Malloppo da padroni e palazzinari: Calenda è il candidato de’ Paperoni

Per la comunicazione ha scelto una delle più potenti società al mondo: Publicis, multinazionale francese proprietaria di marchi come Saatchi&Saatchi e Leo Burnett. Carlo Calenda nel 2020 ha speso circa 400mila euro per comunicare al meglio le idee di Azione. Per un partito nato due anni fa, con quattro parlamentari all’attivo, è una cifra invidiabile. Ma d’altra parte Azione non ha problemi di soldi. La gestione – dati dell’ultimo bilancio – si è chiusa con un avanzo di 246mila euro. Molto meglio di buona parte dei concorrenti. L’ex dirigente di Confindustria può spendere tanto, perché riceve molte donazioni private: in proporzione al peso in Parlamento, più di tutti gli altri. L’anno scorso ha incassato 1,7 milioni, divisi quasi esclusivamente tra liquidità e 2×1000. Come già raccontato dal Fatto, la somma è costituita dalle regalie di alcuni dei più noti industriali e finanzieri italiani: dai Rocca ai Loro Piana, da Davide Serra a Patrizio Bertelli, da Carlo Pesenti ad Alberto Bombassei.

Per finanziare la campagna di Roma è stato creato un comitato ad hoc. I documenti pubblici sulle donazioni sono aggiornati a fine luglio e dicono che l’ex ministro dello Sviluppo economico aveva già raccolto 180mila euro. Tra i donatori più generosi c’è Massimo Caputi: l’ex capo di Prelios, tra i nomi più noti nella finanza immobiliare italiana, ha regalato 20mila euro. La sua società principale, Feidos, controlla aziende in vari settori: energie rinnovabili, crediti deteriorati, turismo, ma soprattutto il mattone, sempre caro a Caputi, che tra i vari interessi immobiliari ne ha parecchi anche su Roma. A una richiesta di commento, l’imprenditore non ha risposto.

Altri 20mila euro sono stati donati a Calenda dalla Italtronic, azienda padovana che produce contenitori di plastica per l’elettronica. Il numero uno, Alberto Baban, vice presidente di Confindustria, dice di averlo fatto perché “lui è l’unico candidato credibile per guidare la nostra amata Capitale”. Del Calenda ministro, Baban ricorda soprattutto “il suo piano Industria 4.0 (incentivi fiscali per comprare macchinari innovativi, ndr), che ha consentito a molte imprese come la mia di migliorare la propria competitività investendo e assumendo”.

Tutte le altre donazioni sono di cifre più contenute, dai 1.000 ai 5.000 euro massimo, ma i nomi dei mittenti aiutano a capire chi punta ad accreditarsi con Calenda in vista del post elezioni. Nella lista ci sono ad esempio il manager Giuseppe Recchi, ex presidente di Eni e Telecom Italia; l’imprenditore Luciano Cimmino, patron dei marchi Carpisa e Yamamay; il giovane Giordano Riello, erede della famiglia veneta specializzata in impianti di climatizzazione. “L’ho conosciuto quando ero presidente dei giovani di Confindustria Veneto: ha progetti concreti e mette l’economia al centro del Paese”, dice Riello, 30 anni, presidente di una delle società società del gruppo Giordano Riello International. Tra i donors di Calenda c’è anche l’ex presidente di Confindustria, Antonio D’Amato, e Diamara Parodi Delfino, moglie di Giancarlo Leone, già dirigente Rai e oggi presidente dell’Associazione produttori televisivi. Fanno parte del mondo della comunicazione anche altri due sponsor eccellenti: il produttore Pietro Valsecchi e l’editore Carlo Perrone. Valsecchi ha regalato 1.000 euro al comitato elettorale dell’ex assistente di Luca Cordero di Montezemolo. Più generoso – 5mila euro – è stato Perrone: già proprietario de Il Secolo XIX, oggi è vicepresidente di Gedi, il gruppo della famiglia Agnelli-Elkann che edita la Repubblica e La Stampa. Chiudono la lista dei sostenitori due renziani. Annalisa Renoldi, coordinatrice di Italia Viva in provincia di Varese (2mila euro), e Cesare Trevisani, vicepresidente del Gruppo Trevi (1.000 euro). Che c’entra Trevisani con Renzi? Fino a poco tempo l’imprenditore finanziava il senatore toscano: prima la Fondazione Open, poi il Comitato Leopolda 9 e 10. Ora ha scelto evidentemente di puntare su Calenda.

Roma, gli indecisi sono il 30%. La Raggi punta tutto su di loro

La partita delle elezioni amministrative a Roma è aperta. Più del previsto. Perché tra i molti sondaggi che girano nelle ultime ore, a partire da quello di Swg per La7 di mercoledì sera, ieri ne è uscito uno che aggiunge una fattore decisivo nella sfida per il Campidoglio, finora poco considerato: secondo la rilevazione di ieri di Affaritaliani.it, più di un romano su quattro (il 27,9%) è ancora indeciso su chi votare e deciderà a ridosso del voto.

