“Don Pino promise ‘vi sposerò tutti io’. Poi lo fece davvero”

Aveva promesso a tutti i ragazzi che aveva seguito nel quartiere di Brancaccio a Palermo in quegli anni che, ovunque essi avessero deciso di sposarsi, le nozze le avrebbe celebrate lui. Era anche questo Don Giuseppe Puglisi, il sacerdote ucciso da Cosa Nostra il 15 settembre 1993 nel giorno del suo 56° compleanno a causa del suo impegno per salvare i giovani dai tentacoli della mafia.

Questo dei “matrimoni itineranti” del sacerdote dichiarato Beato dalla Chiesa nel 2013 – molti di quei giovani a cui si era legato durante la catechesi offerta loro sarebbero presto andati al nord a lavorare – è un risvolto poco noto della sua vita, ma a conoscerlo benissimo è Girolamo Trimarchi, cittadino di Mathi, piccolo centro del Torinese ma originario di Palermo, ex operaio Pirelli oggi in pensione e con una mezza dozzina di nipotini all’attivo: una vita tra coscienza di classe e lotte sindacali ma sempre nel solco dell’esempio dell’amico prete, figura iconica del cattolicesimo sociale e della lotte alle mafie.

Lui era infatti uno di quei ragazzi di quel quartiere difficile del capoluogo siciliano che poi Don Puglisi avrebbe sposato in trasferta. Era l’estate del 1971, il 7 agosto per l’esattezza. Le nozze si svolsero a Napoli, nella chiesa del quartiere della sposa, Olimpia Marigliano, che oggi nel piccolo paese ai piedi delle Valli di Lanzo conoscono anche per i suoi corsi di cucina organizzati per i ragazzi di un centro diurno e rivolti anche ai bimbi delle elementari.

“Ci disse ‘picciotti, se lo vorrete vi sposerò ovunque voi andiate a vivere’ – conferma Girolamo –. Lo promise e lo fece, da quel che so, praticamente con tutti quei ragazzi del nostro gruppo che si sposarono fuori da Palermo. Don Puglisi era un giovane prete all’epoca, ma per lui noi eravamo quasi dei figli. Per quel che poteva ci istruiva, aiutava, ci controllava, ci proteggeva: insomma ci teneva a toglierci dalla miseria e cercare di darci delle opportunità. Soprattutto puntava a tenerci lontano da certi ambienti, così contigui e allo stesso tempo pericolosi per i giovani più fragili e quindi più facilmente attratti dalla malavita e dai facili guadagni: non mi sono mai pentito di aver aderito ai valori di don Pino, poi divenuto più che un amico – continua Mimmo – nemmeno quando al mio arrivo a Torino ho dormito per una settimana alla stazione, nemmeno quando per vivere, i primi tempi prima di trovare il fatidico posto in fabbrica, ho raccolto rifiuti per strada come netturbino abusivo…”.

Girolamo, detto “Mimmo”, da una vita ormai in Piemonte, i soldi non li ha fatti ma è uno di quegli eroi invisibili che grazie a scelte di campo che si fanno anche grazie ad esempi come quello ricevuto da Don Puglisi e alla coerenza che implicano, si è costruito onestamente una famiglia e un’esistenza di cui “essere fieri… e riconoscenti”. Oggi Mimmo è anche noto nella zona in cui vive, oltreché per l’hobby di intrecciare cestini di paglia, arte ereditata dal papà con cui sbarcava il lunario ai tempi della vita a Brancaccio, anche per il suo impegno nel volontariato civile con l’Ata (Associazione Territorio e Ambiente).

Inoltre, Girolamo non è uno che esibisce i sentimenti: questa storia fino a pochi giorni fa la conoscevano – serbandola per pudore nel cassetto dei ricordi più intimi insieme alla foto che li ritrae con un raggiante e “capellone” Don Puglisi – oltre ai protagonisti, solo i suoi familiari e gli amici più cari. E se si parla d’emozione è facile capire perché quel pudore riemerge più forte al capitolo della morte del Don, tanto da non riuscire più a continuare… Tanto da rendere, dopo la barbara uccisione del sacerdote e dopo la morte dell’anziana madre, sempre più radi i ritorni nella città natale.

