Decreto Green Pass: Salvini vota con Meloni (e Draghi fischietta)

L’obbligo vaccinale sparisce dai radar, ma l’estensione del Green pass è ormai una certezza. Ma mentre Palazzo Chigi va in questa direzione, anche in virtù di un patto con Matteo Salvini, il Carroccio vota alla Camera alcuni emendamenti di Fratelli d’Italia sul decreto in esame. E se il premier non fa una piega, in realtà è la maggioranza che sussulta.

A Palazzo Chigi sull’obbligo vaccinale non ci stanno lavorando. Ed è probabile che non ci lavoreranno ancora per molto tempo, se non addirittura mai. La dichiarazione di Draghi, che durante la conferenza stampa della settimana scorsa aveva aperto all’obbligo, qualche giorno dopo sembra più che altro un modo per fare pressione con l’obiettivo di arrivare all’estensione del Green pass. Una risposta istintiva, da politico esperto. D’altronde è sull’estensione del certificato che si sta lavorando a Palazzo Chigi. Tanto che anche Roberto Speranza, ministro della Salute, rigorista, in serata ammette che per quel che riguarda l’obbligo vaccinale servirà una valutazione di qualche settimana.

L’idea del premier è quella di estendere l’obbligo a tutti i luoghi di lavoro, a partire dai dipendenti pubblici e dei lavoratori a contatto con il pubblico (bar, ristoranti, palestre, trasporti pubblici). Ma l’estensione in prospettiva dovrà riguardare davvero tutti i lavoratori, anche su richiesta di Confindustria e dei sindacati (anzi, Maurizio Landini è per l’obbligo vaccinale). E non solo nel pubblico, ma anche nel privato. L’idea, per ora, potrebbe essere – dopo la scuola – quella di partire dalle aziende. Si parla di un Cdm e di una cabina di regia già domani, ma è probabile che slitti a venerdì, se non all’inizio della settimana prossima. A Palazzo Chigi ci stanno ancora lavorando, le scelte definitive non sono ancora state fatte. Si insiste sull’ipotesi di procedere con gradualità. Mentre i tamponi gratis, altro tema caro alla Lega, secondo il premier dovrebbe riguardare poche categorie.

In quello che appare un parziale dietrofront sull’obbligo vaccinale pesano sia l’effettiva difficoltà di imporlo (c’è il tema del risarcimento, in caso di problemi, introdotto da Giorgia Meloni, per dire), sia le resistenze politiche. A partire da quelle della Lega, comunque divisa al suo interno, con il Nord produttivo che l’obbligo di Green pass lo vede benissimo. Intanto, Salvini deve comunque mantenere il punto. Tanto è vero che ieri il Carroccio alla Camera sul decreto ritira gli emendamenti, in cambio del fatto che il governo non mette la fiducia, ma esordisce astenendosi sulla soppressione dell’articolo 3, quello che – di fatto – prevede l’obbligo di mostrare il Green pass per poter mangiare al chiuso in ristoranti e bar, andare al cinema e a teatro, partecipare a fiere e eventi. Mentre Fdi vota contro. E se il “falco” Claudio Borghi parla di atto di responsabilità, nel Pd parte una denuncia in batteria. “È la maggioranza Ursula”, dice il dem Enrico Borghi riferendosi a quella che sostiene la presidente della Commissione europea, Von der Leyen (Pd, Forza Italia, M5S).

La tensione sale per tutto il pomeriggio, visto che la Lega fa sapere di valutare alcuni emendamenti dei meloniani. E alla fine annuncia il voto a favore di quelli che riguardano il no all’obbligo di certificato digitale per il ristorante, per i minorenni e a quelli sulla dilazione delle cartelle esattoriali. A votare con Fdi sul primo sono in 100 leghisti. “Votano contro il governo”, denuncia ancora Borghi.

Ma a questo punto, la partita vera s’è spostata sui luoghi di lavoro. Il Carroccio non dovrebbe mettersi di traverso. Ma se il patto Draghi-Salvini potrebbe anche reggere, le variabili riguardano la tenuta della maggioranza. Sentire Enrico Letta, segretario del Pd, per credere: “Un partner di governo affidabile non vota gli emendamenti dell’opposizione su una questione chiave”.

 

 

 

IL DIBATTITO Certificato in università

Favorevole “Assurdo opporsi, che gioia rivedersi tutti a lezione”

La mia posizione sull’obbligo della certificazione verde in Università è molto netta. Il primo settembre sono entrata alla Sapienza con il Green pass e così hanno fatto tutti gli studenti: non c’è stato alcun problema e non vedo cosa ci sia di male.
Siamo entusiasti di aver fatto lezione in presenza riconquistando lo spazio dell’Università, che è uno spazio di democrazia a cui abbiamo dovuto rinunciare per parecchio tempo.
Per questo non concordo affatto con l’appello firmato da alcuni colleghi contrari all’obbligo. Nell’Università c’è un valore di comunità che finalmente può essere recuperato, anche grazie al Green pass. Il contesto di emergenza pandemica in cui viviamo da quasi due anni ci costringe a fare i conti con delle limitazioni. Ogni considerazione non può prescindere dal valutare questo contesto, a meno di non scivolare nel negazionismo. La situazione è ancora grave e l’obiettivo di tutti deve essere recuperare la polis, lo spazio pubblico dei nostri Atenei. Questa è la mia priorità, scongiurando il ritorno alla didattica a remoto.
So che alcuni miei colleghi ne fanno una questione di diritti lesi. Ma su questo il Green pass ritengo sia l’ultimo dei problemi: sono ben consapevole che ogni giorno mostro e condivido i miei dati personali diverse volte, senza peraltro averne il beneficio che garantisce il ritorno in Aula. Pensiamo allora all’isolamento a cui sono stati costretti i nostri studenti e a che periodo devastante hanno passato. L’Università è anche confronto con i giovani, è dibattito, non può restare a lungo uno schermo chiuso tra quattro pareti. Il mio obiettivo è che gli atenei recuperino la loro funzione.

