Nuovo bipolarismo, ritorno al futuro (e all’alternanza)

“Dire che la destra e la sinistra non esistono è come dire che non esistono il Nord e il Sud: o si è disorientati o si cerca di disorientare”

(da Indipendenza di Javier Cercas, Guanda, 2021 – pag. 151)

Con la sortita di Goffredo Bettini – “guru” del Pd – alla Festa del Fatto Quotidiano, a favore dell’elezione di Draghi al Quirinale e di un’alleanza strategica con il M5S di Conte per formare una coalizione di centrosinistra, si riapre una prospettiva di bipolarismo e di alternanza: i due assi portanti di una democrazia parlamentare. Era stato proprio l’avvento o l’irruzione dei Cinquestelle sulla scena a introdurre un terzo polo nella vita politica italiana. Ma ora, di fronte al work in progress unitario all’interno del centrodestra, torna a profilarsi una contrapposizione fisiologica fra due poli che si contendono la conquista della maggioranza e del governo.

Trent’anni fa fu il referendum popolare promosso da Mario Segni per una riforma elettorale di stampo maggioritario a smuovere la palude dell’immobilismo che caratterizzava la cosiddetta Prima Repubblica. Non a caso quell’iniziativa fu sostenuta sul piano mediatico da giornali diversi come Repubblica di Eugenio Scalfari e il Giornale di Indro Montanelli, oltre al sottoscritto sul settimanale L’Espresso che organizzò anche i banchetti con il notaio a Roma e a Milano per raccogliere le firme sotto la richiesta della consultazione popolare.

La stagione referendaria, con le sue luci e le sue ombre, aprì – appunto – la strada del bipolarismo e dell’alternanza al governo del Paese. Quella, come la Storia s’è incaricata poi di dimostrare, non era e non è la soluzione automatica di tutti i mali. Ma senza bipolarismo e senza alternanza si rischia di cadere dalla padella alla brace. Cioè di subire mali peggiori: il trasformismo parlamentare, il clientelismo, la corruzione, la commistione fra maggioranza e opposizione, i governi dei tecnici o di taglia XL.

Per troppo tempo abbiamo sentito ripetere il ritornello che destra e sinistra non esistono più, che “non siamo né di destra né di sinistra” o perfino che si può essere contemporaneamente una volta di destra e una volta di sinistra. La verità rimane scolpita in quel memorabile saggio di Norberto Bobbio, intitolato proprio Destra e sinistra e pubblicato da Donzelli nel 2004, in cui il filosofo torinese spiegava in termini semplici e chiari qual è la differenza, documentata peraltro dalla successiva evoluzione o involuzione della società. Scriveva in sintesi Bobbio che la sinistra tende a ridurre il più possibile le disuguaglianze sociali, mentre la destra spesso porta ad aumentarle, com’è avvenuto e continua ad avvenire ormai da alcuni anni a questa parte.

Calata nell’attuale contingenza della politica italiana, questa riflessione induce a concludere che, dopo la parentesi del governo Draghi e della sua maggioranza extra-large, sarà opportuno ripristinare le regole della normalità democratica. E ciò indipendentemente dal fatto che “Mister Bce” vada al Quirinale, come molti auspicano, oppure che resti a Palazzo Chigi per completare l’attuazione del Recovery Fund, con i finanziamenti europei che Conte s’era già procurato.

Si può essere liberamente di destra o di sinistra. Ma sia gli elettori di una parte sia quelli dell’altra farebbero bene ad augurarsi un “ritorno al futuro” del bipolarismo e dell’alternanza. Un governo democratico si legittima attraverso un responso elettorale, un’investitura popolare, una maggioranza parlamentare il più omogenea e coesa possibile. E sarebbe opportuno, perciò, tornare alle urne alla scadenza naturale della legislatura, nel 2023, dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

 

Il nuovo virus della politica: la difficoltà d’apprendimento

Il deficit cognitivo, quella condizione clinica lieve che si presenta in età avanzata con sfumate difficoltà nella memoria, nell’attenzione e nell’apprendimento, ha fatto solenne ingresso in politica, certificata dai medici di Silvio Berlusconi appena qualche settimana prima che Forza Italia proponesse al Paese la sua elezione a presidente della Repubblica. “Come segno di pacificazione”, ha spiegato poi in un intrigante editoriale (“L’outsider di lusso”) Augusto Minzolini, direttore del Giornale. Intrigante più ancora del fatto che il Giornale sia di proprietà del proposto all’alta carica, per via di questo imprevisto deficit cognitivo che troverebbe, nell’ipotesi del trasloco al Quirinale, una sede dove espandersi. Se nella vita comune rappresenta un dolore e un problema (e infatti B. l’ha opposto come concausa pregiudicante alla sua presenza in aula da imputato al processo Ruby, che ormai, da giovane che era, sta divenendo nonna), in politica sembra una qualità in più.

