Addio case popolari: adesso a Milano c’è il “social housing”

Quando sento l’espressione “social housing” mi viene da mettere mano alla pistola (che, a differenza del candidato sindaco Luca Bernardo, non ho). Dovrebbe significare “edilizia sociale”, case per chi non è ricco. Ma mi chiedo: vi fa così schifo l’altra espressione, quella antica: “case popolari”? La politica (soprattutto di sinistra) non parla più di case popolari, ma propone il “social housing”.

C’è stato, in questi anni, uno slittamento lessicale. Il novecentesco “case popolari” è quasi sparito, coperto dallo scintillio del più cool “social housing”. Ma a ben guardare il cambiamento non è soltanto terminologico: è di paradigma sociale ed economico. Le case popolari sono un investimento di welfare che va a beneficio di chi una casa non se la può comprare e non può neppure pagare un affitto a prezzi di mercato, tanto più in una città cara come Milano. Il “social housing” offre case a prezzi calmierati, ma comunque sempre troppo alti per la fascia povera della popolazione. Ed è una parte del meccanismo finanziario con cui le città, Milano innanzitutto, stanno crescendo. Le banche e gli “sviluppatori” immobiliari mettono in conto che una parte delle loro realizzazioni saranno a rendimento più basso, ma compensato dal resto delle loro operazioni. Per dirla con termini novecenteschi: le case popolari sono la risposta pubblica al bisogno abitativo inteso come diritto di tutti a una casa decente; l’housing sociale è uno dei diversi modi con cui la finanza si occupa del bisogno abitativo inteso come innesco per investimenti finanziari. Due concezioni opposte tra loro, che segnalano – tra l’altro – il cambiamento genetico della sinistra avvenuto negli ultimi decenni.

Milano ha un consistente patrimonio immobiliare di case popolari, in parte gestite (malissimo) dalla Regione, in parte controllate direttamente dal Comune (tramite Mm). Un’amministrazione autenticamente di sinistra, ma anche semplicemente socialdemocratica, attenta al welfare, avrebbe massima cura di questo tesoro. Lo curerebbe come il polmone prezioso per fare della città un luogo plurale, dove possano convivere i ricchi di via Boccaccio e i poveri di Quarto Oggiaro. Invece il governo centrale e le amministrazioni locali hanno svenduto, a prezzi bassi, una bella fetta di case popolari, comprate da quegli inquilini che avevano la possibilità di sborsare comunque un bel malloppetto di euro. E Comune e Regione hanno lasciato nell’incuria interi quartieri, le cui abitazioni popolari senza manutenzione si sono ridotte a edifici fatiscenti. Il sindaco Giuseppe Sala durante il suo primo mandato ha ripetuto più volte di essere “ossessionato dalle periferie”. Ha sostenuto che sarebbero state la sua priorità. Fatevi un giro nelle periferie milanesi e vedrete con i vostri occhi che i risultati di questa “ossessione” non si vedono. Ci sono due Milano: quella scintillante del centro e quella fatiscente delle periferie. E non basta qualche piazzetta e qualche orrido “arredo urbano” a “riqualificare” quartieri abbandonati. Ora che i soldi del Pnrr pare che arrivino davvero, le due vere scommesse di un sindaco davvero “riformista” sarebbero la ristrutturazione radicale dei quartieri di edilizia popolare e un grande piano di edificazione di nuovi alloggi popolari. Per la prima, vedremo. Per la seconda, naturalmente, dovrebbe essere coinvolto anche il governo. Ma mi pare che l’attenzione del sindaco uscente sia catalizzata da altri programmi: villaggi olimpici a Porta Romana, tanto cemento sugli ex scali ferroviari, grattacieli a San Siro, arene a Santa Giulia. Sì, qua e là spuntano granelli di “social housing”, come una decorazione di rucola sulla cotoletta della Grande Milano, o un tocco di zenzero nel Moscow Mule dell’ape in via Lecco. Case popolari, addio. Sala ora ha altre ossessioni.

