Quanto era “Django” Corbucci

Sui suoi set, ricorda l’attore feticcio Franco Nero, la carneficina era quotidiana: “Quanti ne ammazziamo oggi, venti, venticinque, trenta?”. “Da Mauro Bolognini ho imparato l’eleganza, da Roberto Rossellini il racconto, da lui la crudeltà: era sanguinario”, confessa Ruggero Deodato. “I suoi western erano i più violenti possibili”, osserva uno che l’ha studiato bene, benissimo: Quentin Tarantino. Dopo Bastardi senza gloria, avrebbe voluto dedicargli un libro, aveva già il titolo: The other Sergio, ovvero – come promette a Leonardo Di Caprio il suo C’era una volta a… Hollywood – “il secondo miglior regista di western italiani”. Il primo è Sergio Leone, poi lui, Sergio Corbucci. Tarantino non concorda con chi vuole John Ford il miglior regista americano di western, nondimeno, guardando al secondo gradino del podio stelle & strisce individua l’incertezza: Peckinpah, Hawks, Walsh, a chi spetterebbe? Questo dubbio al di qua dell’oceano non esiste: è Corbucci, il demiurgo degli spaghetti western Django, Il grande silenzio, Gli specialisti, Il mercenario, Vamos a matar compañeros, Cosa c’entriamo noi con la rivoluzione.

Tarantino li compulsa con ardore e competenza, e se molto probabilmente quel libro non lo leggeremo mai, ci possiamo consolare: la versione di Quentin si riversa nel bel documentario Django & Django, di cui sono autori Steve Della Casa e Luca Rea, che firma anche la regia. Il titolo associa il Django di Corbucci del 1966 e il Django Unchained di Tarantino nel 2012, e tra eredità esibite e simmetrie palesi Franco Nero individua un’occorrenza più sottile: “In Django gli oppressi sono i peones messicani, così come in Compañeros, e non c’è un eroe americano. Tarantino in Django Unchained fa lo stesso: gli oppressi sono i neri”. Non è un’osservazione estemporanea, delle redini ideologiche imbrigliavano cavalli, indirizzavano pallottole, animavano cowboys: “Io allora ero giovanissimo, non ne ero cosciente. L’ho scoperto dopo Il mercenario e Vamos a matar compañeros, lì ho capito che Sergio combatteva contro il fascismo, che tutti i suoi film erano politici”. Tarantino rincara la dose e certifica antifascista la violenza di Corbucci: “Tutto il suo cinema ruota intorno al fascismo”, ossia perfeziona l’abbattimento degli archetipi fascisti. Il regista non rintraccia solo l’imperativo morale cinematografico, ma la genesi biografica: Sergio cantava nel coro delle voci bianche fasciste, e “a un certo punto si trovò a un metro e mezzo da Mussolini e Hitler”. Non dimenticò, e affidò al grande schermo la risposta dei suoi primigeni bastardi senza gloria: “Il grande silenzio parla anche di Vietnam e Terzo Mondo, si riferisce a fascismo e nazismo. Credo – diceva Sergio – che tutti debbano combattere il fascismo”. Tarantino narratore e analista – “I pistoleros di Sergio sono supereroi a cui però toglie i poteri” – d’eccezione, talking heads il prediletto Nero (“Ford aveva John Wayne, io avevo Franco”) e Deodato (aiutoregista di Django), il documentario si deve all’iniziativa di Nicoletta Ercole, che produce con la sua Nicomax: “Dopo La lucida follia di Marco Ferreri, ho voluto ricordare l’altro mio padre cinematografico, che seppe dare fiducia a una piccola assistente costumista. Ogni primo giorno di set mi obbligava a dire la verità: ‘Corbucci m’è padre a me’”. La mano sulla testa di Django & Django l’ha tenuta la moglie, Nori Corbucci: “Il progetto è nato a casa di Tilde Corsi, qui co-produttrice, e lei ne era entusiasta. Purtroppo, Nori è morta di Covid, lo stesso giorno in cui abbiamo ricevuto i contributi selettivi del Ministero: ci ha benedetto dall’alto”. Prezioso tanto nel repertorio del Luce che nei Super8 di Corbucci rinvenuti dalla Ercole, filologicamente montato da Stuart Mabey, Luca Rea vi ha saputo finalizzare la ventennale amicizia con Tarantino: un’opera appassionata, sapiente e godibilissima. È Della Casa a illuminarne il segreto: “Nessuna nostalgia, Quentin ci insegna la valenza di quei film rispetto all’oggi: fuori dalle teche, dentro la vita”.

