Lo stallo dei negoziati Ue affossa il salario minimo

Proprio mentre sembrava si fosse pronti a entrare nel vivo della discussione, la direttiva europea sul salario minimo rischia di finire nel pantano: i negoziati tra gruppi (e tra Stati membri) stanno andando a passo lento e stanno emergendo tutte le difficoltà nell’arrivare a un vero accordo. Il voto in commissione Occupazione e Affari sociali dell’Europarlamento è già stato spostato di un mese: non più il 30 settembre, come nei piani, ma alla fine di ottobre (salvo ulteriori problemi) e con il prolungarsi dei tempi, potrebbe arrivare un cambio di scenario capace di compromettere definitivamente il provvedimento se si tiene conto che a fare muro ci sono da una parte il blocco del Nord, dall’altro quello dei Paesi dell’Est.

Se infatti a gennaio inizia il semestre francese alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea (quindi inizialmente le circostanze saranno favorevoli), da luglio a dicembre 2022 toccherà invece prima alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia (prima parte del 2023), due Paesi che, per ragioni diverse, sono fortemente contrari alla direttiva sul salario minimo.

“La direttiva va approvata durante la presidenza francese del Consiglio dell’Unione europea, e cioè entro il 30 giugno 2022, altrimenti rischia di entrare in un binario morto”, ha detto l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Daniela Rondinelli. A meno di un anno dalla presentazione del progetto da parte della Commissione, il percorso si sta facendo complicato. Il testo è il primo intervento dell’Unione sul tema dei salari e si pone l’obiettivo di far convergere verso l’alto le retribuzioni dei lavoratori. Le strade possibili per gli Stati membri sono due: introdurre un salario minimo legale (che buona parte dei Paesi ha già, ma non l’Italia) o, in alternativa, favorire un’ampia copertura della contrattazione collettiva. Il nostro Paese, quindi, non sarebbe obbligato a introdurre una soglia minima per legge, anche perché ha già la stragrande maggioranza dei lavoratori coperta dai contratti nazionali. Tuttavia l’occasione del recepimento della direttiva sarebbe forse l’ultima chance di far entrare il salario minimo nell’agenda del governo, visto che il ministro Andrea Orlando ha deciso negli scorsi mesi di rinunciarvi per evitare frizioni con sindacati e Confindustria durante le trattative per la riforma degli ammortizzatori sociali. Certo è che Cgil, Cisl e Uil, oltreché il mondo delle imprese, sono contrari all’istituzione di un salario minimo, perché ritengono debba rimanere una prerogativa della contrattazione collettiva. Questa resistenza ha portato allo stralcio del tema dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In Italia ci sono quasi mille contratti nazionali, molti dei quali “pirata” e spesso firmati da sigle non rappresentative per permettere il dumping salariale. Contro questa pratica, in sede europea il Movimento 5 Stelle ha presentato emendamenti affinché si misuri la rappresentanza dei sindacati che sottoscrivono gli accordi collettivi. Ma, come detto, l’iter della direttiva è ancora incerto.

I gruppi al Parlamento europeo sono spaccati all’interno. Il presidente francese Emmanuel Macron è favorevole ma ha chiesto di tenere fuori dal provvedimento gli apprendisti, sui quali la Francia approverà una riforma. Anche nel Partito socialista europeo c’è però chi, come la Svezia, tenta di affossare il progetto. Il blocco scandinavo e l’Austria hanno annunciato di essere pronti a esercitare la clausola di opt-out (la rinuncia ad adottare una regola decisa dall’Ue). L’Unione europea – da molti avvertita come poco attenta ai diritti sociali – è davanti a un bivio.

Mutui capestro Barclays, il caso imbarazza “Lady Bankitalia”

Il nostro è l’ameno Paese dove il vicedirettore generale di Banca Italia, l’istituzione che vigila sulle banche, è una manager che ha disatteso per anni decine di decisioni contrarie alla sua banca emesse da un organismo della stessa Banca d’Italia. Lo attesta la vicenda dei mutui, in euro ma indicizzati al tasso svizzero Libor e al cambio Franco svizzero/euro, venduti dal 1993 al 2009 a oltre diecimila famiglie da Woolwich e dalla sua incorporante Barclays.

