L’élite si salverà solo se ospitale

Le culture negroafricane e le spiritualità orientali potrebbero insegnare agli europei a diventare figli di Kant. Poiché il pianeta è rotondo e finito, scriveva Kant, noi siamo in qualche sorta “condannati” all’ospitalità; il cosmopolitismo deve essere ospitale.

Con la sua affermazione, Kant riprendeva il filo del vangelo in ciò che esso ha di più radicale: il teologo Christoph Theobald non esita a fare dell’ospitalità il segno messianico per eccellenza. Quello che in Kant è interessante è che egli lega questa esperienza messianica alla finitudine della creazione. Comunque sia, questo è ciò che l’Europa non conosce più, tanto sembra aver confinato l’esperienza cosmopolita a una piccola élite finanziaria di nomadi che non conosce più radicamento nazionale. È una minuscola minoranza che passa la vita nelle sale vip degli aeroporti, piegata sul suo smartphone 5G, senza più capire ciò che vivono quei due terzi della popolazione dell’Europa occidentale che non hanno fatto studi superiori. Il divario non è più solo finanziario, è anche educativo e, in fondo, culturale. E, poiché l’ascensore sociale, frutto della scuola della Terza Repubblica, è in panne dalla metà degli anni Novanta, questi due terzi di popolazione patiscono l’ansia e la realtà del declassamento, i fine mese a fare la spesa all’emporio solidale, e i servizi di rianimazione sovraccarichi quando sopraggiunge un’epidemia… a fronte di un gruppuscolo di privilegiati che il terzo della popolazione dotata di “istruzione superiore” cerca di imitare a ogni costo. Un terzo è molto, ha osservato il sociologo Emmanuel Todd. Si può vivere in endogamia quasi completa e di conseguenza diventare perfettamente ignoranti di ciò che in Francia provano milioni di uomini e donne in povertà (cioè con meno del 60% del reddito mediano, circa 1.000 euro al mese) e anche tutti gli altri che hanno una sola paura: precipitare a loro volta nella miseria. Così, quando i ceti popolari scendono in piazza, fanno sciopero o, che è poi la stessa cosa, votano Le Pen, la piccola élite “cosmopolita” si sente fortemente tentata dalla sindrome della fuga a Varennes. È proprio questa, a mio giudizio, una delle poste in gioco del dialogo tra i gilets jaunes e le élite dei centri città che hanno in mano le redini mediatiche, politiche e finanziarie.

FS Da come lo descrivi, il fenomeno mi sembra anche spiegare l’“insensibilità” di quel 10% di straricchi nei confronti della maggioranza della popolazione umana. O anche quella dei popoli euroamericani nel loro complesso, che, pur rendendosi conto che c’è qualcosa che non quadra se detengono da soli l’80% delle ricchezze del pianeta, fondamentalmente non si identificano con le umanità del cosiddetto Sud globale; può tutt’al più capitare che ne provino pietà o commiserazione, cosa differente dalla compassione o dalla comune fraternità. Non intendo certo generalizzare: di esseri di buona volontà ne esistono dappertutto. Ciò non toglie che le società occidentali sembrano fare fatica a rinunciare a uno stile di vita che devasta il pianeta e di cui il mondo intero deve sopportare i costi, come pure a stabilire rapporti economici più equi con il resto del mondo.

GG Quello che dici mi fa pensare alla parabola dei tre anelli di Lessing, un altro grande Aufklärer (filosofo illuminista), contenuta nel suo Nathan il saggio. Muore un padre, che è un re. Ciascuno dei suoi tre figli pretende di essere l’erede legittimo, poiché detiene l’anello del potere. È dunque ovvio che due dei tre anelli sono falsi. Solo uno può essere autentico. Come riconoscerlo? Alla fine arriva il profeta Nathan e dice, in sostanza, ai tre uomini: “In effetti non si sa chi sia il vero erede, si ignora chi tra voi possieda il vero anello. Ma si verrà a scoprirlo nel corso della storia, grazie all’ospitalità etica di cui ognuno darà prova nei riguardi degli altri fratelli”. Certo, quello che Lessing ha in mente quando scrive sono le tre religioni abramitiche che si disputano il territorio europeo e la legittimità dell’eredità di Abramo. Ma in verità si potrebbe dire che è il lascito dell’utopia democratica ed egualitaria in cerca di un erede. Uno dei tre figli è l’Europa, le Europe, un altro potrebbe essere l’Africa, le Afriche. Non ci sono tre eredi, sono 60! In fin dei conti, è l’ospitalità etica di cui ognuno saprà dar prova nei confronti degli altri che proverà chi è il vero erede di questa utopia.

FS Sono d’accordo su questo punto. Non è più il tempo di proclamare i valori, ma di incarnarli. Sta qui il grande deficit. Abbiamo avuto un’Europa dichiarativa. Ma quando si tratta di incarnare quei proclami nella contemporaneità, nella crisi mondiale che stiamo attraversando, nell’attualità del mondo – che è davvero rovente: Israele, la Palestina, l’ambasciata americana a Gerusalemme, i morti di Gaza… –, c’è come un’impasse. Il fatto che neppure si arrivi, da un punto di vista etico, a nominare un massacro come tale, a designare i crimini e le violenze col loro nome, e che non si cessi invece di eufemizzare la realtà con il linguaggio, è appunto il segno della totale dicotomia tra la capacità di dichiarare i valori, che vengono sbandierati e propalati per il mondo, e la capacità di incarnarli. È forse in questo scarto che dobbiamo cercare un’apertura. Riguardo all’ospitalità, osserviamo che la Germania ha fatto uno sforzo considerevole nel 2019 – un gesto che ha avuto per Angela Merkel un costo politico enorme –, ma mi chiedo se è noto il fatto che in certi Paesi africani la popolazione straniera può arrivare al 40%. Persone che sono comunque accolte. Una percentuale che può raggiungere e anche superare il 50%. L’idea sarebbe quella di andare al di là del precetto etico dell’ospitalità e di farne una cosmopolitica che legherebbe gli Stati tra loro, obbligandoli ad accogliere la vita momentaneamente fragilizzata e a prendersene cura. Passare dal dovere dell’ospitalità al diritto all’ospitalità, con tutti gli obblighi vincolanti che discendono dal diritto.