Donatella Di Cesare

 

Contrario “Ma discriminare chi non ce l’ha è un boomerang”

Io sono vaccinata e totalmente a favore del vaccino. Anzi, ritengo che sia uno dei più efficaci che abbiamo. Ma proprio perché è molto efficace dobbiamo fare una campagna informativa buona per convincere chi ne ha bisogno. Credo invece che stigmatizzare e colpevolizzare chi ha dei dubbi sia invece profondamente sbagliato: questa guerra non aiuta nessuno. Anche perché dopo due anni di pandemia è comprensibile che le persone abbiano paura, ma bisognerebbe giudicare di meno, evitare di fare continuamente la morale a chi la pensa in maniera diversa e smetterla di trattare i cittadini come bambini incoscienti.
Per questo ho firmato l’appello contro il Green pass obbligatorio in Università.
Dobbiamo convincere le persone più a rischio a vaccinarsi. Non introdurre discriminazioni che irrigidiscono le posizioni. Come madre e come insegnante, che messaggio trasmetto agli studenti se gli dico: “Vaccinatevi oppure non potete entrare in Università”?. È come se dicessi loro che non importa analizzare le evidenze scientifiche, che spesso a un attento esame non sono per nulla evidenti, ma che bisogna solo obbedire. Io insegno statistica medica, dunque so che basarsi sui dati è fondamentale. Le biblioteche e i musei siano luoghi pericolosi? I danni per i nostri ragazzi sono semmai altri: la salute e il benessere non si riducono evitando il contagio. Con il lockdown abbiamo avuto un forte malessere tra i giovani, esclusi da ogni attività sociale. Non è così che facciamo il loro bene. Senza dimenticare che in ambito scientifico il dubbio è cosa buona, bisogna farne tesoro. Ci vuole umiltà nell’approccio e nei messaggi che mandiamo.

Sara Gandini

Abbiamo scherzato

Più passano i giorni, più appare chiaro che Draghi non ha alcuna intenzione di imporre i vaccini forzati a 4-5 milioni di No Vax: il suo annuncio “si va verso l’obbligo vaccinale” era una boutade, un ballon d’essai, uno spaventapasseri per indurre il fu Salvini a più miti consigli sul Green Pass. Come quando i genitori, per costringere il bimbo riottoso a fare qualcosa, lo minacciano: “Guarda che chiamo il babau e ti faccio mangiare”. Il bello è che nel frattempo la sparacchiata draghiana, come ogni sospiro o droplet che esce dalla sua bocca, ha già fatto il pieno di consensi: un festival di lingue, salmi, cantici e gridolini di giubilo (Evviva! Era ora! Lo dicevo, io! Sante parole! È un bel presidente!), seguiti dalla scomunica per chiunque obietti qualcosa (Vergogna! Orrore! No Vax che non siete altro!). Figurarsi che faccia faranno i turiferari quando si scoprirà che quel mattacchione di SuperMario scherzava. La scena ne ricorda una del 2006, quando B. in forma smagliante dichiarò testualmente: “Nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi”. L’ambasciatore cinese protestò. Ma lui insistette: “Ma è la Storia! Mica li ho bolliti io, i ragazzini. Se poi non si può nemmeno esprimere una certezza…”.

Intanto i suoi servi sciocchi, anziché sorvolare per carità di patria, si scapicollarono a dargli ragione. Il più lesto, oltre ai camerieri di FI, Lega e An, fu Renato Farina che lanciò la lingua oltre l’ostacolo su Libero: “Ecco le prove: mangiavano i bimbi. Un libro conferma la verità di Berlusconi. E la sinistra, negando, uccide un’altra volta… Su questi bambini ci si scherza su. Come se fosse una barzelletta. Siccome la frase è di Berlusconi, diventa una battuta… Altro che balle. Balle una sega… Ha assolutamente ragione”. Un altro noto sinologo di scuola arcoriana, Filippo Facci, scodellò sul Giornale un altro studio molto accurato sul tema, dal titolo: “Li mangiano ancora”: “In Corea del Nord ultimamente si sono perpetuati cannibalismi e assassini a scopo alimentare a causa di carestie, inondazioni e disperazione”, senza peraltro spiegare che diavolo c’entrasse la Corea del Nord con i “bambini bolliti per concimare i campi” nella Cina di Mao. Mentre Betulla, Facci e gli altri scudi umani sudavano le sette camicie su Google a caccia di altre minchiate da appiccicare a quella del padrone, quello se ne uscì bello fresco con una ritrattazione in piena regola: “Be’, sì, sulla Cina ho fatto un’ironia discutibile, non mi sono trattenuto…”. E li lasciò lì con le lingue a penzoloni, esposti al ludibrio generale: avevano trasformato in dogma una battuta. La cosa comunque non arrecò nocumento alle loro carriere: per non perdere la faccia, il segreto è non averne una.

