Gli alleati divisi nella partita di Torino

 

 

Sganga (M5S) “Troppo tardi per un accordo qui Ma i giallorosa servono”

 

La 5Stelle che potrebbe essere l’ago della bilancia si smarca: “Non si può fare in 15 giorni ciò che non si è voluto fare per mesi”. Però il tema a Torino resta innanzitutto quello, cioè un eventuale accordo tra Movimento e Pd nel secondo turno delle Comunali. Anche se la candidata sindaco del M5S, Valentina Sganga, pare fare muro.

Nel confronto tra i candidati organizzato da La Stampa, il dem Lo Russo ha lanciato un segnale: “Al secondo turno voterei per Sganga”.

Sono rimasta sorpresa dalle sue parole, le ho trovate sgradevoli. Per anni Lo Russo ha fatto il fustigatore dei 5Stelle. D’altronde quando mesi fa Giuseppe Conte e il M5S proposero di mettersi a un tavolo per trovare una figura terza, dal Pd dissero di no.

Ma le scelte si fanno anche in base al momento, no?

Quella di Lo Russo mi pare una strategia calcolata, ha parlato solo perché il secondo turno si avvicina e i nostri voti sono appetibili. Ma non ci potrà essere un apparentamento.

Neanche se Conte invitasse a votare Lo Russo nel secondo turno?

Di questo dovrebbe chiedere a lui. Poi il tentativo con i dem è stato fatto. Dubito che il presidente voglia ripercorrere quella strada a Torino.

Due giorni fa lei ha messo un like a un video di Lo Russo.

Non mi sono accorta di nulla, stavo solo guardando il suo video, in cui tra l’altro rilancia le piste ciclabili, su cui noi 5Stelle abbiamo lavorato per cinque anni. Il Pd ci ha fatto la guerra su questo, e ora le promettono anche loro.

Ma lei la coalizione giallorosa a livello nazionale la farebbe?

Certamente. Io vengo da quell’area politica, e poi al nostro Paese manca una coalizione che metta al centro l’ambiente. Questo è un progetto da costruire, su cui bisogna insistere.

Se i sondaggi la danno terza avrete fatto errori. Cosa correggerebbe da sindaca?

Da tanti anni in centro c’è una sorta di Ztl che dura un paio d’ore. Noi avevamo lavorato a un progetto, Centro aperto, che andrebbe completato e realizzato. E poi c’è da fare sul comparto lavoro, perché abbiamo un alto tasso di disoccupazione in città. Per questo penso a delle zone a Torino dove incentivare le imprese e chi voglia assumere con sgravi fiscali.

Torino è anche la città di una sconfitta, anzi di una ferita per il M5S: il Tav.

Resto sempre della mia idea, è inutile e costoso se mai verrà costruito. Sarebbe stato molto più utile adoperare quei soldi per infrastrutture territoriali come la Metro 2, visto che abbiamo già avuto 870 milioni per la prima tratta.

Lei ha vinto le Comunarie, ma la sindaca Appendino sosteneva un altro candidato. Si sente appoggiata da tutto il M5S?

Assolutamente sì, tutti stanno lavorando, c’è compattezza. E sento anche il sostegno di Conte, che sabato sarà a Torino.

 

 

Lo Russo (Pd) “Nessuna apertura ai 5Stelle, non chiederò voti ai leader”

 

“Io ho detto che decidono i cittadini, che non darei indicazioni di voto, e che a titolo esclusivamente personale voterei Sganga nel secondo turno”. Il giorno dopo l’almeno apparente segnale ai 5Stelle, il candidato sindaco del Pd Stefano Lo Russo giura: “Nessun apparentamento con il M5S”.

Lei l’apertura l’ha fatta, Lo Russo. Ora sta correggendo?
Ma no, il senso delle mie parole è chiaro. Per me dovranno essere i cittadini a scegliere nel ballottaggio, che non sarà un secondo tempo ma una seconda partita. Io penso che possiamo vincere al primo turno. Ho solo detto che se proprio dovessi scegliere tra i due voterei Valentina Sganga, non tanto per Paolo Damilano (il candidato del centrodestra, ndr) ma per chi è dietro di lui, cioè Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

Lei non è l’uomo ideale per la mediazione, visto che presentò anche un esposto contro la Appendino. Tanto che la sua candidatura è parsa un imporsi del Pd torinese rispetto al partito nazionale, che voleva l’accordo con il M5S.
Il Pd nazionale ha rispettato l’autonomia dei territori: le scelte non si fanno in una stanza romana ma coinvolgendo i torinesi, quindi innanzitutto il Pd di Torino, che poi ha scelto di fare le primarie. Scelta alla luce del sole.

Ma per vincere il ballottaggio avrà bisogno dei voti del M5S.
In caso di ballottaggio dovremo rivolgerci a tutti gli elettori degli altri 11 candidati, compresi i 5S. Dopodiché i ragionamenti vanno fatti con i voti nelle urne, non con i sondaggi che, peraltro, vengono frequentemente smentiti. Ma ribadisco che non ci sarà alcun apparentamento: il perimetro della coalizione è definito e non cambia. Sono convinto che molte istanze degli elettori dei 5Stelle siano nel programma del centrosinistra. Penso ai temi dell’ambiente, dei diritti e dell’attenzione per le persone più in difficoltà.

Le farebbe piacere un appello di Conte a suo favore?
A decidere devono essere i cittadini torinesi. È a loro che ci rivolgeremo e non ai segretari dei partiti romani.

