Audi si gioca la carta “Grandspher”

Dopo l’atletica Skysphere, esordisce la Grandsphere concept, secondo di quel trittico di prototipi Audi che sarà completato nel 2022, con l’esordio della Urbansphere (quest’ultima sarà, probabilmente, una vettura compatta). La Grandsphere parla la stessa lingua dei coupé a quattro porte, puntando su linee tese e silhouette cuneiforme. I gruppi ottici si fanno feritoie di luce e dalla carrozzeria spariscono “elementi di disturbo” come maniglie delle portiere e retrovisori laterali, rimpiazzati da telecamere.

Naturalmente, questa granturismo incorpora tutto ciò che in campo automotive definisce il concetto stesso di futuro, ovvero propulsione 100% elettrica e guida autonoma, anticipando design e contenuti di un modello di pari ambizioni, in arrivo attorno al 2025. L’abitacolo è minimal, elegante e curatissimo; e dà il ben servito a plancia e strumentazione tradizionali.

Per la verità, manda pure in pensione il volante e la pedaliera (a scomparsa), perlomeno quando a guidare è il cervellone elettronico della vettura. Il tutto ha un gradevole retrogusto da lounge su ruote, con le principali info di guida o di intrattenimento che vengono proiettate sulla grande plancia ricurva rivestita di legno.

Le dimensioni esterne sono importanti: la grandsphere concept è lunga 5,35 metri e ha un (lunghissimo) passo di 3,19. A fare da base costruttiva è la nuova piattaforma elettrica PPE (Premium Platform Electric), dotata di una batteria dalla capacità di 120 kWh, collocata sul fondo del telaio: alimenta due motori elettrici, uno per asse (sicché l’auto può contare sulle quattro ruote motrici), capaci di erogare fino a 721 Cv di potenza massima, che fanno scattare l’auto da 0 a 100 km/h in meno di 4 secondi.

L’impianto elettrico a 800 volt permette di passare dal 5% all’80% della ricarica in 25 minuti. Fanno parte del corredo tecnico le sospensioni pneumatiche, indipendenti e predittive, e le ruote posteriori sterzanti, capaci di ottimizzare l’agilità o la stabilità a seconda dei frangenti di guida.

Ora tornare alla normalità è più complicato del previsto

Come per altri settori, anche per l’automotive è difficile tornare alla normalità. Il salone di Monaco non possiamo certo considerarlo una soluzione. Forse, più una sorta di “prova tecnica”. Anche se, più che un motor show tradizionale, è piuttosto uno show off dei padroni di casa. Gli stessi che aspirano a diventare anche padroni degli elettroni, avendo ormai imboccato la strada della mobilità a batteria. Costretti più dall’ottusità politica europea che da effettiva convinzione, come raccontano diversi top manager off the records.

Il motivo dei mal di pancia è chiaro: pur fortemente incentivate, le “elettroauto” valgono appena l’8,5% del mercato e, secondo le stime di Auto Schmidt research, rappresenteranno il 10% dell’immatricolato europeo solo nel 2025. Nonché, secondo le stime dell’Aci, il 20% del mercato italiano non prima del 2030. Troppo poco e ancora troppo tardi per rientrare della considerevole mole di denaro investita.

Ma la grande paura, dopo la battuta d’arresto della pandemia, è soprattutto quella di rimanere con poco da vendere: la crisi nell’approvvigionamento dei microchip morde, frenando drasticamente la produzione a livello mondiale e le ambizioni commerciali dei costruttori.

Vedendola dal lato dei consumatori, chi va in concessionaria per comprare un’auto rischia di dover aspettare pure un anno prima di vedersela consegnata. A memoria, una situazione senza precedenti e senza soluzione immediata all’orizzonte.

Il Salone di Monaco: in vetrina il prossimo futuro dell’automobile

Al netto dello tsunami Covid, i saloni tradizionali cominciavano a invecchiare, superati da eventi meno costosi per i costruttori e più attraenti per il pubblico. L’IAA di Monaco, che si sta svolgendo in questi giorni, ha promosso una formula “ibrida”, fatta di padiglioni espositivi e allestimenti outdoor situati in varie zone della città. Tra le novità, la Smart Concept #1, prototipo di suv elettrico urbano costruito in collaborazione con Geely, colosso cinese maggiore azionista di Daimler. Lungo 4,29 metri, pensiona quel patrimonio Smart basato su dimensioni da dribbling cittadino. Da definire tempi di arrivo e prezzi.

