In Calabria con Salvini il consuocero di un boss

Non è mancato l’imbarazzo lunedì a Catanzaro quando la Lega ha inaugurato lo sportello “anti-’ndrangheta e malaffare” con Nino Spirlì e il vicesegretario Andrea Crippa. I “mafiosi ci fanno schifo” ma i consuoceri no. Sabato, infatti, il partito di Salvini ha inserito nelle liste per le regionali Vincenzo Cusato, l’ex consigliere comunale di Rosarno la cui figlia è sposata con il figlio di Rocco Bellocco, un presunto capoclan della cittadina della piana di Gioia Tauro. Una candidatura che non è passata inosservata in via Bellerio sia per la parentela del personaggio, sia per le modalità con cui è arrivata. In primo luogo perché la scelta di Cusato stride con la campagna elettorale estiva di Matteo Salvini che tra luglio e agosto ha girato la Calabria a colpi di slogan contro la ’ndrangheta: “Un cancro da estirpare” diceva a luglio mentre a Ferragosto ha ribadito che “dove c’è puzzo di ’ndrangheta scattano i calci in culo” e “dove c’è la Lega non c’è la ’ndrangheta”. Anche le modalità destano sospetti perché secondo fonti leghiste il nome di Cusato è stato inserito “solo all’ultimo minuto tra venerdì e sabato”.

E se dopo le polemiche, il candidato si è detto pronto a fare un passo indietro, il commissario regionale della Lega Giacomo Saccomanno ripete il mantra che “queste polemiche danneggiano solo la Calabria” e difende Cusato: “Non ci sono parentele. È una persona perbene. Non ha nessun collegamento, non ha nessun pregiudizio di nessun tipo, è passato regolarmente al vaglio dell’Antimafia”. La stessa cosa dice il candidato presidente di centrodestra Roberto Occhiuto secondo cui, dopo il controllo preventivo delle candidature, dalla commissione guidata da Morra “ci sono stati segnalati due nomi e queste persone non sono state inserite nelle liste. Abbiamo fatto tutti gli approfondimenti del caso: però su oltre 200 non potevamo mica per ognuno andare a vedere con chi fossero fidanzati o con chi fossero sposati i figli”.

Dal Duce al seggio: l’orda nera in lista con Lega e Meloni

C’è l’ultrà della Lazio che ha tatuato sul braccioWerwolf, il simbolo della resistenza nazista, quello che elogiava chi faceva il saluto romano, ma anche il candidato che a Milano inaugura il suo comitato elettorale nella sede del movimento neo-nazista “Lealtà e Azione” fino alla nipote di Mussolini, Rachele, che corre con Fratelli d’Italia. L’album di figurine dei camerati, nostalgici e orgogliosi fascisti che riempiono le liste del centrodestra alle prossime elezioni amministrative è ricchissimo. In molte città d’Italia, dai grandi centri come Roma e Milano ai Comuni più piccoli, dalle Alpi alla Sicilia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni non hanno fatto alcuna selezione all’ingresso: le liste della Lega e di Fratelli d’Italia sono piene di nostalgici del regime.

Il caso più emblematico è a Roma dove i due partiti di centrodestra fanno a gara a chi ha il candidato più fascista. In assemblea capitolina Fratelli d’Italia punta su Francesco Cuomo, tatuatore che vuole “ridisegnare Roma”. Storico ultrà della Lazio, sul suo profilo Facebook è ritratto in diverse foto tra saluti romani e una nel 2019 con Francesco Piscitelli, in arte “Diabolik”, capo degli Irriducibili ucciso nell’agosto 2019 a colpi di pistola. Lo chiamano “il camerata” e si capisce il perché: sul braccio ha un tatuaggio – tre teschi – della resistenza nazista. “Non sapevo fosse il simbolo dei guerriglieri tedeschi” si è giustificato. Nelle liste del partito di Meloni in sostegno a Enrico Michetti c’è anche Rachele Mussolini, nipote del duce e ormai volto noto di Fdi nella Capitale. La Lega però non vuole essere da meno e in consiglio comunale candida Maurizio Politi, trait d’union tra l’estrema destra e il Carroccio: eletto nelle liste di Fdi, poi salito sul carro leghista, ha fatto una lunga battaglia per dedicare una via a Giorgio Almirante.

