gradi la loro linea politica e tornare a badare al “cortile di casa”. Solo che un isolazionismo del XXI secolo non farebbe che produrre nuovi conflitti e accentuate competizioni globali. Non a caso si vede già un’Europa interrogarsi sull’utilità di un esercito europeo, con l’Italia in prima linea. Forse ci lamentiamo sempre e comunque, sia che l’America faccia il gendarme del mondo sia che invece si ritiri nei propri confini? Il problema è che si tratta di riflessi funzionali ai propri soli interessi mentre il mondo delle fratture, delle ineguaglianze, della pandemia, ha bisogno di una solidarietà internazionale nuova. Un coordinamento solidale che non ricalchi le ipocrisie delle Nazioni Unite o le finte alleanze funzionali al poliziotto di turno. Questa è la lezione che nessuno al momento trae. Da noi, ad esempio, ci si balocca con la retorica del filo-atlantismo, aureola santificata di Mario Draghi, invece che occuparsi di un nuovo assetto del mondo. In attesa del prossimo anniversario.

I turbamenti del giovane Oscar F.

Nel mondodei coltivatori di nocciole e degli esportatori di sperma di Fassona ha fatto scalpore una recente dichiarazione di Oscar Farinetti sulla sua prima polluzione (presentava la sua autobiografia Never Quiet): “Avevo 12 anni. Stavo correndo per andare a servire messa per Don Valentino, ero in affanno, agitato e a un certo punto mi sono sentito bagnare i pantaloni. Ci ero arrivato vicino già qualche giorno prima, quando dovevo consegnare un compito in classe ed ero in ritardo. Quel giorno ho capito che l’inquietudine per me era piacere”. Al Fatto risulta però che questa sia solo la seconda fatica letteraria del patron di Eataly: un suo romanzo, I turbamenti del giovane Oscar F., incentrato sull’increscioso triangolo polluzioni-inquietudine-piacere, è stato sequestrato per oscenità dalla magistratura. Eccone alcuni passaggi.

New York. “Quando abbiamo aperto sulla V Strada ci davano dei matti. Ricordo che la sera mi facevano compagnia Giovanna Botteri, il suo direttore e quel giornalista con le bretelle. Un tipo strano, inquietante. Inquietante? Oddio, i pantaloni…”.

Bologna. “Quando ho visto le perdite di FICO sono diventato inquieto. E si sa cosa succede alle mie bele braghe bianche con l’inquietudine…”.

Monte Rosa. “Vidi per la prima volta mia moglie Graziella quando aveva 19 anni e vendeva latte alla fiera del Tartufo di Alba. Ci sposammo quasi subito. Prima notte di nozze in tenda, sotto il Monte Rosa. Sentii un ululato e… Fortuna che ero giovane”.

Giappone. “La prima apertura fu un bagno di sangue. I giapponesi mangiano italiano una volta al mese e ordinano uno spaghetto in due. Mentre correvo in aeroporto verso casa mi rivenne in mente quella volta di Don Valentino e… addio pantaloni”.

Bari. “Davanti a noi vendevano il caffè a 60 cent e il panino con la birretta a 2 euro. E poi le cozze pelose mi turbano: quanta tintoria pure lì…”.

Torino. “Incontrai Renzi nel 2009. Era da poco sindaco di Firenze, se la menava da Magnifico. Era veloce, velocissimo e tutto quel correre accanto a questo giovane scout mi turbò. Oddio, non di nuovo…”.

P.S. Nota dell’ufficio legale del “Fatto”: ovviamente non esiste alcun romanzo sulle polluzioni del dottor Farinetti.