Tienanmen resta un tabù: chi lo ricorda finisce in galera

Il Dipartimento per la Sicurezza nazionale della polizia di Hong Kong ha arrestato ieri quattro membri del gruppo pro democrazia Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements, che ogni anno organizza la commemorazione delle vittime della repressione cinese del giugno del 1989, con cui l’esercito cinese soffocò nel sangue il movimento di protesta studentesco contro il governo centrale convenuto a piazza Tiananmen, a Pechino. È una celebrazione di grande valore simbolico, con cui gli attivisti pro-democrazia dell’isola da anni ricordano un evento che in Cina è un tabù storico e politico, completamente e brutalmente eradicato dalla memoria pubblica collettiva.

Secondo quanto riporta Reuters, fra gli arrestati c’è l’attivista e avvocato Chow Hang Tung, che martedì si era recata al quartiere generale della polizia per ribadire il suo rifiuto a collaborare con la richiesta di informazioni su affiliati, attività e conti dell’Alliance, organizzazione che la polizia accusa di ‘essere un agente di forze straniere’. Chow è stata arrestata poche ore prima dell’udienza per la scarcerazione della sua cliente e politica di opposizione Gwyneth Ho, a sua volta accusata di sovversione.

I leader dell’Alliance, Albert Ho e Lee Cheuk-yan, sono già in carcere per la loro partecipazione alle proteste del 2019. I quattro fermati di ieri rischiano una multa di 100 mila dollari di Hong Kong (circa 10 mila euro) e fino a sei mesi di carcere per aver violato la legge di sicurezza nazionale, un insieme di norme che impedisce ogni dissenso sotto la definizione ombrello dei reati di “sovversione, secessione, terrorismo e collusione con forze straniere” in un sistema in cui il governo fantoccio controlla sicurezza, magistratura, stampa e quel che resta del Legislative Council, il parlamento di Hong Kong. Costituzionalmente l’isola è una Regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese, ma la sua autonomia è ormai solo formale.

“L’aborto non è più un crimine”

Una sentenza storica che apre la strada alla depenalizzazione dell’aborto in Messico, quella presa dalla Suprema Corte di giustizia nazionale che ha annullato l’articolo 196 del codice penale dello Stato di Coahuila nel Nord del Paese.

M entre al di là del confine, in Texas, i repubblicani approvavano il divieto d’aborto anche in caso di incesto, il Messico lo rende possibile anche in uno Stato in cui fino a ieri, le donne che interrompevano volontariamente la gravidanza, si vedevano infliggere una pena da uno a tre anni di carcere. “Non ha niente a che vedere con la dottrina giuridica di questo Tribunale Costituzionale lo scenario nel quale una donna e le persone con capacità di procreare non possano porsi il dubbio di continuare o interrompere la gravidanza”, ha commentato il presidente della Corte suprema Luis María Aguilar ponente della richiesta, la cui decisione ha messo per la prima volta in Messico al centro il diritto di decidere delle donne. Da qui come ha proposto lo stesso Aguilar “ci si può unire tutti a favore dei diritti umani delle messicane e dei messicani”. Un’indicazione che venendo dal presidente del Supremo è di gran risonanza per gli Stati messicani – 28 su 32 – in cui l’aborto è considerato reato penale sia per chi lo decide che per chi lo pratica, a esclusione di Città del Messico, Oaxaca, Hidalgo e Veracruz, in cui l’interruzione di gravidanza, seppur in casi specifici, è consentita. Si tratta infatti di un precedente obbligato per tutti i tribunali del Paese che saranno costretti in caso di appello delle donne condannate per aver abortito, a decidere in favore di queste, fino a cambiare definitivamente il codice penale di ogni Stato pur evitando di passare per una legge nazionale, di difficile approvazione. Tra l’altro, la sentenza stabilisce anche un altro precedente avallando il trattamento sanitario pubblico e obbligatorio per le donne che interrompono la gravidanza volontariamente. Un passo avanti importante per un Paese in cui ogni anno si praticano tra i 750 mila e un milione di aborti clandestini, un terzo dei quali sfocia in complicazioni che richiedono cure d’urgenza, per non parlare delle donne che perdono la vita sotto ai ferri negli interventi. Per questo ad accogliere positivamente la sentenza del Supremo sono state anche le associazioni messicane pro-vita, contrarie all’aborto, ma altrettanto impegnate nella lotta alla mortalità femminile causata dalla criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza. “Da #Inmujeres festeggiamo la sentenza del @Scjn, un successo della lotta storica dei movimenti femministi e delle donne impegnate per i diritti umani e la giustizia” ha twittato l’account dell’Istituto nazionale delle donne. Bizzarro commento da parte di un’agenzia del governo che con il suo presidente, Andrés Manuel López Obrador, sull’aborto si è lavato le mani rimandando alla Corte ogni decisione.

