Smartworking, alla Camera Brunetta torna sulle barricate: “Cari 5S, i luddisti siete voi”

Brunetta è fatto così: vuole presentarsi affabile e moderato, ma dentro ha una carica ribelle e se c’è da menare le mani non si tira indietro.

Ieri, intervenendo alla Camera al question time, si è tolto il peso e ha ribadito quel che pensa del lavoro agile: una perdita di tempo, “un lavoro a domicilio all’italiana” insomma, un alimentatore di fannulloni post-pandemia. E per non tirarsi indietro dallo scontro con il M5S che gli chiedeva conto delle sue posizioni, ha terminato l’intervento rivolgendosi agli scranni pentastellati al grido di “i luddisti siete voi, i luddisti siete voi”. Quanto deve essergli pesato quell’editoriale del prof. Domenico De Masi pubblicato dal Fatto che lo definiva “un nuovo luddista”. Tanto da scagliarsi contro gli increduli 5Stelle proprio durante l’interrogazione della sua collega Stefania Prestigiacomo che nel rispondere al ministro ha scherzato: “Quasi quasi mi sposto nei banchi di là per la mia replica”.

Brunetta, insomma, non vuol sentire ragioni: “Quello che gli analisti hanno evidenziato – dice in aula – è che il lavoro da remoto ha funzionato durante il lockdown laddove era già regolato, strutturato, con una piattaforma digitale già esistente”. Fa riferimento all’Inps e al “bravo Tridico”, ma solo per dire che il successo dell’Istituto – additato da De Masi come caso positivo – si deve al fatto che si erano già preparati. “Poi, continua, se è così fantastico il lavoro da remoto, perché cittadini e imprese sono tutti arrabbiati leggendo sugli uffici periferici degli enti pubblici e privati ‘chiuso per smart working’?”.

Infine, il crescendo rossiniano: “Io ho cambiato i concorsi pubblici, li ho resi digitali, stiamo lavorando all’interoperabilità delle banche dati, al cloud, a una base informatica digitale per essere in sicurezza, e voi volete proiettare un bricolage all’italiana nel futuro?”. Ancora: “Il futuro è dentro il Pnrr, in quel 6% di crescita del paese che ha bisogno della Pa in presenza, regolata, garantita in sicurezza con un contratto”. Infine: “Gli obsoleti e i neoluddisti siete voi, siete voi i neoluddisti, siete voi! Ned Ludd non è mai esistito, era un mito che veniva perseguito nelle campagne inglesi da chi andava a rompere i telai meccanici, perché aveva paura che questi portassero via il lavoro. Ecco, i neoluddisti siete voi, cari amici 5 Stelle”. Poi si è calmato, ma sullo smartworking è tornato ancora quello di un tempo.

Bucci dà ai vigili urbani le pistole spara-lazo “per acciuffare ladri in fuga”. Le usa la Cina

Dai pasdaran dell’ex presidente iraniano Ahmadinejad ai vigili di pattuglia nei carruggi di Genova, business is business, soprattutto se si tratta di armi. Il Comune ligure ha avviato la sperimentazione del Bolawrap, pistola spara-lazo che una decina di vigili urbani nei prossimi mesi potrà usare per tso, aggressioni o malviventi in fuga. Sperimentazione, ha precisato il Comune di Marco Bucci, che rappresenta un unicum in Ue: solo in Paesi dalle solide tradizioni liberali nelle funzioni di polizia come Usa, Serbia e Cina si sta testando il Bolawrap. Al netto degli interrogativi su uno strumento ispirato alle bolas dei mandriani delle pampas da usare in vie larghe un metro, è interessante anche la scelta del fornitore. “Scelta obbligata” per l’assessore comunale alla Sicurezza Giorgio Viale, dato che “è l’unico importatore in Europa” del marchingegno della statunitense Wrap Technologies.