Ma la vera sfida tra camerati si gioca nei 15 municipi della Capitale: per la Lega è stato il nostalgico Claudio Durigon a candidare Andrea Signorini alla presidenza del XV municipio e Alessandro Maria Terra nel XIV. Il primo nel 2016 finì al centro delle polemiche perché commentò così una foto di Renato Zero che sembrava fare il braccio teso: “Renato uno di noi”. Il secondo invece è stato scelto come responsabile comunicazione della Lega da Durigon in persona ed è un ex membro del Fronte della Gioventù, organizzazione molto vicina a Forza Nuova. Nei municipi il Carroccio ha imbarcato anche gli ex CasaPound Alessandro Calvo, Maria Rinaldi e Simone Montagna. “Porteranno avanti le nostre battaglie” ha detto ieri Luca Marsella, leader romano di Casapound. FdI risponde con Simone Oddo e Alessandro Mariani, vicini rispettivamente alle associazioni di estrema destra “Roma Nord” e “Aurora Boreale”. Chi è passato da FdI alla Lega fino ad Azione invece è Maico Cecconi, ex delegato municipale meloniano alle politiche scolastiche e oggi candidato con Calenda. Con Enrico Michetti invece correrà Francesca Benevento, nota per i suoi commenti antisemiti e no vax: “Prendo le distanze ma non siamo ancora riusciti a contattarla” ha spiegato ieri Michetti.

Ma non c’è solo Roma. A Milano la Lega schiera Max Bastoni, consigliere regionale che ha ottimi rapporti con il gruppo neo-nazista “Lealtà e Azione”. Un legame così evidente che Bastoni ha deciso di aprire il suo comitato elettorale proprio nella sede del movimento giovanile dichiaratamente fascista. In un’intervista al Corriere Milano, Bastoni si è posto come il punto di riferimento per gli elettori dell’ultradestra. Il candidato leghista ha detto che non si offende se lo chiamano “fascista” e poi ha spiegato: “Rivendico con orgoglio il sostegno di LeA con cui c’è una naturale comunanza di valori”. A Trieste invece FdI ha scelto di candidare Denis Conte, pugile ed ex coordinatore di Forza Nuova, noto per le sue ronde contro gli immigrati. Anche al Sud non mancano esempi di candidati nostalgici del regime: a Nardò (Lecce) corre per il secondo mandato, appoggiato da Michele Emiliano, il sindaco uscente Pippi Mellone, considerato molto vicino a CasaPound, mentre a Napoli Forza Italia punta su Giuseppe Alviti, un passato in Fiamma Tricolore.

Capalbio: bollicine, carne e “dinosauri” per far votare “Bob”

Dallo Spin Time Lab, il palazzo romano occupato dove andò in scena il primo confronto tra i candidati alle primarie del centrosinistra, alle ville maremmane di Capalbio con tramonti sul lago di Burano e tartine di aragosta. Ma tant’è. Chi votare, come futuro sindaco della Capitale, l’alta borghesia romana lo decide nella nota località toscana dove ormai, tra smart working e pandemia, si trascorrono parecchi mesi l’anno.

Siamo però alla fine del mese scorso quando qui si è palesato, per la prima volta in versione ufficiale, Roberto Gualtieri. L’ex ministro, infatti, non è un habitué. Non fa parte di quel bel mondo che “frequenta” Capalbio e che d’estate la anima con un susseguirsi di feste, cene e aperitivi.

L’invito è giunto da Fabio Massimo Pallottini, imprenditore capitolino, presidente di Italmercati, la rete di imprese che riunisce i mercati all’ingrosso di tutta Italia. Alla fine di agosto Pallottini, legato da un antico rapporto con Nicola Zingaretti (anch’egli noto “capalbiese” d’adozione), è solito festeggiare il suo compleanno nella sua villa maremmana con prato all’inglese e piscina a sfioro. Quest’anno ha deciso di unire l’utile al dilettevole e di trasformare l’evento in un incontro in onore dell’ex ministro candidato al Campidoglio.

La serata, in un venerdì di fine estate, “è venuta benissimo”, racconta chi c’era. Non tantissimi invitati: un’ottantina, perché siamo sempre in tempo di Covid. Con conseguente rosicamento di chi è rimasto fuori, specie tra i clienti dell’Ultima Spiaggia, ove Pallottini è di casa. “Ma tu l’hai ricevuto l’invito?”, era il mantra che girava in quei giorni sotto gli ombrelloni.

Si racconta di un Gualtieri all’inizio impacciato, un po’ pesce fuor d’acqua, ma poi, complice anche l’ottimo menù maremmano e le bollicine rinfrescanti, la serata si è “scaldata”. Così, dopo una serie di domande a raffica sulla Roma del futuro e su come vorrà spendere i soldi del Recovery plan, alla fine è spuntata l’immancabile chitarra con cui il candidato ha dato prova di sé sulle note de La ragazza di Ipanema, Your song di Elton John, Roma Capoccia di Venditti e pure una liberatoria Bella ciao (qualcuno avrà azzardato il pugno chiuso?).