Un bacino di voti ancora incerto che dà speranza alla sindaca Virginia Raggi, secondo le ultime rilevazioni tagliata fuori dal ballottaggio. Nel sondaggio infatti il dato di chi non ha ancora deciso viene scorporato per orientamento elettorale: il 51,9% di questi sono elettori di centrodestra, il 32,9% del M5S e il 10,1% del Pd. Un dato che dimostra una cosa precisa: se Raggi riuscisse a recuperare parte di quei voti avrebbe molte più possibilità di arrivare al secondo turno. E quindi, secondo fonti del M5S, la strategia della sindaca sarà proprio quella di provare a convincere quei romani ancora incerti per arrivare al ballottaggio. Un’impresa che al Campidoglio non viene considerata impossibile visto che secondo il sondaggio la distanza tra Raggi e il secondo candidato, il dem Roberto Gualtieri, non è incolmabile: in testa c’è il candidato del centrodestra Enrico Michetti (in una forchetta tra il 29,8 e il 33,8%), poi Gualtieri (24,3-28,3%), Raggi (19,1-23,1%) e al quar-
to posto Carlo Calenda (13,2-17,2%). Un distacco che la sindaca uscente del M5S spera di colmare recuperando anche solo una piccola parte da quel bacino di indecisi. Inoltre, spiegano fonti del M5S, sarà fondamentale capire quanto riuscirà a ottenere Calenda: al Campidoglio sono convinti che se il leader di Azione riuscisse a raggiungere ampiamente la doppia cifra potrebbe portare via molti voti a Gualtieri e Raggi avrebbe buone possibilità di arrivare al ballottaggio contro Michetti. Che nel frattempo arranca. Sebbene ancora al primo posto, trainato dalle liste di FdI, Lega e FI, Michetti è in discesa nel sondaggio di Affaritaliani.it realizzato tra il 30 agosto e il 4 settembre rispetto alla stessa rilevazione della settimana prima: un -0,1% che però è la spia della difficoltà del tribuno radiofonico nell’attirare elettori. Nel centrodestra gira anche un sondaggio secondo cui Michetti si attesterebbe al 31% rispetto al 34% delle liste di centrodestra: il candidato porta via voti alla coalizione.

Secondo la rilevazione di Affaritaliani.it, Raggi ha dalla sua anche la maggiore notorietà rispetto agli altri candidati: la conosce il 91,6% dei romani contro il 78,2% di Gualtieri, il 73,4% di Calenda e il 54,2% di Michetti. Infine, secondo i romani, i principali problemi della città sono la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (31,6%), il traffico (29,7%), l’inquinamento (28,7%), i mezzi pubblici (24,7%) e la pulizia delle strade (21,9%). Nelle ultime tre settimane di campagna elettorale i candidati a Roma, per vincere, si concentreranno su questi temi.

“Stare nel governo è faticoso. Sui ballottaggi decide Conte”

Le urne che si avvicinano, il tour di Giuseppe Conte da organizzare. Per la veterana del M5S, Paola Taverna, l’estate è già finita. E l’autunno sarà già tempo di responsi, pesanti.

Conte gira l’Italia per “seminare”, dice. Ma alle Amministrative Pd e 5Stelle andranno divisi in gran parte delle città e la coalizione è ancora lontana.

Conte ha spiegato più volte che il dialogo con il Pd si fonda su temi. Bisogna fare sintesi per rispondere ai cittadini. Dopodiché siamo in coalizione dove si è potuto costruire un percorso politico per tempo.

Intanto l’ex premier ha già messo le mani avanti: “Alle Amministrative abbiamo sempre avuto difficoltà”. Lei cosa si aspetta?

Conte sta facendo un tour perché vuole esserci, ci sta mettendo la faccia. Ed è evidente che l’affetto della gente per Giuseppe è grandissimo. Non voglio crearmi aspettative, ma vedo il riconoscimento di un leader. Poi se tutto questo avrà riscontri subito nelle urne non lo so, ma lo spero.

Ci saranno molti ballottaggi, e dovrete parlare con il Pd. Roberta Lombardi ha già fatto capire di essere pronta a sostenere il dem Gualtieri a Roma.

Il 3 e il 4 ottobre si vota per il primo turno, per i ballottaggi è presto. Ma ora abbiamo un capo politico, che ascolta e sa fare la sintesi. Il senso di marcia lo darà lui.

