Da un prof.: “Nel clima di tensione sui vaccini, sarò libero di insegnare?”

Gentile redazione, è sotto gli occhi di tutti la confusione nella quale sta per avere inizio il nuovo anno scolastico. Alla abituale dose di problemi, con cui un professore è costretto a convivere, è stata aggiunta la variante pandemica che porta con sé una miriade di lacci e laccioli, prodotti dal sempre creativo bizantinismo ministeriale, nel tentativo di rendere complicato persino entrare in orario nelle aule a causa dei macchinosi controlli. Tuttavia, pur dando per assunto che tutte le problematiche relative alla questione pandemica – controllo Green pass, distanziamento, quarantene, Dad… – vengano magicamente risolte, si profila all’orizzonte un problema di “sostanza”: quando finalmente sarò riuscito a entrare in aula e inizierò la lezione sarà ancora realmente in vigore l’articolo 33 della Costituzione per il quale “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”? Sarà ancora realmente in vigore l’articolo 1 del D. Lgs. 297/94 sulla base del quale “ai docenti è garantita la libertà di insegnamento come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”?

L’attuale e perdurante clima di contrapposizione tra vaccinati e non vaccinati, con punte non isolate di estremismi sfocianti in forme di odio e di violenza verbale e fisica, sarà inevitabilmente presente anche in quel microcosmo sociale che è la classe, in cui – oltre alla presenza degli studenti – aleggia il sempre più pressante fenomeno del presenzialismo genitoriale, rendendo le domande sulla “libertà d’insegnamento” una vera e propria questione pratica. Durante la lezione su Socrate, per esempio, sarà possibile spiegare agli studenti che “dichiarare di non sapere significa che nessuna delle convinzioni umane a lui note si presenta come verità”, senza che tutto ciò possa essere interpretato come un invito a disobbedire alle leggi? Quando in una quinta liceo dovrò spiegare i motivi per cui, negli ultimi due secoli, la cultura occidentale ha mostrato l’impossibilità dell’esistenza di una verità assoluta e dunque l’inesistenza di una morale assoluta e di un dovere assoluto e valido per tutti, da cui peraltro deriva il concetto di laicità dello Stato, non rischierò di essere frainteso e di conseguenza accusato come un pericoloso sostenitore delle critiche alla campagna vaccinale in atto? La questione poi diventerà inevitabilmente esplicita quando l’oggetto delle lezioni sarà la scienza. Quando dovrò spiegare il metodo sperimentale di Galilei, non rischierò forse di essere oggetto di interesse di qualche genitore che inculca ai propri figli l’attendibilità di maghi e santoni? Per converso, quando si tratterà di spiegare l’epistemologia novecentesca, le geometrie non euclidee, il teorema di Gödel, il principio di indeterminazione di Heisenberg che hanno condotto le scienze a prendere coscienza di non avere un valore assoluto, non mi ritroverò nella pericoloso condizione di essere considerato come un pericoloso sobillatore da chi, classe dirigente compresa, ha assunto una posizione di rigido e fideistico scientismo? Lo Stato tutelerà se stesso, tutelando i docenti o li lascerà – come quasi sempre – soli nel tritacarne? Con il procedere dell’anno scolastico avremo modo di scoprire se lo Stato difenderà la sua istituzione più importante – un professore che forma i futuri cittadini – o si lascerà andare a forme di tecno-scientismo, in una sorta di riedizione moderna del cattolicesimo agostiniano: extra scientiam nulla salus?

Prof. Claudio Amicantonio

La leggerezza di Castelnuovo

Per la generazione che andava a letto dopo Carosello scoprire che Nino Castelnuovo si è spento in silenzio, da tranquillo ottuagenario, è un piccolo colpo al cuore. Correva l’anno 1967; noi avevamo appena smesso di andare a letto dopo Carosello, e d’altra parte Carosello aveva chiuso il suo ciclo magico proprio in quell’anno, quando facemmo la sua conoscenza nell’adattamento televisivo dei Promessi Sposi firmato da Sandro Bolchi con Riccardo Bacchelli (un’altra Rai, un altro mondo).