In caso di estinzione anticipata o surroga, in base all’articolo 7 del contratto, l’istituto chiedeva ai clienti una somma a titolo di rivalutazione monetaria. Tutto funzionò più o meno bene sino al 15 gennaio 2015, quando la Banca nazionale svizzera abolì il cambio minimo franco/euro, fissato nel settembre 2011 a 1,2 per mantenere artificialmente svalutata la moneta elvetica e sostenere l’export. Il franco s’impennò: per molti clienti di Barclays divenne insostenibile estinguere anticipatamente o surrogare i mutui, perché la rivalutazione costava anche diverse migliaia di euro. In decine di decisioni negli anni quella clausola fu dichiarata nulla, per mancanza dei criteri di calcolo della rivalutazione, dall’Arbitro bancario finanziario (Abf), l’organismo della Banca d’Italia chiamato a risolvere stragiudizialmente le controversie tra istituti e clienti. Ma Barclays decise di non adempiere alle decisioni dell’Abf – non vincolanti – e di andare per tribunali. Sino alla sentenza 23655 della prima sezione civile della Cassazione, pubblicata il 31 agosto e resa nota ieri dal Fatto, che ha accolto il ricorso dell’Associazione tutela consumatori finanziari (Tuconfin) e ribadito la non correttezza e vessatorietà di quelle clausole, non chiare e incomprensibili e quindi annullabili, in quanto causavano un significativo squilibrio ai danni dei clienti.

Franca Berno, presidente di Tuconfin, ricorda che Barclays trattava solo con alcuni clienti sotto vincolo di riservatezza: “La banca andava in cerca di chi aveva fatto causa e aveva più possibilità di vincerle, per chiudere le vertenze fuori dai tribunali. Questo non ha consentito di mettere sullo stesso piano tutti i clienti. Scrivemmo ad Alessandra Perrazzelli, all’epoca Country manager e General Counsel di Barclays, per cercare un denominatore comune sui mutui, ma la sua risposta fu che preferivano agire caso per caso. Chiedemmo anche un incontro: ci dissero di sì ma poi non si tenne mai, forse temevano manifestazioni pubbliche”. Nelle 14 pagine della lettera inviata il 16 maggio 2017 a Tuconfin, dopo aver indicato le iniziative della banca a tutela delle proprie ragioni, le parziali vittorie in tribunale e all’Abf e le “numerose iniziative attivate per incontrare le esigenze e riscontrare le richieste dei clienti”, Perrazzelli affermava che “la banca ritiene che il semplice esame della clausola sull’estinzione anticipata sia sufficiente a dimostrare l’erroneità dell’assunto posto alla base di alcune decisioni dell’Abf”: ovviamente, per la banca le decisioni “erronee” erano quelle a lei contrarie. Perrazzelli, che è stata capo della filiale italiana di Barclays dal 2013 al 2017, risponde che i mutui furono stipulati prima del suo incarico e di “aver affrontato i relativi casi tenendo conto dei contratti e delle norme vigenti, in particolare sulla tutela della clientela e trasparenza. I mutui indicizzati al franco svizzero all’epoca erano comuni e la questione ha coinvolto diversi intermediari che hanno di volta in volta affrontato le singole fattispecie”.

Lasciata Barclays, il 10 maggio 2019 Perrazzelli è stata nominata membro del Direttorio e vice Dg di Bankitalia, nonché membro del Direttorio dell’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni (Ivass). Un passaggio dal privato alla massima istituzione bancaria che non mancò di sollevare polemiche. Alfredo Recanatesi su FirstOnline scrisse che “Perrazzelli (individuata da cacciatori di teste, e sarebbe interessante sapere incaricati da chi) gode di un ampio credito personale supportato da un curriculum di tutto riguardo. È quantomeno curioso, tuttavia, che per un così rilevante ruolo sia stata individuata una top manager della Barclays negli anni in cui il grande gruppo bancario internazionale decise di uscire dall’Italia per una valutazione profondamente negativa sul futuro del nostro Paese”. Sulla banca gravava non solo la sfiducia nei confronti dell’Italia, ma anche decine di decisioni contrarie dell’Abf e valanghe di cause in tribunale a volte vinte a volte perse in attesa del verdetto finale della Cassazione. Che ora le ha dato definitivamente torto.

