Condannato per i veleni Ilva. Il Pd lo candida alle elezioni

La prima volta lo hanno candidato mentre era tra gli indagati del più importante processo per disastro ambientale in corso in Italia. E gli è andata piuttosto bene: nel 2016 Salvatore De Felice, ingegnere e dirigente Ilva, è stato il più votato della lista che ha portato il centrosinistra a vincere le elezioni di San Giorgio Ionico, paese di 23mila abitanti alle porte di Taranto. Forte di quel successo, il Pd lo ha ricandidato anche alle Amministrative che si terranno il prossimo ottobre, ancora come capolista, incurante del fatto che nel frattempo De Felice – ex capo dell’area Altiforni e per un breve periodo direttore dell’impianto durante la gestione dei Riva – è stato condannato in primo grado a 17 anni di carcere nel processo “Ambiente svenduto”. Non è l’unica grana giudiziaria in corso per il politico democratico: è tra i 9 imputati per la morte di Lorenzo Zaratta, bimbo morto nel 2014 a 5 anni di un tumore al cervello che, secondo la Procura di Taranto, è stato provocato dalle emissioni dell’acciaieria.

De Felice da queste parti è considerato una specie di asso pigliatutto per i Dem. Del partito è stato segretario locale. E dopo l’ultima tornata elettorale e il pieno di preferenze ha ricoperto il ruolo di consigliere comunale, dividendosi fra l’attività politica e le udienze del processo, che si è concluso il 31 maggio scorso con la condanna di 27 imputati a 280 anni di carcere. La vicenda penale è quella che riguarda l’avvelenamento della città di Taranto fra il 1995 e il 2012. La sentenza non ha punito solamente l’inquinamento ambientale, ma anche la costituzione di un’associazione a delinquere in grado di far approvare leggi ad hoc, di ostacolare interventi per la riduzione delle emissioni e norme favorevoli alla sicurezza degli operai. Una rete di potere che ha avuto importanti sponde nella politica, nelle istituzioni, nei media e nel mondo sindacale. Questo gruppo di potere, secondo i giudici, ha promosso la costante massimizzazione del profitto a scapito dell’ambiente e della salute dei cittadini.

Le condanne più pesanti della Corte d’assise sono state per Fabio e Nicola Riva (22 e 20 anni di carcere), figli del defunto Emilio, capostipite della dinastia industriale; per l’ex capo delle relazioni esterne Girolamo Archinà (21 anni e 6 mesi); e per l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso (21 anni). Tra i condannati, 3 anni e 6 mesi per favoreggiamento, c’è anche l’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola.

Le accuse formulate dalla Procura nei confronti di De Felice erano di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per la magistratura tarantina, che sequestrò la fabbrica, i vertici dell’Ilva, e quindi anche De Felice, avrebbero operato “con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell’ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali e urbane circostanti; in particolare idrocarburi policiclici aromatici, benzopirene, diossine, metalli e altre polveri nocive, determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando malattia e morte fra i residenti dei quartieri vicini al siderurgico”.

I contagi e l’Rt ancora in calo (aspettando l’effetto-scuola)

L’incidenza scende (da 74 a 64 casi ogni centomila abitanti a settimana), l’indice di riproduzione del virus Rt continua a diminuire da luglio (è sotto 1 in tutte le sue declinazioni: 0,91 per i sintomatici, 0,75 il valore augmented che calcola la tendenza più recente al 31 agosto, 0,9 se calcolato sui ricoveri) e questo significa minori contagi in futuro, mentre i pazienti in ospedale ancora in alcune Regioni ma poco. Solo la Sicilia resta gialla per la seconda settimana (ha il 13% delle terapie intensive e il 23% dei reparti ordinari occupati da pazienti Covid ma con Rt sotto 1 e incidenza in calo), le altre Regioni sono tutte bianche; la Sardegna è sopra la soglia per le terapie intensive (15%) e la Calabria per l’area medica (19%) ma anche lì i contagi scendono.

“Siamo di fronte a una situazione epidemiologica che ci solleva – ha detto il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione alla Salute, illustrando il consueto monitoraggio settimanale –. Quello che può essere invece un dubbio è la situazione europea perché gli altri Paesi si trovano in situazione diversa”. La mappa dei contagi in Europa dell’Ecdc (il Centro europeo di controllo delle malattie), mostrata anche ieri dal professor Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità, dice infatti che l’incidenza in Francia, specie nei dipartimenti sudorientali al confine con l’Italia, è marrone scuro (cioè sopra i 200 casi ogni 14 giorni per 100 mila abitanti o almeno sopra i 75 ma con il 4% di tamponi positivi) e anche Germania e Spagna, oltre al Regno Unito, registrano più infezioni di noi.