Erbette, riciclo, design, arte e agricoltura: a Milano il Fuori Salone si tinge di “verde”

È una bella notizia che sabato abbia riaperto a Milano il Salone internazionale del Mobile, che si espande nella città dagli anni 80 e diviene poi ufficialmente Fuori Salone nel 1991, creando la Milano Design Week, sette giorni gloriosi tra oggetti inderogabilmente divenuti “strumenti di un rito esistenziale” come da profezia di Ettore Sottsass. Fuorisalone, che significa in verità anche pressanti istanze del contemporaneo configurate dall’arte.

E infatti, mentre le imprese saranno tenute al recepimento dei criteri Environment, Social, Governance, per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030, mentre conseguenti tendenze di marketing parlano e a volte straparlano di arte e cultura come indispensabili per un rinnovamento con insegna ecologica, in questo Fuorisalone due mostre sono frutto e vettori di miglioramento per la vita del Pianeta.

Al Museo della Scienza e della Tecnologia la gallerista Rossana Orlandi persegue la sua annosa missione e sovrintende alla bellissima esposizione di design e architettura danesi prodotti con rifiuti riciclati. Ed ecco che il mondo è diverso e appare nitido e pulito. Poi, nella Stazione di Porta Garibaldi, l’associazione “Green Island”, nata nel quartiere Isola da un progetto collettivo di artisti, creativi, architetti, curatori e residenti, continua il suo discorso su arte e ambiente. Una modalità di pensare l’arte che si va diffondendo, come nelle Manifatture Knos di Lecce o nel lavoro di connessione tra poetiche e agricoltura degli artisti Heather AckroydeDan Harvey, che hanno collaborato attivamente con gli scienziati dell’Università di Aberystwyth.

Del resto, non sarà un caso che già la Land art, e alcuni percorsi di Arte povera intrisi di legami forti con territorio e natura – come quelli di Giuseppe Penone e Pino Pascali –, si configurino negli anni 60, quando l’ecologia si lega a problematiche ambientali. Così, ieri è iniziato il percorso “L’erbario in viaggio” curato da Claudia Zanfi, che sarà visibile anche a Modena al FestivalFilosofia e a Mantova al Festivaletteratura. Trenta artisti che con la fotografia raccontano una via di fuga dalle distruzioni dell’Antropocene. Quanto tempo è passato da Le jardin en mouvement e da Le jardin planétaire di Gillés Clement, e continuiamo a ripeterlo, il giardino è, deve essere, planetario.

Ciak si legge, dall’aborto alla “Scuola cattolica”

“Non c’è il fascismo, ma si muovono da fascisti; non c’è droga, e si muovono da drogati. Una scelta intenzionale: volevamo identificare il maschio che usa la donna come oggetto, riflettere sul concetto di impunità. E portare quella sofferenza al giorno d’oggi: il mostro colpisce ancora, è responsabilità di tutti che non accada”. Stefano Mordini porta fuori concorso alla Mostra di Venezia uno dei più efferati delitti italiani, il massacro del Circeo: tra il 29 e il 30 settembre del 1975 gli altoborghesi Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido rapirono e torturarono le proletarie Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, che morì. La rievocazione è filtrata dall’omonimo romanzo premio Strega di Edoardo Albinati: La scuola cattolica arriverà nelle nostre sale il 7 ottobre. Ha il merito principale nel cast di giovani attori, dai più noti Benedetta Porcaroli (Cosalanti) e Giulio Pranno (Ghira) a Luca Vergoni (Izzo) e Federica Torchetti (Lopez), cui tocca tracciare la scia di violenza: “Quando una donna viene stuprata nessuno oggi si interroga più se fosse vergine, come successe per Rosaria. Ma ci sono sentenze sessiste, ancora si chiede alle vittime come fossero vestite, se fossero ubriache”.

Se il modello non dichiarabile da Mordini & C. è Romanzo criminale, sopra tutto nella necessità di attualizzare e attrarre i giovani, il rimaneggiamento di libro e Storia è purtroppo sensibile: non fascista, non stupefacente, nemmeno troppo cattolica, la violenza si fa anonima e il male si scopre determinista. Manca uno sguardo d’autore, capace di illuminare il contesto storico-politico o, al contrario, sprizzare l’indifferenza di una Arancia meccanica.

Parlando di adattamenti, più convincente è L’événement della francese Audrey Diwan, che prende da Annie Ernaux e gira un dramma solido, serrato e impermeabile sull’aborto clandestino, trasformando l’esperienza autobiografica della scrittrice francese, ventitreenne studentessa incinta nel 1963. Ottimamente interpretato da Annamaria Vartolomei, L’evento sta sulla prova fisica di Annie e sul guadagno ideologico, senza mai infiltrare dubbi etici: la tormentata esecuzione di una volontà non discussa, una storia che Diwan vuole “al di là dell’epoca e della barriera dei sessi”. Potrebbe andare a premio, dalla regia al Mastroianni per Vartolomei, mentre deludente è La caja del venezuelano Lorenzo Vigas, che da esordiente fu Leone d’Oro nel 2015 con Desde allà: nel vuoto ostile del Messico, tra fosse comuni e identità in divenire, un racconto tanto programmatico quanto confuso.