Tra le novità Mercedes svetta la Eqe, sedan a elettroni da 4,95 metri di lunghezza. Il suo “Hyperscreen” trasforma la plancia in un enorme schermo per strumentazione e infotelematica. Il suo motore ha 292 Cv ed è collegato al retrotreno. Poi sarà il turno delle varianti 4×4. La batteria da 90 kWh vale 660 km di autonomia omologata. “Un cliente su 10 sceglie già un’elettrica e la Eqe ne conquisterà ancor di più”, dice Ola Kallenius, Ceo Daimler.

Affascinante la Eqg, antipasto a batteria dell’intramontabile Classe G. Telaio a longheroni e quattro motori elettrici (uno per ruota) la renderanno inarrestabile. Al vertice la Mercedes-Maybach EQS, concept di un Suv di extra-lusso da 600 km di autonomia.

Renault svela la Mégane E-Tech, crossover elettrico a listino a inizio 2022: lunga 421 cm e riciclabile al 95%. All’interno, spiccano lo schermo dell’infotainment connesso da 12,3” e la strumentazione digitale. Due le motorizzazioni, da 130 e 218 Cv, per altrettante taglie di batteria, da 40 o 69 kWh, con autonomia compresa fra 300 e 470 km. “In Renault stiamo guardando all’Italia per cercare fornitori. Oggi il 20% del valore medio di un’auto è tedesco, quello italiano arriva al 5%. C’è spazio per salire”, ha dichiarato il numero uno della Losanga Luca De Meo.

Volkswagen propone la ID.Life, che prefigura un’elettrica da città per il 2025, con prezzi tra 20 mila e 25 mila euro. Sarà costruita presso lo stabilimento spagnolo di Martorell. Mentre il capo del Gruppo Vw, Herbert Diess, sposta la sfida per il futuro sulla guida autonoma, che a sua detta “cambierà l’industria come nient’altro prima d’ora”.

La Bmw i Vision Circular Concept è al 100% riciclabile. Anticipa un’elettrica compatta per il 2040, lunga circa quattro metri e in grado di accogliere quattro persone. Il costruttore è al lavoro sull’architettura Neue Klasse (Nuova Classe), che “raggiungerà una densità energetica molto più elevata di quella attuale, facendo uso molto ridotto delle risorse più preziose”, ha detto il Ceo della Bmw, Oliver Zipse.

Gli aforismi del dott. Freud: “I miei malati? Minorati sessuali”

 

Pubblichiamo una cernita di “Aforismi” di Sigmund Freud, in libreria con Bollati Boringhieri e la curatela di Francesco Marchioro.

Soltanto quando si studia il patologico s’impara a conoscere il normale.

 

Mi son sentito spesso obiettare dai miei pazienti, quando promettevo loro aiuto o sollievo per mezzo di una cura catartica: “Ma se dice lei stesso che il mio male si collega probabilmente alla mia situazione e al mio destino: a quelli lei non può certo recare alcun mutamento. In qual maniera mi vuole allora aiutare?”. Ho potuto loro rispondere: “Non dubito affatto che dovrebbe essere più facile al destino che non a me eliminare la sua sofferenza: ma lei si convincerà che molto sarà guadagnato se ci riuscirà di trasformare la sua miseria isterica in una infelicità comune. Contro quest’ultima, lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risanata”.

 

I medici dovrebbero abituarsi a spiegare all’impiegato che si è ammazzato di lavoro in ufficio, o alla massaia per la quale la casa è divenuta troppo pesante, che essi non si sono ammalati perché hanno cercato di svolgere mansioni che di fatto, per un cervello civile, sono propriamente leggere, ma perché, mentre svolgevano tali mansioni, hanno trascurato e deteriorato in modo grossolano la propria vita sessuale.

 

Stando alla mia esperienza, sarebbe estremamente desiderabile che i direttori medici degli stabilimenti (idroterapici) si rendessero sufficientemente conto che non hanno a che fare con le vittime della civiltà o dell’ereditarietà, ma – sit venia verbo – con minorati sessuali.

 

Il sogno è il custode, non il perturbatore, del sonno.

 

Oggi forse il dimenticare ci è diventato più enigmatico del ricordare.

 

Con una vita sessuale normale la nevrosi è impossibile.