 

L’addio di De Pasquale è un bene ma la colpa è di Franceschini

La clamorosa destituzione del neosovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato Andrea De Pasquale dal coordinamento del comitato consultivo per le attività di desecretazione, decisa e annunciata dal presidente del Consiglio Mario Draghi, è una felicissima notizia. È una vittoria di Paolo Bolognesi, e con lui delle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi fasciste, che hanno combattuto con tenacia e straordinaria dignità. È una vittoria della comunità scientifica e intellettuale, che ha continuato a chiedere con forza le dimissioni di De Pasquale. È una vittoria della libera stampa, che non si è fatta intimidire dall’oscena canea fascista suscitata per oscurare la vicenda attraverso la solita strumentalizzazione delle Foibe. Ma è una vittoria ottenuta a caro prezzo. La presidenza del Consiglio dei ministri toglie non solo alla persona di Andrea De Pasquale, ma all’istituzione della sovrintendenza dell’Archivio centrale dello Stato, una funzione cruciale. Ancora una volta, l’organo politico erode la competenza tecnico-scientifica: questa volta lo fa per una giusta causa, ma come useranno i prossimi presidenti del Consiglio (magari di estrema destra) questo ulteriore potere (giacché sappiamo bene che da questi accentramenti non si torna indietro)? E ancora: quale credibilità avrà la Sovrintendenza dell’Archivio centrale dopo un simile colpo, inferto così clamorosamente in pubblico? E quale autorevolezza potrà mai avere, in generale, un De Pasquale già senza il titolo di archivista di Stato, e ora ridotto ad anatra zoppa?

E, d’altra parte, quale fiducia possono avere gli studiosi e i cittadini in una istituzione guidata da una figura sulla quale le riserve del capo del governo sono evidentemente così gravi? Se Draghi si è deciso a compiere un atto così irrituale, infatti, le preoccupazioni che in tanti abbiamo esposto sia sulla competenza archivistica, sia sull’imperdonabile “incidente” della celebrazione del Fondo Rauti non solo erano fondate, ma anche cogenti. Ma, allora, può De Pasquale avere la responsabilità di reggere una istituzione la cui delicatezza politica va ben oltre i pur cruciali segreti di Stato relativi alla stagione delle stragi? Davvero la memoria comune degli italiani può stare in mani che hanno così impensierito il pur moderatissimo Mario Draghi? Non c’è bisogno di dire che spetterebbe al dottor De Pasquale trarre le conseguenze di un così umiliante commissariamento: lasciando spontaneamente l’incarico. Ma il vero responsabile di questo imbarazzante incidente istituzionale è il ministro della Cultura, Dario Franceschini: che ha usato così male la delega conferitagli da Draghi per nominare il sovrintendente, da dover costringere poi lo stesso Draghi a intervenire, e ad amputare un pezzo importante delle competenze dell’organo. Franceschini ha umiliato e danneggiato il ministero che guida: perché oggi la presidenza del Consiglio dei ministri certifica coram populo che i ranghi dei Beni Culturali non sono in grado di reggere in mani sicure l’Archivio centrale dello Stato. C’era modo di evitare una simile figuraccia, e il danno che porta: il ministro avrebbe potuto e dovuto ascoltare i familiari delle vittime, gli studiosi, il suo stesso Consiglio superiore (chi scrive se ne è dimesso proprio per protestare contro la sordità del ministro): che, in coro, gli dicevano di non procedere a quella nomina. Invece, con l’arroganza che è ormai ben nota, ha tirato diritto: andando, come si è capito ieri, platealmente a sbattere insieme a tutta la struttura che gli è stata affidata. Franceschini ha scritto che si assumeva la completa responsabilità di quella nomina: ora che il nominato è stato messo in mora dal capo del suo stesso governo, ci dimostri che è persona di parola, che onora le proprie responsabilità. E si dimetta.