Altre due donne uccise a Vicenza e Napoli Sono 72 da inizio del 2021, una ogni 72 ore

Prima dicono di amarle, poi le uccidono. Rita è il nome dell’ennesima ragazza, una 31enne di origini nigeriane, che ieri mattina a Noventa Vicentina è stata uccisa a colpi di pistola dal compagno da cui si stava separando. Pierangelo Pellizzari, un disoccupato di 61 anni con alle spalle già una condanna per minacce e lesioni alla ex compagna, ha aspettato Rita nel parcheggio dell’azienda in cui lavorava. Tra i due è scoppiata una lite, al culmine della quale lui le ha esploso addosso diversi colpi di pistola, il tutto sotto gli occhi delle colleghe. Poi è fuggito a bordo della sua Jeep, lasciando Rita a terra esanime. I carabinieri hanno cercato l’assassino tutto il giorno nelle campagne intorno a dove la coppia abitava.

La storia di Rita è l’ultimo dei 72 femminicidi che il Fatto ha contato dall’inizio dell’anno in Italia, bilancio che conta anche di 9 matricidi e delitti tra gli anziani. Praticamente una donna ammazzata ogni 72 ore, secondo le stime del Viminale. Uno dei primi casi del 2021 è stato quello di Roberta Siragusa, 17 anni, uccisa dal fidanzato 19enne. Il suo cadavere, parzialmente carbonizzato, è stato ritrovato il 24 gennaio in un burrone a Caccamo, in provincia di Palermo. Il 27 giugno, in Valsamoggia, viene rinvenuto il corpo di Chiara Gualzetti, 15 anni, uccisa da un coetaneo. Il 23 agosto Vanessa Zappalà, 26 anni, viene colpita a morte da diversi colpi di pistola mentre passeggia con alcuni amici in provincia di Catania. Negli ultimi giorni, invece, si contano sei femminicidi in una settimana. Come quello di Chiara Ugolini, 27 anni, trovata morta il 5 settembre in casa a Calmasino di Bardolino, aggredita dal vicino Emanuele Impellizzeri. Anche lui, come l’assassino di Rita, dopo averla uccisa aveva cercato di fuggire. Oppure Angelica Salis, 60 anni, finita a coltellate dal marito Paolo Randaccio, 67 anni, nella loro casa di Quartucciu, (Cagliari). Poi Ada Rotini, 46 anni, straziata l’8 settembre scorso con trenta coltellate dal marito 47enne, Filippo Asero, nel Catanese: il giorno dopo si sarebbe dovuta tenere la prima udienza per la separazione. Ieri mattina è anche stato trovato il cadavere di Concetta Gioè, 68enne senza tetto uccisa nella notte sul sagrato della chiesa di Santa Caterina, in centro a Messina. E sempre ieri è stato fermato l’uomo che ha ucciso e fatto a pezzi la madre 85enne in casa a Napoli. Una scia di sangue senza fine.

Il treno del piacere lecito: la Cassazione sdogana la masturbazione in carrozza

La Sesta sezione penale della Cassazione ha stabilito che masturbarsi in treno davanti a una donna non è reato, perché “l’interno di un vagone ferroviario non può essere ritenuto un luogo abitualmente frequentato da minori” e quindi non può riscontrarsi l’accusa di “atti osceni”. Le stupefacenti motivazioni sono state depositate il 2 settembre.

E allora proviamo a immaginare il campo di applicabilità della sentenza. Ad esempio, via libera al sesso in automobile, in mezzo alla strada e senza cautelarsi coi fogli di giornale sui finestrini, purché avvenga in tardo orario: di notte i bambini dovrebbero stare a casa, a letto, non a fare i guardoni delle coppiette. Nullaosta all’onanismo in un cinema dove si proietta un film vietato ai minori, quel bollino v.m. 18 azzeccato sulla locandina può salvarti dal carcere. E se a qualcuno venisse in mente di masturbarsi in un’aula universitaria, altro luogo dove ragazzini non se ne vedono? Magari in una pausa di una lezione di giurisprudenza, dove si forgiano i magistrati del domani, quelli che scriveranno sentenze come questa.

Si ride per non piangere. E per non pensare a come l’abbia presa la passeggera del treno che nel giugno 2019 segnalò agli agenti della polizia ferroviaria che un uomo si stava toccando davanti ai suoi occhi. I poliziotti lo arrestarono con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale – aveva reagito con atteggiamenti violenti e minacciosi – e con quella di atti osceni, compiuti con il chiaro intento “di importunare la donna”.