GG Quale Paese hai in mente? La Costa d’Avorio? Il Libano?

FS Penso alla Costa d’Avorio… al Gabon.

GG Io penso anche al Ciad. I rifugiati del Darfur sudanese e quelli centrafricani costituiscono quasi un quarto della popolazione di quel Paese. Ed è tanto più sorprendente in quanto le popolazioni autoctone non sono, in molti casi, molto meno bisognose delle popolazioni di profughi ospitati in campi di fortuna. Come minimo, questi campi rivelano la difficoltà degli Occidentali a manifestare l’ospitalità: il campo di Lesbo, per esempio, è la vergogna dell’Europa. Hai citato i massacri di Gaza… Si potrebbe pensare anche al libro Rwanda, la fin du silence di un ufficiale francese che prese parte all’Operazione Turquoise in Rwanda. L’autore riflette sul continuo non-detto che si vive in Francia riguardo al contributo di quell’operazione nel ritardare l’avanzata del Fronte patriottico rwandese (Fpr)…

FS Mettendo così in salvo i genocidari…

GG … mentre l’Fpr cercava di mettere termine ai massacri…

 

MailBox

 

L’accanimento No-Rdcper salvare i “prenditori”

Tanto accanimento contro il Reddito di cittadinanza, soprattutto da parte di chi il “Sussidistan” di Stato – secondo l’antico motto “gli utili sono miei, le perdite sono di tutti” – lo mette in pratica da sempre con tecniche di “prenditoria” raffinate, anche nella comunicazione. Ma non sarà che le reali priorità per questo scalcagnato Paese siano la certezza del diritto e l’evasione fiscale, spesso praticata su larga scala dai difensori duri e puri della linea No Rdc? Perché Conte e Letta non innalzano queste due bandiere da contrapporre agli interessi di pochi e alla propaganda sul “prima gli italiani” per difendere (ma da chi?) i confini nazionali?

Marco

 

Nucleare: un consiglio al ministro Cingolani

Prima di parlare di reattori nucleari di IV generazione, forse il ministro Cingolani dovrebbe passare qualche giorno a Chernobyl, piuttosto che a Cernobbio.

Claudio Trevisan

 

Foibe e Shoah: si cerca di assolvere il fascismo

Questo fine settimana ho avuto la possibilità, grazie alla Festa del Fatto, di cui sono abbonato fin dal primo numero, di assistere a eventi straordinari per i temi trattati e per le personalità coinvolte. Nella sede di via Sant’Erasmo si respirava un’aria di libertà. Io stesso mi sentivo più libero. E ho capito perché i giornalisti di altre testate vi detestano: sono invidiosi. Ho sentito che state per dare vita a una Fondazione. Mi permetto di suggerire un tema di approfondimento. È quello che mi ha colpito ultimamente grazie all’intervento del prof. Montanari: mi riferisco alle Foibe e al tentativo di equiparare la questione delle Foibe alla Shoah. Una vera assurdità che ha un preciso obiettivo: assolvere il fascismo.

Michele Troccoli

 

Quirinale, Zagrebelsky è un ottimo candidato

Penso che in Italia i possibili candidati “onorevoli”, anche se non sono seduti in Parlamento (o forse proprio per quello), siano ben più di 950. Un nome a caso: Gustavo Zagrebelsky.

Sandro Carrara

 

Il Cts chiarisca che anche i vaccinati si contagiano

È evidente che il presidente del Consiglio Draghi e il presidente della Repubblica Mattarella sono in perfetta sintonia. Draghi preannuncia l’estensione del Green pass e Mattarella bastona chi si oppone all’obbligo vaccinale. Ma, quando il presidente della Repubblica accusa i No vax di essere un pericolo per la salute altrui, agisce in contrapposizione alle raccomandazioni del Consiglio europeo: discrimina, criminalizza una parte dei cittadini e crea conflitto sociale. Ciò che dice non è corretto neanche dal punto di vista scientifico, perché è noto che questi vaccini, specialmente con la variante Delta, non danno l’immunità sicura. Circa il 30% dei vaccinati possono contagiarsi e contagiare gli altri e la durata dell’immunità si riduce al 15% dopo 7-8 mesi. È più pericoloso un vaccinato senza mascherina che un non vaccinato con mascherina. L’unica prova statistica che conferma l’utilità del vaccino è la riduzione della mortalità da Covid-19 nei vaccinati rispetto ai non vaccinati. In quanto cittadino informato e medico, aspetto che il prof. Walter Ricciardi o il Cts facciano chiarezza sul fatto che anche i vaccinati possono contagiare, come i non vaccinati e quindi il Green Pass non ha una giustificazione dal punto di vista scientifico.