Però il M5S è ancora diviso: avete grandi difficoltà a ottenere le restituzioni dai parlamentari…

A livello di rapporti interni sono convinta che chi vuole il bene del M5S fa il bene del Movimento. Il percorso intrapreso è quello giusto, abbiamo una visione politica che mette al centro la persona. Ma la nostra rifondazione è ambiziosa, e dobbiamo avere tutti gli strumenti per essere più presenti e inclusivi sui territori.

Per strutturarvi a livello locale avete bisogno di soldi.

Assolutamente sì. Come sempre, chi vuole bene al M5S deve supportare il progetto

La segreteria arriverà dopo le Comunali?

Sì, ora siamo tutti troppo impegnati in altro.

Dalla base cosa vi dicono?

Io sto molto sui territori e vedo una gran voglia di ripartire. C’è vita su Marte (sorride, ndr). Ci danno spesso per morti, e invece io noto sempre voglia di rimettersi in gioco.

Ridirebbe che lo ius soli non è una priorità?

La partecipazione del M5S al confronto su questo tema è scontata, e noi ci saremo in modo attivo. Ma è ipocrita non dire che il Parlamento è impegnato su altri temi delicatissimi: dobbiamo allocare i miliardi del Pnrr e creare lavoro.

Lei è favorevole a uno ius soli o a uno ius culturae?

Ai tavoli valuteremo ciò che è meglio.

Per Conte il M5S non va accostato ai no vax. Ma per anni siete stati perlomeno ambigui sul tema, no?

Quando parliamo di campagna vaccinale, consapevolezza e informazione sono la strada maestra. Noi abbiamo affrontato un evento pandemico, prendendo misure straordinarie. Abbiamo fatto ciò che dovevamo fare, dimostrando come la pensiamo.

Sul Green pass la Lega sta con un piede dentro e uno fuori dal governo.

È quello che ha sempre fatto. Anche con noi i leghisti governavano, ma volevano stare anche all’opposizione. Ora il Carroccio deve essere chiaro su cosa vuole fare e come restare in questo governo faticoso.

Ecco, quanto è faticoso stare in questo governo?

Ci siamo entrati per incidere e difendere i nostri provvedimenti. È lo spirito con cui siamo entrati e con cui siamo rimasti. Uno spirito di servizio al Paese che ancora non è uscito del tutto da uno dei suoi momenti più difficili.

Vista la riforma Cartabia, incidere non è semplice…

Il risultato ottenuto ci ha ripagato del lavoro per migliorare quel provvedimento.

È sotto attacco anche il Reddito di cittadinanza.

I cittadini vanno difesi dagli scandalosi progetti di certi politici. Il reddito è stato una misura di civiltà: siamo disponibili a miglioramenti, ma nessuno si sogni di toglierlo.

Magari Draghi potrebbe andare al Quirinale, e così favorire elezioni anticipate…

Sono vicepresidente del Senato, e a maggior ragione aborro questo toto-nomi.

Da quanto non sente Beppe Grillo?

Ci sentiamo come al solito.

Miur, appalti corrotti per 23 milioni

Pagamenti in contanti, bonifici e regalie varie (per un totale di circa 500 mila euro) “in cambio” di affidamenti diretti e informazioni utili a vincere i bandi ministeriali. Per la Procura di Roma, Federico Bianchi di Castelbianco – imprenditore ed editore dell’agenzia di stampa Dire – si muoveva con tale “disinvoltura” in alcuni uffici del ministero dell’Istruzione che ad aprile scorso aveva perfino ricevuto il “compito” di “ripartire i finanziamenti alle scuole” per quasi 62 milioni di euro. Il tutto, “con la futura assegnazione a suo vantaggio di una quota parte”, pari a 8 milioni di euro. Bianchi da ieri è in carcere per corruzione: partecipava anche alle riunioni di riservate del Miur, organizzate da Giovanna Boda, ex dirigente ministeriale e ideatrice della “nave della legalità”, anche lei indagata per corruzione. Ai domiciliari due collaboratori di Boda, la segretaria Valentina Franco e l’autista personale Fabio Condoleo. Per i pm romani, le società di Bianchi di Castelbianco negli ultimi tre anni avrebbero vinto gare e ottenuto dal Miur l’assegnazione di progetti e servizi per 23 milioni e 537 mila euro, di cui 17,4 milioni sono stati già corrisposti. Nell’elenco degli investigatori figurano una ventina di pagamenti, promesse di dazioni di denaro e benefit vari che l’imprenditore avrebbe assicurato alla dirigente Boda, allora Capo del dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali. Fra questi, ricariche di Postepay, camere d’hotel, acquisti presso negozi d’abbigliamento, scuola di sci, solarium, noleggio di auto (Mercedes) e buste con contanti. “Utilità” che per gli inquirenti l’editore avrebbe concesso alla dirigente ministeriale anche promettendo l’assunzione presso le sue aziende di alcune persone segnalate . A beneficiare del presunto “rapporto corruttivo”, le società “Com.E. Comunicazione & Editoria srl” – che controlla l’agenzia Dire – destinataria di un “ingiusto profitto” per 6,1 milioni di euro; la “Istituto di Ortofonologia srl”, che avrebbe incassato “indebitamente” 9 milioni di euro; la “Edizioni Scientifiche Ma.Gi. srl” destinataria di 945mila euro. Le cinque società sono indagate.