Quella tra Mimmo e Olimpia è però anche una storia d’amore tra due immigrati che si conoscono al nord negli anni 60 certo come tante, ma impreziosita da quello che non è solo dunque un aneddoto e nemmeno, per quanto bellissimo, accessorio narrativo ma un omaggio a quei valori di quel prete scomodo ma che manteneva sempre le promesse, che tanto avrebbero poi contato nella loro vita di sposi e cittadini. Ed è molto di più di solo un bel ricordo anche per la famiglia che hanno creato: Girolamo e Olimpia celebrano con tutti i loro cari, proprio a settembre, i cinquant’anni di matrimonio.

Draghi è Dragone, la Cina chiede il conto

Anche Mario Draghi deve passare per Pechino. Il presidente del Consiglio ha infatti aspettato con ansia la telefonata, tenutasi ieri, per il via libera dal presidente cinese Xi Jinping all’organizzazione del G20 straordinario sull’Afghanistan. Ma se il resoconto che fa Palazzo Chigi è limitato solo all’Afghanistan, a riprova dell’interesse italiano, quello che invece Xi consegna all’agenzia cinese Xinhua è molto più ampio.

Draghi si fa Dragone Sembrano comunque lontani i tempi in cui chi toccava i fili cinesi era bollato come un appestato. “Più Draghi e meno Dragone” titolava il Foglio a febbraio auspicando un rapporto molto più atlantista con la Cina. E sembrano superate le pernacchie che Giuseppe Conte riceveva per aver ipotizzato una visita all’ambasciata cinese nel giugno scorso insieme a Beppe Grillo. Il direttore del Giornale Augusto Minzolini twittava allarmato di un possibile “fattore C, lo strano legame tra i grillini e la Cina” destinato a prendere il posto del famigerato, e anticomunista, “fattore K” coniato negli anni 70. Repubblica parlava di una “spina per il Pd” a proposito del “M5S filocinese” mentre la Lega dava vita al valzer dell’ipocrisia. Lo scorso giugno infatti il vicepresidente leghista della commissione Esteri della Camera, Paolo Formentini, diceva di guardare “con apprensione al previsto incontro di Conte e Grillo con l’ambasciatore cinese”. Apprensione che deve essere svanita il 3 settembre, quando Formentini ha visto la foto del proprio leader, Matteo Salvini, accanto all’ambasciatore cinese aderendo a un comunicato finale in cui si parlava di “promuovere le relazioni sino-italiane e la cooperazione di mutuo vantaggio”.

Perché alla fine Draghi è dovuto passare da Pechino per sbloccare l’iniziativa afghana, anche se lo stringato comunicato diramato dal governo italiano fa pensare ancora a una situazione in divenire: “La discussione si è concentrata principalmente sugli ultimi sviluppi della crisi afghana e sui possibili fori di cooperazione internazionale per farvi fronte, ivi compreso il G20. Il Presidente Draghi e il Presidente Xi hanno discusso anche della collaborazione tra i due Paesi sia in vista del Summit di Roma, sia sul piano bilaterale”.

Molto più ampio il comunicato cinese apparso su Xinhua: “Cina e Italia – si legge – dovrebbero garantire che l’anno italo-cinese della Cultura e del Turismo previsto nel 2022 sia un successo e cogliere l’evento come l’opportunità di rafforzare la cooperazione bilaterale negli sport invernali”. Xi Jinping poi chiede il supporto convinto, e congiunto, alle Olimpiadi invernali di Pechino e di Milano-Cortina. Ma anche qualcosa di più: la Cina condivide con l’Italia “una cooperazione di mutuo vantaggio in cui ci si aiuta l’un l’altro in tempi di difficoltà” In particolare la “Cina è pronta a lavorare con l’Italia per mantenere la corretta direzione della partnership strategica”. E qui emerge la parolina magica, “Via della Seta” in particolare l’auspicio che l’Italia giochi “un ruolo attivo” nello sviluppo delle relazioni Cina-Europa.

Pechino pensa quindi sempre all’Italia come porta d’accesso all’Europa con il potenziale di conflitto anti-Usa che ne consegue. Xi Jinping si è limitato a un sostegno all’iniziativa del G20, ma senza entusiasmo.

Draghi, probabilmente, dovrà fare ancora qualche altra telefonata.