In Tribunale regge solo l’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale, per la quale scatta la condanna. Assoluzione invece per la masturbazione ferroviaria. Sul presupposto che si può escludere “il pericolo che i minori assistessero alla condotta”.

Il caso finisce davanti alla sesta sezione penale della Cassazione. Il Procuratore generale insiste nel sollecitare la condanna, sostiene che “il treno va ritenuto luogo frequentato abitualmente da minori”. A questa considerazione, però, i magistrati di terzo grado ribattono ricordando che “per luogo abitualmente frequentato da minori non si intende un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere sistematico”. Invece, “l’interno di un vagone ferroviario in movimento per l’ordinario servizio viaggiatori non può essere ritenuto un luogo abitualmente frequentato da minori”. Dunque i masturbatori per farsi condannare devono agire davanti alle scuole. Speriamo di no.

Nobili e Boccassini indagati, Barbato: “Non archiviateli”

Il grande accusatore chiede che il fascicolo non sia archiviato. Antonio Barbato, ex comandante della Polizia locale di Milano, si è opposto alla richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Brescia al termine delle indagini per abuso d’ufficio in concorso dell’attuale capo Marco Ciacci e dei magistrati milanesi Ilda Boccassini e Alberto Nobili, in merito all’intervento dei vigili dopo che la figlia dei due pm, la sera del 3 ottobre 2018 investì con il suo scooter sulle strisce pedonali il medico Luca Voltolin, morto alcuni giorni dopo. “I testimoni che avevo citato non sono stati sentiti. Così ho fatto opposizione”, ha raccontato Barbato dopo la prima udienza del processo in cui è imputato a Milano per falso ideologico e frode in pubbliche forniture per una campagna sulla sicurezza stradale nel 2015.

L’ex capo dei ghisa è stato sentito a Brescia “il 26 aprile e – ha riferito – mi sono comportato correttamente: avrei potuto dare in pasto alla stampa questa cosa. Invece e ho aspettato l’esito, che per me non è corretto”. Per questo “occorre fare un supplemento d’indagine”.

Afghanistan, la tv: “Ucciso fratello ex vicepresidente”

Il fratello dell’ex vicepresidente afghano Amrullah Saleh, Rohullah Azizi, “è stato catturato e giustiziato dai talebani” dopo la conquista della Valle del Panshir, ha riferito nella serata di ieri Zahra Rahimi, reporter di Tolo Newscitando fonti della famiglia dell’uomo. Alcune fonti locali hanno riferito che Saleh sarebbe stato torturato fino alla morte.

La notizia è arrivata mentre alcune immagini mostrano un combattente talebano seduto nello stesso posto dal quale l’ex vice presidente aveva girato un video nel quale sostiene di essere ancora nel Panshir. Alcuni familiari hanno fatto sapere che ieri sera il cadavere non era stato ancora riconsegnato. Il suo corpo “deve marcire” avrebbero detto i talebani.

Quella di ieri è stata un’altra giornata di combattimenti nella regione. Secondo il Fronte di resistenza nazionale gli uomini di Ahmad Massoud e i talebani si sono scontrati nei distretti di Dara, Abshar e Paryan. “Il Fronte di resistenza nazionale si è spostato sulle montagne e la nostra gente vuole resistere”, si legge in un tweet.

Il “verde” Sala lo finanzia Librandi di Iv

Il finanziatore più generoso della campagna elettorale di Beppe Sala è Gianfranco Librandi. Attraverso la sua società principale, la Tci Telecomunicazioni Italia, il deputato di Italia Viva ha donato 50mila euro al comitato elettorale del sindaco di Milano: un terzo di quanto raccolto finora in totale (148mila euro, secondo i dati pubblici).

Librandi è da tempo un sostenitore del candidato del centrosinistra. Con la sua azienda, che produce impianti di illuminazione a led ed esporta in tutto il mondo, ha già sostenuto in passato Sala. Ma anche tanti altri. L’imprenditore di Saronno è diventato uno dei principali finanziatori della politica italiana. Eletto alla Camera nel 2018 con il Partito democratico, prima di approdare a Italia Viva è passato per Forza Italia e Scelta Civica: negli anni ha donato soldi a quasi tutti questi partiti. Gli investimenti più rilevanti, però, li ha fatti su Matteo Renzi. Nelle carte dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open si legge che due sue aziende, Tci Telecomunicazioni e Tci Elettromeccanica, in sette mesi “hanno effettuato finanziamenti per un importo complessivo di 900.000 euro” verso la fondazione.