Il monitoraggio reso noto ieri registrava i casi rilevati fino al 5 settembre, che “verosimilmente – si legge nel report – hanno contratto l’infezione nella seconda metà di agosto”. La tendenza è buona ma l’età mediana di contagiati e ricoverati ha ripreso a salire (siamo rispettivamente a 37 ma eravamo scesi fino a 20 e a 59 contro il dato più basso che era 50) e preoccupano, come tutti sappiamo, i milioni di italiani over 60 non vaccinati. Ma per capire come andrà c’è da attendere 15-20 giorni dopo l’apertura delle scuole, prevista lunedì prossimo. Da qui ad allora il governo deciderà anche sull’estensione del Green pass obbligatorio.

Occhio alla “Mu”, potrebbe essere la prossima Delta

C’è una nuova variante del SarsCov2, la cosiddetta Mu, che inizia a dare qualche preoccupazione. Scoperta in Colombia lo scorso gennaio 2021, si è diffusa già in decine di Paesi, inclusa parte dell’Europa, Stati Uniti, Colombia, Corea, Giappone, Ecuador, Canada. In Italia sono stati finora individuati 79 casi. È la quinta variante di interesse attualmente monitorata dall’Oms. Non si conoscono ancora in dettaglio gli effetti della Mu, gli studi sono pochi e alcuni non sono ancora passati al vaglio delle riviste scientifiche. Per ora l’Oms l’ha classificata tra le varianti “d’interesse” (Voi), cioè potenzialmente in grado di rendere il virus più trasmissibile, o più virulento, ma sopratutto con potenziale rischio di resistenza ai vaccini.

“La variante Mu ha una costellazione di mutazioni che indicano potenziali proprietà di fuga immunitaria”, spiega un rapporto dell’Oms, aggiungendo che sono necessari ulteriori studi e un vigile controllo. L’Oms ha anche specificato che al momento la prevalenza della variante Mu è da ritenersi bassa in generale, ma il nuovo ceppo sta guadagnando terreno in Sudamerica.

Mu presenta un gruppo di mutazioni già osservate in altre varianti, sono 21 e tutte localizzate nella proteina Spike, la chiave con cui il virus penetra dentro le cellule umane. Tra le più rilevanti, c’è la E484K, mutazione responsabile della cosiddetta fuga immunitaria (presente anche in Beta e Gamma) e la N501Y, che rende il virus maggiormente capace di legarsi alle cellule umane. Lo studio più significativo, per ora, è quello dei ricercatori di microbiologia degli Spedali Civili di Brescia, pubblicato sul Journal of Medical Virology a fine luglio. Lo studio sul siero estratto dall’organismo di un gruppo di persone vaccinate, ha evidenziato un sensibile calo dell’efficacia del vaccino contro la Mu. Un’altra ricerca giapponese non ancora ufficialmente pubblicata, ha concluso che la Mu è altamente resistente e sfuggirebbe all’attacco degli anticorpi sviluppati dopo la guarigione, sia agli anticorpi sviluppati dal vaccino Pfizer. Anche il report del Public Health England segnala una certa capacità di Mu nel ridurre l’attività di neutralizzazione sia nei guariti che nei vaccinati, in modo simile a quanto succede con la variante sudafricana.

Anthony Fauci, massima autorità americana nel campo delle malattie infettive, invita tuttavia alla cautela perché i dati non sono ancora sufficienti: “La Mu non è una minaccia immediata – ha dichiarato Fauci – ma va certamente tenuta d’occhio”. Negli Usa come in Europa la variante Delta resta per ora quella largamente dominante.

Intanto, Pfizer ha dichiarato al Washington Post di aver già iniziato a studiare la variante Mu e gli effetti sul vaccino e ritiene di poter inviare presto i risultati della ricerca a una rivista peer-reviewed per la pubblicazione, dopo un vaglio di esperti indipendenti di cui si avvalgono le riviste.

Paúl Cárdenas, professore di Malattie infettive e genomica all’Universidad San Francisco de Quito in Ecuador, sta studiando la Mu e ha dichiarato che le prove attuali mostrano una variante probabilmente “più trasmissibile” del ceppo originale del coronavirus. Mu “è stata in grado di superare la prevalenza delle varianti Gamma e Alfa nella maggior parte delle parti dell’Ecuador e della Colombia”, ha detto. Tuttavia, anche Cárdenas è cauto. “Non c’è ancora alcun segnale che dovrebbe rendere le persone più preoccupate – ha aggiunto –. Bisogna sapere che queste varianti emergono continuamente ed è importante che siano caratterizzate per essere tracciate”.

In Italia è stato individuato un cluster di variante Mu nell’area di Brescia, con 7 contagiati, da cui i ricercatori degli Spedali Civili hanno isolato la variante.