Nelle carte dell’inchiesta, anche l’email ricevuta dall’editore il 5 ottobre 2020, contenente la bozza del bando “prima della sua pubblicazione” per il finanziamento di progetti scolastici per il contrasto alla povertà educativa. Dal carteggio, i pm evincono che Boda avrebbe anche “recepito le richieste di modifica da parte dell’imprenditore, consistite nell’aumento del tetto massimo di spesa definito per ciascuna delle due linee progettuali”. Il 14 aprile, giorno successivo alle perquisizioni della Finanza e alla notizia finita sulla stampa, Giovanna Boda aveva tentato il suicidio gettandosi dal balcone di uno studio legale. Nonostante questo “gesto estremo”, scrive il gip, “Bianchi ha continuato a mantenere rapporti privilegiati ed affaccendati all’interno del Dipartimento del Ministero”, con “la preziosa collaborazione di Franco e Condoleo”. “C’avete i telefoni sotto controllo come cazzo ve lo devo dire e c’ho pure il mio, mo basta”, diceva l’imprenditore intercettato: “Vi voglio proteggere, proteggo anche voi in questo modo, non è che proteggo solo me stesso”, affermava. Ieri Boda – che ha subito il sequestro preventivo di 340 mila euro – tramite il suo legale, Giulia Bongiorno, ha assicurato: “Ho sempre servito lo Stato con rigore e onestà”.

Scuola, Green pass per tutti: anche per i genitori negli asili

Mense e servizi di pulizie, certo. Ma non solo: il Green pass diventerà obbligatorio di riflesso anche per i genitori dei bambini più piccoli, almeno stando alle bozze del nuovo decreto circolate ieri e approvate in Consiglio dei ministri. “Fino al 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, al fine di tutelare la salute pubblica chiunque accede a tutte le strutture delle istituzioni scolastiche, educative e formative di cui all’articolo 9-ter e al comma 1 del presente articolo, deve possedere ed è tenuto a esibire la certificazione verde Covid-19”. Si escludono ovviamente dalla misura tutti gli studenti.

Messo così, il testo prevede quindi che di Green pass siano muniti anche i genitori che dovessero accompagnare e riprendere i bambini più piccoli, soprattutto nelle scuole dell’infanzia e alla primaria, o che dovessero entrare negli istituti per qualsiasi altra ragione. Il controllo di ingressi e uscita potrebbero essere un problema dato che certo non si potrà chiedere al personale scolastico, al tempo stesso, di verificare il Green pass dei genitori e di accompagnare fino all’esterno i bambini, rischiando di lasciare inevitabilmente scoperte le classi e gli altri compiti. Così come complicazioni avranno i giorni di adattamento previsti per gli asili nido e le scuole dell’infanzia che prevedono la presenza dei genitori per alcuni giorni all’interno delle strutture.

Il primo a introdurre questa modalità era stato, ad esempio, il Comune di Firenze. Secondo le linee guida approvate dall’amministrazione, non solo il personale educativo- scolastico all’ingresso doveva esibire la certificazione verde ed averne l’ok dopo la scansione del codice Qr con la App “VerificaC19”, ma lo stesso dovevano fare anche le aziende e realtà del terzo settore che gestiscono per le attività educative per conto dell’amministrazione e i genitori: per la fase di ambientamento era prevista “la dichiarazione del possesso del Green pass” proprio nell’attesa di una norma che ne introducesse l’obbligo.