Tra gli ospiti, Claudio Petruccioli, Fabiano Fabiani, Luigi Abete, Andrea Manzella. Li avrà convinti a votare per lui? “Tra i romani che vengono qui o si vota Gualtieri oppure Calenda. Chi altri dovremmo votare?”, racconta una partecipante.

E infatti l’altra serata mondana da queste parti, come ha raccontato La Stampa è stata organizzata per Carlo Calenda nella villa di un manager dell’editoria e della di lui consorte, una signora “assai renziana”. Qui però Calenda, con Chicco Testa a far da anfitrione, giocava in casa: sua madre Cristina Comencini ci viene da sempre. Qui nessuna chitarra, ma una cospicua raccolta fondi per la campagna elettorale. Di altri candidati non v’è notizia. Giuseppe Conte si è fatto vedere in spiaggia un pomeriggio di luglio con fidanzata al seguito. L’evento top dell’estate resta il bagno alle sette di sera di Penelope Cruz e Javier Bardem. “Una cosa da far venire i brividi”, racconta chi li ha visti. Altro che Gualtieri e Calenda.

Tu quoque, Roberto: tutti i pugnalatori di Marino in corsa con Gualtieri e Pd

Alle 17.55 era tutto finito. A quell’ora in via del Tritone, al quinto piano della sede dei gruppi consiliari del Campidoglio, l’alfaniano Roberto Cantiani aveva apposto l’ultima delle 26 firme con cui il Pd aveva fatto cadere Ignazio Marino. Prima di lui, però, lo avevano fatto tutti i consiglieri del Pd: le famose “coltellate” che avevano “nomi e cognomi e un solo mandante” di cui quel giorno, il 30 ottobre 2015, parlò lo stesso sindaco appena defenestrato dalla congiura. Oggi il mandante Matteo Renzi non c’è più e “abbiamo imparato che la cacciata di Marino è stata un errore”, giurava Roberto Gualtieri ieri sul manifesto. La lezione, tuttavia, non deve essere stata chiara a tutti (ma neanche a lui), visto che sette degli “accoltellatori” allora in quota al centrosinistra oggi sono candidati nella lista dem che sostiene la sua candidatura a Palazzo Senatorio e la maggior parte degli altri sono stati premiati in vario modo dai piani alti del Nazareno.

In quel drammatico pomeriggio di quasi sei anni fa Valeria Baglio, all’epoca presidente dell’Assemblea capitolina, addirittura versava lacrime in favore di microfoni e taccuini, dicendo che se fosse stato per lei avrebbe portato la discussione in aula. E affibbiando la colpa della mancata convocazione a Marino: “Se Ignazio non avesse ritirato le dimissioni avrei potuto convocare i consiglieri, ora non è più possibile”. E, già che c’era, pure al commissario inviato da Renzi a sistemare il Pd romano dopo Mafia Capitale: “A Matteo Orfini avevamo chiesto di non arrivare a questo punto, l’aula sarebbe stata la cosa migliore”. Poco dopo, tuttavia, il dispiacere era superato, come per incanto la strada verso il patibolo segnata: “Il gruppo è compatto”, cinguettava dopo essere stata tra i primi ad arrivare in via del Tritone. Oggi la Baglio è candidata nella lista con cui il Pd sostiene Gualtieri, insieme a Erica Battaglia, Ilaria Piccolo, Antonio Stampete, Giulia Tempesta, Svetlana Celli (eletta proprio nella lista civica del “Marziano”) e Daniele Parrucci (che all’epoca militava in Centro democratico). Tutti firmatari della sfiducia depositata dal notaio in forma di dimissioni. E a dimostrazione che l’historia non è quasi mai magistra vitae, Gualtieri e il Pd si sono messi in casa anche un accoltellatore estraneo, affidando il ruolo di coordinatore della lista civica che sostiene l’ex ministro dell’Economia ad Alessandro Onorato, eletto al Campidoglio con Alfio Marchini (quel giorno arrivato di corsa da Milano per firmare contro l’ex sindaco) e oggi affatto pentito, come ha dichiarato il 24 luglio a Roma Today, di aver defenestrato il Marziano. Strappandolo addirittura a Carlo Calenda che, Onorato dixit su Twitter, lo avrebbe voluto nello stesso ruolo.