Però Letta prova a costruire una coalizione con il M5S.
Osservo con doveroso rispetto il processo evolutivo del Movimento, e l’abbandono totale dell’impostazione delle origini. Il M5S non esiste praticamente più, e quello che sta diventando potrebbe rappresentare uno degli interlocutori del centrosinistra. Lo vedremo nei fatti.

Da sindaco cosa farebbe come prima cosa?
Ne farei due: chiamerei a raccolta imprese, sindacati, terzo settore per concordare una strategia di utilizzo dei fondi del Pnrr che faccia ripartire la città. Parallelamente riaprirei nelle periferie i servizi essenziali chiusi dalla giunta del M5S: anagrafi, biblioteche, presidi sanitari.

Salvini, Galliani e Ibra: è malato solo per i giudici

Ci sono due Silvio Berlusconi. Il primo è un uomo alla vigilia del suo ottantacinquesimo compleanno (che festeggerà il 29 settembre), con i postumi del Covid che aggravano i suoi antichi acciacchi cardiaci. Tutto ciò lo obbliga spesso a frequentare medici e ospedali, con preferenza per il San Raffaele di Milano e il suo curante di fiducia, Alberto Zangrillo. Il secondo Berlusconi è un politico che non vuole rinunciare al suo ruolo di leader. Il primo è raccontato dai suoi legali come un imputato che non può seguire dignitosamente le udienze dei tre processi che ha in corso ed è costretto dunque ad avanzare continue richieste di legittimo impedimento per motivi di salute. Il secondo fa politica, incontra gli altri leader, tiene riunioni di partito, incontra campioni dello sport per simpatiche photo opportunities.

I due Berlusconi intrecciano le loro vite con un’altalena di up and down. L’ultima mossa è di ieri. Ennesima assenza dal processo Ruby 3 di Milano. Ennesima richiesta di sospensione, perché secondo il difensore Federico Cecconi ha bisogno di “riposo assoluto” a causa dei ricorrenti episodi di fibrillazione atriale. Si oppone l’accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dall’aggiunto Luca Gaglio: “Questa estate abbiamo visto l’imputato scorrazzare in kart nella sua Sardegna”. Il Tribunale decide che serve una perizia medico-legale per stabilire le reali condizioni di salute di Berlusconi. Ennesimo rinvio (al 15 settembre). Stralcio della sua posizione e rinvio anche dei due processi-figli del Ruby 3, a Siena e Roma. Intanto, mentre le udienze saltavano, noi abbiamo visto Berlusconi “prendere in mano la situazione dell’Italia, discutere del nostro futuro e di quello dei nostri figli, venire fotografato con altri leader politici”, ha sottolineato in aula Tiziana Siciliano. Dopo il suo ritorno dalla Francia dove era stato ricoverato per Covid (con conseguente sospensione dei processi), il 14 febbraio 2021 è convocato contemporaneamente dal Tribunale di Siena (per il filone senese del Ruby 3) e dalla Procura di Roma (per indagini sull’audio del giudice Amedeo Franco registrato ad Arcore): doppia assenza, perché ricoverato per aritmia cardiaca nel Principato di Monaco. Ma il 9 febbraio si presenta pimpante a Palazzo Chigi: vuole essere lui a incontrare Mario Draghi, incaricato di formare il nuovo governo acchiappatutti. Berlusconi appare in forma anche il 18 febbraio, quando va in visita ai “ragazzi” del Monza, la sua squadra di Serie B. Il 27 va addirittura allo stadio per assistere alla partita con il Cittadella. Dopo le ricadute e le zone rosse pasquali, a giugno spara una serie di interventi telefonici: alla presentazione del candidato sindaco del centrodestra a Torino, Paolo Damilano; alla convention di Forza Italia; all’inaugurazione della campagna elettorale a Milano. Poi si trasferisce per l’estate in Sardegna. E avvia a luglio una serie di incontri immortalati da fotografie sorridenti. L’11 con Adriano Galliani, per guardare insieme la finale degli Europei. Il 18, con l’eroe della Nazionale italiana Gianluigi Donnarumma, che posta su Instagram la foto dell’incontro, in maglietta e bermuda: “È sempre un onore e un privilegio incontrare il Presidente Berlusconi”. Lo stesso giorno, B. accoglie pure Vincenzo Raiola, cugino del potente procuratore calcistico Mino che il portiere considera inseparabile. Anche qui, foto (un cin cin in pantaloncini da mare) e didascalia in estasi: “C’è solo da inchinarsi, numero 1!”. Il 3 agosto arrivano Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, che poi racconta: Silvio si è messo a guidare “la macchinetta elettrica come un pazzo” per portare gli ospiti a fare il giro del parco, prendendo “le curve come un pilota di Formula 1”. Il 7 agosto si torna al calcio: ecco Zlatan Ibrahimovic, campione del Milan che incornicia così l’evento: “La potenza non fa le cose giuste. Fa solo la storia”. Dopo Ferragosto, Berlusconi riceve anche Pier Ferdinando Casini e Giovanni Malagò. Il 20 agosto tocca a Matteo Salvini, in pantaloncini e maglia del Milan. Chissà che cosa ne pensa l’altro B., quello del “riposo assoluto”.