Nel bianco e nero nebbioso di quei monoscopi bombati, così simile al bianco e nero della memoria, Castelnuovo si presenta a Don Abbondio nei panni di Renzo Tramaglino, “con la furia lieve dei vent’anni”; e quel viso luminoso di ragazzo smanioso di prendere moglie rimase lì, anche sui banchi del liceo. Per quella tale alchimia casalinga di cui è capace la tv, Nino Castelnuovo non aveva interpretato Renzo: lo aveva incarnato.

Ma siccome la vita degli uomini è fatta di automatismi insondabili e rivelatori, e forse c’è più realismo in Magritte che in Guttuso, a Castelnuovo capitò di passare dal Manzoni alla pubblicità dell’Olio Cuore, in quel famoso spot, pochi secondi – Carosello ormai riposava in pace – in cui lo si vede affrontare una staccionata, spiccare un balzo a cuor leggero, e leggero e restare a mezz’aria, nel fermo immagine. Non più la furia lieve dei vent’anni, ma la forza ponderata dei quaranta. Finché si affronta la staccionata come nulla fosse – pareva intendere il messaggio subliminale –, si rimane lievi e giovani come Renzo che va da Don Abbondio. Se non fuori, almeno dentro. E davvero non si ricorda nessuno che abbia saltato con più leggerezza, Juri Chechi levati, soprattutto per quel fotogramma che lo blocca nel culmine del salto, il braccio destro a far leva sul palo, quello sinistro lungo disteso, in parallelo alle gambe. E chi si muove da lì? Se non si può fermare il tempo, si può almeno restare in volo, anche nella memoria. A toccar terra c’è sempre tempo.

Mimi e mazzette in Bitcoin

Dopola pausa di agosto siamo lieti di annunciarvi che a Criminopoli tutto procede benissimo come sempre: dal 23 luglio i nuovi indagati per corruzione sono 34 (più 2 per concussione) e il totale del 2021 sale a 399. Gli accusati di mafia (incluso il favoreggiamento) che al 23 luglio erano 1.431 salgono a 1.454. Il “premio mazzetta” va al consigliere comunale di Grumo Appula (Bari) Nicola Lella arrestato il 7 agosto per concussione. È accusato (in concorso con Vito Partipilo) perché “con la minaccia implicita di determinare la rescissione del contratto per la raccolta dei rifiuti nel comune di Grumo Appula attraverso il condizionamento del comportamento dei dipendenti della società Teknoservice che determinavano disservizi costringevano Nicola Bendetto, legale rappresentante della società Teknoservice a consegnare la somma di 5mila euro (…)”. Lella vince il simbolico premio – automaticamente revocato in caso di archiviazione o assoluzione – per la migliore interpretazione mimica. Dinanzi a Benedetto, imbottito di microspie dalla Procura di Bari, Lella si presenta così: ”Senza interloquire oralmente – dichiara Benedetto agli inquirenti – ma facendo uso di un taccuino e di una penna (…) mi scriveva in cifre su un fogliettino 3mila o 5mila e la parola ‘assunzioni’. Gli replicavo se (…) le avremmo dovute corrispondere mensilmente o (…) una tantum. Lella avvicinandosi all’orecchio replica a bassa voce: ‘Una volta sola’. Successivamente cerchiava la scritta 5mila dicendomi lascia stare questo, indicando (…) la parola ‘assunzioni’. (…) ho replicato: ‘ma con questo abbiamo risolto tutti i problemi?’. Lui annuiva con la testa (…)”. Lella vince il premio anche per aver richiesto (inutilmente) la mazzetta in Bitcoin. Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.237 giorni.