 

Il confine fra gli stati psichici definiti normali e quelli patologici è per un verso puramente convenzionale, e per l’altro così fluido che ognuno di noi rischia di sorpassarlo più volte nel corso di una sola giornata.

 

La nevrosi ossessiva non è che la caricatura, per metà comica e per metà tragica, di una religione privata.

 

Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale.

 

Già gli antichi dicevano che il coito è una piccola epilessia.

 

L’uomo preistorico è anche nostro contemporaneo.

 

Un forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia, prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi.

 

I bambini più smaccatamente egoisti possono diventare i cittadini più generosi e più disposti al sacrificio; la maggior parte degli apostoli della pietà, dei filantropi e degli zoofili erano originariamente piccoli sadici e tormentatori di animali.

 

Considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini.

 

L’inconscio di tutti gli esseri umani è pieno di desideri di morte, che talvolta sono anche diretti contro persone peraltro amate.

 

L’uomo è un animale che (non) vive in gregge… è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente a un’orda guidata da un capo supremo.

 

La psicoanalisi ha messo la parola fine alla bella favola dell’asessualità dell’infanzia.

 

La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi… Tre sono forse i rimedi di questo tipo: diversivi potenti, che ci fanno prendere alla leggera la nostra miseria; soddisfacimenti sostitutivi, che la riducono; sostanze inebrianti, che ci rendono insensibili a essa.

 

Non tutti gli uomini sono degni d’amore.

 

Tutti i nevrotici, e molti oltre a loro, si scandalizzano del fatto che inter urinas et faeces nascimur.

 

Seguendo il noto detto di Kant, che accosta la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe volgersi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono magnifiche, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e mal fatto, poiché la grande maggioranza degli uomini ne ha ricevuta soltanto una quantità modesta o addirittura talmente esigua che non vale la pena di parlarne.

 

Le cose, una volta venute al mondo, tendono tenacemente a restarvi. Talora verrebbe perfino da dubitare che i draghi preistorici si siano davvero estinti.

 

Certo, ammettiamo che alla fine si deve morire, ma questo “alla fine” riusciamo a collocarlo in una lontananza smisurata.

 

©2021 Bollati Boringhieri editore, Torino

‘America Latina’: l’ultimo film dei D’Innocenzo è una palude

Non convince l’attesa opera terza dei fratelli D’Innocenzo, America Latina, in Concorso a Venezia 78. Dopo Favolacce, premiato per la sceneggiatura a Berlino 2020, ritrovano Elio Germano e gli affidano il dentista Massimo Sisti, che ha modi gentili, una moglie e due figlie amate, una villa improponibile e per sola trasgressione la birretta con l’amico di sempre: una vita come tante, finché un giorno non scende in cantina e scopre, se non l’orrore, l’assurdo. Germano rintraccia nel personaggio “il divario tra il sentire e il ruolo, il modello a cui aderire. Oggi bisogna essere performanti, contano solo i numeri e non i sentimenti, ecco l’antinomia di America Latina: America, come vogliamo apparire, forti e vincenti; Latina, dispersione, la nostra palude rispetto all’immaginario”. Si potrebbe pensare al controcampo di Favolacce, dopo quello dei bambini uno sguardo adulto sul baratro esistenziale, affidato in una Latina invero non così bonificata a “un thriller psicologico che – dice Damiano – ci permette di rimanere scomodi rispetto a noi stessi”.

La fotografia di Paolo Carnera è suggestiva, la villa già architettonicamente da incubo è promessa narrativa realizzata, e ci ritroveremo a vivere “una storia immersiva – osserva Fabio – dentro la mente di Massimo: un viaggio al termine di un uomo”. A parole suona anche bene, ma America Latina non è un film riuscito: la distanza tra volontà e rappresentazione è siderale, la maniera – il film à la D’Innocenzo, anziché dei D’Innocenzo – sensibile e la supercazzola in agguato. Più che il malessere poetico, un malore drammaturgico, che baratta irresolutezza per profondità, complicanza per guadagno, scantinato per inconscio: se Todd Solondz sul tema aveva già detto meglio, l’allucinazione richiederebbe lucidità. Anche ai Fratelli D’Innocenzo, forse spronati – o drenati – troppo produttivamente: non si uccidono così anche i talenti?