Gentiloni e quei politici che giocano in borsa

Quando intuì l’attitudine dell’Europarlamento verso i candidati commissari Ue con potenziali conflitti d’interessi o introiti discutibili, che porterà alla clamorosa bocciatura dell’ex ministra francese Sylvie Goulard, l’ex premier Paolo Gentiloni si affrettò a promettere di vendere le sue azioni e i fondi d’investimento multinazionali. Avrebbe altrimenti potuto perdere la poltrona degli Affari economici a Bruxelles anche solo per i suoi 111 mila euro in azioni Amazon, il colosso Usa che Gentiloni – da commissario Ue – avrebbe dovuto mettere nel mirino per la strategia di usare i paradisi fiscali per pagare poco o nulla di tasse. In più l’ex premier e ministro del Pd risultava impegnatissimo nelle Borse in Italia e all’estero con il suo ampio “portafoglio” di titoli – alcuni un po’ imbarazzanti per un politico eurosocialista –, che includeva Eni, Enel, Expedia, Essilor Luxottica, LVMH, Diasorin, Experian, Campari, e con fondi di investimento attivi sui mercati europei, americani e perfino dei “Paesi emergenti”. In quei giorni si seppe che Gentiloni in passato aveva eseguito tante altre compravendite di titoli come Microsoft, Nestlè, Unicredit, Total, Saint Gobain, Ferragamo, Ferrari, Basf, Amplifon, Cucinelli, Technogym, Bio on, Nexi, ecc.

Ora la pagina della Commissione europea sugli interessi finanziari di Gentiloni non contiene più azioni e fondi d’investimento. Il commissario Ue dovrebbe però far sapere quanto ha guadagnato o perso con le singole vendite. E dove ha messo l’ingente liquidità ricavata? Questa più ampia trasparenza potrebbe far valutare meglio la sua posizione a livello Ue. Ma il caso di Gentiloni rilancia anche i dubbi sulla eccessiva permissività delle regole italiane sugli investimenti e le speculazioni azionarie perché sottovalutano le possibilità – per capi del governo, ministri o esponenti dei partiti – di ottenere informazioni riservate e di prendere decisioni in grado di incidere sulle quotazioni di Borsa. È emblematico che le pur blande norme Ue abbiano di fatto imposto a Gentiloni di liquidare titoli e fondi, mentre quando ricopriva ruoli politici in Italia si sentiva legittimato a lanciarsi in una girandola di compravendite azionarie.

Il caso del commissario Ue per gli Affari economici dovrebbe così costituire lo spunto per il premier Mario Draghi e il suo “governo dei migliori” per inserire – tra le riforme in arrivo – regole più rigorose sugli interessi in Borsa (e finanziari in genere) di governanti, politici e dirigenti pubblici. Anche perché il premier, dopo che da direttore del ministero del Tesoro gestì la riforma dei mercati nota come “legge Draghi”, dovrebbe aver capito che all’epoca sottovalutò i rischi di “relazioni pericolose” tra intermediari della finanza privata e notabili del settore pubblico. Da sempre si sa che le speculazioni in Borsa potrebbero nascondere perfino corruzione di politici e finanziamenti illeciti ai partiti. Basta un’informazione riservata su un titolo da comprare o vendere per generare una ricca “mazzetta”, difficile o quasi impossibile da contestare con le norme attuali. Già nella Prima Repubblica, a Milano, lo scandalo della commissionaria di Borsa Lombardfin fece intuire come si possono far guadagnare clienti “eccellenti”. A Roma giornalisti detti “bisteccari” – perché sembravano favorire salite o discese di titoli probabilmente “mangiandoci” – facevano sospettare che gli “inciuci” tra intermediari finanziari e potenti del Palazzo potessero allargarsi a proprietari di giornali. In quella Italia delle “tangenti a go-go” si poteva poi escludere che la conglomerata di aziende pubbliche Iri – con vertici lottizzati dai partiti e il controllo di grandi banche – a volte usasse i suoi maxi flussi finanziari per far salire le quotazioni di titoli del gruppo, soffiandolo prima a politici, alti burocrati e “amici” vari? Non apparivano inquietanti i repentini strappi in su e in giù di piccole società quotate, controllate da finanzieri ansiosi di ricambiare i “favori” ricevuti dai loro sponsor nel governo e nei partiti?

Oggi l’operatività su azioni e fondi è diventata molto più sofisticata, frenetica e complicata da monitorare, soprattutto se attuata “estero su estero” con società anonime “offshore” o con faccendieri e “teste di legno”. È così ancora più difficile provare che possa occultare tangenti e conflitti d’interessi. Ma l’Italia ha la fortuna di avere un premier ritenuto tra i massimi esperti mondiali nella materia finanziaria. Da presidente della Bce allertò sulla semisconosciuta zona d’ombra dello “shadow banking”. E sarebbe quindi in grado di colmare le lacune della sua “legge Draghi” (e delle successive modifiche) con nuove regole efficaci nel contrastare i rapporti anomali tra intermediari finanziari e potenti del Palazzo. Lo farà?