 

399

Indagati per corruzione

 

1.454

Accusati di mafia

 

10.237

Giorni latitanza Messina Denaro

Dalle Torri gemelle a Kabul: così è crollato l’impero Usa

La coincidenza tra il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e il ventennale dell’11 settembre fa intuire che si è concluso un ciclo. Molti lo identificano come il ciclo dell’impero americano. L’egemonia Usa sul “mondo libero” fu stabilita dopo il 1945 e si basò su una offerta di protezione dalla principale minaccia esterna, l’espansionismo dell’Urss. La minaccia era vistosamente gonfiata, e serviva solo a legittimare la pretesa di un governo mondiale americano. Ma l’offerta Usa finì con l’essere accettata perché in Europa il pericolo sovietico diventò progressivamente una profezia che si autoavvera. Poco importò che il riarmo russo fosse un effetto e non una causa della Guerra fredda. Chiunque nel continente si trovasse collocato nel raggio di azione dei missili sovietici finì con l’aderire di buon grado alla proposta di tutela a stelle e strisce. La protezione dello zio Sam fu legittimata. La situazione iniziò a cambiare con la sconfitta del Vietnam, ma la svolta radicale fu il collasso improvviso del comunismo nel 1989. Si profilò allora un grave problema. Scomparso il Grande Nemico, come giustificare il proseguimento della protezione americana e del blocco di potere da essa partorito, cioè il complesso militare-industriale-politico che oggi viene chiamato “Stato profondo”? Dal 1989 all’11 settembre 2001, governo mondiale e Stato profondo hanno attraversato una crisi di sopravvivenza. Era chiaro che prima o poi, sconfitto l’avversario epocale, il momento della verità sul taglio delle spese militari sarebbe arrivato. La Belle Époque clintoniana trascorse alla ricerca di un nuovo nemico. Si elaborò la concezione delle “sorgenti multiple di minaccia”. Ucciso il grande drago comunista, c’erano al suo posto tanti serpenti e serpentelli da decapitare: le mafie, i signori della droga, l’“asse del male” degli Stati cosiddetti delinquenti. Ma questi serpentelli non erano molto convincenti come minacce esistenziali alla sicurezza dell’America e del pianeta. Non si potevano considerare pericoli da fronteggiare con il classico armamentario militare. Per tenerli sotto controllo, potevano bastare qualche decina di miliardi di dollari di intelligence, satelliti e corpi speciali. Per colmo di sfortuna, anche un bel po’ di questi pericoli cominciarono a scarseggiare negli anni 90. La criminalità sia ordinaria sia organizzata iniziò a diminuire, la distensione internazionale favorì i negoziati con Iran, Libia e Corea del Nord, e gli attentati terroristici si misero a declinare di un quasi incredibile 83% dal 1991 al 2000. Sotto Clinton, il budget militare degli Stati Uniti diminuì del 45% e il complesso che domina Washington iniziò a temere di avere i giorni contati. Vista questa situazione, non è esagerato affermare che lo sceicco Bin Laden ha salvato lo Stato profondo Usa da un pericolo letale. L’immenso contraccolpo di rabbia e di paura provocato dall’11 settembre ha generato le disastrose guerre in Medio Oriente e il grande riarmo degli Stati Uniti che dura fino a oggi. Questo riarmo, tuttavia, non è stato sostenuto dall’entrata in scena di alcuna reale nuova minaccia. Al di là della retorica dell’antiterrorismo, nessuno degli alleati, e in primo luogo l’Europa, ha seguito gli Usa nell’aumento delle spese militari e nelle strategie militari di contrasto al terrorismo. La ragione di fondo della protezione americana è così venuta meno. Nessun partner degli Stati Uniti si sente oggi minacciato nella sua esistenza o nei suoi interessi vitali da alcun nemico irriducibile. Neppure dalla Cina e neppure dalla Russia. La parvenza di protezione legittima del passato si è trasformata, allora, in una tipica estorsione mafiosa, dove chi offre il servizio è anche il soggetto che crea la minaccia. Consapevolmente o meno, gli Stati Uniti hanno creato negli ultimi decenni i pericoli contro i quali pretendono di offrire oggi la loro protezione.