Ma questo benedetto deficit, questa difficoltà all’apprendimento e alla memoria delle cose, questa svogliatezza nella fatica di documentarsi prima di parlare, sono stati rilevati da Tito Boeri e Roberto Perotti sul Reddito di cittadinanza. I due economisti hanno spiegato con un lungo articolo su Repubblica che chi contesta il Reddito in realtà non lo conosce, è a digiuno dei dati, delle cifre, della composizione della platea. Non sa ed espone a casaccio la propria tesi. Renzi, Salvini e Meloni, il trio del no al Reddito, spiegano i due economisti, non sanno ciò che dovrebbero conoscere a menadito, e qui si ritrova l’essenza del deficit cognitivo: una sfumata difficoltà all’attenzione e alla memoria. Ricordano Perotti e Boeri che solo un terzo di coloro che ricevono il reddito sono occupabili, la platea infatti è formata da persone con gravi disabilità e/o minorenni. E malgrado le ripetute lagnanze degli imprenditori, questa estate, come mai prima, si è riscontrata una impennata di lavoratori stagionali (+200mila unità). Quelli che non si trovano (cuochi e figure medio alte del settore del commercio) non rappresentano il target dei fruitori del reddito. Invece manca, ma è meglio non dirlo a Salvini, la manodopera immigrata in agricoltura. E dunque, di quale divano parliamo? Un terzo tipo di deficit cognitivo, in effetti più apparentato alla logica, la classe dirigente lo sta patendo di fronte all’opera delle opere: il ponte sullo Stretto. Qui si punta al risultato tondo: fare l’uno e il suo opposto. La questione è sorta quando si è scoperto che il ponte non può essere finanziato con il Pnrr perché l’Ue non ammette opere che producano “danni significativi all’ambiente”. E allora cosa fa il ministro? Non avendo quattrini in cassa stanzia ciò che trova nelle pieghe del bilancio nazionale (50 milioni di euro) per una commissione di studio che dovrà dirci, entro l’anno prossimo, se il ponte bisogna farlo “a una o a tre campate”. 50 milioni! “Meglio studiare per bene”, spiega Giovannini. Nel mentre gli studiosi studiano e per non restare con le mani in mano il ministro finanzia con 500 milioni, questa volta del Pnrr, l’attraversamento “dinamico” dello Stretto. “Avremo navi più lunghe e treni più corti. Navi più veloci e meno inquinanti. Si risparmierà un’ora e sarà ancora più comodo andare per mare da Reggio a Messina”. Dunque: si farà il ponte, ma intanto che si studia come farlo si velocizza l’attraversamento in mare. Si dice A ma si finanzia B, cosi da stabilire il primato di un po’ e un po’. Qui si potrebbe approfittare per capire se i 960 milioni di euro che non sono bastati nei decenni per realizzare non l’opera, ma almeno un progetto decente, siano anch’essi inquadrabili in quel complesso di lievi disturbi neurologici. Oppure – tolta la psichiatria di mezzo – siamo di fronte all’intramontabile faccia di bronzo della classe dirigente – questa volta sarebbe anche la migliore su piazza – che riesce a fare dello spreco la virtù suprema.

 

I valori antimodernisti da Pasolini al mullah

Qualche anno fa Giampiero Mughini, con l’enfasi che lo contraddistingue e che per la verità l’ha sempre accompagnato anche quando era un giovane e brillante intellettuale, dichiarò che aveva un undicesimo comandamento che recitava così: “Non parlare mai più di Massimo Fini”. Da allora non ha perso occasione per violare questo sacramento. Evidentemente è un uomo di salde convinzioni. In questo caso il pretesto è l’Afghanistan, ma stia tranquillo il lettore, non mi dilungherò su questo argomento che ormai ci esce dalle orecchie e sul quale mi sono stufato di ribadire da vent’anni, inutilmente, le solite cose, ma prendo a pretesto a mia volta le affermazioni di Mughini per affrontare un problema di fondo che lo stesso Giampiero pone.