 

Il mistero “matematica”, la mela di Newton e di Eva e il guscio dell’uovo

La matematica mi affascina come Mowgli era affascinato dagli occhi a cerchi colorati del serpente Kaa nel Libro della giungla di Disney: ne sono attratto, ma ne avverto la pericolosità, di cui è un indizio la lunga lista di geni matematici impazziti. Ne sono attratto perché la matematica ha a che fare con simmetrie e pattern, che sono la sostanza di ogni arte, a cominciare dalla musica. Un genio matematico lavora anni per scoprire nuove simmetrie e nuovi pattern: si tratta però di realtà talmente inedite ed elusive che mentalmente rischia grosso. La mia fortuna è che non sono un genio matematico, tutt’altro, per cui la disciplina stessa mi respinge dalle sue spire con la sua complessità: ma ogni tanto, a sorpresa, torna ad attrarmi coi suoi occhi a cerchi colorati, come qualche giorno fa, quando mi sono imbattuto nella congettura di Collatz, ovvero il problema matematico più semplice che nessuno sappia risolvere, e perciò anche il più pericoloso per gli impallinati. Consiste nel prendere un numero qualsiasi e applicare due regoline: se il numero è dispari, moltiplicarlo per 3 e aggiungere 1; se il numero è pari, dividerlo per 2. Andiamo avanti così, applicando le due regoline a ogni risultato ottenuto. Il numero crescerà all’infinito? Oppure cosa? Proviamo col numero 7. 7 x 3 + 1 = 22. Diviso 2 = 11. 11 x 3 + 1 = 34. Diviso 2 = 17. Per 3 + 1 = 52. Diviso 2 = 26. Diviso 2 = 13. Per 3 + 1 = 40. Diviso 2 = 20. Diviso 2 = 10. Diviso 2 = 5. Per 3 + 1 = 16. Diviso 2 = 8. Diviso 2 = 4. Diviso 2 = 2. Diviso 2 = 1. Per 3 + 1 = 4. Diviso 2 = 2. Diviso 2 = 1. Per 3 + 1…Uh oh, siamo entrati in un loop! Bene: secondo la congettura di Collatz, partendo da ogni numero naturale si arriva al loop 4, 2, 1. Alcuni numeri ci arrivano subito: il 341 arriva al loop in 11 passi (341, 1024, 512, 256, 128, 64, 32, 16, 8, 4, 2, 1); altri, come il 27, ci arrivano dopo 111 passi. Il numero 63728127 ci arriva dopo 949 passi. Grazie ai computer, i matematici hanno testato quasi 3 quintilioni di numeri, e fin qua la congettura regge: una sorta di forza di gravità attira tutti i numeri, fino a 3 quintilioni, verso il loop 4, 2, 1. Non ci sono altri loop conosciuti. Se invece applichiamo le due regoline ai numeri negativi, scopriamo che lì i loop possibili sono tre: (- 1, – 2), (-5, -14, -7, -20, -10), (-17, -50, -25, -74, -37, -110, -55, -164, -82, -41, -122, -61, -182, -91, -272, -136, -68, -34). Perché? Boh. Ma intuiamo l’abisso. Forse aveva ragione il matematico e fisico inglese Paul Dirac, che sull’atlante aveva segnato due celebri giardini (in Inghilterra il giardino di Woolsthorpe, in Armenia il paradiso terrestre,) indicandoli con due mele: la mela di Newton e la mela di Eva. La prima mela dimostra che il destino delle cose è regolata da leggi matematiche; l’altra, che il destino degli uomini è regolato dal capriccio. Pitagora, viaggiando presso gli Egizi, si fece circoncidere per poter essere ammesso ai loro misteri. Altri risolvono invocando la magia. Per esempio: vuotato l’uovo alla coque, il superstizioso rompe il guscio. Chiedetegli perché, e se è di buone letture invocherà l’autorità di Lévy-Bruhl, il quale, immergendosi nell’etnologia, sosteneva che un mago, procurandosi il guscio dell’uovo che avete mangiato, potrebbe tenere in suo potere la vostra vita. Se invece è uno spirito pratico, dirà che la rottura del guscio evita che il cameriere, portando via l’uovo, lo proietti per forza centrifuga fuori del piatto. I più sensibili evitano di rompere il guscio per non fare rumore. Quando gli chiesero una definizione del jazz, Fats Waller rispose: ”Se deve chiederlo, signora, non posso spiegarglielo.”