 

Hassan premier “terrorista” dei talib duri e puri a Kabul

È nella lista dell’Onu delle persone designate come “terroristi o associati a terroristi” il mullah Mohammed Hassan ‘Akhund’, premier ad interim del nuovo governo ‘provvisorio’ dei talebani: c’è il gusto della sorpresa – si pronosticava a quel posto il Mullah Abdul Ghani Baradar – nell’annuncio fatto ieri sera dal portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid. Mohammad Hassan è stato in passato consigliere politico del Mullah Omar, mitico leader della prima ora dei Talebani, oltre che governatore di Kandahar e ministro degli Esteri negli anni del primo governo degli ‘studenti’ tra il 1996 e il 2001. Hassan non è l’unico con l’etichetta di terrorista, fra i membri designati del nuovo governo afghano. Anche il ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonima rete di milizie dislocate lungo il confine con il Pakistan e ritenute vicine ad al Qaeda, è ricercato dall’Fbi per terrorismo – c’è su di lui una taglia di cinque milioni di dollari –, secondo quanto ricorda la stessa agenzia Usa appresa la sua nomina.

Circostanze che spiegano la flemma con cui gli Usa hanno accolto gli annunci talebani. “Non c’è fretta di riconoscerne il governo”: ha detto la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, a bordo dell’AirForceOne con il presidente Joe Biden. Psaki aggiunge che tutto dipenderà da quel che farà l’esecutivo, compreso il trattamento dei cittadini americani e dei loro collaboratori afghani desiderosi di lasciare il Paese. Prudente pure la Russia. “È importante per noi capire quali saranno i primi e i successivi passi” dell’esecutivo talebano: lo ha detto alla Tass il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. Il mullah Mohammad Hassan Akhund – un sinonimo di mullah – era una figura piuttosto defilata nella leadership dei talebani. La sua potrebbe essere una scelta di compromesso, visti i contrasti segnalati fra Baradar ‘il negoziatore’ e gli ‘irriducibili’ Haqqani. Hasan era finora presidente della Rahbari Shura (il ‘Consiglio della guida’, il Consiglio direttivo), che svolgeva le funzioni di governo del movimento, prendendo tutte le maggiori decisioni prima che fossero sottoposte all’approvazione della guida suprema, il mullah Hibatullah Akhundzada. Che, ieri, continuando a non mostrarsi in pubblico, ha assicurato, con un comunicato in inglese, che il nuovo governo “difenderà la legge della sharia”. Se i media occidentali puntavano su Baradar premier, i media pachistani avevano riferito giorni fa che lo stesso Akhundzada aveva scelto Hasan come nuovo premier: una conferma di come l’intelligence pachistana conosca bene i talebani e sia magari in grado di condizionarne le scelte. Baradar, co-fondatore dei talebani, negoziatore con gli Usa a Doha, sarà il vice premier. Il figlio del mullah Omar, il mullah Yaqoub, sarà ministro della Difesa; all’Interno c’è Haqqani. Erano entrambi fra i vice di Akhundzada, con Baradar. Pertanto, sono saltate le scelte ‘ad interim’ di Ibrahim Sadr all’Interno e del mullah Abdul Qayyum Zakir alla Difesa.

Per ora, nessun segnale di inclusività politica, né tantomeno di presenza femminile. L’Afghanistan “ha affrontato una grave crisi e l’emirato islamico ha deciso di formare questa amministrazione”, dice Mujahid: “Cercheremo di nominare figure di alta professionalità anche nel ruolo di vice e sotto-segretari”. Il nuovo governo “dovrà affrontare i problemi immediati, soprattutto la povertà”: “Il problema della sicurezza è risolto, perché non c’è più la guerra”, sostiene il portavoce, dando per acquisita la ‘pacificazione’, nel senso della conquista, del Panshir, la valle ribelle a nord di Kabul. Ma fonti di Kabul riprese dai media occidentali segnalano una recrudescenza delle proteste anti-talebani: a Herat, fonti mediche segnalano due morti e otto feriti, tutti da arma da fuoco. All’esterno del muro di cinta accanto all’ingresso dall’ex ambasciata degli Stati Uniti a Kabul è stata dipinta una enorme bandiera dei talebani, il vessillo bianco con la scritta nera. L’ambasciata è stata abbandonata dai diplomatici e dal personale statunitensi il 15 agosto. Da allora le funzioni dell’ambasciata si svolgono a Doha.