Talib, il nuovo governo è piaciuto solo al Qatar

C’è molta prudenza, anzi diffidenza, intorno al nuovo governo afghano, l’annuncio della cui formazione ha riservato numerose sorprese alle intelligence occidentali, senza, però, soddisfare né Cina né Russia. Mettendo l’accento sul carattere provvisorio dell’esecutivo e sull’interim di alcune nomine, i talebani volevano forse suggerire che i giochi non sono tutti fatti e lasciare la porta aperta ad alcune alternative ‘inclusive’, ma hanno in realtà trasmesso un messaggio di incertezza e instabilità, divisioni interne e leadership conflittuali.

Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, in video-conferenza con i colleghi dei Paesi che confinano con l’Afghanistan, Pakistan, Iran, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, ha detto che l’esecutivo dei talebani “dovrà mantenere le sue promesse per ottenere un maggiore riconoscimento globale” e che la natura “provvisoria mostra che il futuro del Paese è ancora incerto”. L’apertura di credito maggiore viene dal Qatar, il Paese che ha ospitato i negoziati fra talebani e Stati Uniti ed è ora divenuto l’hub delle sedi provvisorie delle ambasciate occidentali, precauzionalmente chiuse a Kabul. Secondo il vice-ministro degli Esteri e portavoce dell’Emirato, Lolwah al-Khater, i talebani stanno mostrando “pragmatismo” e vanno considerati “governanti de facto” dell’Afghanistan. Neppure al-Khater, però, ipotizza il riconoscimento del nuovo regime, che anche la Russia aspetta “alla prova dei fatti”. Freddezza anche da parte della Turchia, che sta negoziando con i talebani per garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul. “Seguiamo con attenzione il processo com’è doveroso, ma non sappiamo quanto durerà questo governo provvisorio”, dice il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Più netta di tutte, per una volta, la presa di posizione dell’Ue, secondo cui il governo dei talebani non è né “inclusivo” né “rappresentativo della ricca diversità etnica e religiosa dell’Afghanistan”: non è quello che “speravamo di vedere e che i talebani avevano promesso nelle ultime settimane”, è il giudizio della Commissione europea. C’è stato anche un consulto Nato, a livello di ministri degli Esteri, promosso dal segretario di Stato Usa Antony Blinken e dal ministro tedesco Heiko Maas. Blinken ha informato i suoi colleghi che i talebani non consentono, per il momento, la ripresa dei voli di evacuazione: “Faremo quanto possibile per ricominciarli al più presto”. Ancora Blinken, intervistato dall’emittente di Kabul, Tolo News, ha ricordato che la notte prima di fuggire, l’allora presidente Ashraf Ghani aveva detto “di essere pronto a combattere fino alla morte” rispondendo così alla domanda se Washington avesse aiutato Ghani a fuggire all’estero. Tutti d’accordo nel chiedere che l’Afghanistan “non torni a essere un rifugio per i terroristi” e che i talebani “mantengano i loro impegni sui diritti umani” e gli aiuti e i corridoi umanitari, scrive il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg.

“Non possiamo transigere sul rispetto dei diritti acquisiti dai civili afghani in questi 20 anni. La nomina di ieri dei nuovi ministri afghani desta molte preoccupazioni”, ha detto il ministro Luigi Di Maio. Contro il governo di soli uomini, decine di donne hanno ieri protestato a Kabul e nella provincia di Badakhshan, nel Nord-Est: fra gli slogan, ‘Nessun governo può negare la presenza delle donne’ e ‘Lunga vita alle donne in Afghanistan’. Le proteste, riferisce la Cnn, sono state disperse “con fruste e bastoni” dai talebani. Fermati e picchiati alcuni giornalisti, secondo testimoni.

Profughi, la Grecia se ne infischia

Quando due anni fa entrò in carica, l’attuale governo conservatore greco, il premier Kyriakos Mitsotakis aveva promesso un nuovo inizio nella politica greca per i rifugiati, impegnandosi a chiudere i campi sovraffollati come Moria, sull’isola di Lesbo. Quello che era stata definita la “vergogna d’Europa” per le condizioni disumane in cui 17 mila richiedenti asilo erano costretti a vivere, non venne però chiuso dalle autorità preposte bensì incendiato da alcuni profughi l’anno successivo a quella falsa promessa. Esasperati dalla mancanza di prospettive, se non continuare a vivere in quel girone dantesco, i 4 “piromani” di Moria per sé hanno ottenuto 10 anni di carcere e per i compagni di sventura un altro inferno, solo un po’ più piccolo ma altrettanto vergognoso: la tendopoli di Mavrovouni.