Alla presentazione organizzata in Comune, la Defconservices era rappresentata dal socio unico Danila Maffei e dal consulente Alessandro Bon, ex manager di Beretta. Nel 2010 furono entrambi arrestati e poi Bon condannato nel 2018 a 4 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di armi per l’Iran sotto embargo. Su richiesta della Procura, la Corte d’Appello nel 2019 sentenziò di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione. “La richiesta di sperimentare Bolawrap ci è arrivata dal comando, nessun input politico”, è il commento di Viale alle due interrogazioni (“scoperte solo oggi”) con cui Forza Italia ha sollecitato mesi fa il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ad adottare Bolawrap su scala nazionale. Bon fu coinvolto anche in un’altra inchiesta per traffico d’armi con l’Eritrea che portò alla condanna dell’ex consigliere regionale lombardo in quota Pdl Pier Gianni Prosperini, che fu anche assessore della giunta Formigoni fino all’arresto del 2009 e al patteggiamento a 3 anni e 5 mesi per tangenti. Nessun problema per Viale: “Finita la sperimentazione, vedremo se fare una gara per l’acquisto. In tal caso si verificheranno i requisiti del fornitore”. Per allora Bon potrebbe riuscire – sul processo d’appello pende un giudizio in Corte Costituzionale – nel tentativo finora vano di convincere la Cassazione ad annullare la sentenza di estinzione e pronunciare la nullità. In tempo magari per le amministrative 2022: business is business nel Palazzo Tursi a guida Bucci.

Centri impiego da rafforzare: 7 Regioni sono a 0

Un piano per l’occupazione rivolto ad almeno 3 milioni di persone, entro il 2025, che siano disoccupati, donne, giovani Neet o anche percettori del Reddito di cittadinanza. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha illustrato alle parti sociali i punti principali della riforma delle politiche attive, tra cui il necessario rafforzamento dei Centri per l’impiego. Ma le Regioni continuano ad accumulare ritardi nelle assunzioni del personale. Su questo, i sindacati lo hanno messo in guardia. L’ultimo monitoraggio fornito dalla sottosegretaria al ministero del Lavoro Rossella Accoto dice che se a marzo gli assunti risultavano essere 1.330, l’incremento nel secondo trimestre 2021 è stato di 868 unità. Quindi in totale siamo a 2.198. Ma ben sette Regioni sono ancora a zero: si tratta di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sardegna. Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri si è detto “contrario alla scelta, operata da alcune Regioni, di affidare completamente al privato la gestione dei Centri”.

Ita, stop trattativa con i sindacati: solo 2.800 assunti

Nessun accordo tra Ita e i sindacati sull’assunzione degli ex lavoratori Alitalia. Il presidente della società pubblica Ita, Alfredo Altavilla, ha deciso di andare dritto per la sua strada: selezionerà la forza lavoro per la compagnia, che rileverà 52 aerei dall’Alitalia iniziando a volare il 15 ottobre con 2.800 dipendenti (sugli 11 mila attualmente in Alitalia) fuori dal contratto collettivo nazionale e stipendi tagliati almeno del 30%. Altavilla ha accusato i sindacati di fare i sindacati, adottando “pregiudizi formali che rispecchiano consuetudini e linguaggi non più attuali”. Del resto anche per il governo Draghi non è mai esistito un piano B, come ha ribadito il ministro del Mise Giancarlo Giorgetti: “L’unica alternativa a Ita era il fallimento”. Eppure nel pomeriggio a chiedere a Ita di continuare a dialogare con i sindacati senza ultimatum e pregiudiziali e di assicurare la Cig fino al 2025 è stato Roberto Gualtieri che, come ha rivelato Ugo Arrigo sul Fatto, da ministro del Mef ha deciso di rottamare i dipendenti Alitalia senza che l’Europa lo abbia mai imposto.