Ireo Bono

 

Caro Ireo, è quello che alla Festa del “Fatto” hanno sostenuto i professori Crisanti e (in parte) Rezza.

m. trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentilissimo direttore, le scriviamo a nome del gruppo Unità per la Costituzione (Unicost), per precisare alcune circostanze indicate nell’articolo del 29 agosto dal titolo “Tutti contro Gratteri, ma vietato nominarlo”: il gruppo di Unicost ha presentato alla riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm del 14 marzo un proprio documento a sostegno dei giovani magistrati nel quale non vi era alcun passaggio che potesse essere inteso come critica, anche solo implicita, al procuratore dottor Gratteri. Neanche il documento successivamente presentato da Area ed emendato da Unicost, con l’intento di consentire l’approvazione di un documento a favore dei giovani magistrati, conteneva la frase riportata con virgolettato nell’articolo. I lavori del cdc, registrati da Radio Radicale, rendono chiaramente la posizione del gruppo di Unicost. Ci teniamo a precisare che non ci consideriamo né un gruppo di centrosinistra, né un gruppo di centrodestra e anzi rifuggiamo qualsiasi etichetta che rimandi a categorie proprie della politica.

La Direzione Nazionale di Unicost

 

I NOSTRI ERRORI

Domenica, nel pezzo “Accuse e litigi, Raggi e Gualtieri poco giallorosa”, nella trascrizione delle parole della sindaca, abbiamo confuso l’Ama con l’Atac: è l’Ama infatti a essere schiacciata da 300 milioni di debiti e accusata dalla Raggi di “aver presentato bilanci falsi dal 2003”. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

Julian Assange. Solo la pressione dell’opinione pubblica può salvarlo

 

Spettabile redazione, scrivo di fretta perché una neonata richiede le mie costanti attenzioni: mi chiamo Enrica Carusi e sono una cittadina che vorrebbe fare la sua parte. In questo preciso momento storico vorrei fare quanto in mio potere anche per Julian Assange. Sto firmando e condividendo tutte le petizioni e sto provando a informare chi posso tramite i miei modesti profili social. Vi chiedo se, oltre alle petizioni, posso fare di più. Ho letto in un post di Alessandro Di Battista che c’è una mozione ferma da mesi, scritta dai parlamentari di “L’Alternativa c’è”, per richiederne lo status di rifugiato politico. A chi posso scrivere? Come possiamo tutti fare qualcosa? Ringrazio per l’aiuto che vorrete darmi.

Enrica Carusi

 

Cara Enrica, la prima cosa da fare è acquisire la lucida consapevolezza che la giustizia inglese non salverà Julian Assange dalla prigione a vita per aver rivelato crimini di guerra, torture, assassini stragiudiziali con i droni – in zone di guerra come l’Afghanistan, l’Iraq – e brutali violazioni dei diritti umani, come quelle contro i detenuti di Guantanamo. Sì, prima di essere estradato negli Usa, Julian Assange ha ancora a disposizione un appello alla High Court e alla Supreme Court di Londra e poi un ricorso finale alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma le sue condizioni fisiche e mentali sono così serie che, in occasione dell’ultima udienza tenutasi in agosto, i giornalisti che lo conoscono da un decennio sono rimasti scioccati dal grave decadimento della sua salute, dovuto a 11 anni di detenzione arbitraria. Una sola cosa può salvare Julian Assange: la pressione dell’opinione pubblica. Organizzate manifestazioni pacifiche, dibattiti, proteste creative. Contattate tutti i politici locali, tutti i parlamentari italiani, in particolare quelli della commissione Affari esteri, e tutti quelli europei, spingendo per l’approvazione di mozioni che chiedano alle autorità inglesi e americane la sua liberazione immediata e l’annullamento delle accuse per cui rischia 175 anni di prigione negli Usa. Mozioni di questo tipo sono state presentate da parlamentari di vari Paesi, dalla Germania all’Islanda. Contattate i presidenti di Camera e Senato per sostenere un intervento del Parlamento italiano e che si discuta la mozione di “L’Alternativa c’è”, come altre che seguiranno. Infine, se volete, fate una piccola donazione per le sue spese legali che sono ingenti. Sull’account Twitter di WikiLeaks, potete trovare indicazioni su come donare, se vorrete.

Stefania Maurizi

“Effetti collaterali”: il certificato verde ha lacerato il Paese

Pensate come sarebbe diversa la temperatura del dibattito se negli sciagurati luoghi in cui si svolge si usassero organi come il cervello e il cuore, al posto della pancia. E dunque si scrivesse senza urlare, e si commentasse senza adorare idoli di varia natura. Pensate se i professori no Green Pass (loro stessi si sono chiamati così, ma si può fare uno sforzino intellettuale ogni tanto) fossero stati ribattezzati professori favorevoli all’inclusione universitaria, che effetto diverso avrebbe fatto sulla povera opinione pubblica, violentata dai toni sempre più aspri di dibattito che obbliga tutti a iscriversi a una delle due squadre, senza la possibilità di coltivare dubbi, fare obiezioni, esercitare il pensiero critico. La discussione è, nei fatti, un’aporia, che però nessuno vuole riconoscere. Il caso del professor Alessandro Barbero è emblematico di questo preoccupante e scadente clima da caccia alle streghe. Lo storico, importante medievista e conosciutissimo divulgatore, è stato immediatamente additato come traditore (“Tu quoque, Ale?”) per aver firmato un manifesto contrario all’obbligatorietà della certificazione verde per frequentare gli atenei.