Chi pensa non sia poi male vivere in tenda su una spiaggia di un’isola greca avrebbe dovuto mettercisi dentro durante questa estate quando la colonnina di mercurio non è mai scesa sotto i 40 gradi. Ma anche Mavrovouni sarebbe dovuto essere solo un luogo di transito nell’attesa di analizzare la veridicità delle richieste di asilo o aiuto umanitario di chi arrivava dalla Turchia per entrare in Europa. La tendopoli con vista mare invece è ancora popolata da 4 mila e 200 persone.

A rendere la situazione ancora più intollerabile è il fatto che il 45 per cento dei residenti è costituito da minori. Alcuni di loro hanno tentato più volte il suicidio e il 90 per cento non può frequentare alcuna scuola. Durante i mesi scorsi un gruppo di ragazzini è stato preso in carico da altri paesi europei, specialmente la Germania. A un anno esatto dal rogo che ha incenerito Moria, dunque, il governo greco, pur avendo intascato dall’Unione europea milioni di euro per la creazione di strutture congrue a ospitare chi fugge dalle guerre, continua a usare la scusa della burocrazia (greca, non europea) per giustificare la propria ignavia.

Mitsotakis, allora, per tentare di tamponare le critiche dell’opposizione interna (Syriza) ed europea aveva affermato che nuovi campi erano già stati pianificati, e che nel frattempo sarebbe stato allestito un campo di emergenza sulla spiaggia di Mavrovouni, non lontano dalla capitale dell’isola, Mitilene. Kara Tepe, un rifugio vicino che avrebbe potuto offrire almeno ad alcuni migranti migliori condizioni di vita, è stato invece chiuso nell’aprile 2021 su ordine del governo. In sostituzione, è prevista la costruzione di un nuovo campo per diverse migliaia di persone nella più remota regione di Plati.

Inizialmente, il campo di Plati sarebbe dovuto diventare operativo nell’autunno di quest’anno, ma così non sarà. Secondo Atene il ritardo è dovuto al fatto che la popolazione locale non lo vuole e agli ostacoli burocratici. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), la maggior parte dei “bloccati” sulla sabbia di Lesbo è di origine afghana. Tanti loro ex vicini di tenda sono stati trasferiti nella Grecia continentale, o perché le loro domande di asilo sono state approvate o perché sono stati riconosciuti come “persone vulnerabili” bisognose di protezione speciale. Con la crisi umanitaria e politica in corso nell’Afghanistan tornato sotto il giogo talebano, forse la situazione potrebbe migliorare anche per loro. In realtà a spingere le autorità greche a portare sulla terraferma i dannati di “Moria 2” sono stati i politici locali dell’isola spinti, a propria volta, dalla popolazione che più volte nel corso di quest’anno si è unita alla guardia costiera per cacciare indietro i barconi con i migranti.

“Con il numero di rifugiati in calo, ora sarebbe il momento di iniziare i lavori di costruzione e riparazione del campo di Mavrovouni prima dell’arrivo dell’inverno”, ha detto ai media internazionali la portavoce dell’Unhcr, Stella Nanou.

Al momento invece la priorità assoluta di Atene è “un’efficace protezione delle frontiere”. All’inizio di luglio, il ministro della Migrazione Notis Mitarakis ha dichiarato che “questo governo ha ripreso il controllo della crisi dei rifugiati”.

Con i respingimenti, che la stessa Europa non ritiene, ipocritamente, il modo corretto per gestire questo immenso problema. Per questo Bruxelles sta minacciando di bloccare ulteriori finanziamenti per la guardia costiera greca. Intanto l’unica tenda dove i rifugiati di Mavrovouni possono andare una volta alla settimana per mangiare un pasto decente è quella “dell’Amicizia” di Sant’Egidio.

A 12 mesi dal rogo che ha incenerito Moria, il premier greco mostra di essere l’interprete perfetto del proverbio greco che recita: “Niente dura più a lungo di una soluzione temporanea”.

Il Covid19 è ancora in esplorazione

È stato pubblicato sulla rivista Environmental Microbiology, un interessante lavoro, “Sars-CoV2 Biology and Variants. Anticipation of virus evolution and what need to be done” (Biologia e varianti SARS-CoV-2: anticipazione dell’evoluzione virale e cosa deve essere fatto). Lo studio analizza il fenomeno pandemico da un punto di vista originale, quello del virus. La diffusione globale dell’epidemia, l’insorgenza di numerose varianti che hanno sostituito il ceppo originale, evidenzia che il virus è in una fase esplorativa del possibile spazio evolutivo. La crescente infettività è dovuta alla necessità di avere la possibilità di fare più tentativi per adattarsi all’uomo con successo. L’arrivo di una terza ondata pandemica è la prova che le misure adottate sono non adeguate. Gli autori criticano la convinzione che l’utilizzo massivo dei vaccini, insieme alle misure di contenimento farà tornare alla normalità, poiché, affermano, i vaccini stessi rappresentano una pressione selettiva per l’evoluzione delle varianti a essi resistenti. In assenza di terapie efficaci, assisteremo alla comparsa di nuove varianti e sarà probabilmente necessaria una periodica vaccinazione adeguata alle insorgenti mutazioni. È perciò essenziale capire come evolve SARS-CoV-2 e cosa ne limita l’evoluzione, al fine di anticipare le possibili mutazioni che emergeranno.

