Proprio mentre sembrava si fosse pronti a entrare nel vivo della discussione, la direttiva europea sul salario minimo rischia di finire nel pantano: i negoziati tra gruppi (e tra Stati membri) stanno andando a passo lento e stanno emergendo tutte le difficoltà nell’arrivare a un vero accordo. Il voto in commissione Occupazione e Affari sociali dell’Europarlamento è già stato spostato di un mese: non più il 30 settembre, come nei piani, ma alla fine di ottobre (salvo ulteriori problemi) e con il prolungarsi dei tempi, potrebbe arrivare un cambio di scenario capace di compromettere definitivamente il provvedimento se si tiene conto che a fare muro ci sono da una parte il blocco del Nord, dall’altro quello dei Paesi dell’Est.
Se infatti a gennaio inizia il semestre francese alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea (quindi inizialmente le circostanze saranno favorevoli), da luglio a dicembre 2022 toccherà invece prima alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia (prima parte del 2023), due Paesi che, per ragioni diverse, sono fortemente contrari alla direttiva sul salario minimo.
“La direttiva va approvata durante la presidenza francese del Consiglio dell’Unione europea, e cioè entro il 30 giugno 2022, altrimenti rischia di entrare in un binario morto”, ha detto l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Daniela Rondinelli. A meno di un anno dalla presentazione del progetto da parte della Commissione, il percorso si sta facendo complicato. Il testo è il primo intervento dell’Unione sul tema dei salari e si pone l’obiettivo di far convergere verso l’alto le retribuzioni dei lavoratori. Le strade possibili per gli Stati membri sono due: introdurre un salario minimo legale (che buona parte dei Paesi ha già, ma non l’Italia) o, in alternativa, favorire un’ampia copertura della contrattazione collettiva. Il nostro Paese, quindi, non sarebbe obbligato a introdurre una soglia minima per legge, anche perché ha già la stragrande maggioranza dei lavoratori coperta dai contratti nazionali. Tuttavia l’occasione del recepimento della direttiva sarebbe forse l’ultima chance di far entrare il salario minimo nell’agenda del governo, visto che il ministro Andrea Orlando ha deciso negli scorsi mesi di rinunciarvi per evitare frizioni con sindacati e Confindustria durante le trattative per la riforma degli ammortizzatori sociali. Certo è che Cgil, Cisl e Uil, oltreché il mondo delle imprese, sono contrari all’istituzione di un salario minimo, perché ritengono debba rimanere una prerogativa della contrattazione collettiva. Questa resistenza ha portato allo stralcio del tema dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In Italia ci sono quasi mille contratti nazionali, molti dei quali “pirata” e spesso firmati da sigle non rappresentative per permettere il dumping salariale. Contro questa pratica, in sede europea il Movimento 5 Stelle ha presentato emendamenti affinché si misuri la rappresentanza dei sindacati che sottoscrivono gli accordi collettivi. Ma, come detto, l’iter della direttiva è ancora incerto.
I gruppi al Parlamento europeo sono spaccati all’interno. Il presidente francese Emmanuel Macron è favorevole ma ha chiesto di tenere fuori dal provvedimento gli apprendisti, sui quali la Francia approverà una riforma. Anche nel Partito socialista europeo c’è però chi, come la Svezia, tenta di affossare il progetto. Il blocco scandinavo e l’Austria hanno annunciato di essere pronti a esercitare la clausola di opt-out (la rinuncia ad adottare una regola decisa dall’Ue). L’Unione europea – da molti avvertita come poco attenta ai diritti sociali – è davanti a un bivio.