 

B. alla conquista del Colle è tutt’altro che improbabile

Se dovessimo seguire la logica diremmo che non c’è storia. Un pregiudicato per frode fiscale con un braccio destro (Marcello Dell’Utri) condannato in via definitiva per fatti di mafia e uno sinistro (Cesare Previti) condannato per corruzione dei giudici non dovrebbe nemmeno pensare di avere una sola chance di diventare presidente della Repubblica. Ma la logica, così come l’etica e la morale, non hanno nulla a vedere con la politica. Silvio Berlusconi lo sa e per questo, come ci ha informato Francesco Verderami sul Corriere della Sera del 3 luglio, nel Quirinale ci spera davvero. “Mi do il 10-15 per cento di possibilità”, ha detto a suoi interlocutori prima di fare un po’ di conti: 476 grandi elettori sente di averli in tasca, gli altri 30, indispensabili per arrivare alla quota magica di 505, conta di conquistarli (per usare un eufemismo) uno a uno. La strada ovviamente è in salita. Ma già il fatto che in Parlamento e sui giornali se ne parli senza esplodere in risate dimostra quanto l’ex presidente del Consiglio abbia ragione. Le possibilità ci sono. Molto, se non tutto, dipende dalla decisione della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) davanti alla quale pende il ricorso di Berlusconi contro la sua condanna per aver ingannato il fisco. Se arriverà in autunno e sarà per lui positiva la strada sarà (quasi) in discesa. Come negare la rivincita a un uomo che per Strasburgo è stato ingiustamente condannato? Così Matteo Salvini si tiene le mani libere. “Sì, Silvio può ambire al Colle. Ha ragione a farci un pensierino”, ripete. Mentre Giorgia Meloni assicura: “Io lo voterei”, per poi però specificare “bisogna vedere che cosa vuole fare Mario Draghi”. Vabbè, diranno i miei otto lettori, quei due parlano per tenersi buono lo zoccolo duro di innamorati di Silvio ancora presente nel Paese. Almeno un 7 per cento di elettori (di Forza Italia) verosimilmente decisivi se alla prossime Politiche vedremo sfidarsi due schieramenti.

Giusto, ma fino a un certo punto. Perché già lo scorso giugno si registravano in Parlamento 259 cambi di casacca. E nella roulette per l’elezione del presidente della Repubblica ci vuole un niente per trovare 30 voti se davvero ne hai già in tasca 476 come sostiene Berlusconi (tutto il centrodestra, alcuni esponenti del misto, più i delegati di 15 Regioni). Votarlo, per i peones, avrebbe pure un significato preciso: Draghi resta a Palazzo Chigi, il governo va avanti e noi per almeno un altro anno ci intaschiamo 13mila euro al mese. Mica noccioline. Per quelli che i giornali un tempo chiamavano poteri forti, Berlusconi avrebbe poi un altro vantaggio: è anziano e di salute cagionevole. Insomma è improbabile che finisca il settennato. O per cause naturali o perché potrebbe benissimo dimettersi dopo poco per curarsi. Spalancando così nel 2023 le porte del Quirinale al tanto evocato Draghi. Diabolico, no? Chi fa questi calcoli, però, da un paio di giorni ha un problema in più: la perizia disposta dai giudici che stanno processando Berlusconi per la presunta corruzione dei testimoni nel caso Ruby. Se i periti diranno che è davvero malato sarà difficile per i supporter dell’ex Cavaliere sostenere che un uomo non in grado di presenziare a un processo possa efficacemente fare il capo dello Stato. Se invece i medici affermeranno il contrario, sarà dura per Salvini e Meloni spiegare ai loro elettori di aver deciso di eleggere un ballista. Anche se, aggiungiamo noi, da sempre quando si parla di Colle il parere dei cittadini non conta (do you remember Rodotà?). Tenetevi forte. Ne vedremo delle belle.