È “biologicamente” errato pensare alla pandemia e ai possibili rimedi come un fenomeno unico, con le stesse caratteristiche e possibilità di contenimento in tutto il mondo. Le strategie dovrebbero essere diversificate. Fare previsioni è rischioso, poiché l’evoluzione è miope e, per definizione, è testimoniata a posteriori. Se una mutazione nel genoma del virus avrà un effetto si vedrà nel corso del tempo, con esiti possibili diversi a seconda che la diffusione del virus sia rilevata a breve, medio o lungo termine.

Non è possibile predire il futuro ma abbiamo mezzi per avanzare ipotesi altamente probabili. Ciò vale per la pandemia in corso e deve valere per il futuro. Bisogna continuare studi epidemiologici e mappature genetiche. Guadagnare tempo fa la differenza.

 

Perché decrescere non è regredire

Non è raro, soprattutto a partire dal 2008, con l’esplosione della crisi, che il partigiano della decrescita si senta rispondere: “Ma la decrescita già c’è!”.

In effetti diversi Paesi sviluppati, per esempio l’Italia e la Grecia, in questo periodo hanno conosciuto una riduzione, e dunque una decrescita nel senso letterale del termine, del loro Pil. (…) Siamo di fronte alla confusione classica di tutti quelli che non hanno capito che la parola decrescita non deve essere presa alla lettera, ma è uno slogan provocatorio che vuole farla finita con l’ipocrisia della mitologia produttivista. In altri termini, il progetto alternativo della decrescita non va confuso con il fenomeno a cui gli economisti ormai danno piuttosto il nome di crescita negativa, formula paradossale per indicare il calo dell’indice feticcio delle società della crescita, il prodotto interno lordo (Pil). Si tratta di quello che i dizionari specializzati chiamano più classicamente recessione o depressione, oppure più nettamente declino (o ancora crollo, come nel caso dell’economia dell’Unione Sovietica dopo il 1989).

Come abbiamo visto, il progetto di una società di decrescita è radicalmente diverso da questa crescita negativa. (…) È certo, invece, che non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita. Su questo punto, e solo su questo, i partigiani accaniti della crescita hanno ragione. “Senza crescita nessuna politica sociale potrà far uscire le periferie dal vicolo cieco in cui si trovano. Senza crescita le speranze di promozione sociale svaniscono. Senza crescita, inutile sperare di rompere la spirale del deficit e del rimborso del debito” (parole dell’ex consigliere di Nicolas Sarkozy Henri Guaino). Effettivamente, il semplice rallentamento della crescita precipita le nostre società nello sgomento, a causa della disoccupazione, dell’aumento delle differenze tra ricchi e poveri, della minaccia al potere d’acquisto dei più deboli e dell’abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita in una società di mercato. L’austerità alla quale i nostri governanti ci condannano ci permette di immaginare quale catastrofe e quale regresso sociale e civile provocherebbe la persistenza di un tasso di crescita negativo!

Una situazione del genere faceva dire ad André Gorz: “Questo regresso della crescita e della produzione che, in un altro sistema, avrebbe potuto essere un bene (meno automobili, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più corte ecc.), avrà effetti completamente negativi: i prodotti inquinanti diventeranno beni di lusso, inaccessibili alla massa, rimanendo alla portata soltanto dei privilegiati, le disuguaglianze aumenteranno; i poveri diventeranno relativamente più poveri e i ricchi più ricchi”.

Gorz di fatto anticipava il contrasto tra una società di abbondanza frugale e una società della crescita senza crescita. Ma quello che ci minaccia, se non cambiamo rotta, è ancora peggio: in una crisi prolungata, si assisterà a un razionamento drammatico dei beni e delle risorse, che probabilmente porterà a conflitti planetari sempre più violenti. E una situazione del genere sarebbe il brodo di coltura di movimenti fascisti e xenofobi le cui avvisaglie sono già percepibili e che nel tempo, se l’umanità sopravvivesse al crollo, porterebbero alla gestione della penuria da parte di dittature, in scenari che la fantascienza ci ha ampiamente descritto.