Qualche giorno fa, durante un dibattito a cui partecipava anche Maurizio Landini, riferendosi ai gironi danteschi il prof. aveva parlato dell’ignavia dei nostri politici che “non hanno il coraggio di dire le cose come stanno; un conto è dire abbiamo deciso che il vaccino è necessario e introduciamo l’obbligo; io non avrei niente da dire. Un conto è dire che non c’è nessun obbligo, per carità, ma semplicemente che non puoi più vivere, non puoi più prendere i treni, non puoi più andare all’università senza il Green Pass”. Siccome poi lui ha dichiarato di essersi vaccinato ed è anche favorevole all’introduzione dell’obbligo vaccinale, è stato spedito senza passare dal via in un altro girone, quello degli ipocriti. Facciamo un respiro e parliamone.

L’obbligatorietà – verso cui il governo è orientato, anche se deve attendere un nullaosta da parte dell’Ema – è il presupposto giuridico per una massiccia limitazione delle libertà personali in una situazione che diventa ogni giorno più discriminatoria (e perciò incostituzionale). Non si possono mettere in discussione diritti fondamentali – salute, istruzione, lavoro – e subordinare la possibilità del loro esercizio a un passaporto che così com’è concepito diventa un autentico requisito di cittadinanza, ma non si basa su alcun fondamento logico (vaccino facoltativo).

C’è poi un altro aspetto, forse addirittura più importante. E riguarda il tessuto sociale, lacerato come non mai dalla furia di una guerra per bande, dove la tolleranza e l’ascolto non sono previsti e dove la cifra della discussione è quella del divieto, della caccia alle streghe, del vaffanculo (ma stavolta attenzione: i maleducati non sono i puzzoni grillini, ma la gauche progressista). Un rastrellamento ossessivo, casa per casa, se è vero che la domanda che continuamente ci si sente rivolgere riguarda proprio la situazione vaccinale. E dire che, silenziando le urla, il vaccino non garantisce piena protezione dal contagio. E questo ci riporta al professor Barbero, vaccinato contrario al passaporto universitario. Ognuno può fare, disponendo del proprio corpo, la scelta che crede migliore senza per questo ritenere che debba essere migliore per tutti, quindi imposta. E che, come nel nostro caso, questa scelta sia o meno ostativa alla fruizione di un diritto garantito dalla Carta e fondamentale per la piena realizzazione del nostro patto sociale come è quello all’istruzione. Abbiamo bisogno, ora come mai, di tolleranza e ascolto, di solidarietà: più democrazia, non più lacerazioni.

 

La guerra ai poveri. Adesso passa dai frigoriferi e dalla birra (ben calda)

Ci sono due cose che contengono l’apoteosi della tristezza: la pizza fredda e la birra calda. Sulla pizza fredda non si è ancora pronunciato nessuno (diamogli tempo), ma pare che la birra calda si affacci periodicamente come geniale soluzione al male supremo delle città, dove molti giovani passano le serate in piazza sorseggiando colpevolmente liquidi non a temperatura ambiente, il che sconcerta e crea pericolo. La triste questione della birra calda torna alla ribalta in quel girone dantesco che sono le elezioni comunali a Roma, e precisamente nel programma di Carlo Calenda per il III Municipio, con tanto di slide, in cui si parla (testuale) di “movida a basso costo”, deriva da combattere con tutti i mezzi. Uno dei quali sarebbe, appunto, staccare i frigoriferi ai minimarket che vendono bibite, anche alcoliche come la birra.

Diciamolo subito, anche per non fare di Calenda uno strabiliante innovatore: questa faccenda di incoraggiare la vendita di birra calda ha radici antiche. Se ne trova traccia su Il Tirreno già nell’anno di grazia 2016, quando il comune di Pisa vietò la vendita di bevande fredde, sempre per contrastare la movida (allora, nei titoli, era “selvaggia”, al classismo del “basso costo” non si era ancora arrivati). Venendo ai giorni nostri, una simile ordinanza è stata adottata questa estate dal Comune di Voghera (sì, quello dell’assessore leghista alla sicurezza che ha ammazzato a pistolettate un immigrato): si fa divieto ai commercianti di detenere e conservare bevande alcoliche “di qualunque genere e gradazione a temperatura inferiore di quella ambiente abbassata mediante utilizzo di sistemi e/o apparecchi di refrigerazione e raffrescamento”.

Naturalmente a tutti piace sorseggiare un gustoso Moscow Mule ghiacciato ai tavolini delle belle piazze italiane, nei privé o nei locali esclusivi, ma la birretta al volo, magari (sacrilegio!) seduti sui gradini o sulle panchine è considerato poco commendevole e foriero di disordini. Insomma, un nuovo – ennesimo – capitolo della guerra ai poveri passa questa volta per i frigoriferi, diavolerie moderne che attentano alla quiete pubblica e consentono momenti di ristoro e rinfresco alle classi meno abbienti (gente che non sa soffrire, secondo la vulgata salvinian-renzista, diseducata alla consumazione come dio comanda). La questione della birra calda nelle piazze del III Municipio di Roma è stretta parente delle ordinanze fiorentine che vietano di mangiarsi un panino in strada, cosa che dovrebbe avere il duplice scopo di aumentare il fatturato delle trattorie e di scoraggiare i visitatori poco solventi, insomma di tenere alla larga i poveracci che rovinano il paesaggio. Trattasi di lotta di classe, ininterrottamente e ferocemente condotta contro le classi meno abbienti che – dai tempi di Dickens e anche da prima – non possono frequentare taverne costose, né accasarsi in alberghi con molte stelle, né ambire all’ingresso nei bar di lusso, dove la birra fredda resterebbe naturalmente disponibile. Forse dovremmo, a questo punto, cercare una metafora o una allegoria per dire del ridicolo, e anche della violenza, di un simile disegno. Ma non è il caso di sforzarsi, è già tutto abbastanza metaforico così, e sapete tutti che, una volta toccato il fondo, si può sempre cominciare a scavare. Forse si scoprirà che le scarpe “a basso costo” rovinano i selciati delle nostre piazze, e bisognerà correre ai ripari, anche con mezzi drastici – severi ma giusti – tipo l’amputazione dei piedi ai cittadini di basso reddito.