Bataclan: inizia il processo, l’enigma resta Salah il “muto”

Nella sua cella di massima sicurezza della prigione di Fleury-Mérogis, regione parigina, davanti alla telecamere che lo filmano 24 ore su 24, Salah Abdeslam non smette di pregare da giorni, hanno detto delle guardie a Le Figaro. “Difficile dire se è sincero o se è l’immagine che vuole dare di sé prima del processo”. Abdeslam è il solo membro ancora in vita del commando di dieci uomini che da oggi compare davanti alla giustizia per le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi. Forse ciò che più si aspettano le vittime e i francesi è sapere cosa Abdeslam abbia da dire su quella notte spaventosa. Ma il franco-marocchino, 31 anni, è chiuso nel silenzio dal suo arresto, il 18 marzo 2016, a Bruxelles. “Il mio silenzio è la mia difesa”, disse una volta. Sei anni fa si stava giocando la partita Francia-Germania allo Stade de France quando, alle 21:19, il pubblico udì un boato: il primo kamikaze si era fatto esplodere davanti alla porta D dello stadio. Il tempo sembrò sospendersi per un attimo, ma si continuò a giocare fino al fischio finale, mentre il presidente Hollande lasciava gli spalti. Alle 21:24 un altro commando attaccava i déhor di alcuni bistrot di Parigi e alle 21:40 i terroristi irrompevano nel locale Bataclan durante il concerto degli Eagles of Death Metal.

Il triplice attentato teleguidato dalla Siria fece 130 morti, tra cui Valeria Solensin, veneziana di 28 anni, e 350 feriti. Anche Abdeslam, che affittò le auto per commettere gli attentati, avrebbe dovuto farsi esplodere, ma non lo fece, forse perché la cintura non funzionò, o perché gli mancò il coraggio. Era invece fuggito con un complice a Molenbeek, in Belgio. I due furono persino controllati in auto alla frontiera e lasciati andare. Quel complice, Mohamed Amri, figura tra i 20 accusati, come Mohammed Abrini, l’uomo col cappello degli attacchi di Bruxelles del marzo 2016. Gli altri alla sbarra sono soprattutto personaggi che hanno fornito auto e armi ai terroristi. Sei dirigenti dell’Isis, forse già morti in Siria, sono giudicati in contumacia, tra cui i fratelli Clain che registrarono il messaggio di rivendicazione. Il processo si terrà fino a maggio in un’aula bunker costruita ad hoc nel Palazzo di giustizia dell’Île de la Cité, dove nel 2023 si svolgerà anche il processo per l’attentato di Nizza del 2016. Quasi 1.800 le parti civili.

Referendum sugli espropri. Case, la battaglia di Berlino

Per le strade della Capitale i poster elettorali più visibili e diffusi sono quelli gialli e viola con slogan in diverse lingue. Non si tratta di un partito politico, è la campagna a favore del referendum di iniziativa popolare per l’esproprio di appartamenti ai grandi gruppi immobiliari. I promotori vogliono applicare una parte della Costituzione mai seguita prima, per permettere allo Stato di nazionalizzare “terre, risorse naturali e mezzi di produzione”. Si tratterebbe della più grande socializzazione dalla caduta del Muro, vedrebbe coinvolti tutti i gruppi che possiedono oltre 3 mila alloggi. Secondo i calcoli del Comune di parla di oltre 220 mila alloggi.

“A Berlino quasi l’80% dei cittadini vive in affitto – dice Kalle Kunken uno dei promotori del referendum – vogliamo tenerci la nostra città, siamo conservatori. Queste persone non devono andare a vivere altrove”. Ogni anno, periodo pandemico escluso, ci sono 40 mila nuovi residenti. La fame di case non finisce mai. Con la riunificazione delle due Germanie centinaia di migliaia di abitanti dell’Est si trasferirono a Ovest. Grandi aree vicino a dove si trovava il muro restarono disabitate, ma sono al centro della nuova città. Tanti forzarono le porte di alloggi deserti, anche Angela Merkel, allora ricercatrice appena divorziata, ha vissuto due anni in un appartamento occupato. All’inizio degli anni 2000 qualcosa cambia, la Germania in recessione è il malato d’Europa, ma la sua Capitale attrae giovani da tutto il mondo. Il costo della vita non era comparabile con le altre metropoli europee e la città diventava un magnete. Per il sindaco di quegli anni, il socialdemocratico Klaus Wowereit, Berlino era “arm, aber sexy” (povera ma sexy).