Un classico delle accuse rivolte ai partigiani della decrescita è di volerci riportare, a scelta, alla candela o alla caverna, o ancora all’età della pietra o al buio Medioevo: insomma, il progetto di una società autonoma e frugale sarebbe antimoderno. E molto lontano dall’abbondanza, sia pur frugale. Gli obiettori di crescita potrebbero accettare la sfida e definirsi seriamente, come l’anarchico americano Paul Goodman, dei conservatori neolitici. In effetti, l’età della pietra, così come l’ha descritta Marshall Salhins nel suo famoso libro L’economia dell’età della pietra, corrisponde a una forma di abbondanza frugale: pochi bisogni, poche attività obbligate (caccia, pesca, raccolta) per soddisfarli, molto tempo libero e gioco. (…)

Effettivamente ci sono anche obiettori di crescita romantici che mostrano una certa nostalgia per un passato idealizzato (società tradizionale, se non primitiva). È il caso dell’anarcoprimitivista americano John Zerzan. D’altra parte, alcuni precursori anarchici della decrescita, oggi dimenticati, i naturisti, hanno sostenuto e in alcuni casi messo in pratica all’inizio del xx secolo, una filosofia non lontana da quella del cinico Diogene. È poco probabile comunque che un’ascesi del genere, peraltro non necessaria, seduca le popolazioni e che un progetto di trasformazione della società basato su una simile prospettiva possa essere scelto democraticamente.

L’idea maggioritaria di abbondanza frugale non è comunque quella del mantenimento del modo di vita comodo a cui siamo abituati, con in meno gli eccessi e gli sprechi. È certo d’altra parte che non è possibile tornare indietro, anche se alcuni percorsi devono essere invertiti e alcuni cicli ribaltati. Ci sono perdite provocate dal produttivismo che è legittimo deplorare e auspicabile recuperare (soprattutto la qualità dell’aria e dell’acqua). La massa dei nostri rimpianti che giustifica i regressi è proporzionale agli eccessi dei progressi. Dunque la decrescita non è effettivamente, per certi versi, un ritorno indietro che bisogna scontare? Per i terroristi della modernità, osserva sottilmente François Brune, l’ingiuria suprema è: “Combattete una battaglia di retroguardia!”. “È vero – scrive Brune – combattiamo una battaglia di retroguardia, ma paradossalmente questa battaglia si rivela… una battaglia per il futuro. Perché quando un esercito si trova in un vicolo cieco, presto o tardi bisogna che faccia dietrofront, e dunque la retroguardia si ritrova all’avamposto!”.

Insomma, i retrogradi diventano i veri progressisti! E a voler essere veramente progressisti, si può dire che “è sempre progressista essere in ritardo sulla cattiva strada”. Tuttavia, malgrado tutto questo, anche se la riduzione di alcuni consumi e di alcune produzioni è necessaria e spesso auspicabile per la salute fisica e mentale (il nucleare o l’automobilistico), non c’è motivo di condannarsi all’ascetismo se non è necessario all’equilibrio degli ecosistemi.

Ma al di là delle polemiche, rimane la questione tecnica: fino a che punto è concretamente necessario ridurre il nostro consumo di risorse naturali? (…) In Francia questo regresso ci porterebbe, lasciando le cose come stanno, statisticamente indietro, ma né al paleolitico né alla società preindustriale. Si ritornerebbe ai livelli degli anni Sessanta, che non sono certo l’età della pietra. Ma è fuori questione lasciare le cose come stanno, perché negli anni Sessanta avevamo già da un bel pezzo imboccato la strada fatale di una società della crescita senza limiti. Si tratterebbe al contrario di fare molto meglio con lo stesso consumo di risorse naturali, o anche minore, grazie a una ripartizione differente, una scelta più oculata delle produzioni e un progresso dell’efficienza ecologica, per non parlare dell’impulso che verrebbe dato allo sviluppo dei beni relazionali e dei beni comuni, fonti di un benessere autentico.

 

© 2019 Serge Latouche © 2021 Bollati Boringhieri editore

 

Exor: finalmente una buona notizia!