b. diserta il tribunale per prepararsi al Quirinale

L’aveva promesso a mamma Rosa. “Vedrai, riuscirò a diventare presidente della Repubblica”, le disse Silvio Berlusconi quando era ancora in vita. Ed è anche per questo che il sovrano di Arcore ci crede davvero. Il Quirinale. Tredicesimo capo dello Stato. Chi l’avrebbe mai detto per uno che negli anni Settanta faceva il palazzinaro milanese facendosi ritrarre in blazer blu e rivoltella in bella vista sul tavolo per paura dei sequestri. O che negli anni 80 fondava la grande tv privata italiana strappando alla Rai niente meno che il suo volto più noto: Mike Bongiorno. O quello che è stato coinvolto, e a volte condannato o prescritto, in ogni tipo di processo: dalla corruzione al falso in bilancio, dal concorso esterno in associazione mafiosa alle stragi del 1993. Non proprio il curriculum ideale per assurgere al colle più alto di Roma. Per non parlare degli scandali sessuali e delle frequentazioni discutibili. “Il suo problema è anche l’accreditamento all’estero, specie negli Stati Uniti, dove si ricordano di lui solo per il Bunga Bunga e l’amicizia con Putin”, racconta un ex forzista.

 

“Anche Mitterrand aveva amanti più giovani di lui”

Davanti a queste obiezioni, lui non fa un plissé. “Pure François Mitterrand aveva amanti più giovani di lui di 50 anni e questo non gli ha impedito di essere un grande presidente”, ha risposto qualche giorno fa a un interlocutore. Mitterrand, però, non aveva amici in rapporti con la mafia e non si prese un boss delle cosche come stalliere. Ci sarebbero poi ancora quel paio di processi in corso, come il Ruby-ter, dove è accusato di corruzione di testimoni, per i quali però è convinto che sarà assolto. E poi c’è la salute, quel continuo andirivieni dal San Raffaele, con problemi che spuntano puntuali ogni qual volta è atteso in un’aula di giustizia. In realtà non sono in pochi a pensare che le sue condizioni si aggravino a comando e in realtà stia molto meglio di quello che vuol far credere. “Anche perché, se stesse così male, al Quirinale non ci penserebbe proprio”, fa notare un parlamentare.

Quota 476: mancano solo 30 voti per eleggerlo

 

E invece ci pensa, eccome. Accarezza l’idea come gli garba accarezzare i suoi amati barboncini simil-Dudù. E sta lì a far di conto. Secondo il suo personale cartellino, è a quota 476 voti. Gliene mancherebbero poco più di una trentina per la maggioranza assoluta. Quindi agisce di conseguenza. Ad esempio, raccontano che, quando Giovanni Toti annunciò il suo addio a FI, diede ordine di “non attaccarlo troppo, perché quelli sono pur sempre voti miei”. “Suoi, presidente…?”. “Miei nel senso del Quirinale”, fu la risposta che gelò gli astanti. Ogni qual volta, poi, che Meloni o Salvini paventano il voto anticipato, perché “così vinciamo una volta per tutte e ti portiamo al Colle”, lui si mostra sempre lusingatissimo. “Lo so, lo so. E vi ringrazio…”, sorride. Per lui, infatti, “sarebbe una soddisfazione enorme e un giusto risarcimento dopo aver patito anche l’umiliazione di essere espulso dal Senato…”, ha detto più volte. In questa chiave va letto anche l’appello di Alessandro Sallusti a Sergio Mattarella due giorni fa. “Presidente, riabiliti Berlusconi per unire il Paese…”. Già, unirlo, però, con un personaggio che l’ha diviso per vent’anni.

Le lusinghe sovraniste di lega e fratelli d’Italia

 

Salvini e Meloni, nel frattempo, lo blandiscono. Glielo fanno credere, per tenerselo buono e mettere le mani sui suoi voti. Quel 7% di zoccolo duro forzista che fa gola a entrambi. Due giorni fa, però, la leader di FdI, intervistata da Libero, in un momento di sincerità ha ammesso che l’ex premier “non ha grandi possibilità e per questo il centrodestra deve iniziare subito a lavorare su un candidato capace di raccogliere consensi anche in campo avverso”. Parole che hanno provocato una fitta al debole cuore del Caimano. “Ma come, quell’ingrata. È pure venuta qui a Villa Certosa e ora mi pugnala alle spalle”, sembra di sentirlo dire.

I consigli di Licia Ronzulli e la previsione di Urbani

 

Lui, nel frattempo, da mesi cerca di ritagliarsi un profilo, e rifarsi una verginità, da padre della patria. Così viene spiegato il suo non abbassarsi al chiacchiericcio e alle polemiche quotidiane, dal green pass al reddito di cittadinanza. “Non vuole esporsi, ma restare un passo indietro, da figura super partes”, racconta una fonte. Così come i suoi movimenti ondivaghi verso gli alleati: prima il partito unico, poi la federazione, eccetera. Tutte mosse suggerite dal suo entourage, a partire da Licia Ronzulli, che già si vede al Quirinale. “Fa’ come dice Salvini, assecondalo, e Matteo ti porta al Colle”, i consigli dello staff. “Lo tengono buono allungandogli la carota del Quirinale per farsi i fatti loro, ma quasi nessuno ci crede davvero”, sussurra qualche forzista. “Faccio notare che gli unici a ripetere il suo nome per il Colle nel partito siamo io e Tajani. Gli altri, chissà…”, osserva maliziosamente Gianfranco Rotondi.

Così, per sondare le sue reali possibilità, ci rivolgiamo a un suo lontano amico, Giuliano Urbani. “A parte Draghi, competitor alla sua altezza nel centrodestra non ne vedo. Berlusconi è il candidato naturale: ha tutto il diritto di ambire al Colle. Oltre a Renzi, che vorrà qualcosa in cambio, lo voterebbe pure qualche grillino. Detto questo, i voti che gli mancano sono pochi numericamente ma troppi politicamente. Insomma, è molto dura, quasi impossibile”, osserva il professore che, nel lontano 1994, fondò con lui il partito azzurro con l’obbiettivo di dar vita a quella rivoluzione liberale rimasta una chimera.