 

Le discriminazioni create dal Green pass di Draghi

È davvero inaccettabile il linciaggio politico-mediatico degli oltre 400 professori universitari (tra i quali spicca Alessandro Barbero) che hanno firmato un appello critico sul Green Pass. Pur essendo debole sul piano giuridico (Costituzione e diritto europeo), e pur ammiccando al tono apocalittico di chi assimila le vaccinazioni alle persecuzioni (ragioni per le quali non ho firmato), l’appello ha il merito di porre sul tappeto una serie di questioni sostanziali, largamente eluse dalla propaganda governativa. Quei professori, insomma, fanno il loro mestiere: esercitano il pensiero critico, e lo fanno in pubblico.

Essi affermano che il lasciapassare “estende, di fatto, l’obbligo di vaccinazione in forma surrettizia per accedere anche ai diritti fondamentali allo studio e al lavoro, senza che vi sia la piena assunzione di responsabilità da parte del decisore politico”, e auspicano che “si avvii un serio dibattito politico, nella società e nel mondo accademico tutto (incluse le sue fondamentali componenti amministrativa e studentesca), per evitare ogni penalizzazione di specifiche categorie di persone in base alle loro scelte personali e ai loro convincimenti, per garantire il diritto allo studio e alla ricerca e all’accesso universale, non discriminatorio e privo di oneri aggiuntivi (che sono, di fatto, discriminatori) a servizi universitari”. È difficile non condividere sia la constatazione che l’auspicio: perché una sempre più violenta caccia alle streghe copre la fuga del governo Draghi dalle proprie responsabilità.

L’arbitrio, le discriminazioni e le aporie del Green Pass potrebbero essere tutti superati dal coraggio di introdurre l’obbligo vaccinale (è la posizione di Barbero, ma non dei promotori dell’appello), come suggerisce anche Maurizio Landini. Perché è davvero pazzesco che il Green pass sia (per esempio) necessario per pranzare alla mensa della fabbrica, ma non nel ristorante dell’albergo di lusso; per passeggiare in un parco monumentale, ma non per consumare superalcolici al banco; per andare a teatro, ma non alla messa; per andare all’università, ma non al supermercato; per salvare la vita dei ricchi sulle Frecce (170.000 al giorno), ma non per tutelare i 6 milioni di pendolari che ogni giorno viaggiano sui treni locali… Né è giusto che ad alcune categorie professionali sia imposto e ad altre (non a minor rischio) invece no. Con l’obbligo, al contrario, lo Stato parlerebbe con chiarezza, forza ed eguaglianza. E se la risposta è che la natura ancora sperimentale del vaccino (o altre circostanze scientifiche e giuridiche) non consentono di stabilire l’obbligo, ebbene allora quell’obbligo non può essere imposto nemmeno surrettiziamente, come sta accadendo. Ma la vera domanda che quell’appello spinge a farsi è: davvero abbiamo bisogno di un obbligo (esplicito o mascherato che sia)? In Italia abbiamo vaccinato oltre l’80% della popolazione vaccinabile (dunque esclusi i sei milioni sotto i 12 anni, e chi non può vaccinarsi per ragioni mediche), e non certo grazie all’imposizione del lasciapassare (lo hanno argomentato molto bene i Wu Ming in un lungo articolo online: Ostaggi in Assurdistan, ovvero: il lasciapassare e noi). E dunque, a cosa serve il Green Pass (misura, ricordiamolo, senza veri paragoni all’estero), e a cosa potrebbe un domani servire l’obbligo? Da una parte ad alimentare la logica del nemico pubblico: il pestaggio mediatico degli “insegnanti no vax”, per esempio, va avanti nonostante che il 90,45% del personale di scuola e università abbia fatto almeno una dose. Dall’altra, ad aprire la strada a un pericolosissimo “bomba libera tutti” che sollevi finalmente il governo dai suoi veri doveri. Alcune università iniziano a dire che se in un’aula sono tutti col Green Pass ci si può togliere la mascherina: e già si intravede come il lasciapassare consentirà – piano piano – di far saltare i limiti sui mezzi di trasporto, nelle aule di scuole e tribunali, e in mille altri spazi pubblici gravemente inadeguati a prescindere dalla pandemia. Sarebbe un disastro sia per la pandemia (perché il Green Pass non elimina affatto il rischio di contagio), sia per la perdita di un’occasione unica per dare dignità e adeguatezza ai luoghi in cui si svolge la vita dei lavoratori. Insomma, la via dell’esclusione invece di quella dell’inclusione.

L’alternativa a obblighi, veri o mascherati, è allora forse quella suggerita dall’Oms, che dice che se un obiettivo di salute pubblica “può essere raggiunto con interventi politici meno coercitivi o intrusivi (ad esempio, l’istruzione), un obbligo non sarebbe eticamente giustificato, poiché il raggiungimento di obiettivi di salute pubblica con minori restrizioni alla libertà e all’autonomia individuali produce un rapporto rischio-beneficio più favorevole”. Che sia così o no, l’unica cosa davvero sbagliata è demonizzare chi chiede un dibattito serio.