Adieu, “Magnifique”: da adesso non sarà più un Belmondo

Se n’è andato anche Jean-Paul Belmondo, una simpatica canaglia capace di imporre labbra, occhi, naso da pugile e molto altro sull’idea che abbiamo di attore, sul senso che diamo al cinema e la soddisfazione che ne ricaviamo. Fino all’ultimo respiro, per citare il titolo che lo consacrò, Belmondo ha saputo rimanere vivido nella nostra enciclopedia cinematografica, avocando l’iconicità del divo e l’eccezione culturale (senza disdegnare il genere), controfirmando l’identikit di un – il? – volto della Nouvelle vague, che dall’altro lato della macchina da presa di Jean-Luc Godard cavalcò come pochi.

Fu disinvolto, coraggioso, irripetibile, Bebel, passaporto francese e sangue – il padre Paul scultore di origine siciliana, nella cui memoria rifiuterà il César per Una vita non basta di Claude Lelouch – anche italiano, la denominazione sciovinista che gli stava stretta, pure nel successo: fu propheta in patria, ma altrove di più.

Nato il 9 aprile 1933 a Neuilly-sur-Seine, aveva 88 anni. È morto nella sua casa di Parigi, il set che ne fece il James Dean d’Oltralpe, ma con altri connotati, meno puliti, più minacciosi: fisico da boxeur, è un combattente nato, Belmondo, e anche strafottente, dal sex appeal brusco, la tenerezza intermittente e il destino a cui dare del tu. Corpo apollineo e anima dionisiaca, Godard lo intende subito, e ne fa l’enfant terrible della rivoluzione che sta per abbattersi sul cinema de papa: Fino all’ultimo respiro (1960, dal prossimo 4 ottobre in sala restaurato da Cineteca di Bologna) ha in Bebel l’istanza desiderante di una nuova era, un altro mondo – e un altro innamoramento, per la coprotagonista Jean Seberg – possibile. Non sono appena dei film, non è solo un cambiamento culturale: I 400 colpi di François Truffaut, il respiro di Godard, nulla sarà più come prima, è lo spirito del tempo a certificarlo, è Time a sovrascriverlo, retrocedendo la bandiera e il cognac a simboli secondari della Francia e issandovi “l’immagine di un giovane uomo stravaccato su una sedia in un caffè… è Jean-Paul Belmondo, il figlio naturale della concezione esistenzialista, che rappresenta tutto e niente a folle velocità”.

Gangster e amante, scavezzacollo e maître à penser (“Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… Ma il dolore è un compromesso. O tutto, o niente”, predica il Michel Portail del Respiro), i ruoli troveranno le reminiscenze dello sportivo, anche il calcio, interrotto dalla tubercolosi, gli studi all’Accademia d’arte drammatica della Ville Lumière, l’apprendistato con L’avaro e Cyrano de Bergerac.

A fine anni Cinquanta il debutto sul grande schermo: Fatti bella e taci (1959, in coppia con il sodale e rivale Alain Delon), A doppia mandata (1959, di Claude Chabrol), ed è già Vague. Godard lo riconfermerà ne La donna è donna (1961) e Il bandito delle 11 (1965), e non solo lui: tra autoriale e commerciale, Bebel ha l’imbarazzo, e il privilegio, della scelta, da Jean Pierre Melville (Leon Morin prete, 1961; Lo spione, 1962; Lo sciacallo, 1963) a Louis Malle (Il ladro di Parigi, 1966), da Truffaut (La mia droga si chiama Julie, 1969) a Jacques Deray (Borsalino, 1970), passando per il jamesbondiano Casino Royale (1967). Gli italiani non stanno a guardare, lo avranno i migliori: Vittorio De Sica (La ciociara, 1960), Alberto Lattuada (Lettere di una novizia, 1960), Mauro Bolognini (La viaccia, 1961), Sergio Corbucci (Il giorno più corto, 1962). E troverà le migliori: Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Claudia Cardinale, “per questo – sorrideva – ho sempre amato il vostro cinema”.

Due matrimoni, due divorzi, quattro figli e un ictus, non s’è negato nulla, nemmeno il Leone d’Oro alla carriera, assegnatogli dalla Mostra di Venezia nel 2016 e ricambiato con professione di fede esistenzialista: “La mia carriera? Il passato? Io non ci penso al passato, io penso al domani. Nella mia vita ho fatto e avuto tutto. Non ho rimpianti”. Allora l’istantanea buona la scattò Sophie Marceau: “Sei diventato un grande attore, e hai sedotto molte donne (tra set e realtà anche Ursula Andress e Laura Antonelli, ndr). Io ricordo quando mi hai preso tra le tue braccia, un genio della seduzione con la tua leggerezza e la tua audacia, la sigaretta e la camicia aperta per far intravedere il fisico da ballerino…”. Ogni volta che rivedremo Il clan dei marsigliesi (1972) o L’uomo di Rio (1964), ritroveremo la spia con licenza di sedurre, il bandito che sapeva ballare, il Belmondo di una volta. E ancora.

 

Colle, lavoro, giustizia, etica: le parole della nostra festa

Per il secondo anno, la festa del Fatto Quotidiano si è tenuta in streaming sul sito ilfattoquotidiano.it, su tvloft.it e sui social. I 16 eventi del programma hanno raggiunto oltre un milione di visualizzazioni, con 150 mila interazioni. Tra gli incontri più seguiti quello sul futuro del centrosinistra con Pier Luigi Bersani, Goffredo Bettini, Stefano Patuanelli ed Elly Schlein, moderato da Andrea Scanzi: 83.237 visualizzazioni e quasi 4,5 mila interazioni. Poi il dibattito sulla giustizia con Piercamillo Davigo, Nicola Gratteri e Roberto Scarpinato, moderato da Valeria Pacelli (63 mila visualizzazioni) e la presentazione del progetto della Fondazione del Fatto Quotidiano (54 mila visualizzazioni). Molto visti anche lo spettacolo di Marco Travaglio,Dal conticidio ai migliori, l’evento con Enrico Mentana e Antonio Padellaro (con Gianni Barbacetto) sullo stato dell’informazione e l’intervista a Giuseppe Conte di Peter Gomez e Antonio Padellaro. Ecco cosa hanno detto alla Festa alcuni dei protagonisti.

