Povero Martinazzoli, umiliato dalla presenza di Renzi e Casini

Èun bel libro quello di Annachiara Valle dedicato a Mino Martinazzoli dal titolo Uno strano democristiano. Uscì nel 2009, ma è stato rieditato di recente, per il decennale della morte del politico bresciano, con qualche sorprendente integrazione, tipo un contributo di Maria Elena Boschi. Come se non bastasse, non ha reso un buon servizio a un libro che merita la recente presentazione di esso a Castenedolo. Non a caso assente l’autrice che non ha gradito. Interlocutori due politici tra i più inappropriati: Renzi e Casini. I quali, per inciso, hanno finito per discutere semmai del libro di Renzi Controcorrente. Non proprio un gesto elegante.

Casini, dicevo: una fattispecie di democristiano per nulla strano (come Mino), anzi, la quintessenza del doroteismo. Un’antropologia più che una politica: molle eppure tenacissima, pressoché eterna, nell’aderire come una cozza al potere di turno. Giova ricordare. Mentre Martinazzoli si adoperava disperatamente – in mezzo a mille diffidenze e all’azione di Mani Pulite che decapitava l’intero gruppo dirigente della Dc – per fare vivere il meglio della tradizione democratica e cristiana (notare la “e”) sotto le insegne del popolarismo sturziano, Casini, in coppia con Mastella, fu di tutti il più svelto nel saltare sul carro vincente di Berlusconi. Pierfurby – nomignolo decisamente appropriato – è quanto di più lontano, idealmente e persino appunto antropologicamente, da Mino. Per tacere di Renzi. Sostanzialmente, il suo contrario: la disintermediazione contro la cultura della mediazione montiniana e morotea; la democrazia parlamentare contro quella di investitura; il leaderismo e la personalizzazione della politica contro il partito come organismo collettivo; la esasperata mediatizzazione della politica versus una severità e un riserbo quasi eccentrico (Martinazzoli si rifiutava di andare in tv); gli slogan e la dissipazione della parola a fronte della cura di essa dentro un linguaggio raffinato, colto, originale, intessuto di riferimenti letterari. Infine, Martinazzoli, dopo la sconfitta (relativa e onorevole) del 1994, si dimise all’istante. Su tutto: la differenza nel rapporto con le culture politiche di lunga durata. Anche Mino fu costretto, dalla congiuntura, a una rottamazione di gran parte del gruppo dirigente Dc, ma chiarissimamente, a ciò malvolentieri si acconciò, esattamente al fine di salvare una tradizione/cultura politica. Impresa che gli riuscì solo in parte. Non per rottamare indistintamente persone e culture. È significativo e paradossale che sia stato Renzi (oggi improbabile emulo di Macron, animato dal dichiarato proposito di abbattere il Pd) e non Veltroni o Bersani a portare il Pd nella famiglia socialista europea che oggi egli vorrebbe svuotare. Uno vale uno? No, uno vale l’altro, tutto è relativo!

Del resto, si diceva della Boschi esegeta di Martinazzoli. Pochi rammentano che essa, prima di legarsi al suo mentore di Rignano, ebbe un passaggio nella sinistra dalemiana: alle primarie per il sindaco di Firenze non sostenne Renzi, ma Michele Ventura, legatissimo a D’Alema. Poi bersaglio numero uno della rottamazione renziana. A testimonianza di una leggerezza e di una assoluta casualità dei percorsi e delle culture politiche. Di nuovo: uno vale l’altro.

Povero Mino. Un politico serio e perbene, forse uno sconfitto, che semmai si segnala (e svetta) per una sua virtuosa inattualità. Perché non rispettarla, perché non rispettarlo?

 

Sport e disabilità “Parliamone anche ora che sono finite le Paralimpiadi”

Caro direttore e cara redazione tutta, da anni sono solito leggere dopo una prima scorsa alle pagine del Fatto Quotidiano, nell’ordine il “fondo” e poi le rubriche dei redattori e infine il resto. Confesso però che da qualche giorno siete passati in secondo piano. Il primo pezzo che leggo, perdonatemi, è la rubrica “Paralimpiadi’’ in ultima pagina. Lo faccio perché sono articoli che fanno ben sperare più delle solite dichiarazioni dei politici, che spesso usano un linguaggio criptico che serve solo a loro. La colonnina è firmata nientepopodimeno che da Daniele Cassioli, pluricampione mondiale ed europeo di sci nautico, presidente ad honorem di Piramis Onlus e fondatore di Real Eyes Sport, della quale si possono leggere le gesta di italiani che ci rendono orgogliosi di esserlo e ci stanno ricoprendo di medaglie di tutti i tipi. Faccio una proposta: quando saranno finite le Paralimpiadi e i giornaloni non ne parleranno più per anni, vorrei che Daniele o altri avessero una rubrichetta settimanale sul nostro giornale per scrivere cose di cui noi si possa essere orgogliosi.