Intanto, in ogni parte d’Italia si sta assistendo a una curiosa dinamica: alcuni genitori segnalano che le classi prime formatesi lo scorso anno stanno venendo accorpate quest’anno “per mancanza di personale”. Il motivo è molto semplice: i docenti Covid che l’anno scorso erano stati assunti per tutta la durata dell’anno e che quindi avevano permesso di sdoppiare le classi per mantenere il distanziamento, quest’anno non solo sono stati riconfermati solo al 31 dicembre ma anche esclusivamente per i recuperi scolastici. Dunque le classi nate direttamente sdoppiate e affidate a un docente Covid, quest’anno tornano insieme. All’istituto comprensivo Dante Alighieri di Roma le sezioni quest’anno sono passate da 6 a 4 proprio per questo motivo. “Per anni si è denunciata la pratica delle classi pollaio e se c’è stata una cosa positiva, in questo periodo drammatico, è stata proprio la possibilità di ridurre il numero degli alunni per classe. Oggi lo Stato ci chiede di tornare a prassi passate nocive e di non tenere conto dell’aumento di probabilità di contagio a cui andremo incontro in classi con numeri di alunni così aumentati e in gran parte ancora non vaccinati” hanno scritto i genitori al provveditore di Roma e Lazio, Rocco Pinneri. E i sindacati chiedono chiarimenti. “Le assegnazioni dei 422 milioni per l’organico docente e Ata definito ‘Covid’ sono state inviate agli Uffici scolastici regionali, ma in alcune regioni non sono state date indicazioni in merito ai possibili sdoppiamenti o alla formazione di gruppi di apprendimento come è avvenuto lo scorso anno” spiega la segretaria della Cisl Scuola, Maddalena Gissi, che ha denunciato anche un ritardo nella consegna da parte di diversi enti locali di aule che dovevano essere completate già dallo scorso anno. “I dirigenti sono in un limbo di incertezze”.

Salvini si piega ai “nordisti” e vota sì

Giovedì sera, dopo l’ennesimo voto della Lega con Fratelli d’Italia, è partita la trattativa. E Matteo Salvini stava tirando troppo la corda. Da una parte i messaggi con il barricadiero Claudio Borghi, dall’altra il filo diretto con Palazzo Chigi. Il segretario voleva di tutto, sotto forma di ordini del giorno: tamponi gratuiti per chi non si può vaccinare, validità di ogni tampone allungata a 72 ore, Green pass esteso a 12 mesi per chi è guarito dal Covid, risarcimento danni da vaccino e così via. In cambio la Lega avrebbe votato a favore del provvedimento sul Green pass. Ma alle 10 di sera, tutto sembrava saltato.

Troppo esose, e costose, le richieste del leader del Carroccio. “Se è così, domani ci asteniamo” ha minacciato Salvini. La linea sembrava quella. Muro contro muro. E invece no perché si sono mossi i nordisti. Quelli che da giorni sono spaesati dalla nuova linea di opposizione del Carroccio ispirata dai no Green pass Borghi, Bagnai, Siri. E allora Giancarlo Giorgetti ha consigliato al leader di scendere a più miti consigli e votare “sì”, lo stesso ha fatto il ministro Massimo Garavaglia, ma il carico ce lo ha messo il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, che più di tutti ha il polso del gruppo parlamentare: “Matteo, se ci asteniamo siamo fuori dal governo e in aula metà gruppo vota a favore. Ci facciamo una figuraccia tutti”. Minaccia che faceva perno su un dato: il giorno prima, su un emendamento di FdI, a scrutinio segreto erano mancati una trentina di voti leghisti. Tutti eletti del nord e tutti vicini a Giorgetti, Zaia e Fedriga. Per la prima volta Salvini si è sentito minacciato. E allora ha capito che l’astensione avrebbe creato più problemi a lui che al governo. Così si è rimesso a trattare. A due livelli: lui con Draghi (l’ultima telefonata è di ieri mattina) e i deputati interessati, a partire da Borghi, con il capo di gabinetto del premier Antonio Funiciello. “La nottata ha portato consiglio a Palazzo Chigi” ha scritto Borghi su Twitter. Alla fine qualcosa la Lega ha ottenuto, qualcosa no. Soprattutto perché i sei ordini del giorno accolti sono impegni generici.

Esultano tutti, soprattutto Borghi che fa la dichiarazione di voto finale al posto di Molinari (“Grazie agli amici di FdI per il lavoro fatto insieme”) e si presenta entusiasta dai cronisti fuori Montecitorio. Resta la faida interna arginata con il timido “sì” nel voto finale. All’appello però mancano 87 voti di deputati leghisti: dicono “sì” solo 32 su 145. Molti assenti (tra cui Molinari) sono eletti del nord che non digeriscono la linea di Borghi&c. Nessuno vuole fare la pelle a Salvini, ma intanto si organizzano e mandano segnali. “In una settimana abbiamo votato no, astensione e poi sì – dice uno di questi – così al governo non possiamo starci. Matteo ha tanta voglia di Papeete”.

Ora Draghi lo ammette: la Lega è un problema

Un Consiglio dei ministri liscio come l’olio, per non dire low profile, quello che ieri ha dato il via all’estensione del Green pass obbligatorio per tutti i lavoratori delle “istituzioni scolastiche, educative e formative” e all’obbligo vaccinale per i lavoratori esterni delle Rsa. Non c’è stata una cabina di regia, non ci sono state conferenze stampa successive, ma neanche voci di dissenso durante la riunione, tanto meno voti contrari. I ministri leghisti sono rimasti in silenzio, mentre Mario Draghi ha annunciato l’estensione del Green pass a breve, ma con gradualità.