 

La vittima più illustre della barbarie

Ma trai possibili outsider l’elezione che avrebbe il significato politico più pregnante sarebbe indubbiamente quella di Silvio Berlusconi: l’outsider di lusso. La salita sul Colle più alto dell’uomo che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, su cui si è incentrato il bipolarismo italiano, darebbe, infatti, il segnale che nel Paese si apre una nuova fase. Sarebbe l’immagine della pacificazione, con una magistratura che dopo le rivelazioni dell’ex magistrato Luca Palamara ha perso credibilità e insieme la fiducia di una larga fetta dell’opinione pubblica per la valenza politica di inchieste e processi. Ed ancora andrebbe al Quirinale uno degli uomini politici italiani più conosciuti a livello internazionale (basta rivedere su YouTube la standing ovation che salutò il suo discorso al Congresso americano nel marzo del 2006) Altro che riabilitazione! Semmai sarebbe un riconoscimento verso un personaggio che ha lasciato un segno più che tangibile negli ultimi trent’anni di Storia di questo Paese. E, contemporaneamente, un risarcimento verso la vittima più illustre dell’imbarbarimento della vita politica. Insomma, con Berlusconi al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi si volterebbe pagina.

 

Gianni letta prende casa a rai 1

La miglior qualità di Gianni Letta, eterno braccio destro di Silvio Berlusconi, è sempre stata quella di passare inosservato. Per anni ha tirato i fili di buona parte della politica italiana (e ci perdoni se gli facciamo un torto con l’uso del verbo al passato) restando indecifrabile, nascosto nell’ombra delle trame di Palazzo. E ancora oggi Letta sembra non aver perso il vizio, se è vero che il suo volto sta diventando di casa su Rai1 – proprio a ridosso delle elezioni amministrative e della scure della par condicio – con una operazione simpatia su cui nessuno ha nulla da dire, nemmeno quel Michele Anzaldi (il deputato renziano attivissimo nel denunciare le anomalie della tv pubblica) che sarebbe schizzato dalla sedia se al posto di Letta fosse andato in onda qualche grillino. Eppure l’altra sera il Nostro ha gigioneggiato su Rai1 insieme a Tullio Solenghi: baci, abbracci, risate e pugnetti in occasione della trasmissione dei premi “Le Maschere del Teatro”, di cui proprio Letta presiede la giuria. Tra due giorni si replica: la tv di Stato è pronta a mandare in onda la serata del Premio Biagio Agnes, dedicato allo storico giornalista per anni dirigente Rai in quota Dc, la cui cerimonia è officiata ancora dall’Eminenza grigia di Berlusconi. Senza dimenticare che Simona, la figlia di Biagio, oggi siede nel cda Rai (pare coi buoni auspici di Letta). Stando così le cose, ci sembra che Letta possa puntare in alto: in vista del Festival, fossimo in Amadeus ci inizieremmo a preoccupare.

Farinetti, polluzioni a giornaloni unificati

Basterebbero anche solo i titoli a descrivere lo spasso di due interviste fotocopia che ieri Corriere e Repubblica hanno pubblicato all’unisono. Grande protagonista è Oscar Farinetti di Eataly. Maurizio Corsetti su Rep titola non-sense: “Non sono un guru ma vi do la ricetta della ripartenza”. Aldo Cazzullo preferisce il drama: “Mi innamorai di Matteo Renzi ma rifiutai di fargli da ministro”. L’occasione è pubblicizzare il nuovo libro di Farinetti (Never quiet). Le modalità scelte rendono il tutto umoristico, anche se nessuno degli interessati se ne accorge. Cazzullo domanda lumi sulla prima polluzione di Farinetti, lieto di approfondire: “Avevo 12 anni, stavo correndo per andare a messa e mi son sentito bagnare i pantaloni”. Quel giorno ha capito “che l’inquietudine è piacere”. Sarà per questo che per anni è andato dietro a Renzi: “Lo confesso, me ne innamorai”. Poi, giusto perché non è un guru, ecco l’invettiva: “L’Italia deve alzare il sedere e vendere la bellezza al mondo”. Alcune frasi sono identiche sui due giornali. Tipo la gag sulla “scimmietta” che ha scritto il libro al suo posto: “A me piace leggere, a lei scrivere”. Chissà lei quando ha polluito per la prima volta.