I liberali danno una scoppola agli islamisti moderati del Pjd

Le urne in Marocco hanno sanzionato duramente gli islamisti moderati del Pjd (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), entrati al governo nel 2011 sulla scia del Movimento del 20 febbraio, la “primavera araba” marocchina, diventando poi primo partito del Paese nel 2016. Cinque anni dopo, la sconfitta è netta: il Pjd, guidato da Saad-Eddine El Othmani, primo ministro uscente, perde la grande maggioranza dei seggi, conservando solo 12 dei 125 seggi conquistati nel 2016 sul totale di 395 alla Camera bassa, secondo i primi risultati parziali. Sono stati premiati invece i liberali centristi dell’Rni di Aziz Akhannouch, (Raggruppamento nazionale degli Indipendenti), finora quarto partito del Paese, ma già presente nella coalizione di governo. Hanno ottenuto 97 seggi, davanti al Partito per l’autenticità e la modernità (Pam, 82 seggi), a sua volta di tendenza liberale, e al Partito conservatore Istiqlal (Pi, 78 seggi). I marocchini erano chiamati alle urne mercoledì, un triplice scrutinio per il rinnovo del Parlamento, dei Comuni e delle Regioni, dopo una campagna elettorale senza meeting, per via delle restrizioni legate all’epidemia di Covid. La partecipazione è stata comunque del 50,3%, più che alle Legislative del 2016 (43%). Starà al re Muhammad VI nominare il nuovo primo ministro. Potrebbe trattarsi di Aziz Ajanuch (Rni), potente uomo d’affari, che ha fatto fortuna negli idrocarburi, oltre che ministro dell’Agricoltura dal 2007, considerato vicino alla casa reale. Il partito fu fondato nel 1978 da Ahmed Osman, cognato del defunto re Hassan II. Durante la campagna era scoppiata una polemica, con Abdellatif Ouahbi, numero uno del Pam, anch’esso vicino ai reali (fondato nel 2008 da Fouad Ali El Himma, attuale consigliere del re), che ha accusato l’Rni di aver comprato dei voti. A loro volta, gli islamisti del Pjd avevano chiesto alle autorità di garantire la “trasparenza” delle elezioni e, in pieno spoglio, hanno denunciato “gravi irregolarità”, smentite poi dal ministero degli Interni.

Draghi apre a Erdogan: non è più un “dittatore”

Nel Terzo millennio l’Italia ha creato la figura del dittatore a intermittenza. Le cose, del resto, cambiano in fretta, specialmente se si sta cercando di affermarsi come leader in grado di riunire eccezionalmente attorno allo stesso tavolo tutti i “big” del G20, tra cui presenzia ormai a pieno titolo la Turchia grazie al dirimente e accresciuto ruolo geopolitico. Ed è così che l’altra sera Draghi è dovuto tornare sui propri passi e si è sentito al telefono con colui che solo 5 mesi fa aveva definito un “dittatore”. Una lunga telefonata definita dal comunicato di Palazzo Chigi “un fruttuoso e amichevole scambio di vedute”.

Quando si dice la coincidenza: fu proprio l’8 aprile scorso che scoppiò il sofa-gate da cui derivò la crisi diplomatica tra Italia e Turchia. Si tratta del vergognoso trattamento riservato dal “sultano” alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante la sua visita con il collega Charles Michel ad Ankara. Quando venne chiesto a Draghi un commento sul fatto che la signora fosse stata relegata su un divano, il presidente del Consiglio rispose che “Erdogan è un dittatore” e avrebbe dovuto “chiedere scusa alla presidente per l’umiliazione”. Apriti cielo. Il ministro degli Esteri turco, Cavusoglu fece notare che “il premier italiano, nominato, ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile nei confronti del nostro presidente della Repubblica, che è stato scelto attraverso elezioni”. Nonostante Roma e Ankara si fossero già riavvicinate dietro le quinte, Draghi ed Erdogan evitarono di incontrarsi durante lo scorso giugno per la cerimonia di apertura degli Europei di calcio all’Olimpico quando si affrontarono proprio Italia e Turchia. Centocinquanta giorni dopo e alcuni incroci durante i consessi internazionali, tra i leader di Italia e Turchia la crisi sembra alla fine rientrata in seguito a quella che il Palazzo definisce “un’articolata conversazione telefonica”. Tema principale della telefonata è stata “la crisi afghana e le sue implicazioni a livello…”. La Turchia infatti sta facendo da ponte tra l’Occidente e l’amministrazione dei talebani sfruttando il fatto di essere una potenza militare, di appartenere alla Nato, di avere accettato di sottoscrivere nel 2016 con l’Unione europea il patto di respingimento dei migranti che anche Roma vorrebbe continuasse a valere anche in caso di una ondata di profughi afghani, di essere un paese musulmano sunnita, la confessione dell’Islam a cui appartengono anche i talib. Ankara inoltre potrebbe ottenere dai nuovi padroni di Kabul il consenso, inizialmente negato, di continuare a gestire l’aeroporto della capitale. Nel comunicato non poteva mancare la questione libica che vede Turchia e Italia contendersi la leadership in Tripolitania pur essendo evidente che Ankara l’abbia già ottenuta. Grande attenzione è stata dedicata anche agli sviluppi dei già “eccellenti rapporti bilaterali e alle opportunità di ulteriore rafforzamento del partenariato italo-turco in tutti i settori”. L’Italia è uno dei maggiori investitori in Turchia e la Turchia uno dei maggiori acquirenti dei nostri prodotti. Erdogan non vedeva l’ora di parlare con Draghi, o forse è il contrario.