Archivio stragi, De Pasquale esautorato

Una vittoria delle associazioni dei parenti delle vittime delle stragi italiane e dei pochi (tra questi il Fatto Quotidiano) che le hanno sostenute: non sarà Andrea De Pasquale a guidare il comitato per la declassificazione dei documenti segreti riguardanti stragi, Gladio e P2, ma il segretario generale della presidenza del Consiglio, Roberto Chieppa. Lo ha annunciato ieri il presidente Mario Draghi, incontrando Paolo Bolognesi (associazione vittime Bologna), Manlio Milani (Brescia), Daria Bonfietti (Ustica), Ilaria Moroni (Archivio Flamigni). Draghi ha garantito che seguirà personalmente il dossier e indicherà come presidente del comitato il segretario generale di Palazzo Chigi. Al termine dell’incontro, i rappresentanti delle associazioni si sono detti “molto soddisfatti”, anche perché la guida del comitato non spetterà più al presidente dell’archivio di Stato, quell’Andrea De Pasquale da loro duramente criticato per la gestione del fondo Rauti.

Il conflitto era scoppiato in pieno agosto, quando il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini aveva nominato alla guida dell’Archivio centrale dello Stato Andrea De Pasquale. A Draghi era subito arrivata una lettera firmata da Paolo Bolognesi insieme a Manlio Milani e Carlo Arnoldi (vittime di Piazza Fontana), che esprimeva il disappunto per quella nomina. Il sovrintendente dell’Archivio centrale, infatti, ha un ruolo delicato, perché a lui spettava l’attuazione della “direttiva Renzi”, quella che toglie il segreto dai documenti sulle stragi, di recente ampliata da Draghi a Gladio e P2. Ma De Pasquale, quando da direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma nel novembre 2020 acquisì il fondo archivistico personale di Pino Rauti, comunicò l’acquisizione con una nota dai toni agiografici diffusa dalla Fondazione Rauti e dalla famiglia, senza alcuna contestualizzazione sul ruolo di Rauti: militante dei Fasci di Azione Rivoluzionaria e poi fondatore di Ordine nuovo, il gruppo che più d’ogni altro partecipò alla strategia delle stragi, realizzando – secondo quanto attestano sentenze ormai definitive – l’attentato di piazza Fontana e quello di piazza della Loggia a Brescia.

Non solo. De Pasquale aveva partecipato anche alla presentazione (celebrativa) della donazione, insieme a Isabella Rauti, figlia di Pino e senatrice di Fratelli d’Italia. Allora Franceschini aveva preteso almeno la rimozione immediata dal sito istituzionale beniculturali.it del comunicato agiografico su Rauti. Ma poi ha firmato il decreto che aveva portato De Pasquale al vertice dell’Archivio di Stato, dove è esposta la copia originale della Costituzione antifascista e da dove avrebbe dovuto gestire le carte declassificate su stragi, Gladio e P2. A sostegno delle associazioni si era mosso con vigore Tomaso Montanari, rettore eletto dell’Università per gli stranieri di Siena e collaboratore del Fatto, che aveva sostenuto che con il comunicato della Fondazione Rauti “la Biblioteca nazionale di Roma aveva completamente smarrito il senso costituzionale della cultura”. Ora Draghi corregge la rotta, togliendo a De Pasquale la guida del comitato per la declassificazione, affidandola al suo segretario generale e promettendo di seguire personalmente l’operazione.

Sala e il regalo di cemento alla società di Banca Intesa

Il sindaco di Milano, Beppe Sala, non ha saputo frenare il suo entusiasmo. E l’ha definita un “patrimonio della città”. Ma la nuova Arena per i Giochi Olimpici invernali di Milano-Cortina 2026, presentata martedì in una conferenza stampa occasione anche per una passerella elettorale, è soprattutto un ricco “patrimonio” per i privati che la costruiranno e gestiranno a scopo di lucro i futuri eventi sportivi, live e concerti. Già. Perché il Comune di Milano potrà infatti usare la nuova e faraonica Milano Santa Giulia Arena (MSG Arena) – capienza massima di 16 mila posti e un’area esterna da oltre 10 mila metri quadrati per eventi all’aperto – solo “nella misura massima di due giorni l’anno”. E solo per l’organizzazione di “manifestazioni o iniziative benefiche, istituzionali e/o comunque senza fini di lucro”.