Dopo che Open è finita sotto inchiesta (l’accusa è di essere una “articolazione politico-organizzativa” della componente renziana del Pd), è stato aperto il Comitato Leopolda 9 e 10. E anche qui Librandi ha fatto la parte del leone. Nel 2020 il Comitato ha incassato 428 mila euro di donazioni private, di cui 340 mila euro arrivati da lui. D’altra parte le aziende di famiglia macinano profitti da anni: nel 2020 (ultimo bilancio depositato) la Tci Telecomunicazioni, la capogruppo, ha fatturato 147 milioni di euro, chiudendo l’anno con un utile netto di 10,3 milioni, il doppio rispetto al 2019. C’è solo una macchia nel bilancio. Un contenzioso con il Fisco, una verifica che potrebbe costare a Librandi 300 mila euro. È la cifra accantonata dalla Tci Telecomunicazioni come fondo rischi “per contenzioso con l’Agenzia delle Entrate per le annualità 2016 e 2017”.

Se Librandi è di gran lunga il principale finanziatore di Sala, nella lista dei donatori trovano spazio anche altre facce note. C’è Antonio Belloni, braccio destro di Bernard Arnault, il terzo uomo più ricco al mondo (secondo Forbes) grazie all’impero della moda chiamato Lvmh. Belloni, che della multinazionale francese è il direttore generale, ha donato 10 mila euro a Sala.

Stessa cifra dalla Borio Mangiarotti Spa, storica azienda milanese di costruzioni, di proprietà della famiglia De Albertis, impegnata in città con il progetto SeiMilano. Mille appartamenti, 30mila metri quadri di uffici, 10mila di attività commerciali alla periferia ovest della città.

Librandi a parte, il più generoso di tutti è stato Maurizio Traglio, già candidato sindaco (sconfitto) per il centrosinistra alle elezioni di Como del 2017. Traglio faceva parte dei “capitani coraggiosi” chiamati da Silvio Berlusconi a salvare Alitalia dal crac (non gli è andata bene). Adesso è sceso in campo in aiuto di Sala.

Sfida sull’arresto di Cesaro: Maresca accusa Manfredi

Lenta ma inesorabile, la giustizia si rifà viva con il senatore di Forza Italia Luigi “’a Purpetta” Cesaro e ne chiede gli arresti domiciliari per concorso esterno in associazione camorristica. Deciderà Palazzo Madama se la misura verrà applicata davvero, con i consueti tempi non particolarmente veloci. Tenendo presente che gli avvocati di Cesaro, Alfonso Furgiuele e Michele Sanseverino, stanno preparando un ricorso al Riesame.

È lo strascico degli arresti dei fratelli di Cesaro, Antimo, Aniello e Raffaele, avvenuto nel giugno 2020, è la stessa inchiesta sui patti politico-mafiosi con il clan Puca, per condizionare le elezioni di Sant’Antimo nel 2017 e controllarne l’ufficio tecnico comunale. La Dda di Napoli guidata dal procuratore Giovanni Melillo sollecitò l’arresto in carcere anche del senatore che ai bei tempi regalava quintali di mozzarelle a Silvio Berlusconi e che negli anni 70 chiedeva “protezione” a donna Rosetta Cutolo, la sorella del boss della Nco Raffaele Cutolo, del quale si vociferava fosse stato l’autista, prima di laurearsi in giurisprudenza e spiccare il volo. Ma il Gip, prima di valutare il suo caso, trasmise 21 intercettazioni telefoniche e ambientali al vaglio della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. Palazzo Madama a maggio ne ha autorizzato l’uso di soltanto sei. E ora, sulla base di questi colloqui – e altre prove contenute nella precedente ordinanza – Procura e Gip hanno convenuto che i domiciliari sono sufficienti.