“O aprono la crisi o sono fuori dalla Costituzione”

“Questo governo è fuori dallo spirito costituzionale…”

Perché, professor Revelli?

Perché con un qualunque altro esecutivo, dopo i blitz di Salvini che vota contro la maggioranza, si dovrebbe aprire un chiarimento politico. Ma se il comportamento si ripete, come in questo caso, dovrebbe aprirsi una crisi di governo.

Il professor Marco Revelli, 73 anni, da storico e politologo osserva con preoccupazione la trasformazione del sistema politico e istituzionale prodotta dal governo Draghi. Ernesto Galli della Loggia ieri sul Corriere ha parlato entusiasticamente di un semipresidenzialismo alla francese paragonando l’ex banchiere a De Gaulle, ma Revelli parla apertamente di “anomalia e scandalo della democrazia”.

Professore, cosa sta succedendo?

Abbiamo un doppio livello di governo. In alto un banchiere, un uomo solo al comando con i suoi fedelissimi, al piano terra un’accozzaglia di forze politiche libere di litigare tra loro. Si potrebbe dire: sotto il banchiere niente. E questo è il frutto di una scelta precisa: la formazione di un governissimo con dentro tutto e il suo contrario. Forse è il calcolo che ha fatto Mattarella quando pensava a un governo stabile. Ma questa è una stabilità mortifera: il governo sta in piedi nonostante la sua altissima litigiosità e per la volontà di un uomo solo. Draghi dice: “Se vado giù io viene giù tutto” o “io non posso andare giù”. Ma non va bene.

Perché?

Perché di fronte a fratture così profonde si dovrebbe aprire un chiarimento politico in Parlamento. E invece no: questo governo è fuori dallo spirito della Costituzione.

Galli della Loggia sostiene che sia un effetto delle mancate riforme del 2016 di Matteo Renzi.

È una clamorosa sciocchezza, quella controriforma avrebbe anticipato questa deriva.

Secondo l’editorialista del Corriere, però, Draghi rispecchia la volontà del popolo e Mattarella l’ha “costituzionalizzata”. È così?

Non è la prima volta che della Loggia confonde quello che piace al popolo con quello che piace a lui, ai suoi amici e agli azionisti del suo giornale. Non so a quale titolo Galli della Loggia interpreti la volontà popolare. Soprattutto visto che il nostro sistema dell’informazione ci presenta come miracolo ogni cosa che fa Draghi.

E quindi?

È la spia di una contrapposizione tra le élite e il popolo. L’unica certificazione della volontà popolare che abbiamo oggi risale alle elezioni del 4 marzo 2018 quando gli elettori premiarono il M5S e la Lega. Dal giorno dopo alcuni poteri economici, finanziari e dei media hanno iniziato a muoversi per giocare la carta Draghi pur di neutralizzare la domanda di cambiamento e di discontinuità chiesta dagli elettori. Tutto per distruggere la figura antagonista di Draghi, cioè Giuseppe Conte. I Galli della Loggia e i loro simili ci hanno provato da subito con Supermario: prima della formazione del governo gialloverde, poi nel 2019 con il cambio di maggioranza, nel 2020 con la pandemia e alla fine ci sono riusciti quest’anno.

Dalle riaperture ai magistrati: gli 8 no del Carroccio

A chi gli chiede a cosa porteranno questi strappi nella maggioranza, Matteo Salvini risponde così: “Non vi preoccupate, tanto Draghi non cade”. Una sicurezza data dal contesto, il semestre bianco in cui il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere, che in pochi giorni si è trasformato nella “strategia del logoramento”, come la chiamano i salviniani. Un modo, cioè, per piantare le sue bandierine – lotta agli sbarchi, no al green pass, no agli obblighi vaccinali, abolizione del reddito di cittadinanza – durante l’ultimo mese della campagna elettorale perché terrorizzato dal sorpasso di Giorgia Meloni alle prossime amministrative, ma non solo. Salvini sa che per mandare Mario Draghi al Quirinale a febbraio e porre fine a questa esperienza di governo che sta facendo perdere voti alla Lega a discapito di FdI, c’è un solo modo: logorare il presidente del Consiglio. Alzare i toni dello scontro, aprire spaccature nella maggioranza, provocare gli alleati di governo. Per far sì che a febbraio l’esausto Draghi, che come noto mal sopporta le schermaglie tra i partiti, possa convincersi che salire al Colle sia meglio che farsi logorare per un altro anno a Chigi. E dunque i voti con l’opposizione sul green pass sono solo un assaggio dell’autunno caldo che Salvini ha in mente, a partire dalla battaglia per abolire il reddito di cittadinanza. Strategia confermata ieri direttamente dal segretario della Lega: “Se alzare i toni ci permette di avere dei risultati, allora vuol dire che stiamo facendo il nostro mestiere”.