Giuseppe Conte: “Vedo un eccesso di enfasi per questo governo da parte di alcuni commentatori, e non so se faccia bene all’esecutivo. Ma Draghi rappresenta bene l’Italia. Se non si fosse fatto un nuovo governo dopo il mio si sarebbe rischiato di aggravare la crisi per la pandemia e di rallentare la ripartenza”.

Goffredo Bettini: “Io sono contrario alla formula secondo cui ‘il governo Draghi è il mio governo’ e secondo cui il suo programma è il nostro programma. Questo è un errore perché nell’esecutivo le forze di maggioranza sono divise su tutto, dall’economia ai vaccini alla politica internazionale”.

Virginia Raggi: “Le alleanze si fanno sui programmi, il Pd voleva privatizzare l’Atac, noi vogliamo rendere gli autobus più accessibili a tutti. Non potevamo allearci con chi la pensa diversamente da noi. Non si possono fare alleanze sulla carta”.

Roberto Gualtieri: “Sono molto fiducioso che arriverò al secondo turno con il candidato del centrodestra e a quel punto chiederò i voti degli elettori del M5S e di Calenda per vincere”.

Maurizio Landini:“Nei prossimi mesi, se su fisco, pensioni e ammortizzatori sociali il governo non ci ascolterà, il sindacato non starà con le mani in mano, metteremo in campo tutto ciò che è necessario per riportare al centro i diritti di chi lavora”.

Luigi Di Maio : ”In questo momento la prima frase su cui si aprono tutti i colloqui internazionali sull’Afghanistan, multilaterali o bilaterali, è ‘dobbiamo imparare la lezione’. Il G20 costituisce un’occasione per il multilateralismo”.

Roberto Scarpinato “Siamo all’assalto finale al sistema. Tutte le riforme di questo periodo sono riforme di palazzo, condizionate dall’esigenza di abbattere il rischio penale per le classi dirigenti. Il punto qualificante della riforma Cartabia è dire che il Parlamento ogni anno stabilisce i criteri di priorità dei processi. Diventa una forma di amnistia strisciante e permanente, a cui si aggiunge il lavacro dell’improcedibilità”.

Piercamillo Davigo: “I quesiti referendari sulla Giustizia appoggiati dalla Lega? A me colpisce che pensino che i cittadini siano dei cretini. La Lega per anni ha fatto una campagna politica su un problema di sicurezza che in Italia non esiste, ha sfinito gli italiani con la legittima difesa. Invece se vincesse il referendum accadrà che se uno viene a casa vostra e vi svaligia casa, dopo aver convalidato l’arresto il giudice dovrà rilasciarlo”.

Nicola Gratteri: “Palamara non votava da solo. Penso si debba agire a monte e modificare il consiglio superiore della magistratura per ridurre lo strapotere del Csm. La madre di tutte le riforme è quella del Csm. Siamo in momento storico in cui l’immagine della magistratura è debole. Non si può fare a meno della giustizia, dobbiamo ritrovare credibilità. Ma soprattutto noi magistrati dobbiamo esporci: c’è una timidezza a parlare, a esporsi, a dire le cose che non vanno”.

Stefano Patuanelli: “L’obbligo vaccinale non deve essere un sì o un no a priori, deve seguire l’evidenza di ciò che accade. Un no vax non si convince per obbligo, e il convincimento è la strada migliore da seguire”.

Gianni Rezza: “Vedremo tra un mese, ma l’obbligo vaccinale dev’essere l’ultima ratio. Prima bisogna provare a convincere le persone, poi ne potremo discutere. Ci sono anche delle questioni tecniche che andrebbero comunque discusse. Come si applica? A chi, in che maniera, quante volte?”

Andrea Crisanti: “Una misura di sanità pubblica deve avere una metrica, altrimenti è un’intuizione. Se però passa il messaggio ‘creiamo ambienti sicuri’ e le persone non prendono nessuna precauzione, è un errore. È vero che c’è meno virus, ma basta una persona con alta carica virale per contagiare molti”.

Enrico Mentana: “In Italia il ruolo dell’informazione come elemento di critica sistematica si è perso, soprattutto quando l’informazione è stata messa online gratis. Il giornalismo ha bisogno di trovare una comunità di lettori disposta a pagare perché si partecipi a una battaglia. Questo è un periodo in cui resterà in campo solo chi ha qualcosa da dire e sa come dirlo”.

Lillo: “Sono diventato un bravo improvvisatore per disperazione, perché mi scordo pezzi interi di spettacolo. Improvviso delle volte facendo cose divertenti che poi rimangono”.