Mu è la quinta “variante di interesse” monitorata dall’Oms (insieme a Eta, Iota, Kappa e Lambda). Non è ancora stata spostata nella lista delle cosiddette Variants of Concern (Voc) – quelle considerate preoccupanti – che attualmente include la variante delta, Alfa, Beta e Gamma, considerate più trasmissibili o virulente.

La maggior parte dei virus cambia nel tempo, e anche se alcune mutazioni hanno poco o nessun impatto sulle proprietà del virus, altre possono cambiare il modo in cui si diffonde, la sua gravità e l’efficacia dei vaccini o altri farmaci. L’Oms monitorerà anche come la variante Mu può interagire, in particolare, con la più diffusa variante Delta.

Vaccini agli over 50, la “caccia” è persa

Un effetto Green pass sulle vaccinazioni c’è stato, ma è durato meno di tre settimane e si sta esaurendo. L’obbligo del certificato verde che attesta il completamento del ciclo vaccinale contro il Covid ha fatto in un primo momento scattare – a partire dal rientro dalle vacanze estive – una certa rincorsa soprattutto tra le persone di età compresa tra i 30 e i 59 anni (molti dei quali, quindi, “ritardatari”), anche se negli ultimi giorni anche questa fascia sta rallentando. Non c’è stata invece alcuna rincorsa tra i 60 e i 69 anni, tra i quali le somministrazioni sono sempre più in calo: in questa categoria mancano ancora all’appello quasi un milione di persone, l’11,7% della popolazione interessata.

Una lieve reazione, però, dopo l’annuncio dell’estensione dell’obbligo, c’era stata. Dal 23 agosto al 9 settembre si sono recate in un hub vaccinale per l’inoculazione quasi 2,2 milioni di italiani tra i 30 e i 59 anni. Con sensibili e comprensibili differenze dovute anche alla progressione della campagna vaccinale, che dopo aver coinvolto all’inizio dell’anno operatori sanitari e sociosanitari, ospiti di Rsa e over 80, è proseguita in base al criterio dell’età.

I trentenni sono stati più di 860 mila, i quarantenni quasi 832 mila, i cinquantenni poco più di mezzo milione. Con picchi di somministrazioni che in tutti i casi sono stati raggiunti tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre. Anche se con numeri ben lontani da quelli di giugno, quando nella fascia 50-59 si arrivò a superare 187 mila somministrazioni in un giorno e in quella tra i 40 e i 49 146 mila.

Poco o niente da fare, invece, per gli over 60. Solo in 248.224, sempre nello stesso periodo preso in esame, si sono vaccinati. Soprattutto mostrando una tendenza costante alla flessione: dai 15 mila circa del 23 agosto sono diminuiti giorno dopo giorno, fino ad arrivare a 11.861.

Va detto che sta decisamente rallentando anche il ritmo della campagna vaccinale, al punto che, come ha detto il direttore generale della prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, “Non c’è alcuna svolta di settembre”: dal 6 settembre a domenica le somministrazioni hanno viaggiato mediamente intorno alle 270-275 mila al giorno (ieri avevano completato il ciclo oltre 39,5 milioni di italiani, il 66,8% della popolazione, percentuale che sale al 74,1% se si considerano solo le persone dai 12 anni in su). In tutto, dal 3 settembre a ieri, sono state somministrate 1.796.423 dosi, soltanto 171.113 a persone con più di 50 anni. Salgono però le vaccinazioni tra i teenager. A due giorni dall’apertura dell’anno scolastico ha fatto la prima dose il 63% dei 4,6 milioni circa di ragazzi tra i 12 e i 19 anni. Hanno invece completato il ciclo in 1,9 milioni, il 42% del totale, mentre sono in attesa della prima dose in 1,6 milioni (i dati provengono dall’ultimo report settimanale della struttura del commissario all’emergenza generale Francesco Paolo Figliuolo).

Tra no vax convinti, indecisi e ritardatari resta ancora tagliata fuori comunque un’ampia fetta di popolazione. E le aree dove è più alta la quota dei non vaccinati sono più o meno sempre le stesse. Sicilia, Provincia autonoma di Bolzano, Calabria, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia. Il primato degli over 60 che non hanno ricevuto nemmeno una dose spetta a quest’ultima regione (17,7%) seguita dalla Valle d’Aosta (17,2%), dalla Sicilia (16,7%), da Bolzano e dalla Calabria. Al contrario è la Puglia quella dove c’è il minor tasso di defezioni in questa categoria: il 6,5%. Stessa storia per quanto riguarda gli italiani tra i 50 e i 59 anni. Ancora in testa il Friuli-Venezia Giulia (23,5%), seguito dall’Alto Adige (23,1), dalla Calabria (23), dalla Sicilia (21,9). Percentuali ben al di sopra della media nazionale, che si attesta (in questo caso tutti i numeri sono aggiornati al 9 settembre) sul 16,7%. Se poi prendiamo in considerazione i quarantenni le percentuali aumentano ancora: il dato Italia è al 23,3%, con le solite regioni ai vertici della classifica. Tra i 30 e i 39 anni chi ancora non ha fatto nemmeno la prima dose è il 26,2% del totale.