Mughini comincia la sua perorazione affermando di non sapere “nulla di nulla dell’Afghanistan, della sua gente, delle sue particolarità”. Più avanti aggiunge che preferisce una società “dove non c’è cretino che non abbia il diritto di pontificare su questo e su quello” pur non sapendone nulla. Insomma data la sua premessa il povero Giampiero, senza accorgersene, si dà involontariamente del cretino. In realtà Mughini polemizza con la chiusa di un mio precedente articolo pubblicato sul Fatto (“A Kabul il baco era l’Occidente”, 25.08) dove affermo di preferire il “Medioevo sostenibile” sognato dal Mullah Omar al nostro “modernismo insostenibile che ci sta portando al fosso”. Per la verità Mughini che dice di conoscermi “meglio delle mie tasche” (le mie, di tasche, non le conosce affatto e se le conoscesse sul serio gli si rizzerebbero i capelli in testa) dovrebbe perlomeno sapere che la mia posizione “antimodernista” data almeno dal 1985 quando scrissi La ragione aveva torto? che è “la madre di tutte le battaglie” cioè di una serie di libri successivi, sulla stessa linea, raccolti oggi ne La modernità di un antimoderno pubblicato nel 2016 con la prefazione di un illuminista a tutto tondo come Salvatore Veca. Quella posta da Mughini, se pur in modo un po’ scomposto, del resto naturale in un articolo di giornata, è l’eterna querelle fra coloro che pensano, e sono la stragrande maggioranza, che l’attuale modello di sviluppo partorito dalla Rivoluzione industriale ci abbia consegnato “il migliore dei mondi possibili” e una minoranza che pone dei dubbi. E del resto uno dei portati più fecondi dell’Illuminismo è l’esercizio del dubbio sistematico che si pratica innanzitutto su se stessi. Cosa di cui Mughini, e tutti gli illuministi alla Mughini, sembrano refrattari. A questo filone di pensiero, depurato però della componente reazionaria cattolica (de Maistre), appartengo anch’io. Ma prima di entrare in medias res voglio presentare a Mughini e ai nostri lettori un bozzetto che ci riporta ancora in Afghanistan. Nel governo dell’emirato islamico d’Afghanistan (1996-2001) Abdul Salam Zaeef, dopo un breve periodo passato alla Difesa, era ministro dei Trasporti. Un giorno il Mullah Omar lo convoca a Kandahar per riaffidargli il ministero della Difesa. Zaeef recalcitra. Accampa mille scuse. “‘Lo sai che per questo rifiuto potrei anche metterti in prigione?’. ‘Tu puoi fare quello che desideri Amir-ul Momineen, ma io là non ci torno’. ‘Magnifico!’ sorrise Omar. ‘Ho capito. Vorrà dire che ti affiderò un incarico nel civile’. E Zaeef aveva ottenuto il più tranquillo posto di ambasciatore a Islamabad” (Il Mullah Omar, p. 79). Zaeef non era quindi un talebano “duro e puro”, particolarmente coraggioso. Sapendo di questa sua indole gli americani lo avevano torchiato a dovere. Dopo avergli inflitto il consueto trattamento Abu Ghraib, erano passati alle torture vere e proprie: deprivazione del sonno e l’esposizione a temperature altissime, intollerabili. Da lui volevano sapere solo due cose: dove si trovavano il Mullah Omar e Osama bin Laden. In cambio gli offrivano la libertà e un mucchio di soldi. Dove fosse Osama Zaeef non lo sapeva, dove fosse Omar sì. Rispose: “Non c’è prezzo che possa valere la vita di un amico e di un compagno di battaglia”. Come premio fu spedito a Guantanamo dove rimarrà quattro anni. Ecco, caro Giampiero, io preferisco un mondo dove ci sono persone di questo tipo al nostro dove, senza bisogno di alcuna tortura, uomini e donne, anche con incarichi politici e dirigenziali d’alto livello, si vendono per quattro soldi.