 

11 settembre: l’occidente democratico ha fallito

L’11 settembre 2001, quando crollarono in diretta tv le Torri di New York, dall’altra parte dell’oceano anche noi italiani vivemmo la sensazione di essere risucchiati all’improvviso in una guerra, senza capir bene contro chi. Pochissimi avevano sentito nominare Osama bin Laden e tantomeno il suo “Fronte internazionale islamico per la guerra santa contro gli ebrei e i crociati”, poi semplificato in “al Qaeda” (la Base). Ci pensò il presidente americano George W. Bush a rilanciarne la terminologia epica proclamando una “crociata” contro l’aggressore islamico, lestamente rettificato dai suoi collaboratori preoccupati di evitare che la guerra al terrorismo si trasformasse in guerra di religione. Nove secoli dopo, del resto, evocare il fallimento delle spedizioni crociate contro gli infedeli musulmani non poteva certo suonare beneaugurante.

Se davvero gli attentati dell’11 settembre avessero segnato la data d’inizio di una guerra, come già il 7 dicembre di Pearl Harbour per gli americani e il 28 giugno di Sarajevo per gli europei, vent’anni dopo sarebbe lecito chiedersi: chi ha vinto, chi ha perso?

I talebani hanno deciso d insediare proprio domani a Kabul il loro governo per celebrare l’11 settembre come simbolo di una doppia sconfitta dell’occidente; nel 2001 ferito in casa sua e nel 2021 scacciato dall’Afghanistan. Effettivamente in questo ventennio nessuna iniziativa di “esportazione della democrazia” può dirsi andata a buon fine. Altrettanto vero, però, che il terrorismo islamico da allora non è più riuscito a colpire in territorio americano. E che il bilancio delle vittime evidenzia uno squilibrio clamoroso: dopo Ground Zero i morti ammazzati si sono contati a centinaia di migliaia in Medio Oriente, Asia, Africa; solo a centinaia in Europa, Usa, Canada. I mujaheddin non hanno conquistato né Gerusalemme né San Pietro né Washington. Gli attentati jihadisti, pianificati dai califfi del terrore o perpetrati da “lupi solitari”, hanno insanguinato i Paesi più direttamente impegnati sul piano militare. Risparmiando, fra gli altri, l’Italia.

Chi ha vinto e chi ha perso, dunque? Appare evidente che la domanda è mal posta. Nonostante che, ammettiamolo, per una buona parte di questi vent’anni abbiamo creduto a ciò che ci hanno fatto credere – e cioè che il terrorismo islamico fosse la principale minaccia gravante sulle società occidentali –, la verità è che non si è trattato di una vera guerra. I codici reazionari derivanti da un’interpretazione letterale del Corano sono stati assunti dagli autocrati di molti Paesi musulmani per consolidare il loro potere, specie dopo il fallimento delle “primavere arabe”. Hanno alimentato spinte separatiste e azioni ostili anche in una minoranza delle comunità islamiche residenti in Europa. Ma il fosco scenario dell’islamizzazione preconizzato dalle Oriana Fallaci e dai Michel Houellebecq, nonché dai politici neocristiani e veterorazzisti, s’è rivelato una bufala.

Il risultato lo misuriamo, come sempre, sul corpo delle donne, da una parte e dall’altra. Se fra i primi decreti annunciati dal governo talebano figura l’odioso divieto degli sport femminili, negli stessi giorni in Texas viene proibita l’interruzione di gravidanza dopo il termine di sei settimane. Come già imposto per legge alle donne polacche.

Questo lo possiamo senz’altro dire: nei vent’anni seguiti all’11 settembre la democrazia è indietreggiata in tutto il mondo, occidente compreso. Abbiamo rafforzato legami finanziari inestricabili con i despoti cultori delle stesse pratiche oscurantiste cui si rifanno i talebani. Abbiamo stretto precarie alleanze militari con i medesimi signori feudali. Perfino le squadre di calcio e le case di moda condividiamo con tali figuri. Senza curarci affatto se il capitalismo del futuro investa sulla libertà o sulla sottomissione dei popoli.