Tra i primi giunti in via del Tritone c’era anche Michela Di Biase: la moglie del ministro Dario Franceschini, era stata la prima a firmare il documento spiegando che “avremmo dovuto farlo prima”. Una prova di fedeltà ricambiata nel 2016 dal partito, che l’aveva ricandidata con successo al Campidoglio e nel 2018 l’ha fatta eleggere pure in Regione. Dove il Pd ha portato anche Valentina Grippo, prima che quest’ultima passasse in Azione alla corte di Calenda. Entrambe elette nel maggio 2017 nella direzione nazionale del Pd insieme a un’altra firmataria, Cecilia Fannunza. Orlando Corsetti, Marco Palumbo furono, invece, ricandidati al Campidoglio nel 2016 insieme ad Athos De Luca, che però venne dirottato su Ostia da Renzi e nel 2019 ha lasciato il Pd per raggiungere proprio il fu rottamatore in Italia Viva. Fabrizio Panecaldo e Maurizio Policastro, invece, sono rimasti nel Pd, precisamente nella direzione del partito nella Capitale.

Al momento, quindi, a dispetto di quanto dice Gualtieri, il Pd romano non pare troppo cambiato, ma l’ex capo del Mef evidentemente si sente abbastanza sereno, come la rassicurazione che il “mandante” di cui parlava Marino aveva rivolto qualche anno fa a Enrico Letta mentre lo defenestrava da Palazzo Chigi, già un anno e mezzo prima di far fuori il Marziano. Ma magari, visti i precedenti, se dal 4 ottobre dovesse guardare Roma da Palazzo Senatorio a Gualtieri converrà ogni tanto buttarsi un occhio alle spalle. Così, tanto per stare ancora più sereno.

I dati della Pa in sicurezza (ma dal 2023)

La Pubblica amministrazione tutta, centrale e periferica, avrà il compito di capire entro la fine del 2022 quali dei dati dei cittadini in suo possesso siano più o meno sensibili e richiedere così diversi livelli di protezione, o meglio, di gestione più o meno “statale”. La palla, insomma, sarà lasciata in buona parte a comuni, regioni, ministeri anche guidati dalla neonata Agenzia per la sicurezza cybernetica e attraverso dei “questionari semplificati”.

Ieri, alla presentazione della strategia sul cloud nazionale erano schierati tutti i referenti di governo: a loro, nel 2025, si potrà chiedere se almeno il 75% dei dati della Pa saranno migrati in una nuvola, e lontano quindi dai vecchi data center fisici, come previsto dal Pnrr. La road map è serrata, anche se di fatto prevede che la migrazione vera e propria avverrà solo a partire dal 2023. Il costo totale di tutta l’operazione tecnologica sarà di 6,7 miliardi, previsti nel Pnrr. La sola partita del Polo strategico nazionale e aiuto alla migrazione al cloud (via voucher) ne vale 1,9.

I dati dei cittadini e i relativi servizi, identificati nel corso del prossimo anno come “strategici”, “critici” od “ordinari” andranno a finire in quattro tipologie diverse di cloud, più o meno sotto il controllo statale: da quello di mercato che avrà controlli ordinari a quelli con diversi livelli di criptazione, con gestione delle chiavi in Italia. Poi ci sarà il nucleo, la parte solo statale che custodirà le informazioni più sensibili e critiche. Provando a tradurre per i comuni mortali, viene confermata la necessità di “appaltare” parte dell’expertise tecnologica agli over the top, come Google, Amazon e Microsoft, riservandosi però di fatto diritti e sovranità che saranno stabilite mediante licenze e contratti. Mancano, certo, ancora le proposte sul tavolo del ministero visto che al posto di una tipica gara d’appalto è stata scelta la formula della Ppp europea, private public partnership, che funzionerà all’ingrosso così: il privato, o la cordata o il consorzio di imprese, potrà dire “questa è la mia proposta, la mia offerta”. Quella selezionata sarà il punto di partenza per le altre proposte eventualmente migliorative. La scadenza è sempre fine settembre per le offerte, fine dell’anno per la gare. Una scelta che di fatto viene spiegata con la necessità di conoscere quale sia la migliore tecnologia che le imprese (e la parte di Stato con esse consorziate) possano offrire.

Restano ovviamente delle criticità: la crittografia da sviluppare in futuro con un algoritmo totalmente nazionale è un percorso lungo e lento per evitare di esporsi ad attacchi esterni; il rischio di lock-in, ovvero del vincolarsi tecnologicamente ad una sola (o poche) azienda appare inevitabile per il gap tecnologico accumulato negli anni “e che si proverà ad arginare ricorrendo a più tecnologie e seguendo un percorso di standardizzazione” ha spiegato il responsabile delle tecnologie del ministero, Paolo De Rosa. Infine, il controllo pubblico. A oggi appare evidente che le cordate, quasi tutte, avranno una partecipazione statale tramite le sue controllate. Bisognerà però capire con che percentuali. “C’è una certa preferenza per mantenere il controllo dello Stato in una forma flessibile – ha detto Colao –, certo non al 100%, ma in una forma che possa garantire la capacità di dirigere questa entità nei primi anni”. Senza spaventare i privati con cui il ministro auspica una “forte, trasparente ed efficiente interazione”.