Non che fino a oggi il leader della Lega si sia comportato molto diversamente. Da febbraio il Carroccio ha messo in difficoltà il governo votando con le opposizioni o astenendosi per ben otto volte. Più di una al mese. L’esecutivo non è mai andato sotto in questi casi per il muro della maggioranza Pd-M5S ma il problema politico rimane. La prima volta risale al 7 aprile scorso quando la Lega, insieme a Forza Italia, decide di astenersi su una mozione di Fratelli d’Italia che chiedeva di abolire il cashback del governo Conte con il parere contrario di Draghi. Nemmeno due settimane dopo arriva il primo strappo, quello più doloroso, nel nuovo esecutivo: il 21 aprile i tre ministri leghisti Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia decidono di non votare in Consiglio dei ministri un decreto fondamentale, quello sulle riaperture. Dopo ore di trattative e di tensioni, Salvini ottiene la riapertura del Paese dal 26 aprile ma si impunta sul coprifuoco alle 22: obbliga Giorgetti a dichiarare l’astensione della Lega in Cdm (“Voi sapete perché” dice lui irritato). Un partito di governo che non vota un provvedimento in Consiglio dei ministri.

Una settimana dopo, stesso film in Parlamento: il 27 aprile, alla Camera, i deputati della Lega decidono di uscire dall’aula su due ordini del giorno di Fratelli d’Italia per chiedere di abolire il coprifuoco o allungarlo alle 24. Ma il Carroccio non ha messo in difficoltà il governo solo sulle misure anti-pandemia. Anche sulla giustizia quest’estate ha spaccato più volte la maggioranza. Il 26 luglio, mentre proseguono frenetiche le trattative tra Draghi, Cartabia e Conte per modificare la riforma della Giustizia, in commissione alla Camera Forza Italia prova a far approvare un emendamento per riformulare il concetto di pubblico ufficiale e salvare Silvio Berlusconi dai tre filoni del processo Ruby Ter.

Una norma ad personam, bocciata solo grazie ai voti giallorosa e quelli dei totiani che si oppongono al blitz di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Una settimana dopo, il 3 agosto, lo stesso succede in Aula: il Carroccio si astiene su un ordine del giorno dei meloniani che impegna il governo a introdurre la responsabilità diretta dei magistrati. Infine si arriva a mercoledì scorso, quando in commissione Affari Sociali alla Camera il salviniano Claudio Borghi e altri 6 dissidenti, imbeccati dal leader, votano per abolire il certificato verde. Uno smacco a cui seguono i voti in Aula di martedì e ieri: l’accordo Draghi-Salvini prevede che la Lega ritiri i suoi emendamenti e il governo non ponga la fiducia. Ma poi il tradimento arriva lo stesso: i leghisti in due giorni appoggiano quattro emendamenti di Fratelli d’Italia contro il pass. Nessuno approvato. Ma il governo traballa sempre di più.

Il Green Pass rimane “mini”. Nella Lega 30 contro Salvini

Sarà un green pass mini quello che varerà oggi il Consiglio dei ministri: l’obbligo sarà esteso solo ai lavoratori della scuola non dipendenti (cioè il personale delle cooperative che svolgono servizi nelle scuole). Si mette così in sicurezza la scuola per la riapertura (l’obbligo c’è già per i dipendenti). E poi si discute anche sui lavoratori “esterni” a contatto con strutture del settore sanitario come le Rsa. Ma per tutti gli altri lavoratori il provvedimento è rimandato. L’idea è quella di cominciare ad affrontare il nodo di tutti i luoghi di lavoro all’inizio della prossima settimana. I contorni però non sono ancora chiari e definiti: si potrebbe partire da tutti i lavoratori del pubblico e solo successivamente passare al privato.

Anche se l’idea, sia a Palazzo Chigi sia al ministero della Salute, è quella di estenderlo il più rapidamente possibile a tutti. Raccontano che non è facile scrivere le norme per un provvedimento così complesso, che ci sono anche questioni tecniche.

Ma il tema in realtà è politico. Come hanno evidenziato le votazioni sul decreto Green pass in conversione alla Camera, la maggioranza marcia tutt’altro che unita. Il problema numero uno si chiama Lega, con i deputati del Carroccio che hanno detto no ieri anche all’obbligo di certificato ai minori, insieme a Fratelli d’Italia. Dopo aver votato con FdI il giorno prima anche sull’obbligo per il ristorante. E ora minacciano di astenersi nel voto sul provvedimento finale, se non verranno accolti degli odg. Matteo Salvini ci ha tenuto a dire che Mario Draghi era informato dei voti contrari. Ma a Palazzo Chigi smentiscono: non è previsto che una forza di maggioranza voti contro il governo, dicono perentori. Mentre ammettono che c’è un problema Lega vero, come è già stato con M5S sulla giustizia. Draghi ha intenzione di andare avanti. Come si risolve il problema, però è tutto da vedere. Dentro al Carroccio monta però non solo l’insofferenza nei confronti del governo (in testa, Claudio Borghi), ma anche contro il leader. Tanto è vero che nelle votazioni contro il governo sono stati contati una trentina di assenti. Tra loro, alcuni notoriamente governisti come Paolo Grimoldi e Christian Invernizzi. Ma la dissidenza nel partito cresce, nell’area dei vicini a Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti: si allungano i sospetti su vari deputati, tra cui pezzi grossi come Barbara Saltamartini, Raffaele Volpi e Igor Iezzi.

I tempi non sono maturi per un assalto al segretario, ma se il Carroccio perdesse le Amministrative, tutto diventa possibile. Per quel che riguarda la tenuta del governo, però, anche una Lega balcanizzata crea i suoi problemi. Cosa che a Palazzo Chigi cominciano a considerare.

Anche il resto della maggioranza non è così compatto. L’emendamento di FdI contro l’obbligo di green pass per i minori a scrutinio segreto ha avuto 268 voti contrari e 137 favorevoli con parecchie assenze anche tra i Cinque Stelle, per dire. E Renato Brunetta, ministro della Pa, durante il question time si è scagliato contro Roberta Alaimo (M5s) sullo smart working in maniera piuttosto feroce.