Signorini, tutto per lo share: perfino la sharia (pariolina)

Panchine rosse e porte rosse. Pensavo a questo, all’alternarsi grottesco, sui media, di sagge riflessioni sui rapporti tossici e di generosi premi distribuiti tra chi i rapporti tossici li alimenta, quando ho sentito che al Grande Fratello vip, quest’anno, parteciperà tal Tommaso Eletti.
Che lo so, per molti sarà un perfetto sconosciuto, per i telespettatori più autolesionisti (tra cui me) che guardano Temptation Island è uno dei concorrenti più discussi dall’esordio della trasmissione. Trasmissione, a dire il vero, seguita da gruppi d’ascolto di notai e magistrati, amata da operai e plurilaureati, perché più di ogni altro esperimento sociologico – al netto di qualche scivolata trash e del livello culturale di alcuni concorrenti – mostra senza pietà gli equilibri sentimentali e i rapporti di potere all’interno delle coppie. Tommaso Eletti, ventunenne romano con un look da giovane vecchio (alla “candidato della Lista Calenda”, per capirci), partecipa al programma qualche mese fa, insieme alla fidanzata Valentina Nulli, che di anni ne ha 40. Notare che i due si chiamano sinistramente ELETTI e NULLI, il nulla (lei) e l’eletto (lui). E fin da subito, in effetti, il racconto va in una direzione preoccupante: il ragazzo manifesta una gelosia morbosa, un senso del controllo patologico, un atteggiamento di dominanza e di totale, inquietante insofferenza di fronte a qualsiasi sprazzo non dico di libertà, ma di normalità della fidanzata. Lui, nonostante la giovane età, ha già ideato una sorta di sharia in salsa pariolina, per cui lei “sa quanto sono malato” (autoassolve la sua gelosia come fosse un male incurabile) e dunque deve adottare una serie di comportamenti che non acuiscano la sua malattia. Per intenderci, Valentina a 40 anni non deve indossare bikini, deve mettere costumi interi o copricostume, perché “il suo corpo è sacro”, dice lui. “Se vuoi che divento meno geloso devo vedere che ti comporti bene”, afferma. E nel vedere le immagini di lei vestita o svestita come le pare, senza la sua presenza vigile commenta: “Si vuole mettere i vestiti sexy, vuol dire che vuole essere sexy per questi ragazzi. Si vuole sentire bella senza di me, brava!” o “Le ho preso i costumi interi e si mette il bikini? Stupida!”, “Il bikini è la prima e l’ultima volta che lo mette”. L’epilogo di questo delirio ossessivo è che Tommaso, convinto di non esercitare più alcun controllo sulla fidanzata, finisce tra le braccia di un’altra, con cui manifesta fin da subito l’intenzione di ripetere quello schema collaudato. “Se ti rifai il seno non ti faccio uscire, devi stare con me”, annuncia alla nuova vittima. Quando la sua ex Valentina assiste alle immagini del tradimento, reagisce con distacco e lui successivamente se ne lamenterà: “Dopo quello che ha visto, Valentina doveva piangere, ma manco una lacrima le è caduta!”. L’incubo di ogni manipolatore: l’atteggiamento punitivo che non sortisce alcun effetto. Inutile dire che questa vicenda ha provocato una sorta di sollevazione popolare tra gli spettatori del programma (milioni) indignati di fronte allo spettacolo di un ragazzo preda di ossessioni e con una mentalità da Medioevo. Per spiegare quanto fosse tossico e pericoloso quello schema relazionale si sono scomodati anche psicologi e studiosi del comportamento. Bene. Tre mesi dopo, Tommaso Eletti viene scelto come concorrente del Grande Fratello vip. L’unico, ovviamente, tra i concorrenti di Tempation Island a venire premiato con una nuova partecipazione tv, un cachet, l’appellativo (generoso) di “vip”. Posa, oggi, assieme a Katia Ricciarelli, Aldo Montano e al conduttore Alfonso Signorini sulla copertina di un noto settimanale. E quindi torniamo all’incipit: panchine rosse, porte rosse. Da una parte i temi del sessismo, delle relazioni tossiche, della violenza sulle donne trattati con una nuova consapevolezza dai media. Dall’altra, gli stessi media che mandano messaggi ambigui. Che spacciano per “trash” quello che è più semplicemente sbagliato. Tommaso Eletti ha avuto visibilità in un programma perché fa e dice cose profondamente sbagliate e pericolose in una relazione e nel suo rapporto con una donna, cose che sono spesso il germe di sofferenze e perfino di drammi. E in virtù di questo, Tommaso Eletti anziché diventare un monito, diventa una star. Gli viene data una seconda occasione di visibilità, un nuovo megafono da cui magari urlare slogan sessisti e diseducativi. Con un copione già scritto: alla prima frase maschilista, assisteremo agli occhioni sgranati del conduttore, al suo stupore pregno di riprovazione, alla lezioncina pubblica densa di biasimo perché “Tommaso, non si fa!”. E non importa che Tommaso l’abbiano chiamato proprio per quello. Perché l’ha già fatto e se il Grande fratello vip è fortunato, lo rifarà. L’importante è che lo share non venga maltrattato, mica le donne.