Gli investimenti arrivarono, pochi volevano edificare, tutti volevano comprare. I tedeschi erano abituati a investire in bond statali con tassi di rendimento buoni e pochi rischi. Il “whatever it takes” di Mario Draghi riduce drasticamente il loro profitto e loro si rivolgono ai fondi immobiliari. Questi hanno comprano intere zone della città, buona parte dalle mani del Comune, e devono creare i dividendi attesi. Negli ultimi dieci anni gli affitti in città si sono duplicati, in un mercato normale la crescita dovrebbe essere di circa il 15% in un decennio. Chi, a inizio della crisi, ha comprato un alloggio nelle zone centrali della città oggi può rivenderlo fino a quattro volte il prezzo pagato.

L’idea del referendum è nata tra gli enormi palazzoni di Kottbusser Tor, a Kreuzberg, il cuore della gentrificazione cittadina. In queste torri vivono uno accanto all’altro le famiglie degli operai turchi con contratti d’affitto bloccati e i giovani laureti arrivati da tutta Europa. “Negli ultimi 15 anni il governo non ha costruito più case popolari – spiega il promotore del referendum – e ha lasciato che fosse il mercato a gestire i flussi. Ogni anno all’inizio dell’inverno il riscaldamento di queste case smette di funzionare, per qualche giorno o anche per settimane, è l’azienda proprietaria che fa pressione sugli affittuari che pagano meno”. La città è governata da Spd, Verdi e Die Linke. Una delle possibili coalizioni che potrebbero nascere anche per il governo federale dopo le elezioni del 26 settembre. Lo scontro sulle case è già avvenuto lo scorso anno. Il sindaco Michael Müller (Spd) approvò un tetto per gli affitti. I conservatori della Cdu e i liberali Fdp portarono la legge davanti alla Corte Costituzionale. Un limite ai prezzi degli affitti può essere imposto solo dal governo federale. il caso diventa nazionale.

Viste dagli altri Land le limitazioni al mercato immobiliare della capitale prendono subito il colore del socialismo. Spd e Verdi, che a livello locale hanno sempre sostenuto i promotori del referendum, fanno un passo indietro. “Per me le espropriazioni sono una linea rossa – ha dichiarato Franziska Giffey (Sps), candidata sindaca di Berlino e già ministra della famiglia dell’attuale governo Merkel – non voglio vivere in una città che manda come segnale: qui facciamo gli espropri”. Perché il referendum abbia validità deve votarlo almeno il 25% degli aventi diritto, circa 625 mila persone. Nel 2013 al referendum per la rinazionalizzazione dell’energia elettrica a Berlino votò l’85%. Ma il solo voto a favore non basta, la legge deve poi passare al voto del Senato cittadino. Gli investitori internazionali, nonostante le rassicurazioni della Giffey, temono una nuova coalizione rosso-rosso-verde spinta da un grande consenso cittadino.

Rai, serve il capo a San Marino: tv locale all’estero che genera debiti

Tra tutte le caselle che andranno riempite entro qualche settimana, la prima nomina che il nuovo amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, dovrà decidere sarà quella del nuovo capo della Rai di San Marino. Probabilmente la maggior parte dei lettori lo ignora, ma la tv ufficiale della Repubblica del Titano è partecipata, per il 50%, da Viale Mazzini. Tanto che è qui, al 7° piano del palazzo a vetri del quartiere Prati, che si decide chi sarà a guidarla. Il prossimo 12 settembre, infatti, l’attuale direttore generale San Marino Rtv, Carlo Romeo, va in pensione e bisogna trovare un sostituto, motivo per cui l’azienda ha aperto un job posting all’inizio di agosto.

I candidati non mancano, anche perché lo stipendio non è male: 223.563 gli euro percepiti da Romeo nel 2020. Così si sono proposti l’attuale direttore di Rai2 Ludovico Di Meo, ben due vicedirettori di Rai1, Giovanni Anversa e Angelo Mellone, l’ex responsabile delle relazioni internazionali Giacomo Mazzone e l’ex responsabile della Tgr dell’Emilia-Romagna, Antonio Farnè, costretto alle dimissioni nel 2019 dopo un servizio assai criticato sulla consueta commemorazione di Benito Mussolini a Predappio. Si dice sia lui quello in pole position per arrivare nella città del Titano.