È quanto si legge nelle 2.427 pagine di delibera comunale che la giunta di Beppe Sala ha varato il 17 maggio 2021 e che il Consiglio comunale di Palazzo Marino ha approvato dieci giorni dopo, il 27 maggio, in seguito ad approfondimenti durati ben 6 ore per tre diverse commissioni comunali da due ore ciascuna. Si tratta della delibera dove viene approvato il nuovo Atto integrativo dell’Accordo di Programma per la riqualificazione urbana delle aree di Milano Santa Giulia a Rogoredo dove sorgerà, per l’appunto, la nuova Arena.

Di fatto è una variante urbanistica che concede volumetrie aggiuntive per la realizzazione del quartiere futuro epicentro dei Giochi Olimpici 2026. Che sarà un gioiello – sì – ma a uso e consumo dei privati. Le giornate in cui il Comune di Milano potrà usufruire della nuova infrastruttura olimpica sono state definite “Giornate Convenzionate”: verranno stabilite dalla proprietà e poi comunicate all’ente pubblico con quattro mesi di preavviso. Saranno previsti 25 ingressi gratuiti a favore del Comune e tariffe agevolate tra l’8 e il 12% rispetto ai prezzi di listino per i soggetti che abbiano ottenuto il patrocinio dell’amministrazione comunale. Serviranno a organizzare, almeno una volta all’anno, un evento benefico di carattere sportivo o di intrattenimento, da pubblicizzare per poi devolvere l’incasso al Comune di Milano. Se ciò non avvenisse il privato dovrà corrispondere 40 mila euro a sostegno dell’attività promozionale sportiva milanese, direttamente alle casse di Palazzo Marino. Non male. Soprattutto se si pensa che la Milano Santa Giulia spa – la società che sviluppa il quartiere sud-est di Milano, controllata da Intesa Sanpaolo – ha siglato un accordo da 20 milioni di euro con la Cts Eventim, multinazionale leader nel settore della biglietteria e dell’organizzazione di eventi live da 1,4 miliardi di ricavi che gestisce già palazzetti a Copenaghen, Londra e Colonia, per la realizzazione e gestione dell’Arena dopo la fine delle Olimpiadi invernali nel 2026. In sostanza ha incassato 20 milioni di euro senza muovere un mattone. I lavori partiranno infatti nel 2022 per chiudere i cantieri – si augurano i promotori in città – nel 2025. Il costo stimato per la realizzazione è di 180 milioni di euro. Non pochi. Ma anche qui Palazzo Marino ci ha messo una pezza.

Per far tornare i conti dell’intera operazione immobiliare, la variante urbanistica approvata a maggio dal Comune di Milano ha concesso ai proprietari delle aree volumetrie aggiuntive da capogiro. Rispetto all’Accordo di Programma del 2004, nato per il quartiere di Santa Giulia immaginato all’epoca dal palazzinaro Luigi Zunino, poi finito in disgrazia mentre tentava di scalare i salotti buoni milanesi, aumentano di 100 mila mq i volumi concessi per l’edilizia libera (appartamenti a prezzi di mercato). Aumenta di 13 mila mq l’edilizia convenzionata, di 27 mila mq il terziario direzionale, di 40 mila il commercio. Mentre calano (molto meno) le funzioni ricettive e l’alberghiero, resta identica la quota di edilizia sociale da destinare ai ceti meno abbienti.

Numeri non ce ne sono ancora, ma calcolati a spanne – grazie a queste concessioni e coi prezzi del ricco mercato immobiliare milanese – si parla di centinaia di milioni di euro di ricavi potenziali. Oltre al fatto che anche il patrimonio già esistente crescerà di valore dopo le Olimpiadi. Come dice il sindaco, è un vero “patrimonio”, magari non pubblico…

Cartabia. Boralevi confonde prescrizione e improcedibilità. E Gratteri inorridisce

Mettiamoci nei pannidi un telespettatore medio sintonizzato su La7 a guardare l’ultima puntata di Dimartedì. Avrà capito qualcosa della riforma Cartabia ascoltando le capziose domande di Alessandro Barbano e Pietro Senaldi e le piccate risposte di Nicola Gratteri? Ne dubitiamo. E i nostri dubbi aumentano ricordando la scrittrice Antonella Boralevi confondere la prescrizione con la improcedibilità, parola che nemmeno riusciva a pronunciare correttamente. Venti minuti di dimenticabile televisione, nonostante gli sforzi di Giovanni Floris nel provare a moderare gli immoderabili.