 

La bionda degli abba, il sesso in alta quota e la fine degli scacchi

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Mentre ripenso alla mia vita, ricordo tutte le cose che mi vengono in mente. Per esempio, i pianti al mio primo taglio di capelli. Il barbiere non voleva farmi sedere sulla sedia col cavalluccio. Sosteneva che un uomo di 33 anni poteva romperla. D’accordo, ma io ne avevo 42.

Gli ABBA mi piacciono come mi piace il chewing-gum. Non c’è nulla di male a masticare il chewing-gum. L’importante è non scambiarlo per pollo arrosto. Gli ABBA sono del chewing-gum di prima qualità, Bob Dylan è pollo arrosto: a volte stopposo come chewing gum, ma pollo arrosto.

Ok, full disclosure: avevo 13 anni, guardavo un programma musicale sulla Rai quando d’un tratto trasmettono Dancing Queen, il video degli ABBA. Mi colpirono il sorriso gentile, colmo di malinconia, della cantante bionda, e il suo seno che ballonzolava imperioso sotto la camicia di raso color vinaccia dalla scollatura generosa. Ne restai soggiogato: quel seno invitante risvegliò in me un sentimento prima di allora ignoto. Mi rappresentavo il mio essere nudo accanto a quella splendida ragazza dai liquidi capelli biondi. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. Se lo ricordo, sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Mai provato nulla di simile per Bob Dylan. Eppure ha delle tette stupende.

Il più bel complimento a letto me lo fece la donna che mi disse: “Vorrei che mio marito imparasse da te come si lecca una figa”.

Il Mile High Club è il club virtuale dei viaggiatori che, su un normale volo di linea, mentre gli altri passeggeri leggono un libro o guardano un film, fanno sesso, di solito nella toilette, come fece Branson a 19 anni, dice lui; oppure sui sedili sotto una coperta; oppure in prima classe, che nel lungo raggio è fornita di suite e spa. La notizia taciuta è che il 35% delle assistenti di volo, intervistate per un sondaggio in merito, ha ammesso di aver fatto sesso in volo: il 21% con colleghi. Il 14% con passeggeri. Tutto vero. Ecco un altro ottimo motivo per vaccinarsi.

Serve un nome per indicare il tipo di esperimento sociale cui stanno partecipando da secoli, senza saperlo, i giocatori di scacchi. Lo scopo di questo tipo di esperimento consiste nell’esaurire tutte le possibilità del gioco, in modo che, dopo qualunque prima mossa del Bianco, non possa che essere dichiarata la patta. Già oggi due supercomputer che vengano fatti giocare uno contro l’altro arrivano sempre alla patta. Quando tutte le possibilità di gioco saranno state esaurite, il gioco degli scacchi che conosciamo sarà morto. Per rianimarlo, si dovrà passare all’idea di Bobby Fisher, che prima di uscire di melone aveva affrontato il problema con lucidità: gli scacchi Fisherandom, dove la disposizione casuale dei pezzi impedisce il ricorso ad aperture studiate e memorizzate (ma un giorno si spegneranno anche gli scacchi Fisherandom, come ogni sole). Chiamerei quel tipo di esperimento un bobby. Il M5S di Grillo è stato un bobby, come lo è stato il Pd.

Sono io, o anche a voi Conte sembra sempre appena caduto da una torta di nozze?

 

B. un Bravo cittadino: Mattarella lo riabiliti

Per la terzavolta nell’arco di tre settimane Silvio Berlusconi, 84 anni, è stato ricoverato ieri, sia pure brevemente, all’ospedale San Raffaele di Milano per accertamenti e controlli. Nonostante ciò la magistratura non molla la caccia all’uomo – iniziata nel lontano 1994 – non su fatti specifici ma su un teorema, cioè che le donazioni (tutte contabilizzate) da lui fatte a una serie di personaggi che hanno frequentato la sua residenza di Arcore non sarebbero dovute a impegni presi o alla sua generosità, ma avrebbero avuto il fine di corrompere i testimoni del caso Ruby. (…) Da questa storia insomma non se ne esce nonostante l’evidenza dei fatti. E allora faccio appello al presidente Sergio Mattarella che si avvia a completare il suo mandato settennale. Penso che come ultimo atto della sua presidenza Mattarella possa prendere in considerazione l’idea di mettere fine alla più grande guerra, giocata nei tribunali e sui media, intrapresa contro un solo uomo. Uomo che a questo Paese, comunque la si pensi, ha dato tanto sia da cittadino che da imprenditore che da politico e statista.

Scorie e impianti: a posto, se va bene, tra altri 15 anni

Il punto fermo da considerare, prima di ogni annuncio sul futuro dell’energia nucleare, qualunque sia il tasso di innovazione tecnologica, lo conoscono anche i bambini: è difficilissimo garantire la sicurezza degli impianti e la storia ha dimostrato pure l’incapacità di gestire rapidamente e con efficienza lo smaltimento dei rifiuti radioattivi e il decommissioning degli impianti. L’Italia, per dire, da decenni si trascina dietro (o spedisce all’estero a pagamento) rifiuti che non sa dove piazzare. Deciso l’abbandono del nucleare con il referendum del 1987 e spente entro il 1990 le centrali, ancora si discute della collocazione di almeno 78mila metri cubi di scorie e, giustamente, si litiga sulla loro posizione.

La pubblicazione a inizio anno della cosiddetta “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee” (Cnapi), quella che avrebbe dovuto identificare le aree dotate dei requisiti per accogliere il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, ha risolto poco e aizzato i sindaci che amministrano le 67 zone indicate. Hanno chiesto, e ottenuto, una proroga per presentare le loro osservazioni a Sogin, la società pubblica incaricata dello smantellamento nucleare. Già così si è passati da tre anni e mezzo a oltre quattro anni di attesa stimata tra la pubblicazione del Cnapi e il solo avvio della costruzione del deposito.