Ma se questa è la scena, il dietro le quinte racconta di una trattativa continua e parallela con la Lega, passata anche per una telefonata tra il premier e Matteo Salvini. E per qualche concessione al Carroccio, negli ordini del giorno presentati alla Camera: tamponi a prezzo simbolico per minorenni e famiglie in difficoltà, riconoscimento del tampone salivare rapido, risarcimento per eventuali danni del vaccino, il rinvio, la rateizzazione e la rottamazione delle cartelle esattoriale. Cose da inserire in prossimi provvedimenti. Salvini ieri in Calabria ha pure parlato di un no all’estensione totale dell’obbligo del certificato verde per i lavoratori. E qui si vede tutta l’ambiguità della situazione. Perché l’intenzione di Draghi è quella di estenderlo a tutti i lavoratori. Ma rispetto alla tabella di marcia iniziale la tempistica è molto rallentata. Perché non si parla più della prossima settimana, ma delle “prossime settimane”. E perché si parte dalla Pa, o forse si fanno addirittura prima ristoratori, istruttori sportivi, addetti agli spettacoli, e si rimanda il provvedimento per il privato, mentre a un certo punto si era parlato di un unico testo.

Le difficoltà sono varie e molteplici, ma la prima è politica: la Lega è in una situazione di crisi evidente anche vista da Palazzo Chigi, che rende ogni accordo fragile. Draghi c’è già passato nella trattativa sulla giustizia con i Cinque Stelle. Governare con un sistema di partiti progressivamente sempre più debole inserisce un numero di variabili impazzite difficile da gestire. E se quello sull’estensione del Green pass è il primo problema reputato davvero tale dal premier con il Carroccio, andando avanti le cose potrebbero anche peggiorare. Se Salvini perde le Amministrative, le mosse nel centrodestra potrebbero diventare scomposte: dal tentativo di eleggere un presidente della Repubblica solo con i loro voti al quarto scrutinio, a quello di mandare Draghi al Colle per ottenere le elezioni. Il voto finale ieri del decreto sul Green pass alla Camera, d’altra parte, la dice lunga: a essere assenti erano 87 deputati del Carroccio. Il tasso di dissidenza in rende quel partito instabile. E di conseguenza è più instabile il governo.

Tornando all’oggi, nel decreto approvato ieri dal Cdm, l’obbligo di esibire il pass vale per chiunque entri in una scuola, ma non riguarda gli studenti e chi è esentato dal vaccino, mentre vale per chiunque accede alle strutture appartenenti alle istituzioni universitarie e dell’alta formazione artistica musicale e coreutica, nonché alle altre istituzioni di alta formazione collegate alle università. I controlli spettano ai dirigenti scolastici e nel caso di personale esterno alle scuole, anche ai rispettivi datori di lavoro.

E poi c’è l’obbligo di vaccino per tutti i lavoratori delle Rsa: una scelta che alcuni nel governo vedono come un precedente, ma che a Palazzo Chigi considerano un percorso obbligato, mentre l’estensione tout court è considerata impossibile. Poi è saltata la norma per cui a controllare l’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte di medici, infermieri e altri professionisti sanitari dovevano essere i dirigenti delle Asl. Un’aporia che indebolisce la scelta.

Bianchi a rotelle

Mercoledì Draghi ha esautorato Andrea De Pasquale, neo-sovrintendente dell’Archivio di Stato, dalla guida del comitato per la desecretazione degli atti sulle stragi. L’ha fatto dopo la campagna dei familiari delle vittime, di intellettuali come Tomaso Montanari e del Fatto, contro l’ex presiedente di quella Biblioteca nazionale che aveva tessuto le lodi del neofascista Pino Rauti. In due mesi è il terzo “impresentabile” segnalato dal nostro giornale, dopo Farina e Durigon, che perde il posto per indegnità. La decisione fa onore a Draghi, anche se queste improvvise sparizioni meriterebbero una parola di motivazione. Ma dimostra anche che una stampa libera e dunque critica aiuta i governi a sbagliare meno e, ogni tanto, a rimediare ai loro errori. Ai governi Conte la stampa non perdonava nulla (neppure i meriti), dunque i ministri si sentivano ogni minuto sotto esame. Al governo Draghi perdona tutto, dipingendolo apoditticamente come una covata di fenomeni, di cui peraltro sfuggono le imprese memorabili. Così i ministri, a furia di sbagliare senza l’ombra di una critica, si credono infallibili. E sbagliano ancor di più.