Sul fronte dem, il segretario Enrico Letta ancora non si spinge a chiedere una verifica formale, ma ritiene che la Lega sia ormai fuori dal governo. Più un desiderio che una realtà, in questo momento. E però al Nazareno ribadiscono il sì all’obbligo vaccinale. Una misura che – almeno per ora – Palazzo Chigi non può prendere in considerazione, anche per le posizioni di Salvini. Non a caso, ieri Giuseppe Conte ha ribadito il suo sì, come extrema ratio. Un modo per alzare i toni e cercare di spingere il più possibile fuori l’alleato leghista. Mentre dopo le Amministrative potrebbe partire una slavina che porta direttamente a Draghi al Colle e alle elezioni anticipate.

Gli acufeni

L’altra sera, a Dimartedì, è andata in scena la versione farsesca della piaga nazionale di chi arieggia la bocca parlando di giustizia. E, come dice Totò all’on. Trombetta, lo lasciano parlare. In studio il pm Gratteri, i giornalisti Damilano, Senaldi e Barbano (vicedirettore del Corriere dello Sport) e la scrittrice Antonella Mannocci Galeotti di Larciano in Boralevi, ma anche un po’ Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, che svolge nei talk una funzione molto simile all’acufene. Lo sguardo fra il basito e lo sgomento di Gratteri era impagabile, ma indescrivibile: solo immaginabile. Barbano: “Lei ha indagato l’ex presidente della Calabria, finito al domicilio coatto (sic, ndr) e dimissionario, poi la Cassazione ha respinto il suo provvedimento”. Gratteri: “Il provvedimento non era mio: il pm chiede, il gip dispone. S’informi, mentre segue lo sport”. Dopo la figura barbina, Barbano scompare: si teme che sia corso a nascondersi sottoterra, invece è solo caduta la linea. Su Cartabia e improcedibilità, la Boralevi è molto preparata: “Ho letto gli articoli-comma (sic, ndr) e non c’è solo la prescrizione”. Gratteri: “No, guardi, è l’improcedibilità, che è cosa diversa. Se uno è condannato in primo grado e l’appello dura più di 2 anni, la condanna finisce nel nulla”. Vien Dal Mare: “Nel testo che ho letto io non si dice che c’è l’im…pro…”. Gratteri: “Improcedibilità”. VDM: “Ecco, sì, im… pro… ce… di… bili… tà!” (aria soddisfatta per esserci riuscita). G: “Scusi, ma lei cosa ha letto?”. VDM (menando il can per l’aia): “Ma ci sono molte altre misure chieste dall’Europa”. G: “L’Europa non le ha mai chieste”. VDM: “Sì, riforme che abbrevieranno davvero i processi, i giudici lavoreranno meglio”. Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. G: “L’Europa ci chiede di fare processi più veloci, non di impedirci di fare i processi”. Amen.

Senaldi parte bene: “Gratteri conosce la riforma meglio di me”. Poi ce la mette tutta per dimostrare che non sa neppure cosa sia: “La Cartabia ve la siete voluta: l’Europa condanna la nostra giustizia viene condannata in sede penale e civile (sic, ndr). È solo colpa vostra”. Gratteri tenta di spiegare che il giudice, se gli ammazzano i processi, lavora meno: le vittime siamo noi. Senaldi: “L’Anm è stata decapitata dal caso Palamara” (è il Csm, ma fa niente). Boralevi modello signora mia: “Noi cittadini siamo demoralizzati per i processi lunghi… Lei usa l’enunciato logico”. Qualunque cosa voglia dire. Barbano, riavutosi dalla figuraccia, ne fa subito un’altra: “Lei ha mai chiesto l’assoluzione di un suo imputato?”. G: “Sì”. Imbarazzo. B: “Mi dica qualche caso”. G: “Venga nel mio ufficio e le mostro le carte”. Non sappiamo se sia lecito, ma per assistere alla scena pagheremmo qualunque cifra.

Anfibi sporchi e scatti dal lager: Serena Dandini vince “I fiori blu”

Venti titoli in gara, dieci finalisti, ma solo un vincitore. O meglio, una vincitrice: Serena Dandini, con La vasca del Führer (Einaudi). La seconda edizione del Festival letterario “I fiori blu”, sotto la direzione artistica di Alessandra Benvenuto, quest’anno ha premiato il romanzo della conduttrice televisiva e scrittrice romana ispirato alla figura della reporter di guerra Lee Miller.

Opera che ha ricevuto il plauso di una giuria tecnica, presieduta dall’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e composta da molti nomi noti, fra cui Massimo Recalcati, psicoanalista e scrittore, Ritanna Armeni, Marco Ferrante e la nostra Silvia Truzzi, autrice anche del romanzo Fai piano quando torni per Longanesi.

Ne La vasca del Führer, Dandini dialoga a tu per tu con una delle figure più significative e anticonformiste della storia dell’emancipazione femminile del Novecento. Tanto per fare alcuni esempi, Lee Miller Penrose, la protagonista, vantava tra i suoi più cari amici personaggi della caratura di Max Ernst, Jean Cocteau e Pablo Picasso. Quest’ultimo le dedicò un ritratto. Inoltre fu tra le prime reporter a seguire la Seconda guerra mondiale in Europa, accanto all’esercito statunitense, e a entrare nei campi di concentramento dopo la fuga dei nazisti.