I ritardi si sono però accumulati. Siamo rientrati da poco in procedura di infrazione perché già nel 2014 non avevamo inviato a Bruxelles il programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi. Pure l’Ispettorato per la sicurezza nucleare e protezione radiologica (Isin), previsto da un decreto del 2014, è – anche secondo l’ultima relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul nucleare – sottodimensionato e con almeno un centinaio di via libera ai lavori da dare per pratiche risalenti a 10 anni fa.

Come racconta Luca Zorloni in un articolo di Wired, mancano poi all’appello finanche i decreti attuativi di una legge del 1995, non sono state ancora riorganizzate le competenze tra ministeri, autorità indipendenti ed enti di ricerca e i costi e i tempi del decommissioning – attualmente stimati in 7,9 miliardi di euro con fine dello smantellamento nel 2035 – rischiano di aumentare come stimato da Sogin. Per ora sono raddoppiati i fondi provenienti dalle bollette rispetto alle stime del 2001, così come si è dimostrata molto più alta, nei fatti, la percentuale dei fusti ammalorati da smaltire. Anche la ormai trentennale, ancorché sempre impellente, questione del deposito sembra nascondere delle magagne, rilevate a luglio da Massimo Scalia, presidente della Commissione scientifica sul decommissioning nell’ambito della consultazione sulla Cnapi. C’è ad esempio un problema, spiega, di compatibilità tra il tipo di rifiuti: “È la prima volta nel mondo occidentale che si si vogliono collocare in un unico sito sia i rifiuti di bassa-media attività che lo ‘stoccaggio temporaneo’ (così Sogin, ndr) dei rifiuti di alta attività, i più pericolosi, nonostante prassi e letteratura internazionale tengano ben separata la gestione di queste due tipologie di scorie nucleari”.

Semplificando, i rifiuti di bassa-media attività sono quelli che raggiungono livelli di emissioni dimezzati in 30 anni e trascurabili in 300. Per alta intensità si intendono quelli con tempi di dimezzamento dalle migliaia ai milioni di anni. “Che cosa fare di queste scorie è un problema aperto – spiega la relazione della Commissione –. Una sistemazione ideale potrebbe essere il loro confinamento in un sito profondo, le cui caratteristiche biogeochimiche forniscano un isolamento per milioni di anni dall’ambiente esterno, dalle falde acquifere”. Fino ad allora lo “stoccaggio temporaneo” richiederebbe un vero e proprio impianto nucleare, che li custodisca per decenni e quindi con linee guida specifiche: “Serve una Vas per verificare la compatibilità di un unico sito sia per i rifiuti di bassa e media attività (Deposito nazionale) che per lo stoccaggio ‘temporaneo’ dell’alta attività”. Secondo la Commissione scientifica, bisogna poi prevedere per legge il diritto di recesso della popolazione coinvolta: anche una volta iniziata la costruzione del deposito.

È lo stesso Scalia a spiegarci, alla luce delle dichiarazioni del ministro Roberto Cingolani, se cambierebbe qualcosa con il ricorso ai mini reattori. La risposta è no: “Si prova a farli dagli anni 80 perché si credeva fossero socialmente più accettabili, ma le scorie sono le stesse, con le stesse difficoltà e la stessa incapacità di gestirle”. Il ricorso all’energia nucleare ha, secondo Scalia, una tara originaria: è passato troppo rapidamente dall’uso militare (per i sommergibili) a quello civile. Un salto che ha di fatto traslato la materia dai fisici agli ingegneri e l’ha riempita di falle applicative che, ad oggi, non sono mai state colmate. E la quarta generazione di reattori? “Nessuno dei sei reattori proposti al Generation IV International Forum corrisponde alle fanfaluche del ministro”.

Nucleare, ecco perché Cingolani vende fumo. Il ministro e la lobby fuori tempo

Le recenti dichiarazioni del ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, hanno riacceso il dibattito su una eventuale ripartenza del nucleare in Italia: in aprile aveva parlato di fusione nucleare come via preferenziale per la transizione, più recentemente ha aperto all’utilizzo degli SMRs (Small Modular Reactors, il cosiddetto nucleare di quarta generazione), divenuti famosi grazie all’interesse di Bill Gates per la tecnologia.

Alla luce delle raccomandazioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu (IPCC) – che segnala l’urgenza di abbattere il più rapidamente possibile le emissioni di CO2 per evitare l’aggravarsi della crisi climatica – è utile fare il punto sulla storia del nucleare e sullo stato di sviluppo delle nuove tecnologie.

Il nucleare a noi noto è il nucleare a fissione: grandi impianti dalla potenza di centinaia di megawatt, costruiti su larga scala a partire dagli anni 60 del secolo scorso. A oggi sono in funzione 440 reattori per una potenza di 395 GW e producono il 10% dell’elettricità mondiale, in discesa dal massimo storico del 18% registrato nel 1996. I paesi leader sono gli Stati Uniti (95 GW) e Francia (60 GW), mentre negli ultimi 10 anni lo sviluppo del nucleare è stato appannaggio della Cina, che ha raggiunto i 50 GW.

Il Giappone prima di Fukushima generava il 30% dell’elettricità dall’atomo, oggi solo il 5%: il Paese sta lentamente riattivando le centrali ed è impegnato nel cleanup, cioè il tentativo di “pulire” gli effetti del disastro del 2011, che durerà almeno fino al 2050 a un costo – stratosferico – stimato tra i 200 e i 600 miliardi di dollari.