Dare il Reddito alle imprese aumenta i poveri: ecco come

Abolire il Reddito di cittadinanza e dare quei soldi alle imprese per creare occupazione. “Passiamo al lavoro di cittadinanza”, per usare le parole del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Dopo settimane di affondi sguaiati, le destre hanno chiarito la strategia che è dietro la pressione per cancellare il sussidio contro la povertà: trasferire quelle risorse nelle casse delle aziende. “Lo sviluppo e il lavoro sono i mezzi per liberare la gente dalla povertà, non il mantenimento con la paghetta di Stato”, ha detto l’altro ieri la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Con Lega e Italia Viva, tutti convinti che favorire l’aumento dei posti di lavoro porti un miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più deboli.

Ignorano però che l’automatismo non esiste. A dimostrarlo è quanto successo in Italia dopo il 2014. In quegli anni un’ingente quantità di denaro pubblico è finito ai datori per assumere, è cresciuto il numero di occupati ma – contemporaneamente – è salita pure l’incidenza della povertà assoluta. Nel 2014, dopo anni di crisi, il tasso di occupazione era al 55,7% mentre quello di povertà assoluta famigliare si attestava al 5,7%. Nel 2015, primo anno di operatività degli incentivi legati al Jobs Act – pensati dal governo Renzi per gonfiare i numeri del lavoro e mostrare che la riforma (l’abolizione dell’articolo 18) funzionava – l’occupazione è andata al 56,3%, e l’indigenza è avanzata fino al 6,3%. Questa crescita parallela tra posti di lavoro e disagio economico dei nuclei più vulnerabili, nonostante 20 miliardi di sgravi alle assunzioni, è proseguito fino al 2017, quando l’occupazione è arrivata al 58% e la povertà al 6,9%. Il primo anno in cui i poveri hanno smesso di crescere è stato il 2018, che – guarda caso – coincide con il momento in cui è entrato in vigore il Reddito di inclusione, approvato dal governo Gentiloni come mossa di fine legislatura. Nel 2019, con l’avvento del governo Conte è stato introdotto il Reddito di cittadinanza e i contatori dell’Istat hanno segnalato circa 450 mila poveri in meno (meno 9% rispetto all’anno prima) con l’incidenza scesa dal 7% al 6,4%. Prima volta dopo anni che si assiste a un calo dell’indicatore. La povertà in Italia è cresciuta per anni nonostante il contestuale aumento di occupazione e si è ridotta solo con l’arrivo di strumenti di sostegno al reddito.

Come è possibile il paradosso del contemporaneo incremento dei posti di lavoro e del numero di individui bisognosi? “Abbiamo tre spiegazioni”, fa notare Elena Granaglia, economista dell’Università di Roma 3 e membro del comitato Forum Disuguaglianze. “Bisogna innanzitutto vedere dove vanno i posti di lavoro, quelli nuovi potrebbero per esempio andare al secondo componente di una famiglia che ha già un componente occupato. In tal modo, da monoreddito diventa bi-reddito. Insomma, se il nuovo lavoro si concentra presso le famiglie che già stavano meglio, non è detto che all’aumentare del tasso di occupazione ci sia un miglioramento per la parte bassa”. Senza dimenticare che spesso i bassi salari non sono in grado di tirar fuori dalla povertà anche gli stessi occupati: “Se guardiamo i dati che riguardano i lavoratori dipendenti – aggiunge Granaglia – il tasso dei lavoratori poveri sta attorno al 30%, molto più alto al dato europeo”. Infine c’è il problema territoriale: la crescita in genere è più solida al Nord e in parte del Centro, mentre al Sud non è sufficiente a migliorare significativamente le condizioni di vita.

Quindi un sussidio contro la povertà resta necessario anche in un Paese in cui crescono la produzione e l’occupazione? “Sì, decisamente”, secondo Granaglia. L’altroieri, l’Ocse – pur promuovendo gli effetti del Reddito di cittadinanza sul livello di povertà – ha messo in guardia l’Italia dal rischio che l’aiuto in denaro costituisca un disincentivo al lavoro. E ha suggerito di tagliare l’entità dell’assegno mensile e migliorare i sostegni per chi, pur avendo un impiego, guadagna poco.

“I disincentivi ci possono essere quando le retribuzioni sono molto basse – conclude Granaglia – Abbiamo diversi modi per affrontare il problema. Uno è fare di tutta l’erba un fascio e tagliare: ovviamente è sbagliato. Un altro è fare più controlli sul lavoro nero. La terza soluzione, la più attraente, è permettere una maggiore cumulabilità tra Reddito di cittadinanza e reddito da lavoro”.