Tutto parte dall’immagine di copertina: la si vede specchiarsi nell’obiettivo della sua inseparabile Rolleiflex mentre è immersa in una vasca da bagno; ai piedi, gli anfibi sporchi del fango del campo di Dachau, da cui ha appena realizzato un reportage, e una cornice con Adolf Hitler. Uno scatto ritrovato per caso da Dandini che ha ispirato l’intero libro.

In finale sono poi arrivati altri tre volumi, segnalati dalla giuria tecnica e acclamati dalla giuria popolare in base alle preferenze. Dei 730 voti totali, 158 sono andati a Daniela Lucangeli con il romanzo A mente accesa (Mondadori); 98 preferenze sono andate a Splendi come vita (Ponte alle Grazie) di Maria Grazia Calandrone e 75 a Le regole del cammino (Marsilio) del giornalista del Corriere della Sera Antonio Polito.

Più che una competizione, “I fiori blu” è un dialogo. Una riflessione sul presente tra saggisti, scrittori, docenti e divulgatori. Sono stati oltre venti gli incontri con i partecipanti al premio e l’ultimo di questi dialoghi avrà luogo nella serata finale che premierà Serena Dandini, presentata da Paolo Mieli. Si svolgerà giovedì 16 settembre alle 20.15 a Foggia, nel parco comunale “Karol Wojtyla”, ma sarà possibile seguire l’evento anche via streaming o sul canale digitale 72 di Teleblu.

Martone fa Scarpetta e insidia Sorrentino per il Leone d’Oro

Eduardo Scarpetta, chi era costui? Attore e commediografo (Miseria e nobiltà), fu demiurgo e campione del teatro dialettale, soppiantando Pulcinella nel cuore dei napoletani con la maschera di Felice Sciosciammocca e costruendosi un impero a conduzione esclusiva e formato familiare: mogli, compagne, amanti, figli legittimi, uno, e illegittimi, Eduardo, Peppino e Titina De Filippo.

A portarlo sul grande schermo è Mario Martone, che ne affida la trasfigurazione a Toni Servillo: Qui rido io è in Concorso a Venezia 78 e da domani in sala. Nella Napoli Belle Époque fotografa con sapore e acutezza il più grande azzardo, quella che Martone chiama hybris, di Scarpetta, ovvero la parodia della tragedia di Gabriele D’Annunzio La figlia di Iorio: la sera del debutto, la commedia viene sopraffatta dalle urla e dai fischi dei poeti e drammaturghi della nuova generazione e finisce a processo per plagio, prima causa sul diritto d’autore in Italia. Nel cast il bisnipote d’arte Eduardo Scarpetta, che fa Vincenzo, nonché Maria Nazionale (la moglie Rosa De Filippo Scarpetta), Antonia Truppo, Iaia Forte, Lino Musella (Benedetto Croce) e Roberto De Francesco, propone una teoria di questioni rilevanti: il rapporto tra arte e potere, giacché “da Aristofane in poi la parodia è graffio, e Scarpetta ha l’istinto popolare ribelle per graffiare il Vate”; l’indistricabile relazione tra arte e vita, palcoscenico e quinta, rappresentazione e elusione, che fa di Qui rido io declinazione del riconoscimento, sia esso professionale, identitario o familiare (Eduardo non riconobbe mai i tre De Filippo), e del teatro “un’assemblea, polis e comunità in continua evoluzione”.

Opponendo all’infinitamente grande di D’Annunzio l’“infinitamente piccolo” di Scarpetta, Benedetto Croce non mancò di umiliare l’istrione, ma Scarpetta non si presta al ruolo della vittima: “Fosse casa, teatro o Napoli, aveva un territorio di caccia dove vigeva la sua moralità e dove faceva di amore, testi, successo le proprie prede”. Il guadagno meta-cinematografico ed esistenziale, per non dire filosofico, di Qui rido io non è banale e al contempo non è pesante: il teatro umoristico di cui Martone si appropria non è solo derivazione filologica, ma la forma più adatta per sciogliere i grumi pensosi e spianare le rughe d’espressione, ovvero collegare poetica e pubblico.

Veleggiando tra documentazione e invenzione, spettri e mise en abyme, Martone e Servillo ci rivelano la caducità, la fragilità e l’indefinitezza dell’esperienza artistica: “Inutile sprecare il tempo a chiederci chi siano, i fantasmi come Pulcinella arriveranno per ciascuno di noi. Quel che apprezzo di Scarpetta è che decise di andarsene dalla scene prima che il pubblico lo dimenticasse: come Rossini, l’ha chiuso lui il sipario”. Eppure, più di tutto potette l’imponderabile: “Puoi prendere tutte le misure che vuoi – sorride Servillo – ma la vita ti fa maramao: l’avrebbero reso immortale i tre figli illegittimi”.

Qui rido io può trovare posto in palmares a Venezia, e Toni Servillo – anche in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Ariaferma di Leonardo Di Costanzo – conferma la preminenza, vedremo gli sviluppi: Sorrentino ha chance per il Leone, ancor più L’événement della francese Audrey Diwan e, rumors, The Power of the Dog di Jane Campion. Non dovrebbe averne alcuna l’ucraino Reflection di Valentyn Vasyanovych, per metà film bellico – e di propaganda – e per metà dramma familiare: torture e sushi, cadaveri negli inceneritori e droni, prende lo spunto dalla guerra russo-ucraina nel Donbass ma non quaglia, risolvendosi in snodi prevedibili e piccioni suicidi. Meglio, decisamente, il western Old Henry, che però sta fuori dai giochi: scritto e diretto da Potsy Ponciroli, mette un padre (il bravo Tim Blake Nelson) e un figlio alla mercé dei tagliagole e al cospetto della leggenda Billy The Kid, con un racconto classico e una storia mitologicamente rivoluzionaria. Ha ragione Nelson, “il western, che predica l’individualismo rispetto al collettivismo, è una forma d’arte americana”.