Resta comunque aperta la domanda di fondo se “si stava meglio quando si stava peggio”. Nel settembre del 1974 intervistai Pier Paolo Pasolini che stava girando allora Il fiore delle mille e una notte in Yemen. Tu sai, come me, che Pierpaolo detestava il mondo nato con la Rivoluzione industriale (“darei tutta la Montedison per una lucciolata”) e amava quel mondo, popolano contadino e sottoproletario che lo aveva preceduto. Era insomma un “antimodernista”. Alla fine dell’intervista gli feci una domanda scontata: “Lei in fondo in questa società ci sta bene o, perlomeno, il suo malessere è molto ben ripagato, non le pare?”. Rispose: “Io mi trovo malissimo. Malissimo. Lei mi parla di due cose che sono incommensurabili. Se lei mi dicesse scegli un po’, io preferirei essere un regista che non può fare i suoi film, molto più povero di quello che sono, fare l’insegnante, ma che il mondo che ho intorno a me fosse quello che ho amato, che amavo, che desidero, che amo ancora. Non ho il minimo dubbio su questo. Preferirei essere uno dei poveri delle Mille e una notte piuttosto che il Pasolini di oggi”. Come vedi, caro Giampiero, sono in buona compagnia. Tu non so.

 

Dai prof. di sostegno “Specializzarsi all’estero è facile: così fregano i posti”

Gentile redazione, siamo un gruppo di docenti in rappresentanza di coloro che hanno intrapreso il percorso formativo della specializzazione per l’attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità dello Stato Italiano. Vorremmo mettere a conoscenza la politica e l’opinione pubblica dell’incresciosa vicenda che riguarda l’acquisizione della specializzazione all’estero, con particolare riguardo alla Spagna e alla Romania. Il 17 agosto il Tar della Sicilia ha ingiustamente accolto l’istanza di alcuni possessori di titolo estero che hanno ottenuto l’inserimento in prima fascia delle graduatorie provinciali a prescindere dal possesso del decreto di riconoscimento, quindi in egual diritto rispetto a chi ha ottenuto il titolo di specializzazione in Italia. In Sicilia oltre 600 docenti sono stati inseriti con riserva nella prima fascia con specializzazione estera.

In questa delicata fase di inserimento nelle graduatorie, l’equiparazione legale del titolo di specializzazione sul sostegno conseguito all’estero “troppo facilmente”, in alcuni Paesi europei come la Spagna e la Romania, è davvero da ritenersi ingiusta e priva di ogni buon senso: i requisiti per ottenere tale titolo sono di fatto ben lontani da quelli previsti in Italia. Per lo Stato italiano gli aspiranti insegnanti di sostegno devono affrontare una selezione piuttosto complessa, con pochi posti banditi da ciascuna università e ben tre prove concorsuali (preselettiva, scritto e orale) da superare. Inoltre, l’impianto strutturale del corso prevede che lo stesso abbia una durata non inferiore a otto mesi e includa esami universitari, tesine, progetto di tirocinio, tesi finale. Infine la retta degli atenei italiani varia dai 3.000 ai 4.000 euro. E in cosa consiste invece il titolo estero? Innanzitutto, non esiste alcuna selezione per l’accesso; viene conferito il certificato b1 della lingua del Paese estero senza svolgere esami (dunque chi si reca in Spagna e in Romania non è tenuto a conoscere la lingua del luogo); gli esami sono sostenuti in lingua italiana; le lezioni sono seguite da remoto; non esiste tirocinio e, addirittura, in Romania non esiste la figura dell’insegnante di sostegno. Pertanto, in virtù dei principi di ragionevolezza, buon andamento e parità di trattamento, un corso così sostenuto all’estero non può ritenersi equivalente alla specializzazione italiana.

È evidente che ci troviamo davanti a una compravendita di titoli (le specializzazioni in Spagna e in Romania costano fra i 5 e i 7 mila euro, ma de facto è facile pagare un istituto privato e ottenere a posteriori il riconoscimento), che danneggia gravemente gli specializzati e specializzandi italiani e stravolge la simmetria tra fabbisogno e posti banditi dagli atenei italiani. Il titolo italiano sta perdendo completamente il suo valore e questo non è accettabile.

Come sempre, purtroppo, a rimetterci saranno i ragazzi e le ragazze più fragili e le loro famiglie, perché senza le giuste competenze non si realizza certo l’inclusione.