Di queste sei intercettazioni, meritano attenzione soltanto un paio, le altre sono telefonate di fissazione degli appuntamenti. Si tratta delle conversazioni in auto tra Cesaro e altri indagati. Si ascolta il senatore dire “e io secondo te perché mi sono tolto da mezzo?… Non mi sono fatto vedere più… con quello fuori…”. E i suoi interlocutori ribadiscono: “Qua ognuno di noi si è messo in mezzo per te…”. I magistrati le interpretano così: Cesaro aveva tentato di defilarsi dalla politica locale perché consapevole degli accordi politico-criminali tra la sua famiglia e il clan Puca e timoroso di essere coinvolto in nuove beghe giudiziarie, ma quando anche Antimo, ritenuto il garante del patto, fa un passo indietro, gli amici gli ricordano di aver lavorato per lui e non per il fratello. E “quello fuori” era il boss, Luigi Puca. Uno da non nominare nemmeno, per prudenza e paura: è il periodo delle minacce alle attività imprenditoriali dei fratelli Cesaro. Luigi Cesaro va arrestato, secondo il Gip, perché in quelle elezioni raggiunse un’intesa con un candidato al consiglio comunale, un mobiliere in odore di camorra, Francesco Di Lorenzo, che avrebbe anticipato 48 mila euro per comprarsi i voti per sé e per il candidato sindaco di centrodestra poi sconfitto Corrado Chiarello, un voto costava 50 euro e fate voi i conti.

Soldi anticipati con la promessa del senatore di restituirli, promessa che a elezioni concluse e sconfitta del centrodestra non fu mantenuta. Infatti Di Lorenzo in altre conversazioni minaccia per questo ritorsioni: “Faccio il pentito politico, ma senza scherzare. O si credono di poter aver azzuppato il biscotto per dieci anni, a farmi esporre con tutti i camorristi?”.

Il processo chiarirà se le accuse dei pm Giusy Loreto e Antonella Serio, basate su una mole di informative dei carabinieri del Ros, sono fondate. O se viceversa hanno ragione gli avvocati di Cesaro secondo i quali meritano “una ferma censura, sia in ordine al profilo della gravità indiziaria sia a quello dell’esistenza e permanenza attuale delle esigenze cautelari”.

Sul piano politico questa grana non ricade sul pm anticamorra Catello Maresca, il candidato sindaco di Napoli del centrodestra. Maresca in tempi non sospetti disse “mai su un palco con Cesaro” e ieri ha commentato così: “La famiglia Cesaro sostiene Manfredi (il candidato del centrosinistra e del M5S, ndr), chiedete a Manfredi”. Si riferisce alla candidatura di Massimo Pepe, uomo vicinissimo all’ex capogruppo azzurro in Campania, Armando Cesaro, il figlio di Luigi, grazie al quale fu nominato per un breve periodo vice coordinatore metropolitano di Forza Italia. Pepe, due volte candidato alle Politiche per il partito di Berlusconi, fa parte della lista nata da un accordo tra forzisti in uscita e i renziani di Italia Viva. Si chiama “Azzurri – Napoli viva”, fra le 13 liste che appoggiano l’ex rettore della Federico II.

Dirigente accusata già assolta ad aprile da renziani e giornali

Ad aprile, quando emerse il caso di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell’Istruzione indagata per un presunto giro di favori all’editore Federico Bianchi di Castelbianco, grandi firme e noti esponenti politici si spesero per assicurarci che la donna fosse al di sopra di ogni sospetto. Le carte dell’indagine oggi dimostrano quantomeno che i dubbi sul suo operato fossero legittimi, al netto di accuse penali ancora tutte da dimostrare.

Eppure il Foglio era netto: “Boda è una funzionaria che ha lavorato con ministri di vario orientamento, sempre apprezzata: il suo impegno per iniziative come ’La nave della legalità’ la colloca automaticamente dalla parte dei buoni”. Ancora sul Foglio, Annalisa Chirico ci informava degli “orrori del circo mediatico dietro al tentato suicidio di Boda”, riconducendo il gesto disperato della dirigente – buttatasi dalla finestra dopo la perquisizione – al cattivismo dei giornali: “Boda non ha retto l’urto della vergogna, ha pensato che difendersi da un processo per definizione sommario sarebbe stato impossibile”. Concita De Gregorio, firma di Repubblica, se la prendeva invece con chi aveva osato denunciare le anomalie del ministero: “Chissà come sarà, in queste notti, il sonno dell’anonimo che ha pensato, un giorno: ora quella la sistemo io”.