Nel mondo sono in costruzione impianti per altri 58 GW, ma poiché molti reattori si avvicinano a fine vita una buona parte sarà destinata a rimpiazzare gli impianti che verranno chiusi nei prossimi anni. Vale la pena di notare anche che il nucleare è molto concentrato: considerando anche Russia e Corea del Sud, il 72% del nucleare è installato in soli 6 Paesi.

Come noto, in seguito al disastro di Chernobyl del 1985 il nucleare subì una battuta d’arresto in tutto il mondo (non solo in Italia): negli anni 90 e duemila vennero installati 80 GW in totale, contro i 200 GW installati nei soli anni 80. Verso la fine degli anni 2000 si iniziò a parlare di “Rinascimento Nucleare”: Chernobyl era lontano e nuovi design, a partire dal francese EPR – gli impianti di terza generazione, che erano alla base del piano italiano bocciato nel 2011 – inducevano alla speranza.

Le cose sono poi andate diversamente: i due impianti EPR che avrebbero dovuto rilanciare il nucleare in Occidente si sono rivelati problematici e al momento non sono ancora entrati in funzione: Oilkiluoto (Finlandia) ha un ritardo di 13 anni sulla tabella di marcia e budget triplicato, Flamanville (Francia) è in condizioni simili. Due reattori sono entrati in funzione in Cina e altri due sono in costruzione in Gran Bretagna (Hinkley Point C) per un costo totale di 26 miliardi di euro, grazie a un sussidio che consentirà al gestore di vendere l’elettricità a un costo superiore a quello di mercato, con un extra ricavo di circa 50 miliardi di euro che ricadrà sulle spalle dei cittadini. In Francia la Corte dei Conti si è pronunciata contro gli sprechi del programma EPR e il governo francese si è impegnato a ridurre la dipendenza dal nucleare abbassandone la quota di elettricità dal 70% al 50% entro il 2035. Negli Stati Uniti circa un terzo degli impianti nucleari esistenti rischia di chiudere perché non riescono a coprire i costi operativi (sarebbe quindi impossibile coprire gli investimenti necessari per costruire nuovi impianti) e i sostenitori del nucleare chiedono allo Stato sussidi per tenerli aperti. Quel che viene sempre omesso dal dibattito è che il nucleare è la fonte d’energia più “statale” in circolazione: probabilmente non esiste al mondo un singolo reattore che non sia stato costruito con qualche forma di sostegno o sussidio pubblico.

Il gas e le sempre più competitive rinnovabili stanno mettendo fuori mercato il Chilowattora (kWh) nucleare: per impianti di larga scala il costo del kWh solare ed eolico si è ridotto rispettivamente del 90% e del 70% negli ultimi 10 anni e costa oggi meno della metà del kWh nucleare. E questo senza considerare i costi – di fatto ignoti – di decommissioning (smantellamento) degli impianti a fine vita, che includono la gestione delle scorie: a oggi la sola Finlandia ha individuato e sta costruendo il primo deposito geologico permanente.

Esistono alternative “atomiche” al nucleare tradizionale? Se da un lato c’è accordo pressoché unanime sul fatto che la fusione nucleare richiederà ancora qualche decennio per raggiungere la scala commerciale (se ci arriverà, non abbiamo certezze) una speranza per il futuro potrebbero essere gli SMRs menzionati da Cingolani, l’ormai famoso nucleare di quarta generazione.

Si tratta di piccoli reattori modulari, con potenza inferiore rispetto a quella dei reattori tradizionali (300 MW), che nelle intenzioni degli sviluppatori potranno risolvere i problemi di costo e tempistica del nucleare tradizionale. Esistono circa 50 diversi design in concorrenza tra loro al momento e alcuni impianti sono in costruzione in Russia e Cina, ma la scala commerciale è ancora lontana e difficilmente sarà raggiunta prima di 10-15 anni.

Cosa fare quindi? L’atomo tradizionale è in crisi, almeno in Occidente, afflitto da costi in crescita, tempi di costruzione lunghi e incerti, e da competizione serrata: in queste condizioni sembra difficile giustificare nuovi investimenti, almeno nei mercati europei e americani. Il nucleare è sempre meno in grado di attrarre capitali privati, i mercati preferiscono finanziare tecnologie che offrono maggiori garanzie in merito a rischio e rendimento, come le rinnovabili.

E anche se l’Italia decidesse di lanciare un nuovo programma nucleare il primo kWh non verrebbe prodotto prima di 15-20 anni, considerando anche – ma non solo – la necessità di superare i due referendum del 1987 e 2011. Ha invece senso sostenere il nuovo nucleare – fissione e SMRs – tenendo però ben chiaro in mente che servirà ancora qualche decennio perché possa contribuire alla decarbonizzazione.

Nel frattempo le rinnovabili continuano la loro corsa e costituiscono una soluzione economica e di rapida implementazione per abbattere le emissioni: senza considerare il contributo dell’idroelettrico, nel 2019 hanno superato il nucleare per elettricità prodotta, raggiungendo in meno di 15 anni – il loro sviluppo su larga scala è iniziato verso il 2007 – quello che il nucleare ha ottenuto in 50.

Credo che risulti quindi chiaro che – come sostiene l’ad di Enel, Francesco Starace – sia necessario accelerare gli investimenti nelle rinnovabili: Terna afferma che ci sono richieste di connessione alla rete per 100 GW da rinnovabili, in attesa delle autorizzazioni necessarie, corrispondenti a investimenti privati dell’ordine di 100 miliardi.

Nell’attesa che il nuovo nucleare divenga disponibile, la decarbonizzazione non può aspettare.