Ma il tema è un altro: perché la Rai continua a sovvenzionare (dal 1991) quella che è a tutti gli effetti la tv locale di uno Stato estero, oltretutto rimettendoci? Nel bilancio 2020, per esempio, San Marino tv ha chiuso in debito per 684 mila euro, di cui metà a carico di Rai. Non sono cifre enormi, ma lo diventano se le si somma al quadro generale degli sprechi. Se poi si dà uno sguardo al palinsesto di San Marino Tv, è proprio il senso generale della partnership a risultare misterioso. Intanto, però, serve il nuovo direttore. E sarà la prima nomina da parte del nuovo capo azienda che in audizione in Vigilanza aveva annunciato un “ragionevole piano di riduzione degli sprechi e razionalizzazione dei costi”.

“Genova Jeans”, costi alti e bilanci opachi: la Corte dei Conti manda la Gdf in Comune

Costi più che raddoppiati, bilanci opachi, pochi visitatori, videoconferenze semideserte e, dulcis in fundo, una conferenza stampa finale (definita in modo forse non troppo fortunato “Diamo i numeri”) annullata all’ultimo minuto. Fino a questo momento “Genova Jeans” è stata questo: una controversa iniziativa del Comune di Genova dedicata al (presunto) Dna ligure del blue jeans. Ignorata dal grande pubblico e costata apparentemente molto – 1,2 milioni di euro, in buona parte pubblici, per cinque giorni – è diventata la polemica politica ligure di fine estate. A nemmeno 24 ore dalla sua conclusione, la vicenda è entrata in un altro campo: ieri la Guardia di Finanza, mandata dalla Corte dei Conti della Liguria, si è presentata negli uffici del Comune di Genova per acquisire tutti i documenti sulla manifestazione e valutare se c’è stato un danno erariale.

Il caso era stato sollevato nelle scorse settimane da alcuni consiglieri comunali d’opposizione alla giunta di centrodestra guidata dal sindaco Marco Bucci: “Nonostante ripetute richieste ufficiali di accesso agli atti i documenti non ci sono mai stati consegnati”, ha dichiarato Alessandro Terrile, del Pd. E ciò che è emerge dai dati forniti non sembra proprio esaltante: “Stando ai numeri ufficiali, per ognuno dei 13.600 visitatori dichiarati l’organizzazione ha speso 102,86 euro”. I critici hanno attaccano soprattutto le spese “faraoniche” per la comunicazione, gestite dall’agenzia EcoAge. “Oltre a un compenso complessivo di 179mila euro – dice ancora Terrile – per questa società erano state previste 67mila euro di spese di viaggio, 36mila euro di ‘accomodation’”. Tutto questo mentre ancora a pochi giorni dall’inizio della manifestazione, pubblicizzata generosamente su diversi media, il Comune era ancora alla ricerca di giovani volontari che lavorassero gratis.

Eppure nel dicembre 2020 il budget previsto era di meno della metà: 550mila euro. Come si spiega l’aumento dei costi? Alcuni privati, come la Compagnia San Paolo, hanno ridotto i contributi o si sono sfilati. Solo due le aziende coinvolte, Diesel e Candiani. Mentre il marchio della manifestazione è stato concesso a un’associazione privata. Una polemica finale ha riguardato anche un video dell’iniziativa, in teoria istituzionale, in cui compariva il logo di “Vince Genova”, lista a sostegno di Bucci, che ha già annunciato la sua ricandidatura nel 2022. Ma, visto come è finita Genova Jeans, forse non è una grande pubblicità.

Provoca incidente, fugge e si uccide col fucile da caccia

Ha provocato un incidente, è scappato e poi si è tolto la vita sparandosi al volto con un fucile da caccia. È morto così Nicolas Matteucci, 21 anni, operaio di Sant’Angelo in Vado (Pesaro Urbino). Lo scontro è avvenuto intorno alle 3:35 lungo la la SS 687 Pedemontana, nel territorio del Comune di Lunano. Il ragazzo tornava a casa dopo una serata con gli amici. Forse per un problema di precedenza, è avvenuta la collisione tra la sua Nissan e una Peugeot condotta da una donna. Nicolas si è allontanato subito dal luogo del sinistro, rifugiandosi in casa. La donna però ha visto il numero di targa e lo ha riferito ai carabinieri. Che intorno alle 4:30 hanno bussato alla porta del 21enne. Una situazione apparentemente tranquilla: i militari gli hanno subito detto che nessuno si era fatto male e gli hanno chiesto di seguirli sul luogo dell’incidente. Nicolas ha ammesso tutto e ha voluto sincerarsi che la donna fosse illesa. Poi ha chiesto di andare in camera per prendere i documenti. In quei pochi secondi ha preso il suo fucile da caccia e si è esploso un colpo alla testa.