Coordinamento specializzandi Tfa VI ciclo

Mail box

 

Nelle lettere qualcuno ci definiva “imbecilli”

Caro Travaglio, sul Fatto di martedì 7 Settembre lei ha ospitato l’opinione di un lettore che, oltre a sollecitare punizioni esemplari per i non vaccinati e consigliare di fare “terra bruciata” intorno a noi, ci definiva senza giri di parole “imbecilli fuori di testa”. Non che questo non fosse prevedibile; una guerra tra poveri, intendo. Qualche settimana fa l’avevo scritto al Fatto. Erano state delle vignette satiriche sui non vaccinati apparse in prima pagina a farmi meravigliare dell’atteggiamento del suo (nostro) giornale. Quelle però, dobbiamo essere onesti, non ci apostrofavano come “imbecilli”, ci prendevano solo per i fondelli. Come dice spesso, “sono soddisfazioni”. Ora, dico io, lei ha risposto a quel signore; ma nel rispondere non poteva un po’ stigmatizzarne i toni leggermente esagitati? D’altra parte il nostro giornale lo leggiamo noi, ma il giornale è suo. E sua è anche la scelta di pubblicare, o correggere, qualsiasi graffio sulle pagine del Fatto. “Imbecilli” è dura da digerire. Ero sicuro che ci sarebbe stata una guerra tra poveri, ma non avevo mai pensato di partecipare a una guerra tra poveri imbecilli.

Giuseppe Di Matteo

Caro Giuseppe, pubblichiamo lettere di lettori dei più diversi orientamenti. Se poi vuole conoscere il mio parere, chi non si vaccina e muore di Covid o finisce in terapia intensiva, beh un bel po’ imbecille lo è di sicuro..

m. trav.

 

Legittimo impedimento: per Silvio è “vecchiaia”

Aiutatemi a capire perché si devono sopportare le manfrine che fa il padrone di Forza Italia riguardo al processo Ruby Ter, nonostante tutto quello che ha combinato. La legge è uguale per tutti, salvo poi vedere il portafoglio dell’imputato. Infatti come dice il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano: il quadro clinico del soggetto, si tratta solo di malattia di vecchiaia, e se non fosse supportato da una serie di medici e di avvocati sarebbe qui a farsi il processo. La giustizia… alla carta.

Roberto Mascherini

 

Benetton, le autostrade sono tutte un cantiere

Di ritorno dalla Puglia e percorrendo la A14, tra Pescara e Fermo è tutto un restringimento di carreggiata sui viadotti, con segnali di limiti di velocità (110 km/h, 90 km/h e 60 km/h). Evidentemente, dopo l’evento del ponte Morandi, qualche magistrato si è svegliato… Dopo ogni cartello di limite dei 60, è posizionato un autovelox fisso della polizia stradale. Naturalmente, io che sono ligio, rallentavo sempre secondo i cartelli e più di una volta ho rischiato di essere tamponato da chi veniva dietro a tutta velocità, perché nessuno rispetta limiti di velocità assurdi in autostrada e io mi chiedo se davvero ci fossero gli autovelox nei box al fianco della carreggiata (ne ho contati una quindicina!). Nell’ultimo rallentamento un tir, il cui conducente mi avrà pure mandato “a quel paese”, perché ho sentito le sue trombe nelle mie orecchie, mi stava davvero venendo addosso. Per di più, a ogni rallentamento, c’è ferma sul ciglio della carreggiata un’auto di autostrade (o di terzi incaricati) con un addetto che staziona 24 ore su 24, non si sa bene a fare cosa. Chi paga tutto ciò? Non credo sia la famiglia Benetton alla quale, durante il viaggio, è andato il mio pensiero. Ma per quanto tempo dovremo sopportare tutto ciò?

Roberto Napoletani

 

Medicina di base, serve più “cura” per gli assistiti

Ci raccontano che l’Emilia-Romagna abbia il miglior servizio sanitario in Italia. Infatti: un medico di base ha lasciato perché apparentemente aveva pochi mutuati e quindi il suo non era un incarico sufficientemente retribuito. Ai mutuati orfani è stato chiesto di scegliere uno degli altri medici i quali, vuoi per limite massimo già raggiunto, vuoi per l’assorbimento dei recenti orfani, non possono avere più assistiti. Le soluzioni sono due: scegliere un medico di zona disponibile (tra i 10 ed i 40 km di distanza, tra le colline romagnole) e pagarsi ogni prestazione necessaria, qualunque sia la fascia di reddito o la patologia di cui si soffre eventualmente. In piena pandemia Covid-19 è certamente incoraggiante. Forse l’Ausl Romagna è considerata un’eccellenza, ma a me sembra che, oltre ai medici di base, necessiti anche di competenze gestionali adeguate e di più considerazione degli assistiti.