In occasione del ventennale di Ground Zero i media rievocano lo spettacolo della morte, l’addestramento meticoloso al suicidio esibito dai kamikaze, così come si è impresso nell’anima sbigottita di ciascuno di noi. Non su di una guerra mondiale, dunque, ci induce a riflettere l’11 settembre, ma su di un’intima scoperta: la fine del nostro senso di onnipotenza. Il riconoscimento improvviso della nostra vulnerabilità.

A lungo la macabra esibizione del mostro jihadista che allestiva riprese filmate dello sgozzamento di prigionieri, seguita dagli attentati suicidi, ha preso il sopravvento sulle altre emergenze planetarie che rendono così fragile il modello sociale occidentale: i crac finanziari estesi fino alla bancarotta degli Stati, le catastrofi ambientali, infine la pandemia Covid che ha sconvolto le nostre abitudini di vita. La sconfitta dell’Occidente era cominciata ben prima che partisse l’ordine di attacco da una grotta di Tora Bora.

 

I mali di Bene (Carmelo), il catechismo hot e donne che guadagnano troppo

 

E per la serie “È da un bel po’ che in Parlamento arrivano persone meno sveglie del necessario”, la posta della settimana.

 

Caro Daniele, chi fu insomma Carmelo Bene? (Claudia Basilici, Asti). Carmelo Bene fu il Morgan del teatro italiano. “Sono il capolavoro senza prezzo”: chi l’ha detto? Bene o Morgan? Troll ante-litteram, Bene provocò Vittorio Gassman con prese per il culo continue, evitando accuratamente di nominarlo, fino a farlo uscire dai gangheri. Sul web c’è un reperto dello scazzo (bit.ly/3wRz6xT): purtroppo Gassman, una persona civile, non gli mollò il ceffone che Bene si meritava, anche se, opportunamente, l’art. 62 c. p. prevede l’attenuante della provocazione a chi reagisce in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui (dove l’ingiustizia sia obiettiva, cioè un’effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico, e non riferita meramente alla sensibilità personale del provocato). Nel caso particolare di Gassman, si sarebbe trattato di provocazione “per accumulo”: la sua reazione iraconda esplose a distanza di tempo, in occasione di un episodio scatenante (l’ennesima sfottitura dissimulata di Bene contro Gassman, stavolta presente Gassman, che se non avesse reagito per nulla sarebbe passato pure per coglione), quale conseguenza di un accumulo di rancore determinato dalla reiterazione di comportamenti ingiusti contro Gassman da parte di Bene. Gassman allora sputtana Bene rammentandogli il suo recente sfondone sull’anacoluto, con Bene che replica con una castroneria (“l’anacoluto è un settenario doppio zoppicante”); ma il secondo round è ancora più esplicito, e mostra la superiorità di Gassman, che abbatte l’attore Bene con questa analisi tecnica piena di ironia: “Carmelo Bene è un attore estremamente ricco di timbri, ma al tempo stesso uno dei più monotoni che siano mai esistiti, proprio nel senso etimologico del termine. E la bellezza della sua dizione sta appunto in questa ripetizione maniacale dello stesso tono”. Bene replica con una cazzata sulla propria emissione sonora definendola “fascia”, dà a Vittorio Gassman del maestro elementare e del vecchio, lo mette al vertice del “teatro di rappresentazione” per dichiarare “fra noi c’è un abisso incolmabile: io sono un poeta”, infine lo sfida a leggere insieme Leopardi all’Argentina, e vedere dove il pubblico si commuove. Le controfacce di Gassman sono eloquenti e impagabili, finché sale sul palco, gli dice: “Noi facciamo lo stesso mestiere”, gli dà del pavido, e lo sfida a terminare quella serata leggendo Leopardi oppure Hölderlin. Bene si sottrae (“Non faccio audizioni”) e svicola nella boutade: “Se devo riconoscere altri attori, non ne abbiamo al momento” (bit.ly/3eJikL2). Affascinante, in entrambi, l’uso nevrotico della sigaretta.