Talib, l’ultima beffa: il governo si insedierà l’11 settembre

La cerimonia d’insediamento del nuovo governo dei Talebani potrebbe svolgersi domani, sabato 11 settembre, proprio nel XX anniversario dell’attacco all’America di al Qaeda, che innescò l’invasione dell’Afghanistan e il rovesciamento del regime di Kabul, reo di ospitare e proteggere i campi d’addestramento dei terroristi. Ad assistere all’insediamento potrebbero essere invitati rappresentanti di Paesi come Cina, Russia, Qatar, Pakistan, Iran e Turchia, l’unico nella Nato. La diplomazia resta attiva nell’area: il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov s’appresta a ricevere, domani, il collega del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. La scelta dell’11 settembre appare una sorta di gesto di scherno verso gli Occidentali: uno di quei segnali contraddittori, tra dialogo e chiusura, che i talebani mandano in questi giorni, mostrando, rispetto al passato, di sapere usare gli strumenti di comunicazione più moderni. Alla provocazione, se sarà confermata, si contrappone la decisione di autorizzare la partenza dall’Afghanistan, su un aereo del Qatar, di circa 200 cittadini statunitensi e di altre nazionalità – non hanno potuto salire a bordo, invece, gli afghani sprovvisti di una seconda cittadinanza –. S’è trattato del primo decollo di questo tipo dal ritiro delle forze Usa il 31 agosto. Un altro volo è previsto oggi. A fare pressione affinchè i talebani autorizzassero la partenza è stato il rappresentante speciale Usa Zalmay Khalilzad, anche se poi la Casa Bianca ha chiarito che non consentirà lo sbarco in basi Usa di passeggerei provenienti dall’Afghanistan senza documenti e controlli adeguati. “I talebani sono stati cooperativi, hanno dimostrato flessibilità e si sono comportati in maniera professionale, è un primo passo positivo”, si legge nel comunicato della portavoce del Consiglio nazionale di sicurezza, Emily Horne. In parallelo, c’è stato un giro di vite sulle manifestazioni: i talebani hanno vietato cortei e proteste e hanno intimato alla popolazione di rimanere in casa, adducendo problemi di sicurezza. Ma manifestanti sono scesi lo stesso in piazza: decine si sono radunati presso l’ambasciata del Pakistan a Kabul, dove i talebani hanno aperto il fuoco per disperderli; altri hanno protestato nelle province di Parwan e Nimruz. Giornalisti che seguivano gli eventi sono state fermati, malmenati e torturati, prima d’essere rilasciati. I collegamenti Internet hanno subito interruzioni. Si ha pure notizia di manifestazioni annullate.

Londra blinda la Manica. Sulla pelle dei migranti

Poiché la Brexit non ha magicamente eretto un muro nel Canale della Manica, la sua promessa centrale, riprendere il controllo delle frontiere, si infrange contro la vastità del braccio di mare e la porosità dei controlli, e gli aspiranti richiedenti asilo continuano a tentare la traversata: 13.500 finora nel 2021, secondo una rielaborazione dell’agenzia giornalistica PA: oltre 1.000 negli ultimi giorni. Figlia di immigrati anch’essa, il ministro degli Interni britannico, Priti Patel, ha una visione molto chiara di come gestire il dossier: distinguere fra migranti legali e illegali, di solito censiti in base alla disponibilità economica, e fare di tutto per fermare i secondi.