Salvatoreantonio Aulizio

 

Il “Fatto”: il mio vaccino quotidiano sicuro

Potrei abbonarmi a questo vaccino, ma è come chiedere lo sconto sul vostro lavoro. Perciò preferisco prenderlo a prezzo pieno, immancabilmente ogni mattina. Potrei essere affetto anch’io da “Travaglio”, inconsapevolmente, ma il fatto che nessun farmaco, legale o non, sia stato capace di ridurvi al silenzio, mi fa dedurre che io sia su una strada giusta.

Osvaldo

11 settembre: le torri, gli squilli di Bin Laden e i pasticci della Cia

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 20.35: Speciale 11 settembre, documentario. Programma della Bbc sull’attentato al World Trade Center del 2001, con materiali inediti. Sapevate, per esempio, che dopo l’11 settembre Bin Laden cercò di consegnarsi agli Usa, ma la Cia non gli ha mai ritelefonato? O almeno così sembra: non rovinerò questa informazione con delle ricerche. Però, che cavolo: se non puoi più fidarti neanche della Cia… Gli Usa di Bush risposero bombardando l’Afghanistan e l’Iraq, che non c’entravano nulla: ma la “Guerra al Terrore” richiede psicologia, non bombe. Bin Laden butta giù le due torri? Il giorno dopo, Bush doveva dire in tv: “Chiunque sia stato, grazie. Erano brutte e ostruivano il panorama. Se non lo facevate voi, ci avremmo pensato noi” (secondo alcuni, è proprio quello che è successo). Oppure, Bush avrebbe dovuto buttare un’atomica su New York. Per imbarazzare al Qaeda: “È così che si fa, teste d’asciugamano! Non scherzate con noi!”. (Il problema vero è che gli Usa hanno lasciato alcune donne e alcuni bambini in Vietnam vivi, e da allora non sono stati più bene). Nel frattempo sono cambiate tante cose. Per esempio, i contadini afghani si sono abituati alla guerra: zappano la terra sparando alle zolle con i Kalašnikov. E noi ci siamo abituati ai serpentoni delle file di controllo anti-terrorismo pre-imbarco in aeroporto. “Qualcuno ha fatto i suoi bagagli?”. “Ha fatto bene a chiedermelo, agente. In effetti ieri sono tornato a casa e le mie valigie erano già pronte. Ho pensato: ‘Ehi, devo andare da qualche parte!’. Ed eccomi qua”. Io i serpentoni delle file di controllo anti-terrorismo pre-imbarco non li sopporto più. Voglio tornare ai tempi in cui la cosa più pericolosa su un aereo era il pomodorino Alitalia. Adesso non riesco più a salire su un aereo senza chiedermi se il passeggero tranquillo che mi siede accanto non sia in realtà un terrorista, o un ex-dirigente del Monte dei Paschi. E, sulle lunghe tratte, controllo sempre chi non sta guardando il film. Perché dubito che un terrorista stia lì a guardare il film. Anche se questo sarebbe un segno che il film è davvero bello. L’aereo atterra. “Cazzo, mi sono dimenticato di farlo esplodere! È la terza volta! Maledetta Michelle Pfeiffer!”. (I terroristi sono dei rompicoglioni. Non mi piacciono per niente. Se ne incontrassi uno per strada gli direi: “Buuuu! Non mi piace il tuo lavoro! Per niente!”). Mi giro, e vedo che gli addetti al gate stanno perquisendo una vecchietta di 85 anni. In carrozzella. Non poteva neanche camminare. Cosa può fare? Sputarti? Io credo che una vecchietta di 85 anni devi lasciarla passare. Perché se i terroristi sono riusciti a reclutarla, meritano di vincere. A un certo punto, le minacce terroristiche erano così tante che le autorità ignoravano quelle che non allegavano una fototessera. Per ridurre la minaccia terroristica, allora, la Cia provò a far scopare i membri di al Qaeda. Tutto vero: cinque musulmani tornati a casa dopo la detenzione a Guantanamo accusarono gli americani di aver assoldato prostitute per sedurli. Quattro di loro non avevano mai visto una donna nuda. Uno chiese: “Cos’è?”. A Langley avranno pensato: “Quanti terroristi di al Qaeda sono in quelle condizioni? Per forza vogliono suicidarsi!”. Il legame fra mancanza di sesso e rabbia, del resto, pare provato. È il motivo per cui Clinton non ha mai cominciato una guerra. D’Alema invece bombardò il Kosovo. Il nuovo piano americano di Biden? Convincere tutti i terroristi del mondo a fare attentati solo tre giorni alla settimana, escluso domenica e festivi.