Oltre agli imbarazzanti Cartabia, Cingolani e Brunetta, c’è il catastrofico Bianchi, l’ectoplasma che chiamiamo “ministro dell’Istruzione”. Quello che “la scuola sarà la prima a riaprire” (invece è la prima a richiudere). Quello che “l’anno scolastico durerà di più per recuperare” (invece è durato meno). Quello che “scuole aperte tutta l’estate” (sì, buonanotte). Quello che “non faremo sanatorie” (ha fatto quella dei precari). Quello che “ho immesso 59mila nuovi insegnanti” (ma 53mila sono merito della Azzolina). Quello che “nelle classi con tutti vaccinati si possono togliere le mascherine” (ma il vaccino non esclude il contagio). Quello che “abbiamo fatto un lavoro titanico per far ripartire la scuola in sicurezza”. E invece ha fatto poco o nulla: le aule sono più o meno le stesse di un anno fa, quando l’Azzolina in pochi mesi ne trovò 40mila in più e non bastavano ancora per evitare l’effetto “pollaio” e garantire il distanziamento di un metro. Ma la Azzolina, essendo 5Stelle, era pessima per definizione: una “ministra a rotelle” a causa dei 400mila banchi a seduta innovativa (su 2,4 milioni) ordinati non da lei, ma dai dirigenti scolastici. Ora si scopre che, dopo un anno, le classi-pollaio sono ancora una su dieci, anche se Bianchi le chiama “soprannumerarie” (non riuscendo a cambiare le cose, cambia i nomi). Infatti la sua inerzia ha costretto il Cts a imporre comicamente la “distanza interpersonale di almeno un metro” solo “qualora logisticamente possibile”. La scuola come la Casa delle Libertà di Corrado Guzzanti: “Fate un po’ come cazzo vi pare”.

Tutti i superpoteri di “Freaks out” per battere Sorrentino nella corsa all’Oscar

Lo spaghetti fantasy è servito. Venezia 78 accoglie in Concorso l’atteso Freaks Out di Gabriele Mainetti, che dopo “scogli produttivi, ventisei settimane anziché le preventivate dodici di riprese, una pandemia e quattro mesi al mix” arriverà anche in sala dal 28 ottobre. Scritto da Nicola Guaglianone come il precedente Lo chiamavano Jeeg Robot, segue nella Roma occupata del 1943 quattro “fenomeni da baraccone”, la bruciante Matilde (Aurora Giovinazzo), l’insettivologo Cencio (Pietro Castellitto), il pelosissimo Fulvio (Claudio Santamaria) e il magnetico Mario (Giancarlo Martini), che vivono affratellati nel circo di Israel: i loro superpoteri fanno gola ai nazisti (Franz Rogowski), che potrebbero piegare a proprio favore le sorti della guerra. Budget di tredici milioni di euro, Freaks Out mutua il titolo dal classico di Tod Browning, e per i canoni del nostro cinema è qualcosa di monstre: nell’impianto produttivo, nelle dimensioni, nelle ambizioni, meno negli esiti. Soprattutto se raffrontati su scala internazionale: Guaglianone rintraccia lo specifico italiano nell’essere “un film non di supereroi, ma di uomini con superpoteri”, Mainetti nell’alterità rispetto “ai pupazzi all’interno rettangolo con costumi sgargianti” dei superhero movies hollywoodiani, ma Freaks Out ha i crismi del made in Italy da esportazione? Davvero è un’alternativa compiuta ai film “due camere e cucina” che Mainetti vorrebbe lasciarsi alle spalle, davvero è una sfida di sistema, ossia industrialmente accettabile al netto del contributo finanziario dello stesso Mainetti, davvero il fatto che sia grande, sperabilmente too big to fail, dovrebbe nascondere gli effetti non sempre speciali, le carenze sul piano drammatico, ovvero emotivo, le lungaggini e una battaglia finale assai perfettibile? No, una cosa grande non è necessariamente una grande cosa. Se la crescente tensione del nostro cinema al fantasy – si pensi a Tale of Tales e Pinocchio di Matteo Garrone – è evidente, ancor più lo sono le sue matrici nostrane, il Neorealismo (più o meno magico), Fellini e i B-movies, cui il ragazzo degli Anni Ottanta Mainetti appoggia la propria enciclopedia di genere internazionale. Ci sono buone cose – poeticamente la migliore è il confronto scivoloso handicap/superpotere – ma il risultato di Freaks Out è inferiore alla somma delle sue ispirazioni e aspirazioni. La competizione del Lido saprà valutarne l’effettivo valore e le possibilità di successo: la candidatura all’Oscar per l’Italia, per Mainetti o Sorrentino, passa da qui.

L’occhio di Dumas su amori, avventure e vita di casa Savoia

Il quotidiano torinese Gazzetta del Popolo-L’Italiano dava notizia, il 29 giugno 1852, che “il signor Claudio Perrin, editore di opere illustrate, sta ora trattando col celeberrimo Alessandro Dumas per un’opera che agli occhi dell’intera Italia acquista oggidì il pregio di una grande opportunità e di una somma importanza. Trattasi di un Romanzo Storico dell’Augusta Casa di Savoia, il quale ne abbraccerà le epoche più luminose, cioè i regni di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele I, di Vittorio Amedeo II, e di Carlo Alberto”.