Dalla confusione verbale del teatrino messo in piedi secondo il trito canovaccio “mettiamo due o tre garantisti di fronte a un magistrato giustizialista”, meritano di essere salvate solo le facce. Le smorfie dei protagonisti, colte in pieno da una eccellente regia, valevano più di mille parole. Il volto imbarazzato di Gratteri mentre ascolta Boralevi sostenere che in fondo in fondo questa riforma non è tanto grave. Il volto pietrificato di Barbano mentre Gratteri, alle sue domande sugli imputati assolti ai processi di Catanzaro, gli replicava “lei è stato imbeccato da qualcuno, parla di cose che non conosce”.

Facce da commedia dell’arte. L’arte di non far capire niente di ciò di cui si sta parlando.

“Soldi per un posto al Colle”: il processo all’ex funzionario

C’è una storia che per qualche mese deve aver creato imbarazzo al Quirinale. E che, come molte vicende delicate, non è mai uscita dai confini del Colle. Per scoprirla bisognava essere ieri in un’aula al terzo piano del Tribunale monocratico di Roma, la 23. È qui che si è tenuta la prima udienza del processo a carico di un ex dipendente della presidenza della Repubblica, un uomo che in passato ha ricoperto il ruolo di capo del settore autorimesse e che secondo la Procura di Roma incassava denaro promettendo di interferire su chi gestiva un concorso interno per nuovi funzionari. Sembra una storia ispirata dal film in cui Totò nei panni del “Cavaliere ufficiale Antonio Trevi” vendeva la centralissima fontana di Trevi, solo stavolta in chiave moderna e con protagonisti diversi: un ex addetto del Quirinale, un uomo che aspirava a vincere un concorso e anche un parroco, le cui parole hanno dato il la alle indagini.

L’imputato ieri dunque era uno solo: l’ex dipendente “dei ruoli del segretariato generale della presidenza della Repubblica”, in passato a capo del settore autorimesse. Secondo i magistrati, si legge nel capo di imputazione, vantando “relazioni con pubblici ufficiali interni alla presidenza della Repubblica” e “millantando un’inesistente capacità d’influenza” incassava denaro “come prezzo della propria mediazione e al fine di remunerare i pubblici ufficiali”. In altre parole si faceva consegnare soldi destinati a coloro che (ignari) si stavano occupavano di un concorso per assumere al Colle nuovi funzionari con il ruolo di “referendario in prova”, un primo gradino nella carriera nella macchina amministrativa. Secondo gli investigatori, un uomo ha creduto che potesse essere l’inizio di una distinta carriera e ha pagato.

Secondo quanto riportano gli atti della Procura di Roma le somme di denaro sono state versate tra febbraio del 2016 e giugno del 2017. La cifra non è affatto esorbitante: 9.500 euro in totale di cui mille in contanti a febbraio del 2016, altri 3.500 a marzo del 2016 tramite bonifico e poi a novembre dello stesso anno un altro bonifico da 2.500 euro. Due tranche arrivano – stando alle ricostruzioni degli investigatori – anche nel 2017: un bonifico da 500 euro a febbraio e poi altri 2 mila euro in contanti a giugno dello stesso anno.

Denaro che gli inquirenti ritengono esser stato il prezzo per una millantata mediazione nei confronti di ignari pubblici ufficiali che negli uffici del Colle si stavano occupando del concorso, e che alla fine è costato all’ex dipendente del Quirinale l’accusa di traffico di influenze.

Ma come nasce questa inchiesta? Dalle parole di un parroco al quale si era rivolto l’aspirante funzionario del Colle. Come un telefono senza fili, questa storia arriva alle orecchie di un carabiniere che, davanti a una presunta e sospetta notizia di reato, informa i magistrati.