“Versate o niente evento con Conte”. Nel M5S riappare il nodo dei fondi

Va bene la campagna di ascolto sui territori, va bene la rifondazione “radicale nei contenuti e moderata nei toni” per dirla come l’avvocato. Ma per costruire il nuovo Movimento, Giuseppe Conte ha bisogno anche di soldi, quelli delle restituzioni dei parlamentari: 2.500 euro al mese secondo le nuove regole entrate in vigore ad aprile (di cui 1.000 al Movimento, e 1.500 “alla collettività”). Però di denaro dagli eletti ne sta arrivando poco: e comincia a diventare un problema, al punto da generare le prime frizioni nero su bianco. Per esempio raccontano che due giorni fa sulla chat interna i parlamentari calabresi siano stati inviati a rimettersi in regola con le restituzioni: in caso contrario, verranno esclusi dai prossimi eventi pubblici con Conte e altri big in Calabria, dove a ottobre si voterà per le Regionali. Un avviso che i parlamentari non hanno affatto gradito. “Se pensano di smuoverci con una sanzione del genere…”, ringhiano un paio di eletti. Ma il tema di fondo, quello dei soldi che non arrivano, vale per tutta l’Italia a 5Stelle. E dietro c’è un altro delicatissimo nodo irrisolto, cioè il vincolo dei due mandati, su cui Conte non ha ancora ufficialmente deciso. Stando alle sue dichiarazioni e alle voci di dentro, la sensazione è che alla fine l’ex premier troverà il modo per ricandidare un gruppetto di maggiorenti: dieci, massimo 20 persone.

Gli altri al secondo mandato si sentono quasi tutti già a fine corsa, perché il taglio dei parlamentari e l’inevitabile calo del M5S rispetto al 33 per cento delle Politiche 2018 saranno già una scure. Il resto potrebbe farlo lo stesso Conte, inserendo nelle liste molti esterni. “Se siamo messi così, perché ti devo dare 2500 euro al mese?” ragiona un deputato. Sintesi brutale del pensiero di molti altri eletti, che non restituiscono da mesi. Nelle scorse settimane l’ex reggente Vito Crimi, prima di lasciare la carica, aveva tenuto due riunioni per chiedere ai parlamentari di versare. Ma è valso a poco. “Devono spiegarci bene cosa faranno con quei soldi, e se verranno usati anche per questa campagna elettorale” rilancia una parlamentare. E poi su tutto incombe anche un enigma, ossia il destino dei sette milioni raccolti con precedenti restituzioni, ancora fermi – pare – sul conto di una banca a Milano. Anche su quello dovrà esprimersi Conte, che vuole un M5S strutturato in tutte le regioni, e che ha fatto affittare una sede a Roma a pochi metri dalla Camera. Novità, che richiedono soldi.

Metà Pd e metà Lega, Renzi e B: il “Centrone” per Mario forever

Circola una battuta tra persone informate dei fatti circa le ambizioni di Renato Brunetta . Il re della lotta ai “fannulloni”, oggi convertitosi alla demolizione dello smart working, è il ministro più anziano dopo Mario Draghi e in caso di impedimenti del presidente del Consiglio toccherebbe a lui prenderne il posto. Ma Brunetta pensa davvero che quell’incarico potrebbe finire a lui in forma stabile.

Sogni di un professore che ha quasi vinto il Nobel e si è dovuto accontentare della Pubblica amministrazione? Oppure solo voci malevole (messe in giro però anche da amici suoi)? Non è questo il punto. La questione è che esiste uno schieramento largo, il “Centrone” di Draghi secondo cui la formula politica che attualmente governa l’Italia debba durare più a lungo. Almeno fino al 2023, forse anche dopo.

Questo è il nodo del contendere dietro la partita del Quirinale. L’ipotesi di un Mattarella bis (sciagura costituzionale) servirebbe a consolidare il “Centrone”, ma anche una salita di Draghi al Colle potrebbe attivare vari dispositivi di prolungamento della legislatura.

Intanto perché un Draghi presidente della Repubblica avrebbe le carte in regola per gestire una fase 2 della sua esperienza al governo. E poi perché le elezioni non le vuole nessuno se non la destra e una parte della Lega.

A questo schema lavorano ormai in tanti ed è questo che, ad esempio, aiuta a capire il senso sia della paginata consegnata al Foglio dall’ex segretario Pd Nicola Zingaretti, con cui ha messo in guardia il suo successore, Enrico Letta, dalle pastoie di una formula modello “larghe intese”, sia l’allarme di Goffredo Bettini alla festa del Fatto Quotidiano, con cui ha invitato il Pd a ritornare alla prospettiva dell’alleanza con Giuseppe Conte e il M5S.