Mario preside di una scuola di ripetenti

Scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera che Mario Draghi “si sta trasformando di fatto in una sorta di De Gaulle italiano”. E cita la frase “i partiti svolgano pure il loro dibattito. Il governo va avanti”, come rivelatrice della indifferenza rispetto alla volontà dei partiti da parte di un premier che attinge il potere direttamente dalla “volontà del Paese”. A noi, più banalmente Draghi sembra il preside di una scuola di ripetenti. Un po’ rassegnato e un po’ indulgente, soprattutto nel momento in cui gli zoppicanti alunni affrontano quel corso di recupero che sono le elezioni amministrative del 3 ottobre. Forse sbagliamo ma il Salvini che dopo avere ritirato gli emendamenti della Lega sul green pass vota le modifiche di FdI non sembra affatto un ambiguo cospiratore ma piuttosto il consueto Salvini che cerca di barcamenarsi per ricompattare l’elettorato di centrodestra in difficoltà in quasi tutte le grandi città dove si vota. Come dimostra la scenetta da fotoromanzo rosa con la Meloni (in rosa) in quel di Cernobbio che alla luce della famelica concorrenza tra sovranisti potrebbe intitolarsi ‘l’unione fa la farsa’.

Quanto a Giuseppe Conte il preside Mario ne conosce le difficoltà (ricostruire dalle macerie il M5S in periferia) e i limiti (compito che richiederebbe un anno o giù di lì). E dunque se su temi come la controriforma Cartabia o il reddito di cittadinanza il suo predecessore alzerà leggermente la voce per evitare la catastrofe elettorale, il comprensivo preside se ne farà una ragione.

Che dire poi di Enrico Letta, segretario del Pd fuori sede impegnato a farsi eleggere a Siena? Decisione, oltre che rischiosa visto l’esito incerto, poco comprensibile quando manca poco più di un anno alla fine della legislatura. Ma ci vuole pazienza, qualità che al preside non manca di sicuro. Ci sarebbe poi Matteo Renzi ma quello, in vacanza permanente, ai voti è disinteressato così come i voti sono disinteressati a lui. Insomma, la solita situazione grave ma non seria che tuttavia impegna le menti più autorevoli e l’indomita armata dei talk a pestare l’acqua nel mortaio. Ma, come dice Confalonieri, provate voi a parlare del nulla per tre ore.

Verbali Amara. L’ex segretaria di Davigo rischia il processo

Aumentano i rischi di un processo per Marcella Contrafatto, l’ex segretaria al Csm di Piercamillo Davigo, indagata a Roma per calunnia: sarebbe stata lei a consegnare, in forma anonima, al Fatto e a Repubblica i verbali secretati di Piero Amara, l’ex legale esterno dell’Eni che, ai pm milanesi, due anni fa, aveva raccontato di una presunta loggia denominata Ungheria.

Ieri, la Procura di Roma ha depositato l’avviso conclusioni indagini, anticamera della richiesta di rinvio a giudizio. A comunicarlo al plenum del Csm sia il vice presidente David Ermini, che Riccardo Bolognesi, difensore della funzionaria sospesa e a rischio licenziamento disciplinare. L’avvocato ha ottenuto un rinvio della decisione, prevista per ieri, al 22 settembre ,proprio per la notifica del 415 bis, fino a ieri pomeriggio non ancora in mano alla difesa. I verbali ricevuti in forma anonima dai giornalisti Antonio Massari e Liana Milella, che hanno denunciato, sono gli stessi che, in formato Word, non firmati, sono stati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Davigo nella primavera 2020. “L’ho fatto per autotutelarmi”, ha sostenuto, denunciando contrasti con il procuratore Francesco Greco. Storari è sotto procedimento disciplinare e indagato a Brescia insieme a Davigo per rivelazione di segreto, mentre Greco, accusato da Storari, è indagato per omissione di atti d’ufficio. Intanto la prima commissione del Csm ha aperto nei confronti del procuratore aggunto milanese Fabio De Pasquale la procedura per decidere se chiedere il trasferimento d’ufficio per incompatibilità. L’iniziativa arriva dopo le audizioni dei pm milanesi post caso verbali Amara-Storari.