Alexandre Dumas (1802- 1870) e Perrin, editore, litografo e incisore di Torino, mantennero la parola. A partire da quel 1852 cominciarono a uscire i tomi del ciclo storico romanzesco dal titolo La Maison de Savoie – Depuis 1555, Jusqu’à 1850, ovvero duecentocinquantuno fascicoli illustrati, stampati contemporaneamente in francese e nella traduzione italiana di Michelangelo Pinto. Quest’ultimo, un letterato, diplomatico e patriota romano in esilio a Torino, come rammenta il critico Marco Catucci, “pensò bene di ‘migliorare’ l’originale rendendolo in una prosa ridondante e retorica”.

Catucci è uno dei protagonisti della ristampa del terzo volume del ciclo sabaudo di Dumas, ossia Casa di Savoia: La dama di voluttà-Carlo Emanuele III (Robin-Biblioteca del Vascello, pagg.650, euro 22), che viene ora edito in Italia a oltre 160 anni dall’edizione del Perrin del 1855. Il libro è stato curato da Romina Valesio e contiene il saggio introduttivo di Catucci su Alexandre Dumas e la Comtesse Dash, al secolo Gabrielle Anne Cisternes, una dei tanti collaboratori (o “negri”) dell’autore dei Tre moschettieri, che per il terzo volume dell’opera sui Savoia scrisse le memorie fasulle di Jeanne d’Albert de Luynes, contessa di Verrua, per dieci anni l’amante, o “dama di voluttà”, del duca e poi re di Sardegna Vittorio Anedeo II di Savoia. Già dall’incipit del romanzone, la Dash non smentì la sua fama di narratrice fantasiosa. Tanto che attribuì nientemeno che a Voltaire l’ispiratore delle memorie del tutto presunte della Verrua: “Mettete sulla carta tutto ciò che mi avete raccontato questa sera e altre cose ancora, e ancora: tutto quello che ricordate. Non serve nulla di più, ve lo giuro”.

Alla stregua delle altre narrazioni di Dumas, e dei suoi “negri”, nelle vicende savoiarde predomina un continuo gioco degli specchi fra storia vera e invenzione. Osserva Caticci che “Sorprende ritrovare, in questo volume scritto a quattro mani, la risoluzione inconscia dei conflitti personali dei due diversi autori. Lo scandalo della Verrua, maîtresse del duca di Savoia, narrata da una viscontessa fuggita con un principe moldavo, e il rapporto spesso conflittuale tra Alexandre père e Alexandre fils, ingigantito nella vicenda tra Vittorio Amedeo II e suo figlio, risolto poi in un finale rasserenante da Dumas nella conclusione del romanzo di Carlo Emanuele III”. Ma “anche nelle false memorie della Verrua imbastite dalla contessa Dash”, scrive il critico, “possiamo trovare traccia della vicenda contemporanea vissuta da Dumas. È un curioso episodio in cui si narra di una avventura amorosa del duca d’Orléans, che si reca in incognito a Torino durante l’assedio travestito da micheletto, grazie al salvacondotto rilasciatogli dal duca, proprio come Dumas compiva le sue rapide incursioni a Parigi con un salvacondotto”.

Due figure indimenticabili di donne risaltano nella storia di Vittorio Amedeo II e del figlio Carlo Emanuele III, che peraltro fece imprigionare il padre nel castello di Rivoli e poi a Moncalieri, dove morì nell’autunno del 1732. Con la Verrua, Dumas racconta l’altra amante di Vittorio Amedeo, sposata morganaticamente: quell’Anna Canalis di Cumiana e di San Sebastiano, marchesa di Spigno, morta in convento. Nell’edizione Perrin, annota Catucci, il capitolo “dedicato all’amore giovanile della Cumiana con Vittorio Amedeo e del suo frettoloso matrimonio con il conte di San Sebastiano, è soppresso da Dumas, e viene ripristinato solo a partire dall’edizione Schnée, Bruxelles et Leipzig, Aug. et Comp.ie, 1857. La conclusione della storia della vecchia dama e del suo incontro con Carlo Emanuele al convento di Pinerolo, che avviene nel secondo romanzo, è invece “una felice invenzione dumasiana”. Come ha fatto e farà in tanti romanzi, il geniale Alexandre si permette pure “nella Maison de Savoie alcuni anacronismi. Il padre Beccaria, ad esempio, famoso scienziato del Settecento, affiliato alla massoneria, non poteva certo sedersi al caffè con i cospiratori nel 1730, essendo nato nel 1716”. A Dumas, però, si può scusare questo e altro.