Questi allarmi rendono evidente che una parte del “Centrone” abita proprio dentro il Partito democratico. Facile, infatti, collocare nel partito di Draghi, le frattaglie centriste che sono rimaste in circolazione, a partire da Italia Viva di Matteo Renzi. Il quale definisce Draghi il suo “capolavoro politico” e sa bene che in una formula come quella attuale i partiti inesistenti, ma presenti in Parlamento, hanno più spazi. Stessa cosa per Azione di Carlo Calenda – il quale a Roma punta ad assestare un colpo diretto al Pd per favorirne la vocazione centrista – e in realtà anche per Forza Italia per quanto quel partito sia in balia degli eventi e incapace di darsi una prospettiva propria. Certo, in caso di voto anticipato gli azzurri non si farebbero mettere ai margini e quindi il patto con Salvini è bell’e pronto, ma nell’attuale palude draghiana ministri come Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, oltre al già citato Brunetta, si trovano in una comfort zone.

Messa così, però, il centro infinito che ruota attorno a Draghi non avrebbe sostanza. A sorreggerne le speranze sono le due ali di Pd e Lega.

Nel partito di Letta i “renziani in sonno” hanno come occupazione costante quella di sparare contro ogni possibile riavvicinamento strategico al M5S. Da Lorenzo Guerini ad Andrea Marcucci al presidente della Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, il punto dirimente resta questo. E, come in una sala degli specchi, a sorreggerne la prospettiva c’è la componente della Lega capeggiata da Giancarlo Giorgetti, che sembra avere poco appeal di massa, ma che si fa forte del sostegno di leader locali come Luca Zaia. Salvini viene marcato a vista anche se non bisogna sottovalutare l’attrazione che anche per il leader leghista il grande calderone potrebbe avere soprattutto in asse federativa con Forza Italia.

Il “Centrone” lo si capisce meglio se lo si guarda dai giornali più importanti. L’alfiere di questo schieramento è Repubblica diretta da Maurizio Molinari, basta leggere gli editoriali di Stefano Folli. Lo stesso vale per il Corriere della Sera dove prevale un po’ di più l’attrazione fatale per ogni cosa che sappia di tecnico autonomo dal Parlamento (si vedano gli ultimi editoriali di Massimo Franco e Sabino Cassese). Confindustria, ovviamente, con Carlo Bonomi che uno schieramento così filo-industria se lo sogna, oltre ad altre forze collaterali (in particolare la Chiesa). Il Centrone in fondo è una grande Democrazia cristiana, placida e tranquilla, che governa l’esistente e garantisce gli interessi consolidati. E deve tener fuori le parti che non conformano all’obiettivo. In primis il M5S e Giuseppe Conte in particolare. Ovviamente la sinistra di Pier Luigi Bersani e i dem renitenti come Bettini o quella parte del partito che si riconosce nel vicesegretario, Peppe Provenzano.

Mario Draghi che nell’era Dc è nato e cresciuto, per poi costruire il curriculum all’estero, rappresenta un punto di riferimento eccellente. Ecco, il vero limite del Centrone è che senza Draghi le grandi ambizioni qui descritte vanno a farsi benedire. Ecco perché si spera in san Sergio (Mattarella). Bis.

Scuola: Bianchi promette i salivari, ma su supplenti e sostegno glissa

Nessuna parola sul caos creato dall’algoritmo per l’assegnazione delle supplenze annuali. Nulla sulla mancanza degli insegnanti di sostegno specializzati alla ripartenza della scuola. Una vaga promessa sui test salivari per tutti; l’annuncio di soldi per l’acquisto di aeratori e uno scaricabarile sugli enti locali per quanto riguarda le “classi pollaio” che preferisce definire “soprannumerarie”. Ecco il risultato dell’audizione che il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha fatto ieri mattina davanti alla Commissione Istruzione della Camera. Due ore e mezza di colloquio, durante le quali il professore ferrarese ha voluto mostrare una sola faccia della medaglia: “L’impegno che ci eravamo presi era quello di ripartire con tutti i docenti designati dal ministero al loro posto: questo impegno sarà realizzato per la prima volta nella storia della Repubblica”. Peccato che il ministro abbia glissato sul fallimento del “cervellone” informatico per la nomina dei docenti con contratto al 30 giugno e al 31 agosto. Bianchi non ha ammesso nemmeno la falla rispetto alla piattaforma che deve controllare i Green pass: “È pronta dal 4 settembre, ma è in fase di collaudo”.

Il ministro sulle classi numerose si è difeso puntando il dito sugli enti locali: “Abbiamo dato agli enti locali che sono i gestori delle scuole 270 milioni per interventi di edilizia leggera”. Infine il programma delle riforme tra cui l’orientamento “che deve essere un accompagnamento dei ragazzi alle scelte della loro vita. Serve poi la riforma del reclutamento e la formazione continua dei docenti e del personale, compresi i dirigenti”.