Al coro partecipava poi Alessandro Sallusti, ancora al Giornale: “Difficile che un mascalzone si suicidi se preso in castagna, più facile che ci provi chi non ha la scorza del delinquente. Boda è, a detta di tutti, una bella e brava persona, oltre che un funzionario integerrimo”. Il Riformista dava il meglio coi titoli: “Indagata, scatta la gogna, lei si butta dalla finestra”; “Ipocriti! Non è libertà di stampa. È gogna e può uccidere”. Senza dimenticare che pure alcuni politici gridarono allo scandalo. Soprattutto da Italia Viva, complice il fatto che la Boda fosse indicata come vicina ai renziani. Motivo per cui Matteo Renzi si espose: “Boda è una delle più stimate e appassionate dirigenti della Pubblica Istruzione. Come si può permettere che la gogna mediatica stritoli la vita delle persone?”. Parole riassunte da Maria Elena Boschi: “Quello che è successo è assurdo, violento, ingiusto”.

“Non solo Boda, Bianchi gestiva i fondi pure con altri funzionari”

C’è una “lista di persone da retribuire”, chiamata “gruppo ministero”. È l’elenco di persone che avrebbero dovuto ricevere un compenso per la “collaborazione” svolta con una delle società dell’imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, editore dell’agenzia di stampa Dire, finito in carcere due giorni fa con l’accusa di corruzione. È quanto emerge dall’inchiesta della Procura di Roma, condotta dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Carlo Villani, che ha scosso il ministero dell’Istruzione, portando alla luce una presunta rete di corruzione negli appalti.

A telefonare ai candidati, per informare che presto sarebbe stata “formalizzata l’assunzione”, sotto forma di un “co.co.co., di un’assunzione a tempo indeterminato o di una prestazione a partita Iva”, era una collaboratrice di Giovanna Boda, importante dirigente del Miur ora indagata per corruzione. La dirigente, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto favori e regali da Bianchi, il quale si muoveva con “disinvoltura” all’interno del Miur, partecipando ad alcuni incontri riservati e ottenendo l’assegnazione di gare e progetti per un valore di 23 milioni e 537 mila euro, di cui 17,4 milioni già corrisposti. E tra le utilità offerte a Boda ci sarebbe anche un giro di assunzioni. “Senta le volevo dire che la dottoressa Boda aveva previsto per lei, un piccolo compenso (…) l’idea della dottoressa era dai mille e due ai mille e cinque euro”, dice al telefono una collaboratrice della Boda informando la candidata.

Dagli atti emerge anche l’interesse di Bianchi nel chiedere ad una sua dipendente di redigere un elenco di “vecchie e nuove incombenze” di cui dovrà farsi carico, “in previsione di un incontro con Boda al Ministero”. Favoritismi che però sembrano non bastare. “Si è̀ incavolata (Boda, ndr) ieri, che Federico Bianchi non ha chiamato una persona che doveva chiamare per fargli il contratto, ed è passato un mese…”, dice al telefono una collaboratrice di Boda a un collega.

Secondo il gip che ha emesso la misura cautelare, Bianchi era un habitué del Miur, dove aveva rapporti (per ora non oggetto di indagine) non solo con la Boda. L’imprenditore, scrive il gip, “era ed è talmente addentro alle dinamiche ministeriali che concorre a delineare il piano di destinazione dei fondi previsti dalla Legge n.440/1997”, collaborando con la Boda e “anche con altri dirigenti e funzionari del ministero, tra i quali Leonardo Filippone”. Quest’ultimo non è indagato, ma essendo un dirigente alle dipendenze della Boda, è spesso citato negli atti, per aver preso parte a diversi incontri ministeriali, e conversato con l’imprenditore, durante i quali si sarebbero decise le composizioni di progetti e gare. Ed è il gip a scrivere che la Boda aveva “demandato un vero e proprio potere decisionale” a Bianchi “in accordo con il Filippone”.

Di certo il rapporto stretto era con la Boda. “Non ci sto capendo più niente – dice Boda all’imprenditore nel corso di una conversazione –, per me fate quello che volete”. “Allora, per carità – risponde Bianchi – adesso quando tu tornerai ti trovi Valentina (collaboratrice, ndr) con tutto l’elenco: questo fatto, questo fatto (…) facciamo così dai”. “Basta che vi mettete d’accordo voi con i soldi”, dice la dirigente. E Bianchi la rassicura: “Guarda, andiamo benissimo! (…) ci pensiamo noi”.