L’ultima mossa è dare mandato al Border Control, la Guardia costiera di Sua Maestà, di rimandare indietro i barconi. Ovvero, il paradosso non sfugge ai commentatori, violare la legge internazionale per bloccare una illegalità ancora da dimostrare, visto che ogni migrante ha diritto a vedere la propria domanda di asilo valutata bona fide.

“Non posso sottolineare abbastanza quanto questo sia non solo disumano, ma anche totalmente illegale”, twitta l’avvocato dei diritti umani Daniel Sohege della charity Stand for All. I respingimenti in mare violano infatti una serie di obblighi, fra cui la legge marittima e la proibizione delle espulsioni collettive stipulata nella Convenzione europea dei Diritti umani. Poi c’è la crisi bilaterale con la Francia, a cui questi respingimenti restituirebbero la responsabilità dei migranti. Patel accusa il governo Macron di non fare abbastanza per fermare le partenza dalle sue coste, e ieri ha rafforzato la minaccia dichiarando di essere pronta a bloccare il finanziamento di 54.2 milioni di sterline concordato quest’anno con Parigi perché intensifichi il pattugliamento. Il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin ha risposto: “La Francia non accetterà pratiche contrarie alle legge del mare, né ricatti finanziari. Il Regno Unito deve onorare gli impegni”. I francesi non ci stanno a prendersi l’accusa, che serpeggia a tutti i livelli nel Regno, di lavarsene le mani e lasciare che migliaia di persone partano per la costa fra Dover e Hastings invece che restare a chiedere accoglienza in terra francese: del resto, l’anno scorso ne hanno intercettate più di 10 mila e ritengono quindi, nei limiti delle risorse disponibili, di aver onorato gli impegni. A Londra intanto è diffuso il sospetto che la sparata di Patel sia a salve. La legittimità della misura, dice il governo, è stata verificata con i massimi esperti legali.

Ma da quello che trapela le condizioni sarebbero molto restrittive: barche grandi, non extra capienza, manovra autorizzata se in assenza di rischi. Holllywood: ad attraversare sono bagnarole o gommoni stipati all’inverosimile. Scenario realistico, magari in diretta televisiva: il pattugliatore di Sua Maestà avvia la pericolosa manovra di push-back; gli occupanti del barcone cadono o si gettano in mare; la missione di difesa delle frontiere si trasforma immediatamente, per legge, in soccorso e recupero di donne e bambini a rischio annegamento. Perché Patel dovrebbe cedere proprio ora alla retorica più estrema? Il governo è in grave crisi di consenso per un contestatissimo aumento del prelievo fiscale per sostenere l’NHS – il sistema sanitario pubblico – e la riforma dell’assistenza sociale. Una riforma che ha spaccato il partito conservatore, tradizionalmente identificato come quello della bassa tassazione, e aperto un malmostoso fronte di critica interna. Per superarla, in questi giorni si è parlato di un rimpasto dell’esecutivo che potrebbe far saltare anche la poltrona degli Interni. L’annuncio di Patel ha tre funzioni: fa sparire la nuova tassazione dalle prime pagine dei giornali, rassicura i deputati conservatori delle regioni costiere del sud, dove approdano i migranti, e rende Priti temporaneamente inamovibile. L’effetto immediato si vede nell’opinione pubblica: una parte si augura con astio che i migranti vengano rimandati a casa o perfino lasciati annegare. Non considerando nemmeno la seconda opzione, la prima è al momento impraticabile: dopo la Brexit il Regno Unito non può appellarsi alla (controversa) Convenzione di Dublino che affida al Paese di primo approdo l’obbligo di occuparsi delle procedure di accoglienza dei migranti. E non ha più accesso ai database europei che consentirebbero di verificare la provenienza delle persone sui barconi.