Ruby Ter, B. chiede di differire ancora processo a Milano

Anche oggi l’udienza del processo in cui è imputato Silvio Berlusconi non si terrà. I suoi legali hanno presentato l’ennesima richiesta di rinvio per motivi di salute. Il processo è il Ruby ter, in cui il leader di Forza Italia è accusato di corruzione in atti giudiziari, per aver pagato una trentina di testimoni spingendoli a mentire ai magistrati che li interrogavano sulle feste del bunga-bunga ad Arcore. L’avvocato Federico Cecconi ha presentato istanza di legittimo impedimento, allegando la certificazione medica nella quale si ricorda che Berlusconi nelle ultime due settimane è entrato per tre volte all’ospedale San Raffaele di Milano: il 6 settembre (visita del suo medico personale, Alberto Zangrillo); il 1 settembre (ricovero per poche ore); il 26 agosto (degenza di una notte). A maggio, dopo quattro udienze saltate, i giudici della settima sezione penale, presieduti da Marco Tremolada, avevano concesso un rinvio di tre mesi e mezzo. Oggi dovranno valutare la nuova richiesta e decidere come proseguire il processo.

Palenzona&C. spaccano la lobby del casello. Pure Toto lascia: l’Aiscat ormai è solo Aspi

E sono tre. Anche il gruppo Toto (Strada dei Parchi, A24-25), dopo Gavio e Dogliani, lascia l’Aiscat. Il blitz che ha spaccato la lobby dei concessionari autostradali è l’ultimo colpo di coda di un sistema travolto dal disastro del Morandi dopo decenni di favori scandalosi, plasticamente rappresentato dalla figura di Fabrizio Palenzona e dallo strapotere di Autostrade per l’Italia.

Andiamo con ordine. Ieri l’assemblea di Aiscat doveva eleggere il nuovo presidente. A maggio Palenzona è stato costretto a dimettersi dopo un duro scontro col leader di Confindustria, Carlo Bonomi, che gli ricordò che le cariche ai vertici delle associate hanno un limite di due mandati. Palenzona era al sesto: 18 anni in cui lo storico manager dei Benetton ha incassato da ministri acquiescenti i rincari stellari delle tariffe che hanno fatto la fortuna dei concessionari. Palenzona ha cercato di restare in sella in prorogatio, poi ha preferito pilotare la nomina del successore: prima ha provato a imporre il responsabile legale di Autostrade, Amedeo Gagliardi, poi – in asse con l’ad di Aspi Roberto Tomasi, già n. 2 di Giovanni Castellucci (il manager imputato a Genova per il Morandi) – ha fatto saltare la candidatura unitaria del vicepresidente Mauro Fabris (Toto). Tomasi ha perfino preteso, e ottenuto, che il direttivo di Aiscat venisse reintegrato a 15 membri, con l’ingresso di tre nomi fidati, in modo da esser certo di poter imporre un “suo” nome all’assemblea: il prescelto è il trentino Diego Cattoni, ad dell’Autobrennero, approvato dal direttivo con 9 voti contro 6 e ratificato dall’assemblea.

Per tutta risposta, ieri anche il gruppo Toto (che gestisce la Roma-Teramo-L’Aquila) ha lasciato Aiscat. Due anni fa era toccato al n. 2 del settore, Gavio, abbandonare in polemica con la scelta di Palenzona e Aspi di fare la guerra al governo; poi uscì pure il gruppo Dogliani. Aiscat è ormai una succursale di Aspi: Cattoni la guiderà fino a fine anno e poi andrà scelto un successore quando Cdp avrà preso il controllo di Autostrade. Tomasi spera di incassare così un’improbabile riconferma con l’arrivo dell’azionista pubblico, tenuto fuori dal blitz. Palenzona – plurilobbista in grado di difendere contemporaneamente gli autotrasportatori, le concessionarie autostradali, le banche e gli aeroporti – ha mostrato che comanda sempre lui, infatti si è fatto nominare nel collegio dei probiviri. Con buona pace di Bonomi, di Cdp e pure del governo.