Dove avvenne la tua educazione sentimentale? (Vittorio Siciliano, Gubbio). Per quelli della mia generazione, l’educazione sentimentale avvenne al catechismo. Ci si imparavano un sacco di cose interessanti. Cristo e la prostituta. “Mamma, cosa significa prostituta?”. Cristo e l’adultera. “Mamma, cosa significa adultera?”. Sesto comandamento: non fornicare. “Mamma, cosa significa fornicare?”. Feci tesoro delle sue spiegazioni; e la volta che, a 10 anni, l’elenco dei peccati che stavo confessando mi sembrò un po’ troppo lungo, dissi al parroco: “Però non ho fornicato”. E Don Sergio scoppiò a ridere.

Sposeresti una donna che guadagna più di te? (Alberto Cinque, Roma). Non potrei sposarne altre.

 

Tutti in lista: è la candidatura di cittadinanza

Quando ci s’interroga sullo straordinario fenomeno della carica degli aspiranti sindaci e consiglieri alle elezioni amministrative del prossimo 3 ottobre (1.800 a Roma, alcune migliaia a Napoli, moltitudini imprecisate nel resto d’Italia) la risposta più immediata attribuisce il boom alla voglia di protagonismo, al piacere vanesio di vedersi affissi con il faccione e tutto il resto sui cartelloni cittadini, all’invidia da suscitare tra parenti, amici e colleghi, e narcisismi del genere.

Si considera meno, invece, la motivazione forse più autentica, e sotto certi aspetti meno indecorosa, che muove la stragrande maggioranza di questa folla di anonimi, spesso destinati alla derisione. In tanti si mettono in fila perché il loro nome, pur se disperso nella irrilevanza, potrà servire comunque a certificare un’appartenenza, la loro, a quel simbolo di partito e a quel capolista, con tutti i possibili ricaschi positivi. Nella fase in cui il Reddito di cittadinanza viene demonizzato come simbolo del bieco divanismo parassita, la candidatura di cittadinanza, per così dire, ti offre un lasciapassare non per gli uffici di collocamento, ma per le anticamere degli onorevoli.

Poiché un posto in lista, sia pure nei bassifondi dell’elenco, spesso sottintende il corrispettivo di un lavoro certosino e quantomai essenziale come la raccolta delle firme.

Da cosa nasce cosa e intrupparsi nel codazzo del candidato forte può aprire prospettive insperate. Non fortunate come quelle del giovane aspirante della lista Calenda a Roma, geniale nell’esibirsi con un pataccone di orologio al polso. Scandalo che può avergli procurato, oltre a un certo successo con le ragazze una notorietà insperata e un mucchio di pistolotti socio-apocalittici, signora mia che tempi! E anche i candidati ground zero potranno avere i loro due minuti di notorietà post-elettorale nel rispondere all’inevitabile domanda sul perché non abbiano ritenuto di ricevere neppure la propria preferenza.

Fontana autonomista nonostante i disastri

Di Attilio Fontana si possono dire tante cose, ma di certo non che difetti in testardaggine. Da qualche giorno il governatore leghista della Lombardia è tornato a parlare di autonomia differenziata, pretendendo per la sua Regione competenze oggi in mano allo Stato. Due giorni fa ha incontrato il collega veneto Luca Zaia e per la settimana prossima promette di presentare alla ministra Mariastella Gelmini un documento condiviso con le nuove richieste delle Regioni. Legittimo, se non fosse che vien da chiedersi dove abbia vissuto Fontana nell’ultimo anno e mezzo. Mentre il Covid smascherava il bluff del modello lombardo – soprattutto nella sanità – e le Regioni creavano una babele di norme e sotto-norme approfittando della propria autonomia, tutta Italia si faceva due domande sullo strapotere dei governatori. Fontana invece l’ha interpretata in modo diverso: “Il livello decisionale regionale è quello che ha retto meglio – ha detto al Corriere – Le presunte disomogeneità tra Regioni non sono assolutamente vere”. E ancora: “La gestione della pandemia ha chiarito come sia molto meglio decidere in loco. Non mi si parli di sanità centralizzata”. O è uno scherzo – Fontana ci ha abituati a uscite umoristiche, per quanto involontarie – oppure abbiamo tutti un serio problema.