Mail Box

 

I problemi connessi all’obbligo vaccinale

Direttore Travaglio, dalla risposta che dà alla missiva del signor Alessandro Gabardo, si evince che lei, mi permetta, non ha capito a pieno il nocciolo del problema: il governo dovrebbe rendere obbligatorie le vaccinazioni in modo da assumersi tutte le responsabilità, che dovrebbe condividere con le multinazionali del farmaco, e scaricarle dalle spalle dei singoli cittadini, i quali, attualmente, visto che il vaccino risulta ancora “volontario”, devono firmare una “liberatoria” e assumersi i rischi di eventuali conseguenze nefaste. Il problema non è come obbligare, ma chi si deve assumere determinati rischi, anche perché nel nostro Paese lo Stato già obbliga i cittadini a vaccinarsi per ben otto patologie. Il problema non è se sia più o meno costituzionalmente accettabile, o il modo per far rispettare la legge. L’unico motivo credibile è che nemmeno chi ci governa si fida fino in fondo della innocuità dei sieri, e le varie multinazionali, che stanno facendo i miliardi non hanno nessuna intenzione a prendersi il rischio di dover risarcire le eventuali vittime dei loro prodotti. Questa è la realtà, tutto il resto sono chiacchiere di chi ha solo il distintivo.

Mauro Chiostri

 

I vaccini obbligatori per i bambini sono di facile esecuzione: ce li portano i genitori. Voglio proprio vedere come faranno a costringere 4-5 milioni di No Vax. Ma in ogni caso stiamo facendo chiacchiere da bar, perché quella di Draghi non è una legge: è una boutade per forzare la mano a Salvini (senza grossi risultati) e distrarre l’attenzione dai tanti guai del suo governo.

m. trav.

 

Serve più informazione sulle reazioni avverse

Circolano in Rete video, interviste, dichiarazioni di medici, scienziati, giornalisti che hanno a oggetto insinuazioni, dubbi, accuse, denunce, smentite riguardo alla efficacia e alla pericolosità dei vaccini. lo credo che tutto questo materiale, di cui spesso è difficile capire se abbia un fondamento scientifico o meno, specie per le persone comuni, giochi un ruolo decisivo nell’alimentare dubbi e sospetti sui vaccini da parte di molti. Quello che occorrerebbe è un dibattito pubblico tra chi sostiene queste tesi del sospetto e chi invece le confuta, il tutto sulla base di dati scientifici. Penso sia l’unico modo per fare chiarezza e dare fiducia alle persone in modo che possano decidere liberamente se vaccinarsi o meno. Invece sui media vige il pensiero unico in materia di vaccini: non si vede mai nessuno contrario al mainstream vaccinale, è sparito qualsiasi dato sulle reazioni avverse e si sente uno scienziato che dà del rincoglionito a un altro. Se le tesi del sospetto non vengono smontate tramite un confronto tra scienziati e medici, non è naturale che alcuni cittadini dubitino e quindi decidano di non vaccinarsi?

Alfonso Di Domenico

 

Rdc: se lo si implementa si elimina lo sfruttamento

Seguo con molta attenzione la vostra campagna in difesa del Reddito di cittadinanza, che quotidianamente mette in risalto alcune storture presenti nel mondo del lavoro italiano. Bisogna ampliare tale campagna chiedendo l’utilizzo di agenti sotto copertura e l’eventuale arresto in flagranza per i casi in cui l’offerta implichi un vero e proprio sfruttamento (contratti al minimo con richieste di 15 ore giornaliere, pagamenti per lo più in nero, nessun giorno di riposo, ecc). Come spesso “recita” Piercamillo Davigo a proposito della corruzione, credo che anche la pratica dello sfruttamento del lavoro sia un reato seriale e diffusivo, perché chi lo commette tende a reiterarlo appena ne ha la possibilità, infettando nel contempo parte del settore lavorativo di cui fa parte. Da parte mia, ho la fortuna di avere un lavoro ben retribuito da impiegato tecnico in uno studio professionale; sono finalmente fiero di sapere che parte delle mie tasse vengano utilizzate al fine di aiutare chi, per motivi non riconducibili all’ozio o all’italica “furbizia”, fatica a provvedere alle esigenze primarie della propria famiglia.

Roberto Corbari

 

DIRITTO DI REPLICA

Mercoledì il vostro giornale ha pubblicato l’articolo “Rai, serve il capo a San Marino” a firma di Gianluca Roselli, in cui si sostiene che io sarei fra coloro che hanno partecipato al job posting interno per la direzione della sede Rai di San Marino. Non avendo io partecipato al job posting, l’informazione è errata, per cui vi chiedo di rettificare il contenuto dell’articolo.

Angelo Mellone

 

Grazie per la precisazione. Ci scusiamo per l’errata informazione con il diretto interessato e con i lettori.

Gi. Ros.