“Io, maestra vaccinata e malata. Senza attestato perdo il posto”

Roberta insegna alle elementari da 38 anni, attualmente in una scuola del Colle Oppio a due passi dal Colosseo. Non vede l’ora di fare lezione, ma “dal 22 settembre – racconta – non potrò più entrare a scuola e nemmeno prendere un treno per andare da mio figlio a Bologna. Mi scade il Green pass perché è quello dei guariti, vale solo sei mesi. Ma io mi sono vaccinata subito, l’11 marzo ho fatto la prima dose di AstraZeneca e sono anche stata malissimo. Quindici giorni dopo però ho avuto il Covid, sono stata ricoverata al Celio con la polmonite, e la seconda dose non me la fanno”. È proprio così: “Non prevista” si legge nella colonna della seconda dose sul certificato vaccinale di Roberta. E il Green pass scade il 21 settembre, a sei mesi dal tampone positivo. Se n’è accorta da poco, la maestra romana, perché quel maledetto certificato gliel’hanno dato solo ad agosto, con grave ritardo: “Un incubo”. E ora un altro.

La regola purtroppo è chiara. Decreto 111 del 6 agosto: senza Green pass non potrà entrare a scuola, cinque giorni di assenza e poi scatterà la sospensione da lavoro e stipendio. “La preside vorrebbe aiutarmi, ma non sa come, anche il mio medico e la Asl mi hanno detto che non c’è niente da fare”, dice ancora la maestra. Tamponi ogni 48 ore? “Nemmeno per idea”. Nemmeno se fossero gratis? “Ma no, mi scusi, ne ho fatti già tanti di tamponi, le pare accettabile?”. In effetti no. “E la cosa più incredibile – insiste Roberta – è che un medico o un infermiere nella mia stessa situazione possono entrare in ospedale, io no, non potrò entrare a scuola”, dice Roberta ancora più sconcertata. È uno di quei casi che fanno pensare che l’obbligo vaccinale sia meglio delle bizantine regole del Green pass. L’articolo 4 del decreto legge 44/2021. convertito in legge 76/2021 prevede infatti, per gli operatori sanitari, l’obbligo vaccinale tout court, quello che la Lega non vuole per gli altri e che, per questo e altri motivi, si è deciso di aggirare con il Green pass: la “sospensione” da lavoro e stipendio scatta solo in caso di “inosservanza dell’obbligo vaccinale”. Puoi punire un lavoratore come non vaccinato se risulta aver fatto la prima dose e il medico ha scritto “non prevista” della seconda? Anche a Roberta nessuno può dire di non essersi vaccinata, ma il Green pass scade lo stesso. Non è certo l’unica in questa situazione, saranno almeno centinaia. Il Fatto ha già scritto di un caso simile in Piemonte, sul Tirreno, il Corriere del Mezzogiorno e La Stampa sono usciti altri casi di insegnanti che hanno avuto il Covid dopo la prima dose e si ritrovano col Green pass in scadenza, proprio mentre riaprono le scuole. “Possibile che nessuno se ne occupi? C’è un vuoto normativo, mi hanno detto. Io quando sbaglio con i miei alunni chiedo scusa, non dovrebbero chiedere scusa?”, chiede Roberta.

Per chi si ammala e poi si vaccina non c’è problema: il primo Green pass di sei mesi diventa di nove. Chi si infetta dopo la prima dose, invece, rischia il posto di lavoro e lo stipendio, ora nella scuola e nell’università ma presto anche negli altri settori a cui sarà esteso l’obbligo di Green pass. Anche al ministero della Salute si impegnano a risolvere il problema. Serve una modifica al decreto legge, bisogna passare dal Consiglio dei ministri o dal Parlamento, che sta votando la conversione del decreto 111: probabilmente, spiegano fonti qualificate, chi si positivizza entro 14 giorni dalla prima dose sarà considerato non vaccinato e dovrà fare due dosi; ne basterà invece una per chi contrae il Covid-19 dopo un periodo più lungo. A ogni modo avranno il Green pass per nove mesi, che presto diventeranno dodici per i vaccinati, mentre per i guariti rimarranno sei per quanto i primi studi attestino che la protezione naturale indotta dall’infezione duri più a lungo di quella da vaccino. La nuova norma potrebbe essere approvata già questa settimana o la prossima, insieme all’estensione del Green pass. Sarebbe bene accelerare. E gli intoppi del Green pass non finiscono qui: per dirne un’altra, chi ha fatto due dosi in due Regioni diverse (ricordate i vaccini in vacanza?) a volte si ritrova senza pass.