Daniele Luttazzi

I leader danno buca (da remoto) a Casini, il big Dc che vuole il Colle

La cattedra del Quirinale è già assegnata a Mario Draghi, ma nell’eventualità che il titolare la rifiuti i perdenti posto compilano, al modo dei supplenti nelle scuole, domanda. Ieri alla tavola di Pier Ferdinando Casini, di gran lunga il più glorioso dc in attività, apparecchiata per ricordare l’11 settembre nella meravigliosa sala Zuccari di palazzo Giustiniani, dependance

del Senato, erano attesi tutti i grandi elettori, quelli che contano in Parlamento. I leader di partito: dal più grande al più piccino. Destra, sinistra, centro. Tutti tutti. Casini li aspettava, invece uno alla volta hanno dato quasi buca, nel senso che si sono fatti vedere ma alla lontana, come si usa adesso si sono collegati “da remoto”. E vedere Giuseppe Conte, Enrico Letta, Giorgia Meloni, Matteo Renzi parlare con affettuosa ma severa distanza, annotare che persino Roberto Speranza latitava per via di non meglio precisate grane in ufficio, ha fatto sorgere il dubbio a Matteo Salvini, che era lì per davvero, e al quale il solo Antonio Tajani si sarebbe accodato, di aver sbagliato tavola, o luogo, o modalità di connessione: “Quasi quasi mi collego da remoto”, ha detto paventando una sua mezza figuraccia.

Non sappiamo se a Elisabetta Casellati, che opportunamente presenziava, quelle testimonianze online abbiano procurato fastidio oppure le abbiano consigliato di ritenere che – nel caso di defezione del miglior uomo in campo – ci sarebbe dopotutto la miglior donna in attesa di investitura. Perciò la mattinata casiniana, così fausta negli auspici, si è andata definitivamente incasinando per via di questa diabolica novità post pandemica, di questi momenti di videoamicizia che, diciamolo, paiono una presa per i fondelli. Prima si stava tutti seduti, l’uno a fianco all’altro, e ogni sedia vuota era un segno, una decisione, un tributo contro. Ieri le poltroncine erano certo tutte occupate, ma in sala troppi abusivi.

La disfatta di Conte e Rauti intellettuale

L’otto settembredi Conte – come dago-anticipato – “Giuseppi” non vuole intestarsi la disfatta a 5 Stelle alle Amministrative dopo aver scaricato la Raggi e Layla Pavone (da lui ribattezzata Layla Romano, come la escort) già sta trattando con il Pd le alleanze a Roma e a Milano per il secondo turno. Oggi Giuseppi sbarca alla festa dell’Unità – i 5 Stelle sono in ebollizione e Di Maio è pronto a sfilare la leadership all’avvocato di Volturara Appula – intanto Letta chiede una moratoria sul Quirinale…

A De Pasquale nessuno ha negato la scienza: hanno fatto di peggio, ne hanno liquidato la moralità. La colpa? Aveva non solo accettato ma persino ringraziato la famiglia di Pino Rauti per la donazione dell’Archivio di Stato del materiale affastellato nei decenni da questo intellettuale che non voleva essere né di destra né di sinistra, considerato fascista, accusato e prosciolto da accuse di strage per piazza Fontana, un’intelligenza vivissima, da cui è passata molta storia della destra italiana ma non solo.

Il “puzzle” Ita si compone: da Bruxelles ok al decollo

Da ieri tutti i pezzi dello sgangherato puzzle chiamato “Ita” sono finiti al loro posto e la compagnia che nascerà dalle ceneri della vecchia Alitalia potrà decollare il 15 ottobre, anche se le prospettive restano assai incerte.

Come previsto, l’Antitrust Ue ha sfornato le due decisioni chiave: ha bocciato il prestito ponte da 900 milioni erogato nel 2017 (governo Gentiloni, ministro Carlo Calenda) ad Alitalia per evitare il collasso e autorizzato il governo italiano a iniettare 1,35 miliardi di capitale in Ita. Le due decisioni sono arrivate insieme per evitare guai all’esecutivo italiano. Nei giorni scorsi Roma ha chiesto alla Commissaria Ue Margrethe Vestager di prendere tempo e permettergli di approvare ieri una norma che consenta ai commissari della vecchia Alitalia di cedere parte degli asset a Ita. La bocciatura Ue impone infatti al governo di recuperare subito il prestito trasformando l’amministrazione straordinaria dell’ex compagnia di bandiera in un dissesto. La norma finirà nel decreto Infrastrutture che il Consiglio dei ministri ha approvato il 2 settembre e ancora disperso tra i ministeri.