Lo confessiamo.Durante il primo lockdown certo pensavamo alla salute, ma una preoccupazione accessoria ci teneva svegli più di altre: come se la passeranno i Nasi Camerana, i Ferrero Ventimiglia, i Rattazzi, i Campello, i Teodorani-Fabbri, i Brandolini d’Adda, i de Pahlen e ovviamente – arrivando al nome che tutti li contiene – gli Agnelli? No, per carità, non s’intende qui rivangare quella spiacevole causa per l’eredità del babbo, detto l’Avvocato, intentata da Margherita Agnelli contro i suoi figli e sua madre Marella: lungi da noi voler speculare su incomprensioni che capitano in ogni famiglia che abbia un patrimonio di alcuni miliardi sbadatamente dimenticato all’estero. I timori venivano dal fatto che il crollo del Pil e dei mercati mondiali aveva fatto sbandare assai i conti della Exor, la finanziaria basata in Olanda che controlla il vasto impero riferito a quella che ai media italiani piaceva chiamare la “real casa di Villar Perosa”: è da Exor infatti – attraverso l’altrettanto olandese Giovanni Agnelli B.V. – che percolano i dividendi che danno modo alla folla di cognomi di cui sopra (un centinaio abbondante di persone e relative famiglie) di mettere assieme il pranzo, la cena e qualche serata fuori. E invece ieri, finalmente, una buona notizia: Exor torna in utile nel primo semestre 2021, il dopo Covid è davvero iniziato per tutti. Lasciamo la parola a Repubblica, che è di (real) casa: “La quota parte di Exor dei profitti delle partecipate ha raggiunto gli 1,37 miliardi di euro, a fronte della perdita di 1,26 miliardi del primo semestre 2020”. Sì, è vero, sull’anno fa una perdita di 200 milioni, ma il peggio è alle spalle. Nel 2020, per dire, la cedola staccata agli azionisti della Giovanni Agnelli B.V., com’è noto controllata da John Elkann attraverso la Società semplice Dicembre, s’era ridotta a 42 milioni, 16 dei quali finiti in tasca al capo-famiglia: gli altri, comprensibilmente, hanno dovuto tirare la cinghia. Quest’anno va già un po’ meglio: a giugno MF spiegò che il dividendo era salito a 52 milioni, permettendo a tutti, nell’estate che va finendo, di fare almeno una settimana di vacanza a Gatteo Mare. Dall’anno prossimo, però, sarà tutta vita: con questi conti di Exor ci scappa pure la pensione completa.

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Ci sono ancora troppi indecisi non vaccinati

Premesso che l’articolo 32 della Costituzione prevede “la possibilità di imporre un trattamento sanitario obbligatorio attraverso una legge”, in Italia esiste già dal 2017 l’obbligo di vaccinare i bambini (con ben 10 vaccini) pena la loro esclusione da asili nido e da scuola primaria, con multa per i genitori. E nessuno ha mai protestato al riguardo. Oggi sappiamo (dati Iss) che la vaccinazione anti-Covid, se si effettua il ciclo vaccinale completo, protegge: all’88% dal contagio (questo significa che la percentuale dei contagi in una popolazione vaccinata è circa 10 volte minore che quella in una popolazione non vaccinata), al 94% dal ricovero in ospedale, al 97% dal ricovero in terapia intensiva e al 96% da morte. Anche per Crisanti l’obbligo vaccinale “è un giusto passo verso la trasparenza”. Oggi in Italia i contrari al vaccino non sono venti milioni (come ha ragliato Siri) ma sono (fonte Pagella Politica, sulla base dei dati di un recente sondaggio lpsos) solo 3,5 milioni (su 60 milioni di abitanti), mentre gli indecisi sono 8,5 milioni. L’obbligo vaccinale potrebbe definitivamente convincere anche questi ultimi.

Paolo Malberti

 

Caro Paolo, io ne dubito, ma rispetto il suo pensiero.

m. trav.

 

Obbligo vaccinale: come si può mettere in pratica

Letta la lettera di Alessandro Gabardo e la risposta di Travaglio, mi viene da dire che l’obbligo si attiva in concreto con multe, non con l’arresto, per esempio. E se si facesse lo stesso suo ragionamento, dovremmo allora togliere anche tutte le altre leggi che portano al carcere, così siamo sicuri che le carceri non si riempiano… Ah, ma allora è lei che ha suggerito alla Cartabia, ora capisco!

Alessandro Peverelli

 

Ah, ok: allora pago la multa (che poi in Italia lo Stato non riesce a riscuotere) e non mi vaccino. Risultato: tutto come prima. È tanto difficile capire la differenza fra un trattamento sanitario e un divieto di sosta?

m. trav.

 

Draghi: né al Quirinale, né come nuovo premier

Io sono per: 1) elezione del presidente della Repubblica, che non sia Draghi (come giustamente fa notare Marco Travaglio, ci sono tantissimi altri candidati possibili, io ne faccio due: Casini o Franceschini); 2) sfiducia (o dimissioni) a Draghi e conseguente scioglimento delle Camere ed elezioni anticipate (con il Rosatellum? E che Rosatellum sia!); 3) nuovo governo con un capo che non sia Draghi.

Felice Simonelli

 

I politici devono smettere di intimidire la stampa

Sono davvero felice che abbiate vinto la causa per diffamazione intentata dall’ex ministra Madia; inoltre, avete fatto benissimo a dedicare mezza pagina del quotidiano a tale notizia e non il classico trafiletto. È giunto davvero il momento, infatti, di dare ampio risalto a queste notizie affinché uomini politici e di potere la smettano di intimidire la libera informazione (quella vera, come la vostra), credendosi al di sopra della legge. Devono tenere a mente che potrebbero subire l’umiliazione di un bell’articolo che ricordi ai lettori quanto la loro arroganza e presunzione spesso non è sufficiente a fargli vincere le cause! Che possiate vincerne altre 1000!