 

I miei anni col genio Battiato

“Ho comprato Fetus che ero un ragazzino”. Stefano Senardi oltre a condividere una amicizia speciale è stato il discografico per antonomasia di Franco Battiato. Durante la sua presidenza all’etichetta Polygram ha curato nei dettagli tre dischi fondamentali nella carriera dell’artista siciliano. “Nel luglio del 1982 ho organizzato un concerto di Franco a Imperia, senza guadagnare una lira. Fu sold out. Seguì un vero e proprio corteggiamento professionale”.

Da quale album avete iniziato a collaborare?

Da L’imboscata, la svolta rock. E subito dopo, Gommalacca, quella elettronica e Fleurs che ha fatto emergere, invece, le doti di cantante e interprete. La soddisfazione è stata quella di vedere incrementare le vendite dalle ventisettemila copie de L’ombrello e la macchina da cucire alle cinquecentomila de L’imboscata. La cura è una canzone nata mentre l’album stava andando in stampa: ho deciso di fermare tutto e rimandare di due mesi la pubblicazione per includerla. La genialità di Franco era la sua velocità di trasferire le sue intuizioni nei brani, qualcosa di extraterrestre. Fleurs l’ha registrato nell’ex frantoio di casa sua a Milo e l’ha concepito, arrangiato e realizzato in due giorni.

Nel videoclip di Shock In My Town lei è coprotagonista.

Il mio grande privilegio è di essere diventato amico di Franco pur essendo molto diversi. Sono una delle rare persone a cui ha concesso di stare in studio di registrazione. Ho raccolto pensieri e dettagli non solo nostri e ne ho scritto in un libro in uscita il 26 ottobre, si chiamerà L’alba dentro l’imbrunire (Rizzoli Lizard).

Come si svolgeva la giornata di Battiato quando eravate insieme?

Franco si svegliava all’alba e faceva il saluto al sole – una pratica yoga – e quando arrivavo a casa sua alle otto per fare colazione insieme lui, nel frattempo, aveva già letto un libro e stava per dipingere un quadro. Beveva ogni giorno un tè bianco giapponese e poi ascoltava mezz’ora di musica classica. Dopo pranzo si ritirava per una meditazione che riprendeva a fine giornata al tramonto e veniva da lui considerato un momento solenne. Nel tempo libero viaggiavamo molto e ho visto con i miei occhi a che punto arrivasse la sua generosità, regalando automobili, appartamenti e finanziando chiunque avesse bisogno. Tantissimi natali e capodanni insieme, ogni tanto cercavo di farmi spiegare i suoi libri e la meditazione.

Con lei ha mai condiviso la passione per l’esoterismo?

Di questo argomento non ne parlava con nessuno. A New York sono venuti a sentirlo Laurie Anderson e altri grandi intellettuali del rock: c’erano nella musica semplice di Franco dei messaggi difficili. Mi vengono i brividi solo a pensarci ma in alcuni brani nei quali citava l’Afghanistan è stato profetico. E anche quando prendeva una posizione politica spiazzava tutti: in seguito alla vittoria alle elezioni di Scapagnini, ex medico di Berlusconi, si sbarazzò della sua bellissima casa affrescata a Catania, in segno di protesta. Il più esoterico, religioso e mistico dei cantautori con l’invettiva Inneres Auge fece un attacco politico e sociale, ma nella seconda parte della canzone emerge la sua vera essenza, quella spirituale (“Ma quando ritorno in me sulla mia via, a leggere e studiare, mi basta una sonata di Corelli perché mi meravigli del creato”). Con una leggerezza tutta sua che pochi conoscono. E coinvolgeva tutto il suo essere, diventando spesso una persona molto divertente.

Alcuni suoi amici parlano di un lato inedito di “grande ispiratore di cazzeggi indimenticabili”, è così?

Durante i suoi tour c’erano momenti di grandi risate. A lui piaceva far divertire gli altri e non aveva atteggiamenti egocentrici da star. Un buontempone: ricorderò sempre dopo un Festival del Club Tenco una gara memorabile di barzellette tra lui e Guccini.

Battiato è una miniera di dettagli colti e ricercati: pochi conoscono la cover di Jaques Dutronc.

La sua preparazione era immensa e amava alla follia la musica francese, basti vedere le numerose citazioni in Fleurs. Anche le canzoni di De André sono di ispirazione d’oltralpe. Per quanto concerne l’elettronica si può dire che è stato il primo artista a utilizzare a 360 gradi un sintetizzatore.

Battiato ha dichiarato che le sue esibizioni durante il periodo sperimentale “sfuggivano dal suo controllo”.

I suoi dischi dell’epoca erano straordinari tanto da attirare l’attenzione di Stockhausen. Ha fatto un concerto alla Roundhouse di Londra con i Velvet Underground cercando le frequenze di Radio Tirana e il pubblico pensava che fosse il tecnico del palco. Idem al Festival di Re Nudo. In Turchia ha suonato una nota sola modulandola e chiudendo gli occhi per cinquanta minuti, quando li ha riaperti l’arena si era svuotata completamente. Lui quando raccontava l’episodio ci rideva su tantissimo. Tante volte è stato contestato, sul palco gli hanno tirato di tutto. Soprattutto scarpe.