Il fascicolo viene aperto nel 2020. Poi l’atto di chiusura delle indagini viene notificato negli uffici del Colle, che dunque è conoscenza della vicenda. E il dipendente nel frattempo diventa ex. La notizia non è uscita neanche lo scorso 2 febbraio quando si è tenuta l’udienza preliminare e il gip Roberta Conforti ha disposto il processo. Iniziato proprio ieri.

Green, “sanitario” o “3G”: in Europa (ma non in Spagna) è di moda il Pass

L’obbligo di Green pass per l’accesso a determinate attività o luoghi non è un’esclusiva italiana. In tutti i grandi Paesi d’Europa, con la sola eccezione forse della Spagna, la tendenza è estenderlo il più possibile.

Gran Bretagna. No jab, no entry. Una prova di immunizzazione (certificato vaccinale o tampone negativo), finora facoltativa, diventerà obbligatoria da fine settembre per l’accesso a locali e spazi per concerti al chiuso, festival all’aperto, eventi sportivi o congressi in Inghilterra (ma non in Galles, Irlanda del Nord e Scozia). Misura “caotica e surreale” per le associazioni dei locali notturni, mentre non si è ancora risolta la querelle sull’obbligo per gli esercenti di pub e ristoranti di verificare lo status dei clienti. La ripresa delle scuole, senza obbligo di mascherine e distanziamento, ha provocato un aumento di contagi negli under 15 di 30 volte rispetto al 2020: la vaccinazione per i 12-15enni in buona salute non è raccomandata. Ieri oltre 37 mila contagi, circa 200 i decessi quotidiani.

Germania. Qui vige la regola delle 3G: geimpft, geheilt, getestet (vaccinato, guarito, testato). Si applica in tutti i Länder con un’incidenza settimanale superiore a 35 ogni 100 mila abitanti, ma ogni Land può attivarlo in ogni momento. Per entrare nei locali, sedersi anche all’esterno di bar e ristoranti, per accedere a discoteche, palestre, Rsa serve la app Luca che tramite QR, garantisce almeno una delle “3G”. Fino all’11 ottobre ogni residente ha diritto a un test giornaliero gratuito, da quella data saranno a pagamento. Per le scuole si continua con la campagna di test di massa su tutti gli alunni ogni due settimane. Intanto i casi continuano ad aumentare: dai 13 mila giornalieri di due settimane ai 19 mila di ieri. La campagna vaccinale ha subito una brusca frenata: solo il 61% dei tedeschi è totalmente immunizzato.

Francia. Il pass sanitaire, già necessario da giugno per accedere a eventi sportivi, concerti, fiere, è stato esteso dal 21 luglio a teatri, cinema, musei, biblioteche, palestre e, dal 9 agosto, a bar, ristoranti, treni, aerei e ospedali. Dal 30 agosto sono tenuti a presentarlo anche i lavoratori dei settori dove è già previsto. Non è invece necessario a scuola. Il pass per vaccinati, guariti o in possesso di tampone negativo entro le 72 ore (contro cui in migliaia manifestano tutti i sabati) è in vigore fino al 15 novembre e potrebbe essere prolungato. Secondo il ministro della Salute Véran, il pass ha contribuito a contenere la “quarta ondata”, che ha comunque conosciuto picchi fino a 30 mila contagi al giorno in estate. Ieri i casi erano ancora più di 14 mila, con 120 morti. Più di 49 milioni di francesi hanno ricevuto almeno la prima dose di vaccino. Dal 15 settembre il vaccino sarà obbligatorio per gli operatori sanitari. Né è escluso, come ha detto Macron, che lo sarà un giorno per tutti i francesi. A favore dell’obbligo vaccinale per tutti è una proposta di legge presentata il 31 agosto dai socialisti.