Saadi, l’ex calciatore cambia squadra: gioca per Erdogan

È escluso che Erdogan lo abbia voluto per rafforzare la Nazionale della Turchia, che non è al top in questo momento. Saadi, del resto, è sempre stato un brocco: non fosse stato per papà Gheddafi, Perugia, Udinese, Sampdoria non lo avrebbero mai tesserato. È invece probabile che a Erdogan Saadi serva per mantenere, se non aumentare, il suo peso nella crisi libica. Saadi Gheddafi, 48 anni, terzo figlio di Muammar, colonnello dittatore deposto e ucciso nel 2011, è stato scarcerato e avrebbe subito lasciato la Libia per la Turchia: detenuto dal 2014 in una prigione di Tripoli, è stato liberato in esecuzione di un ordine del tribunale emesso tempo fa, secondo fonti del ministero della Giustizia citate dalla Afp. Se confermata, l’ospitalità concessa dalla Turchia potrebbe avere qualcosa a che vedere col peso che i Gheddafi continuano ad avere in Libia, a livello tribale ed economico. Nelle trattative in atto fra le fazioni coinvolte, il loro ruolo può rivelarsi essenziale. Estradato dal Niger nel 2014, Saadi Gheddafi era stato processato dalla Corte d’Appello di Tripoli e assolto nell’aprile 2018 per l’omicidio – avvenuto nel 2005 – di un ex giocatore e allenatore della squadra di calcio Al-Ittihad di Tripoli, Bachir Rayani. Saadi però rimase in carcere perché doveva ancora essere processato per il suo coinvolgimento nella repressione della rivolta che pose fine al regime del padre. Nell’agosto del 2015 venne pubblicato un video in cui Saadi subiva torture dalle milizie islamiche. In Italia, Saadi è noto per tre stagioni da professionista, 13’ minuti in tutto giocati in un Perugia-Juventus. Fu anche azionista di Juventus, Roma e Triestina, tramite il Libyan Arab Foreign Investment Company e la Tamoil, presidente della federazione libica e capitano della nazionale libica. Nel suo curriculum, investimenti sballati, lusso e droga: fu squalificato per doping eccessi e truffe, scappò dalla Riviera lasciando debiti per 360mila euro e una Cadillac. Durante l’insurrezione libica, sfuggì alla cattura del Consiglio nazionale libico e si rifugiò in Niger, che lo accolse ma lo mise agli arresti domiciliari e poi lo estradò nel 2014.

Il Panshir è senza alleati, i Talib hanno più appeal

Sembra ormai stabilizzata la situazione nella valle del Panshir, 80 chilometri a nord di Kabul, dove è arroccato il Fronte di Resistenza Nazionale contro i talebani, guidato dal giovane Ahmad Massoud, figlio del “Leone” Ahmad Shah, ucciso da un attacco kamikaze di al Qaeda alla vigilia dell’11 settembre. Anche se la formazione del governo dell’Emirato Islamico talebano ancora non sembra questione di ore, il tassello mancante del Panshir – che finora aveva frenato la proclamazione dell’esecutivo – pare di fatto andato a posto, consegnando ufficialmente tutto il paese nelle mani dei mullah.

“Con questa vittoria, il nostro Paese è completamente fuori dal pantano della guerra”, ha detto il portavoce capo Zabihullah Mujahid. Lo ha confermato anche la tv qatarina al Jazeera, che non brilla per equidistanza in questo contesto, ma anche altri media internazionali. Ma secondo Massoud, che da un luogo sconosciuto ha lanciato nuovamente, via radio, una chiamata alle armi, c’è ancora una possibilità. Di certo non di vincere, ma di trovare uno spazio (più probabilmente uno strapuntino) nel governo dei nemici, grazie all’intermediazione delle grandi potenze che vogliono un Afghanistan il più possibile inclusivo. La dimostrazione plastica della fine del “sogno” è stata la morte di Faheen Dashty, il portavoce della resistenza, braccio destro e amico intimo del defunto padre, giornalista e uomo di grande cultura, avvenuta sabato notte in uno scontro a fuoco tra gli aspri versanti del Panshir. Non è bastato infatti ai combattenti del Panshir essere presenti in “posizioni strategiche” e potersi avvalere, sempre che non sia già nel confinante Tagikistan, delle strategie e tattiche di Amrullah Saleh, l’ex vicepresidente che si era unito alla resistenza dopo la caduta di Kabul. “La rivolta nazionale” evocata dal giovane guerrigliero “figlio di papà” educato nei migliori college d’Inghilterra non ci sarà e non ci sarebbe potuta essere perché oggi, paradossalmente, tutte le grandi potenze mondiali e regionali si sono allineate come pianeti nel tentativo di incardinare i nuovi talebani a capo di questo fondamentale stato cuscinetto noto per essere “il cimitero degli imperi”.

Senza i soldi, le armi e la guida dell’intelligence americana, Massoud non aveva alcuna possibilità di vittoria, semmai ha davvero creduto di poterla ottenere. Al contrario di ciò che avvenne nel 2001, questa volta gli americani non hanno appoggiato e finanziato la resistenza del Nord perché hanno deciso (come si evince da quel poco che è emerso sugli accordi di Doha tra Usa e Talebani ) che solo i mullah sunniti possono ripulire l’Afghanistan dai terroristi di al Qaeda, loro ex alleati e dalla costola locale dello Stato Islamico. Agli Stati Uniti interessa infatti unicamente che i due gruppi terroristici, peraltro rivali, presenti nel paese vengano schiacciati o, almeno, messi in sonno. Un compito che possono svolgere solo i talebani. In questo frangente storico però anche la Cina e Russia vogliono, per ragioni diverse, la stessa cosa. A Mosca sta a cuore mantenere solida la propria influenza sulle ex repubbliche sovietiche che confinano con l’Afghanistan ed evitare che le tante cellule dell’Isis-K in Tagikisthan si sveglino, mentre alla Cina preme far passare la via della Seta ed estrarre quanto più Litio dall’enorme giacimento afghano. Anche per Pechino, eventuali attacchi terroristici di al Qaeda o dell’Isis-K rappresenterebbero un grave problema allo scopo di realizzare i propri progetti ventennali. Solo i talebani possono garantire “questa pace senza pace”.