“Abuso d’ufficio”: indagati la Boccassini e il pm Nobili

Il comandante della Polizia locale di Milano Marco Ciacci, il capo dell’antiterrorismo Alberto Nobili e l’ex procuratore aggiunto Ilda Boccassini sono indagati per abuso d’ufficio in concorso dalla Procura di Brescia. L’inchiesta nasce diversi mesi fa anche sulla base di un esposto-denuncia dell’ex comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato, candidato oggi per la Lega di Matteo Salvini a Milano e imputato sempre a Milano per frode in pubbliche forniture e falso. L’indagine bresciana riguarda le modalità d’intervento rispetto a un incidente stradale avvenuto il 3 ottobre 2018 in viale Montenero nel quale la figlia di Nobili e Boccassini, a bordo di uno scooter ha investito il medico infettivologo Luca Valtolin che in quel momento stava attraversando sulle strisce pedonali con le borse della spesa in mano. Valtolin cadendo ha battuto la testa in modo violento. Ricoverato in codice giallo, si aggraverà nei giorni successivi e morirà. La figlia dei due importanti magistrati di Milano, titolari ieri e oggi di indagini decisive sia sul fronte della mafia sia su quello della corruzione e della lotta al terrorismo anche interno e attuale, nel gennaio 2020 ha patteggiato una condanna a nove mesi per omicidio colposo risarcendo i familiari della vittima. L’indagine di Brescia è ora arrivata alle battute finali con la richiesta di archiviazione scritta dalla Procura solo pochi giorni fa. La palla quindi passa al giudice per le indagini preliminari.

Il fascicolo, seguito dalla Procura in modo più che accurato, prende il via dall’esposto di Barbato che, nella sostanza, fissa due punti principali: da un lato la presenza sul posto dell’incidente del capo dei vigili Ciacci, cosa, a suo dire, del tutto irrituale e in apparente violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, visto, in particolare, i rapporti professionali pregressi tra Ciacci e uno dei due magistrati. Il secondo punto è invece legato al fatto che, pur con la presenza del comandante sul posto, non furono disposti né l’alcol test né le analisi per capire se l’investitore avesse assunto sostanze stupefacenti. La ragazza sarà indagata per omicidio stradale non avendo rispettato le norme del codice stradale e meno di due anni dopo patteggerà 9 mesi per omicidio colposo. Il fascicolo sarà preso in carico dalla Procura di Milano in un periodo dove non solo Nobili ma anche Boccassini erano nel pieno delle loro funzioni. Secondo quanto si legge nella denuncia, che riprende testimonianze di agenti della polizia locale giunti in viale Montenero, sul posto era presente Nobili e subito dopo Ciacci. La tesi accusatoria, messa nella denuncia e seguita dalla Procura di Brescia, che ora però ha chiesto l’archiviazione, è che vi fu una chiamata del magistrato al capo dei vigili. In alcune chat messe agli atti, un operante scrive: “L’alcol test non l’hanno fatto, comandante è andato sul posto, io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto”.

Ciacci, giorni dopo l’incidente, sarà sentito dalla Commissione sicurezza del Comune. Qui, si legge nella denuncia, ammetterà di aver ricevuto la telefonata da Nobili senza però spiegarne il contenuto. Confermerà anche di essere andato sul posto. Ma solo per caso, perché mentre andava al ristorante con la moglie, vedendo i lampeggianti si era fermato sul luogo dell’incidente per parlare con il dottor Nobili. Nella denuncia, che in parte ha alimentato un fascicolo durato diversi mesi, si fa presente che quel 3 ottobre sul posto intervenne una pattuglia del reparto Radiomobile con personale altamente specializzato “per i sinistri stradali gravi”. E nonostante questo, spiega il documento agli atti, a questa unità fu chiesto solo di fare rilievi e planimetrie, senza passare ai vari test sulla persona. Insomma il caso, che per le prime settimane dopo il 3 ottobre 2018 rimase sotto traccia, ora sembra avviarsi a una conclusione. Toccherà al giudice valutare se le prove messe agli atti in questi mesi sono bastanti per ottenere l’archiviazione o se sarà necessario un supplemento di indagini.