Intanto aumenta il timore per la variante Delta, perché sta iniziando a colpire i bambini sotto i 12 anni di età, non ancora protetti: per loro il vaccino non è ancora stato autorizzato. In base alle previsioni il via libera dall’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, dovrebbe arrivare entro pochi mesi. Ma non prima di dicembre o gennaio. Adesso in Italia un quarto dei contagi (parliamo del 23,3%) si verifica tra i minorenni. Niente fino ad ora ha dimostrato che i bambini siano più esposti alla variante. Ma è un fatto che la Delta è maggiormente contagiosa.

E anche se il rischio che un bimbo muoia a causa del Covid è molto basso (nel nostro Paese su 720 mila ragazzi under 18 anni che si sono ammalati ci sono stati 32 morti) resta la preoccupazione a ridosso dell’inizio della scuola.

All’estero, nei Paesi dove le scuole hanno già riaperto, si è registrato un aumento dei casi prima di tutto tra i bimbi. In base all’ultimo bollettino dell’American Academy of Pediatrics, negli Stati Uniti, dallo scoppio della pandemia allo scorso 2 settembre, più di 5 milioni di bambini e ragazzi sotto i 18 anni sono risultati positivi al Covid. Solo la scorsa settimana, però, si è registrato il valore più alto: oltre 250 mila casi.

Altri eletti 5S pronti all’addio: 20 o 30 uscite dopo le urne

Nelle piazze sono sorrisi e selfie, ma certi 5 Stelle lo aspettano al varco, il presidente. Pronti a paragonare le vittorie di ieri (Roma, Torino) ai risultati del prossimo ottobre, e a ritirare fuori (alcune) percentuali di quel 2016 in cui il M5S conobbe l’unico turno di amministrative positivo delle sua breve storia. E c’è chi, raccontano, in Parlamento medita addirittura di sfruttare risultati incerti o negativi in queste Comunali come pretesto per lasciare Movimento. Venti, 30 parlamentari, in buona parte di quelli al secondo mandato: salvo miracoli, rassegnati al fine corsa nel 2023. “È una cosa che gira da alcuni giorni”, dicono un paio di big. Convinti che da qui a fine legislatura altri addii “saranno inevitabili, quasi fisiologici”. Perché nel Movimento non sono stati fatti ancora in conti con e tra tutti. E rancori e mal di pancia sono ancora diffusi, anche se – per ora – dissimulati in attesa delle Comunali.

Però già si profila il rischio di un altro mini esodo, nel M5S che in poco più di tre anni ha perso oltre cento eletti tra espulsioni e addii volontari.

I 20 o 30 di cui si sussurra in queste ore sarebbero allora un nuovo scossone: figlio della mancata chiarezza sul vincolo dei due mandati, innanzitutto, da cui in fondo nasce il nodo delle mancate restituzioni, un tema di cui sul Fatto di ieri anche Paola Taverna ha ammesso la rilevanza (“Ci servono risorse per strutturarci sui territori”). Ma la miccia sarebbe anche la voglia di contare di alcuni peones, che vorrebbero provare a formare l’ennesimo satellite di fuoriusciti per far pesare i propri voti nella partita del Quirinale, fatta di numeri incerti. Tanto che perfino poche decine di eletti potrebbero spostare equilibri e ragionamenti. Calcoli e dinamiche attorno a Conte, presidente che si gioca già molto in condizioni difficili.

Non a caso, l’avvocato continua a ripetere che “questo è il tempo della semina e dell’ascolto”, quindi non della vittoria. “Giuseppe dovrà essere bravo a superare questo autunno”, chiosa un 5 Stelle di governo. Consapevole che nel Movimento l’aria può farsi fredda in un attimo, per chiunque.

Avanti a sinistra: Conte ritrova Di Maio nella “rossa” Bologna

Il nuovo capo, anzi presidente, abbraccia l’ex capo. Più volte, quasi ogni tre passi. Gli sorride, insiste con i cronisti: “Fate domande anche a lui”. Sono assieme Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, sotto i portici di Bologna, tra murales che mostrano pugni chiusi, studenti universitari di ogni aspetto e provenienza, signore entusiaste che fanno foto, perfino qualche simil-punk che borbotta insulti perché non lo fanno passare. Sono assieme, i presunti rivali che però sanno di doversi sostenere, nella città che salvo sorprese resterà rossa dopo le urne di ottobre. Vogliono mostrare che l’avvocato non è solo, non nella prima battaglia che è difficilissima, quella delle Comunali, e già si sente lo svolazzare di certi corvi che aspettano quelle urne. “Tra noi non ci sono mai stati diverbi o fraintendimenti” giura Conte di fronte a una folla di telecamere e cronisti, con la movida degli aperitivi che osserva divertita. E il braccio lo tiene sulla spalla di Di Maio, arrivato in treno da Roma. Un passo dietro c’è il bolognese Max Bugani, veterano del M5S che ha organizzato la visita dei due big, con Conte che in serata salirà sul palco della festa nazionale dell’Unità.