Roberto Raciti

 

La strategia di Giorgetti: dare il Rdc alle imprese

Leggendo la strategia di Giorgetti sul Reddito di cittadinanza, cioè darlo direttamente alle imprese, credo sia utile ricordare che chi attualmente lo percepisce non può farci quel che vuole, scialacquarlo o versarselo sul conto corrente, ma deve utilizzarlo in beni e servizi in modo trasparente. In altre parole, il Reddito di cittadinanza già va alle imprese, solo che, anziché darlo direttamente al fornaio, viene dato a chi è in grave difficoltà economica, affinché possa comprarci il pane. È una cosa così scandalosa? Grazie per l’impegno che il Fatto ci mette per difenderlo.

Gianmario Capponi

 

Serve un equo canone calcolato sullo stipendio

Bellissima l’ultima lettura diMassimo Fini sul Fatto. Da sola merita l’euro e 80 del costo. Spero sempre di leggerla. Non sarebbe male che il Fatto si sollevasse a temi di portata storica. Per esempio il problema delle abitazioni (i molti appartamenti chiusi: 100.000 a Roma, 10.000 a Verona con la lobby dei costruttori che vuole edificare ancora). Servirebbe un equo canone che non superi il 10% di quanto si guadagna; guadagno 1000 euro al mese? Pago 100 euro di affitto e così via. C’è gente che vive in case fatiscenti e deve pagare 6/700 euro al mese di affitto.

Giancarlo Fincato

 

I NOSTRI ERRORI

In merito all’articolo “Anfibi sporchi e scatti dal lager: Serena Dandini vince ‘I fiori blu’” apparso sul Fatto mercoledì 8 settembre a pag. 19, specifichiamo che Daniela Lucangeli, Maria Grazia Calandrone e Antonio Polito sono vincitori del Premio Speciale de “I fiori blu” insieme a Serena Dandini (a cui è stato invece assegnato il Premio della Giuria tecnica): non sono solo finalisti come li avevamo descritti nell’articolo. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

730 precompilato. Anche il Fisco concede sempre la seconda chance

 

Sono un pensionato e, come era nelle mie possibilità, quest’anno ho effettuato la dichiarazione del 730 utilizzando la precompilata. Purtroppo ho commesso un grossolano errore di cui mi sono accorto solo quando ho visionato il mio cedolino pensione di agosto 2021 dove mi sono visto accreditare la somma di 3 euro. E, a quanto mi è stato detto, la cosa avverrà anche per i successivi accrediti di tutto il 2021 e forse anche oltre. Sono andato nella mia sede delle Entrate dove, con mio grande e sconcertato stupore, mi hanno detto che non si può fare alcunché per effettuare la correzione e la sospensione dell’esoso prelievo, e mi hanno indicato di recarmi presso un qualsiasi Caf per risolvere la questione. L’ho fatto, ma gli stessi Caf (ne ho consultato più di uno) brancolano nel buio in quanto, trattandosi di precompilata, non sono previste modalità di intervento. Cosa che sarebbe stata possibile se il 730 fosse stato trattato dal Caf in sede di compilazione. A quanto pare, credo di essermi inserito in un vuoto normativo che sfocia in un contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e i Caf dei sindacati che con l’avvento della precompilata si sono visti sottratti un considerevole introito. Come è possibile tutto questo? Come devo fare? Perché recandomi presso l’Agenzia delle Entrate non è possibile risolvere la cosa? Come faccio a pagare i conti per i prossimi mesi?

Pasqualino Palomba

 

Gentile Palomba, è proprio il caso di fare il terzo incomodo tra l’Agenzia delle Entrate e i Caf soprattutto per cercare di semplificare e rendere più agevole questa sua esperienza con il Fisco che, ahimé, come quella di noi altri milioni di italiani resta sempre ostica. Senza poterci addentrare nella casistica specifica, va detto che non è vero che esiste un vuoto normativo. Se è già stato inviato un 730 e si ha la necessità di completare o correggere la dichiarazione, è possibile inviare entro il 30 novembre 2021 “Redditi aggiuntivo” oppure “Redditi correttivo”. Con il primo si “sana” il 730 precompilato se, per esempio, sono stati percepiti nel 2020 redditi soggetti a tassazione separata e a imposta sostitutiva o plusvalenze di natura finanziaria, ecc. Si presenta il “Redditi correttivo” se ci si accorge di aver dimenticato dei dati o di averli inseriti in modo errato. Caf o commercialisti dovrebbero saperla aiutare.

Patrizia De Rubertis