“Presidente, non firmi quel decreto”

 

Pubblichiamo stralci di una lettera rivolta al capo dello Stato, Sergio Mattarella, sottoscritta da dipendenti, pensionati e utenti di Alitalia

 

Illustrissimo Signor Presidente, nell’annus horribilis della Repubblica, ovvero nel biennio che ci lasciamo alle spalle, in cui morte e sofferenza sono e sono state così pervasive e pervadenti da non poter nessuno di noi pensare ad altro che ciò che ci avrebbe salvato sarebbe stata la solidarietà e l’appoggio dello Stato ad un popolo allo stremo, non di forze ma di speranze, come un fulmine a ciel sereno è caduto sulle teste dei dipendenti Alitalia, la scure e la ferocia di uno Stato irriconoscibile, che invece di salvare i propri cittadini, sembrerebbe intendere salvare i propri interessi, come se gli stessi non si identificassero nel bene delle sue genti. È del 2 settembre l’approvazione del dl Infrastrutture, che attende la Sua firma: ci lascia attoniti e muti la vis con cui il governo ha inteso condannare noi tutti a pietire un lavoro, “urgentemente” modificando non solo la legislazione precedente, ma altresì la stessa recentissima decretazione d’urgenza, al solo fine di permettere a Ita di fare delle spoglie di Alitalia ciò che vuole, con un contorno insignificante di macelleria sociale.

Il “nuovo” decreto prevederebbe nella sua nuova formulazione la cessione di “singoli beni o parti di rami d’azienda”, evitando quindi alla Ita, per quanto dichiarata privata di fatto emanazione dello stesso Stato che la sta “beneficiando”, di assorbire la “zavorra” del personale. Tanto paradossale appare che lo Stato decida di “disperare” anche solo lo 0,00016 % della sua popolazione in nome di chissà quale interesse a che Ita possa operare in piena libertà, quanto lo è che per far ciò il governo utilizzi la decretazione d’urgenza, permettendo ed obbligando l’amministrazione straordinaria di Alitalia a svendere i propri beni, disperando altresì tutti i creditori della ormai defunta compagnia di bandiera. Certi che non serva tediarla ulteriormente signor Presidente, altro non possiamo che chiedere al rappresentante del popolo italiano, nonché al giurista di valutare quanto sta accadendo, perché iniquo se non autoritario ed incostituzionale. Speriamo che il decreto non veda mai la luce e che Lei lo rimandi al mittente. Speriamo in Lei come speriamo nel valore della ragione e nel valore che la legge sia generale e non particolare, perché la Legge non può e non deve essere scritta solo nell’interesse di uno, quand’anche fosse una società fondata ad hoc. Speriamo in Lei, infine, perché non crediamo che un giurista possa ritenere giuridicamente legittimo quanto il governo ha intenzione di fare col decreto che Lei dovrebbe firmare e perché Lei è sempre stato un uomo coerente e come disse un Suo predecessore “La coerenza è comportarsi come si è e non come si è deciso di essere”.

Umilmente e da figli, umiliati e offesi, Le chiediamo di non firmare il decreto Infrastrutture, se vorrà e se ne sarà convinto. Altrettanto da buoni figli ci risolveremo ad accettare le Sue diverse visioni e l’eventuale tutela di un diverso interesse comune, se Lei lo vedesse. Ma creda Presidente, non potremo mai dire di aver capito, e di questo temo tutti noi dovremmo dolerci, perché quando i figli non capiscono inevitabilmente si allontanano dalla famiglia.

La ringraziamo dell’attenzione. Con osservanza e stima.

Le donne e gli uomini di Alitalia