Bugani ha lavorato per oltre un anno all’accordo con il Pd e la sinistra sotto le Due Torri, giocando di sponda anche con Pier Luigi Bersani: e i primi tempi lo volevano processare per eresia, i 5Stelle. “Ma questo è un nuovo inizio, sta cominciando un nuovo viaggio per il Movimento – spiega al Fatto – e la direzione è chiara, è quella tracciata da Conte”. Cioè si starà nel centrosinistra, in qualche città già nelle Comunali, almeno “dove si sono potuti elaborare e poi condividere progetti e nomi” precisa l’ex premier con il suo consueto linguaggio. E lo ripete a Bologna dopo essere stato in giornata a Rimini, Cattolica e in alcuni Comuni del bolognese. È lì che si lascia sfuggire una specie di sfogo: “Lavorare, così, per il bene comune è una faticaccia enorme, è un impegno stressantissimo, quindi non credo che la potrò reggere fisicamente a lungo. Spero, e faremo in modo, che ci sia qualcuno più bravo di me quando sarà il momento”. Sembra già dirsi esausto per il tour lungo l’Italia e per tutto il resto, Conte capisce presto l’effetto delle sue parole, e corregge: “Non sono stanco, volevo solo dire che tutto questo richiede notevole sforzo”. Poco prima di arrivare in piazza, Conte spiega nel dettaglio al Fatto: “Volevo intendere che questo non può essere un mestiere per la vita, ma non penso certo di lasciare o cose del genere”. Piuttosto, teme che qualcuno possa rinfacciargli un brutto risultato nelle urne, anche nel M5S? Conte risponde così: “Dopo le elezioni avvieremo il rinnovamento nei territori che non abbiamo avuto il tempo di fare adesso, con la campagna elettorale. Per questo, ho deciso di rinviare la nomina dei nuovi organi dopo le Comunali”.

Prima bisogna alzare un po’ le percentuali, soprattutto al Nord. Ma è difficile. E un big riassume tutto con metafora calcistica: “Conte è come Mourinho ma ha ereditato una situazione difficilissima, non puoi chiedere di vincere lo scudetto a uno che è arrivato a fine campionato”. Per salvare la stagione serve anche la piazza di Bologna. Bugani gli organizza una passeggiata partendo da piazza Verdi, dove c’è il teatro comunale e i bar pullulano di ragazzi, un bel posto che di sera però è assaltato dagli spacciatori. “C’è tutto qui” scandisce Bugani. A pochi metri un manifesto invoca verità per Giulio Regeni. Su un palco, musicisti che suonano un bel jazz. Poi ecco Conte, subito assaltato da signore che gli fanno autografare un libro. Presto è la consueta pioggia di selfie, e gli fanno anche salutare una bimba. Si prova a camminare per via Zamboni, ma tra portici e strada aperta alle auto il corteo si infila presto in un budello. Un disabile con carrozzella protesta, non riesce a passare. Conte gli parla, assicura che prenderà “informazioni sul suo caso”. Di Maio invece sta scendendo dal treno, per la sua prima tappa assieme a Conte. Ne faranno altre, assicurano. Perché il ministro vuole mostrare a tutti che non rema contro l’ex premier, anzi. “La strada della coalizione con il centrosinistra” è giusta, assicura nei colloqui privati.

Mentre arriva all’incontro con Conte, afferma che “è importante sostenere Giuseppe in queste tappe molto impegnative, e poi il Movimento è vivo, lo dimostra proprio questo tour con le sue piazze”. Poco dopo è con l’ex premier, che nella calca autografa perfino un green pass. Poi lui e Di Maio incontrano il candidato sindaco dem Matteo Lepore, ed è stretta di mano sotto la Torre dell’Asinello, con sullo sfondo un poster di Patrick Zaki, lo studente ancora incarcerato in Egitto. Saluti, poi Conte va alla festa dell’Unità, nel Parco Nord. Gira per gli stand assieme a Lepore e nell’Osteria partigiana, quella dell’Anpi, lo accolgono con applausi. Canta “Bella Ciao” assieme ai cuochi. Gli regalano anche un libro di Gad Lerner, Noi, partigiani. Sorride, Conte, mentre la gentre fa la fila per sentirlo parlare. Perché nella sera di Bologna la fatica deve sentirla di meno.