Bolsonaro, il golpe è l’ultima carta

Brasile, ritorno al 1964 o al 6 gennaio 2021, Capitol Hill. Nel primo caso si parla del golpe come quello perpetrato dai militari brasiliani contro il governo di João Goulart; nel secondo si rivedono migliaia di persone assaltare il Congresso americano il giorno dell’insediamento del presidente Joe Biden. Quei drammi potrebbero tornare oggi. Così allertano in una lettera più di un centinaio di figure pubbliche internazionali tra cui Noam Chomsky, Jeremy Corbyn, l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, l’ex premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero e l’ex presidente del Paraguay, Fernando Lugo. Stando all’iniziativa, promossa dall’Internazionale progressista, “Jair Bolsonaro ha intensificato negli ultimi giorni gli attacchi contro le istituzioni democratiche del Paese” e la chiamata ai festeggiamenti del giorno dell’Indipendenza di oggi nasconderebbero in realtà “una marcia nazionale contro la Corte suprema e il Congresso”. “Siamo profondamente preoccupati per la minaccia imminente e vigileremo per difendere il Paese prima e dopo il 7 settembre”, concludono i firmatari dell’appello.

A sostenere i timori di un colpo di Stato c’è la notizia che alcuni gruppi reazionari convocati per quella che il presidente definisce la giornata “della libertà” e “dei valori conservatori” abbiano invocato “un intervento militare” che chiuda il Parlamento e la Corte Suprema e mantenga Bolsonaro al potere senza elezioni. La convocazione della manifestazione è stata rigettata dal Congresso e dal Supremo stesso e condannata da organizzazioni sindacali, imprese e finanche dai partiti della destra moderata che negli ultimi giorni hanno pubblicato manifesti in difesa della democrazia e contro qualunque tipo di “avventura autoritaria”. Bolsonaro, la cui popolarità – secondo le intenzioni di voto dei brasiliani in vista delle Presidenziali del 2022 – avrebbe avuto un crollo di popolarità arrivando al 24%, contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva che toccherebbe il 40%, ha ribadito che partecipa alle manifestazioni di oggi “al fianco del popolo” e che “darà un ultimatum a quelle persone che non rispettano la Costituzione”. Secondo il presidente, “il popolo” in strada esige “da tutti coloro lo sfidano che si pieghino alla Costituzione, difendano la libertà e capiscano che si stanno sbagliando, ma che fanno ancor in tempo a redimersi”. E se non bastasse – ha assicurato il capitano – “come militare” giuro “di dare la vita per la Patria e la libertà” e che, insieme “al popolo” riuscirò a “sbaragliare coloro che vogliono portare il Brasile sulla strada de Venezuela”. “È solo un bluff che Bolsonaro tenga al popolo”, spiega alla Bbc Christian Lynch, dottore in Scienze politiche, professore allo Iesp (Istituto di studi sociali e politici) dell’Uerj, storico ed editore della rivista Insight Inteligência, per il quale il presidente, facendo salire la tensione starebbe solo minacciando per “ottenere invece una sorta di immunità, amnistia o garanzie per sé e per i suoi figli – dal momento che sono tutti indagati in diverse inchieste”. Motivo per cui, secondo Lynch il capo di Stato “userà i radicali per contrattare la sua immunità e guadagnare tempo”. Il rischio però, “è che questa tensione sfugga al suo controllo, come è successo il 6 gennaio negli Usa”. Oggi alle massicce proteste che secondo i simpatizzanti del presidente portano a San Paolo due milioni di persone, le autorità impiegano misure di sicurezza straordinarie così come a Brasilia, dove anche quest’anno per il Covid non si svolge la tradizionale parata militare del 7 settembre. Dall’altro lato, vengono monitorate anche le proteste contro il governo indette dalle opposizioni, per il rischio che possano degenerare in atti di vandalismo, con la presenza di black bloc, o in tafferugli con i dimostranti delle fazioni rivali. Resta poi l’incognita della partecipazione agli eventi di numerosi agenti della polizia militare, nonostante le azioni disciplinari intraprese dal governatore di San Paolo, Joao Doria, che il mese scorso ha fatto licenziare un ufficiale colpevole di aver incentivato la partecipazione dei colleghi alle manifestazioni pro-Bolsonaro.

Intanto ieri il presidente ha mostrato i muscoli a Brasilia, salendo a bordo della Rolls Royce del 1952 regalata al governo nel secolo scorso dalla regina Elisabetta d’Inghilterra, un’auto in genere utilizzata solo nella cerimonia di insediamento dei presidenti della Repubblica. Da lì Bolsonaro ha invitato i sostenitori a partecipare alle manifestazioni di oggi.

Per non far mancare l’evocazione alle similitudini con gli Usa, suo figlio Eduardo ha partecipato nel weekend con Donald Trump Jr. a Brasilia alla Conservative political action conference (Cpac), vertice politico del movimento conservatore americano. Bolsonaro jr. ha suggerito l’uso di telecamere nascoste per monitorare i giornalisti. “Le guerre non si combattono più con truppe, carri armati o mitragliatrici, ma con telecamere, microfoni e pseudoscienza”, ha chiosato il deputato prima che Trump Jr. avvisasse come la Cina sta “facendo di tutto per avere un governo socialista” in Brasile.