È solo l’ultima bizzarria normativa della vicenda. Il governo ha infatti deciso, via decreto, di obbligare i commissari a cedere gli asset solo a Ita ma, sempre via decreto, li ha esonerati dall’obbligo di prendersi anche i rispettivi lavoratori. Ita nascerà con soli 52 aerei, sugli oltre 100 della vecchia compagnia, e 2800 dipendenti sugli 11mila totali, peraltro selezionati senza pescare direttamente dal bacino di Alitalia (mossa che non risulta essere stata imposta dalla Commissione). Neppure un euro dei 900 milioni tornerà allo Stato visto che la vecchia Alitalia non li ha.

Resta aperta la partita occupazionale. Dopo che Ita ha rotto le trattative imponendo tagli fino al 30% dello stipendio ieri i sindacati sono stati ricevuti al Tesoro dalla Viceministra Laura Castelli, che ha annunciato l’apertura di due tavoli sul tema. Nel limbo restano anche 8mila lavoratori, la cui Cig scade a fine settembre.

Ita partirà con meno della metà degli aerei e meno di un terzo dei dipendenti. L’ultima volta che è successo, non è andata bene.

Riecco i “frugali”: “Si torni ai vincoli”

IIn attesa di capire chi (e con chi) governerà in Germania dopo le elezioni del 26 settembre, quella che segue è solo la scaramuccia di una guerra di posizione. Eppure il documento che stamattina i ministri delle Finanze di otto Paesi Ue presenteranno al Consiglio Ecofin informale in corso da ieri in Slovenia è una pessima notizia per l’Italia e per chiunque altro (Spagna, Francia, etc.) si stia preparando alla battaglia per una riforma del Patto di Stabilità che tenga più conto della crescita e meno del rispetto formale di alcuni vincoli di bilancio che quella crescita hanno impedito nei due decenni precedenti.

Il position paper firmato dai governi di Austria, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda e Svezia (in sostanza i cosiddetti “frugali” più qualche amico) è stato anticipato giovedì da Politico.eu e ripreso ieri da La Stampa. La tesi di fondo è che bisogna tornare al più presto alla disciplina di bilancio prevista dalle regole europee: “Il Trattato sul funzionamento dell’Ue obbliga tutti gli Stati membri a evitare e a correggere i deficit eccessivi”. La ricreazione, insomma, è finita: “Misure di bilancio senza precedenti hanno aiutato a combattere i notevoli effetti economici negativi della crisi, ma al tempo stesso hanno danneggiato la sostenibilità delle finanze pubbliche in molti Paesi. In particolare quelli in cui tali misure hanno creato un onere permanente sui bilanci e dove il livello del debito pubblico era già alto prima” (e qui il riferimento all’Italia è scoperto).

A questo punto è forse necessario un breve riassunto delle puntate precedenti. Il Patto di Stabilità è al momento sospeso per circostanze eccezionali – e ce n’è a bizzeffe – fino al 1° gennaio 2023: significa che, se non ci saranno novità, già la legge di Bilancio dell’autunno 2022 dovrà essere scritta prevedendo un ritorno a tappe forzate verso il pareggio di bilancio. La tesi del nostro governo è che il Patto non debba tornare in vigore se non dopo la sua riforma: molti dei maggiori giornali italiani questa settimana hanno trasformato questa speranza in un fatto e l’hanno raccontata ai loro lettori. Ora si scopre che Austria & C. invece ritengono che intanto bisogna tornare alle vecchie regole e poi, all’esito anche di tantissime e lunghissime interlocuzioni e audizioni della Commissione europea, si vedrà cosa fare: “La qualità è più importante della velocità”, si conclude il documento.

Per ora, specie con l’ombrello della Bce aperto, questo non ha alcun effetto sulla realtà: una volta capito da che lato va la Germania però, faro e guida politica di questi otto Paesi, si capirà che prospettive ha la riforma dell’Europa che doveva essere l’obiettivo in cui Mario Draghi poteva mostrare il suo vero valore aggiunto: non pare che Kurz e soci siano convinti che basti la “competenza” del nostro.