Matteo cena con Malagò (l’avversario di Giorgetti)

Una sera di mezza estate. Un tavolo al Circolo Aniene, lontano da occhi indiscreti (ma non abbastanza). Seduti a cena, a chiacchierare di sport e politica, Salvini e Malagò. Coppia improbabile, praticamente mai vista prima, troppo diversi, così lontani. Fino a ieri. Che Malagò si interessi di politica non è una novità. Destra, sinistra, centro, non ha mai fatto differenza. Lui conosce, vede, incontra tutti. Ad agosto, come rivelato da Repubblica, era stato anche da Berlusconi a Villa Certosa. Qualcuno potrebbe pensare che stia preparando una discesa in campo, ma chi lo conosce giura di no, che pensa solo al Coni e alle Olimpiadi di Milano-Cortina.

La sorpresa, semmai, è vederlo con Salvini, con cui i rapporti non erano eccellenti, per giunta all’Aniene. Mediatore e altro commensale della cena (prima dei Giochi di Tokyo) è stato Francesco Zicchieri, deputato già vicepresidente della Lega a Montecitorio, promosso nel cerchio magico del Capitano e “grande amico” di Malagò, che ha conosciuto nella residenza estiva di Sabaudia, lui che è di Terracina. Appassionato di sport, milanista come il capo, nel 2018 era salito agli onori della cronaca perché citato (non indagato) nelle carte di un’inchiesta sul clan Di Silvio: la polizia aveva trovato dei suoi manifesti elettorali in macchina di un pregiudicato. Un equivoco, capita in un territorio scivoloso come la Pontina, roccaforte di vecchi fascisti e nuove criminalità. Da quelle parti viene anche il collega e amico Durigon, anche se i due pare non vadano più d’accordo. La tradizione però è la stessa: nipote di Mario Zicchieri, militante dell’Msi ucciso nel ’75 dalle Br, Francesco ha fatto la trafila in An, sul suo Facebook si ritrova ancora qualche vecchia croce celtica. Ma oggi c’è solo la Lega. E tanto sport.

Ha cominciato a dedicarsi a questo mondo che sa restituire molto a chi se ne occupa. Soprattutto, ha suggerito di farlo a Salvini. Gli ha portato in visita diversi dirigenti. Come Alessandro Londi, braccio destro del neoeletto dell’atletica Stefano Mei (Salvini fu uno dei primi a complimentarsi). Oppure Luca Stevanato, n. 1 dell’Asc (Attività sportive confederate), appena eletto nel consiglio Coni (in quota Malagò). Quello degli enti di promozione sportiva è un universo che conta 7 milioni di praticanti, società, dirigenti, volontari, un sacco di voti, dove ogni partito ha storicamente un’organizzazione di riferimento. Alla Lega manca. Sembrava l’Asi, quando il suo presidente e senatore Barbaro è entrato nella Lega, ma la sinergia non è mai decollata, poi Barbaro è passato a FdI e anche l’Asi (da sempre di destra) è tornata a casa.

L’ala salviniana ha cominciato a coltivare un orticello che fin qui nella Lega apparteneva a Giorgetti. Per Salvini lo sport può essere un nuovo bacino di consenso, con le elezioni alle porte e i sondaggi in picchiata. Malagò, invece, trova l’ennesima sponda, nel centrodestra c’era già il vecchio amico Gianni Letta, coi fidati renziani e il Pd ormai copre l’intero arco costituzionale. E poi fa sempre comodo uno scudo interno alle bordate di Giorgetti, unico antagonista rimasto al Coni. L’unione fa la forza. Nello sport, pure in politica.

“Draghi debolissimo, capo di un governo da Prima Repubblica”

“Mario Draghi sembra forte, ma non lo è: è molto debole perché per i prossimi 5 mesi sarà condizionato da Matteo Salvini”. Nadia Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York, risponde dagli Stati Uniti ma ha bene in mente quello che è successo negli ultimi giorni in Parlamento: la Lega che vota per ben 8 volte con l’opposizione, la trattativa Draghi-Salvini, il rinvio dell’obbligo del Green pass per i lavoratori.

Professoressa Urbinati, cosa succede?

Siamo nel semestre bianco e i partiti sanno benissimo che non si può andare a votare. Quindi fanno quello che vogliono: Salvini sta creando enormi problemi al governo.

Di che tipo?

Nel suo discorso di insediamento Draghi aveva spiegato che il suo governo avrebbe messo insieme partiti diversi, ma con uno scopo unitario: uscire dalla pandemia. Questo scopo è voluto da alcuni partiti che lo tengono in piedi ma non da tutti. Alla Lega non interessa niente di questo esecutivo, vuole solo vincere le prossime elezioni e governare.

E il premier come reagisce?