Spagna. Niente Green pass nei locali chiusi in Spagna, anche il Tribunale della Galizia l’ha invalidato. A convalidare le misure restrittive – prese a livello regionale – infatti, è la giustizia, in quanto potenzialmente limitative delle libertà personali. Così il dibattito politico è aperto solo a livello regionale, con governatori pronti a inserire il pass in autunno. A rigettare l’obbligo sono stati già i tribunali di Andalusia, Canarie e Cantabria, mentre è stato approvato nelle Baleari, ma solo per le Rsa. Il governo Sanchez continua invece a glissare sulla decisione che “potrebbe costituire una stigmatizzazione” per alcuni cittadini. Intanto proseguono le vaccinazioni con il 72% degli spagnoli immunizzati in un Paese che, secondo l’Eurobarometro, è il più favorevole al vaccino con i no-vax isolati dal dibattito politico e sociale. Questa settimana sono iniziati i rientri a scuola con il 39,4% degli over 12 vaccinati, il 74% tra i 12 e 19 anni con almeno la prima dose e quasi il 100% dei professori immunizzati. Nonostante ciò, le misure sanitarie sono le stesse del 2020: mascherina dai 6 anni, bolle di alunni stabili e ingressi scaglionati. La distanza tra i banchi che passa da 1,5 a 1,2 metri.

Avviso ai direttori delle Asl: “Chi tollera i No Vax rischia”

Due nuove norme dovrebbero rafforzare il dispositivo, piuttosto farraginoso, che disciplina l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari. La prima prevede che non possano iscriversi agli Ordini professionali coloro che non sono vaccinati, la seconda serve a far pressione sui direttori delle Aziende sanitarie locali. Tocca infatti a loro, in base alle segnalazioni delle Regioni, accertare l’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte di medici, infermieri e altri professionisti sanitari non in regola con l’obbligo vaccinale, che al momento esiste solo per loro in base al decreto 44 dell’aprile scorso. Su quella base sono invitati a vaccinarsi e, se resistono, sempre che non sia possibile destinarli a mansioni “che non implicano rischi di diffusione del contagio”, è prevista la sospensione da lavoro e retribuzione. Questa viene comunicata anche agli Ordini professionali di appartenenza che hanno poi il compito di informare gli interessati.

Il meccanismo, un po’ contorto, non funziona granché. La stragrande maggioranza degli operatori non vaccinati è ancora in servizio nel settore pubblico e ancor più nel privato, sia pure con ampie differenze tra Nord e Sud, tanto da sollevare proteste anche dalla Federazione degli ordini dei medici. Così nel decreto che estenderà l’obbligo del Green pass (che è cosa diversa dall’obbligo vaccinale) ad altre categorie professionali (fin qui c’è solo gli operatori della scuola oltre ai clienti di ristoranti e bar al chiuso, piscine e palestre e ai viaggiatori su treni a lunga percorrenza e traghetti) dovrebbero scrivere che l’attività relativa all’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari “è valutata nei procedimenti di verifica dell’operato del direttore generale” dell’azienda sanitaria. Sono le verifiche da cui dipendono avanzamenti e premi dei dirigenti.

Fin qui siamo indietro perché la pressione degli operatori vaccinati trova un limite negli organici, ridotti all’osso se non già carenti: alcuni reparti ospedalieri e alcuni servizi territoriali rischiano di chiudere per mancanza di personale vaccinato, per non dire di studi e cliniche private. Per quanto riguarda i medici, la Federazione nazionale dei loro Ordini (Fnomceo) ha reso noto ieri che “sono 644 i medici attualmente sospesi dagli albi. Le sospensioni – si legge in una nota – sono state in tutto 820, di cui 176 revocate dopo che i medici si sono vaccinati”. Secondo la Fnomceo le relative comunicazioni sono pervenute solo da 44 ordini provinciali su 106, gli altri 62 non hanno sospeso nessuno, evidentemente anche a causa della “latitanza” delle Asl. “Sono 460 mila i medici italiani. La Fnomceo stima che i non ancora vaccinati siano 1.500: una percentuale dello 0,3%”. “Si tratta di una minima parte dei colleghi, ma anche questi piccoli numeri costituiscono una sconfitta per la professione – afferma il Presidente della Fnomceo, Filippo Anelli –. Non è concepibile, infatti, che un medico non abbia fiducia nei vaccini”.