Draghi è molto debole: sembra così forte, così risolutivo ma in realtà si comporta come il presidente del Consiglio di un governo di coalizione della Prima Repubblica quando gli esecutivi Dc dovevano sempre trattare con le componenti interne per arrivare a soluzioni mediocri. La norma sul pass è un esempio lampante: non lo rende obbligatorio ma in alcuni casi sì. È un pasticcio frutto di un compromesso al ribasso.

E quindi la Lega ne approfitta.

Certo, la Lega è un partito populista e vive di conflitti. Questa è la forza di Salvini rispetto a Draghi: acquista un potere aggiuntivo perché il leader leghista può condizionare il premier.

Il Carroccio ha votato 8 volte con FdI questa settimana: non si dovrebbe aprire una crisi?

In questo momento no, perché c’è il semestre bianco e ogni crisi si risolverebbe con la stessa maggioranza. Perciò fino all’elezione per il Quirinale, Draghi è in mano a Salvini. Quest’ultimo tiene in braccio il premier perché sa quale sia la sua forza contrattuale. E questo ovviamente provoca danni. Draghi non risponde per non sporcarsi la reputazione, perché punta al Quirinale.

Ernesto Galli della Loggia tre giorni fa ha scritto sul Corriere che Draghi è forte e governa sopra i partiti in un semipresidenzialismo di fatto. Cosa ne pensa?

Questa è una favola che ci sentiamo ripetere solo per convincerci che tutto vada bene. Pensiamo: “I partiti litigano ma tanto decide Draghi e noi siamo in buone mani”. Ma non è così. Draghi governa sopra i partiti fino a quando questi lo sostengono: possono farlo cadere quando vogliono. Parlare di “semipresidenzialismo di fatto” è un segno di grande debolezza perché è come se si stesse cercando una stabilità da un personaggio autorevole. Ma in quanto “di fatto” può finire in pochi minuti. La stabilità invece gli è fornita dai partiti, e in particolare dalla Lega, il partito che lo condiziona di più. Questo governo è legato alla volontà della Lega: più va avanti e più si rafforza.

E quindi cosa succederà?

Salvini continuerà a creare instabilità e a condizionare Draghi con un’alleanza con il centrodestra più Renzi per indebolire Pd e M5S su tutti i temi che esulano dal Pnrr, dal Reddito di cittadinanza al ddl Zan fino ai vaccini.

Caporetto leghista nelle urne Processo “nordista” a Salvini

Lo chiamano il “paradosso del nord”. Perché va bene la Lega nazionale e lo sbarco al centro-sud ma se poi perdi le città più importanti e il tuo bacino elettorale sopra il Po, il problema diventa grosso. E quindi Matteo Salvini, che ieri è stato ricevuto in Vaticano da monsignor Gallagher, è preoccupato. E anche i colonnelli “nordisti”, quelli che hanno dato vita a una fronda interna alla Camera per non seguire gli istinti no Green pass di Claudio Borghi (87 assenti).

In via Bellerio gira una mappa che dice tutto. Non riguarda tutta la penisola ma solo l’area a nord del Po. Su molte città che andranno al voto il 3 e 4 ottobre è segnata una “x” rossa: sconfitta. Bologna, Milano, in bilico Pordenone e Savona. E soprattutto Varese, la roccaforte leghista che ha dato i natali Bossi, Maroni, Giorgetti e alla prima “Liga Lombarda”. Qui la Lega è indietro e di tanto. Il sindaco uscente Davide Galimberti va verso la riconferma con il sostegno di Pd e 5S mentre l’uomo del Carroccio Matteo Bianchi rischia una sconfitta pesante.

Ancor più drammatica la situazione nei grandi centri: a Milano la Lega rischia non solo di perdere, rischia la débâcle. Perché non ci sarà solo la sconfitta del pediatra Luca Bernardo, ma il trauma può essere ben più pesante: le liste di Fratelli d’Italia e Lega sono appaiate all’11-12%. Un sorpasso del partito di Giorgia Meloni, grazie all’operazione Vittorio Feltri, equivarrebbe a un ko per Salvini. A favore di Meloni ma anche degli avversari interni. “Se prendiamo meno voti di FdI a Milano, Salvini dovrà cambiare rotta” minaccia un leghista lombardo. La spia di questa difficoltà sotto la Madonnina è la decisione del segretario di non ricandidarsi in consiglio comunale per la prima volta in trent’anni: “Qualcuno sente puzza di bruciato” commenta malizioso Gianluca Pini, storico esponente della Lega Nord oggi in guerra con il corso salviniano. Poi c’è Bologna dove la Lega supererà FdI ma non servirà a niente: il candidato Fabio Battistini rischia di subire il cappotto da Matteo Lepore. A Torino sorride il centrodestra con Paolo Damilano ma l’imprenditore di leghista ha pochissimo. I sondaggi piangono a Novara dove il sindaco Alessandro Canelli è in vantaggio su Nicola Fonzo ma deve evitare il ballottaggio per impedire che Pd e M5S possano riunirsi e anche qui FdI supererà la Lega. A Savona Angelo Schirru rischia contro Marco Russo, a Pordenone Alessandro Ciriani è tallonato dal candidato di Pd e M5S Gianni Zanolin. Le due città medio-grandi del nord dove la destra ha la vittoria in tasca sono Trieste e Busto Arsizio. Ma in entrambe non c’è un candidato leghista: nel capoluogo friulano va verso la riconferma Roberto Dipiazza di Forza Italia, nel varesotto Emanuele Antonelli di FdI. Il paradosso è che Salvini sta puntando di più sulle città del centro-sud. Roma, Napoli e la Calabria dove spera in un “grande risultato”. “Matteo è stato più a Catanzaro che a Milano – dice amaro un big – non è normale”.

La probabile sconfitta, prevista quasi ovunque, non porterà alla defenestrazione di Salvini. Nessuno nella Lega, al momento, è in grado di contendergli la leadership. Ma un risultato negativo al nord non sarà indolore: Giorgetti, Luca Zaia e anche Massimiliano Fedriga gli chiederanno di essere “più coinvolti” nelle decisioni. E anche un posto nel governo visto che a est di Milano la Lega non ha un solo esponente di governo (tranne Erika Stefani) che rappresenti quei territori, partite Iva e piccole imprese. Senza quei voti, la Lega sparirebbe. Da qui la richiesta di mettere il padovano Massimo Bitonci al posto di Claudio Durigon al Mef (la cui uscita è stata la prima vittoria dei “nordisti”). In caso di sconfitta, Zaia e i suoi chiederanno i congressi regionali. Salvini ha annunciato quelli provinciali ma i governatori vogliono riprendersi le Regioni dove siedono solo commissari salviniani. Una leadership alternativa parte da lì.

Sciogliamo il popolo

Il 17 giugno 1953 gli operai affamati di Berlino Est scendono in piazza contro il regime della Germania Est, che grida alla provocazione fascista e invoca l’Armata Rossa. E il segretario dell’Unione degli scrittori gli dà manforte: “La classe operaia di Berlino ha tradito la fiducia che il Partito aveva riposto in essa. Ora dovrà molto faticare per riconquistarla”. Anni dopo Bertolt Brecht ribalterà quelle parole per evidenziarne l’assurdità: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, il governo deve scioglierlo e nominarne uno nuovo”. Fateci caso: è ciò che oggi sostengono, restando seri, i cantori del piano Draghi Forever. Han faticato così tanto a rovesciare il Conte-2, figlio legittimo delle elezioni del 2018 (M5S primo, Pd secondo) e poi a incensare l’ammucchiata rissosa e inconcludente dei Migliori, che ora tremano all’idea di ricominciare daccapo. O, peggio, di affidare la scelta del prossimo governo agli elettori. Pretendono di decidere loro coi loro padroni, qui e ora. Solo che non sanno come dirlo né come farlo, sempre per via di quel guastafeste del popolo sovrano, che da una decina d’anni si ostina a votare chi non vogliono loro. Premia, pensate un po’, i “populisti” e, a giudicare dai sondaggi dell’estate che han visto crescere solo Meloni e Conte, persevera. Che fare?

Stefano Folli, col riportino a nido di cinciallegra sempre più spettinato, ci si arrovella ogni giorno su Rep. I bei tempi in cui incensava i governi B. e Renzi non tornano più: l’uno è al 5-6%, l’altro al 2. Salvini, che lui dava per acquisito alla causa “moderata” solo perché votava per Draghi, viene traviato ogni giorno dalla Meloni. I 5Stelle, dati da sempre per morti, godono discreta salute. E nel Pd, renziani a parte, l’amore per SuperMario non sboccia. Ma Folli non demorde: sogna “coalizioni più omogenee” che “taglino fuori i ‘populisti’ di destra e di sinistra” e “una maggioranza ridisegnata col ‘taglio delle ali’” contro il “bipopulismo” di Meloni&Salvini e del M5S. Ridisegnata da chi? Da lui e dai suoi compari, ça va sans dire. Sì, ma come? Cambiando la legge elettorale. Il Rosatellum, che tanto gli piaceva quando lo votarono Renzi, B. e Salvini, non gli garba più: ora serve “il proporzionale” o “il modello francese” che è “il modo migliore per plasmare alleanze abbastanza omogenee senza ritorni al passato”. Cioè a quella brutta usanza di far governare chi vince le elezioni. Noi non vediamo l’ora che si voti per goderci la scena: i “bipopulisti di destra e di sinistra” prenderanno il 60% e lui ci spiegherà come e qualmente spedirli all’opposizione “col taglio delle ali” per far governare gli sconfitti col 40%: sciogliendo il popolo e nominandone uno nuovo.