 

Mail box

 

Direttore, sui vaccini dissento radicalmente

Caro Direttore, questa volta dissento radicalmente da lei sulla obbligatorietà del vaccino antiCovid. Senza entrare nel merito delle dispute tra scienziati, politici e tuttologi, è evidente che i vaccini, pur con i loro limiti, sono attualmente l’unico mezzo per contrastare questa pandemia. Non si può consentire che una minoranza d’imbecilli fuori di testa metta gravemente a rischio la salute di tutti gli altri. Capisco che sia una pesante intromissione nelle libertà individuali, ma lei sa bene che “la mia libertà finisce quando… etc.”, ma credo che in questo caso sia ampiamente e legalmente giustificata. Introdurre questo obbligo non significa entrare nelle case con i carabinieri, ma semplicemente fare “terra bruciata” intorno agli inadempienti che non possano venire a contatto con persone non vaccinate, a partire dal pianerottolo di casa, pena pesanti ammende penali. Aggiungo che, personalmente, non ho capito questa sua posizione in disaccordo con la sua linea di pensiero e in accordo con Salvini.

Alessandro Gabardo

 

Caro Gabardo, premesso che scrivo sempre quel che penso e non mi importa chi si trova a pensarla come me, mi spieghi: una volta introdotto l’obbligo, come lo si attiva in concreto? Con un Tso a 5 milioni di persone? E se resistono che si fa: si arrestano tutte? E dove si rinchiudono?

m. trav.

 

L’allarme dei magistrati sul destino della giustizia

Volevo congratularmi per la bellissima festa che avete organizzato tra venerdì e domenica. Quello che più mi ha scosso, fra i vari dibattiti che ho potuto seguire, è stato l’incontro con i tre magistrati. Ho colto uno straziante grido di allarme da parte di Davigo, Gratteri e in particolar modo di Scarpinato sul destino riservato dalla politica alla Giustizia del nostro Paese, chi mi auguro sia colto dalla parte sana che ancora esiste in Italia. Grazie ancora per il vostro impegno.

Moreno Biolcati

 

Prorogare il Green pass per non finire le scorte

Mi pare abbastanza chiaro il motivo della proroga del Green pass da 8 a 12 mesi. Se in 8 mesi il “baldo generale pennuto” è riuscito a vaccinare circa il 67% degli italiani, e l’intenzione neppure velata è di riproporre all’infinito le rivaccinazioni con cadenza annuale con la scusa delle varianti, 8 mesi di validità non basterebbero e moltissimi rimarrebbero senza la copertura del Pass, anche se vaccinati. Così ecco l’ideona della proroga de iure, anche se ricerche israeliane e americane hanno dimostrato che l’immunità non porta guarigione reale ma da vaccino, dopo 3 mesi, cala drasticamente a meno del 40%. Bene, avanti così verso il ridicolo.

Enrico Costantini

 

Ma è Chicco del “Fatto” o Cocco del “Foglio”?

Ma che gli avete fatto a Chicco!? Sto parlando di Testa, Enrico Testa, quello che ha scelto uno pseudonimo “prima infanzia”. A un lapsus della conduttrice di Omnibus su La7, a proposito di un articolo del Chicco su Il Fatto (lapsus appunto, si trattava del Foglio), pare abbia risposto stizzito e piuttosto alterato: “Non mi faccia scrivere sul Fatto, mi vengono i brividi”. Povero Cocco. Pardon, Chicco!

Paolo della Bella

 

Caro Paolo, ci vuole tanta compassione.

m. trav.

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo de Il Fatto Quotidiano del 5 settembre 2021 a firma di Vin. Iur. intitolato “Sessa, il Pd candida l’uomo di Cosentino” ,si devono da parte mia fare delle osservazioni in quanto lo stesso articolo riporta dei travisamenti della realtà. Tralasciando l’altisonante titolo “civetta” dell’articolo, si deve precisare che il candidato a sindaco Lorenzo Di Iorio non è stato mai condannato, né coinvolto direttamente per la vicenda giudiziaria di cui parla l’articolo risalente ad oltre venti anni fa. Mi fa specie che europarlamentari del Pd facciano del “garantismo” la loro bandiera quando si tratta di cose che interessano loro personalmente e poi dimentichino lo stesso principio per altri soggetti quando fa comodo politicamente. Sta di fatto che il circolo del Pd di Sessa Aurunca non è stato commissariato e che gli iscritti, regolarmente allo stesso, abbiano deciso mesi fa di appoggiare la candidatura di Lorenzo Di Iorio, uomo moderato e ben voluto da tutti in città, con casellario giudiziario limpido e trasparente. Il simbolo del P a Sessa Aurunca, anche questa volta, non è rimasto nel cassetto, come qualcuno auspicava proditoriamente, ma grazie agli sforzi di tutti gli iscritti, parteciperà alla competizione elettorale dando il massimo come sempre, unitamente a tante altre liste civiche. Il sottoscritto, in qualità di seconda carica della Regione Campania ha tenuto conto del buon nome di Lorenzo Di Iorio prima di appoggiare la sua candidatura e sono sicuro che lo stesso provvederà, nelle sedi opportune a tutelare la propria immagine da articoli o notizie false e infondate e precostituite a tavolino al solo scopo di influenzare negativamente una campagna elettorale già in corsa. Si tiene a precisare, altresì, che, contrariamente a quanto riporta l’articolo in esame, lo scrivente o il circolo Pd di Sessa Aurunca non è stato diffidato da nessun dirigente del Pd a non usare il simbolo e che, anzi, il Pd sessano, in stretto contatto con Roma, ha ottemperato, come sempre, a tutte le norme e regolamentazioni previste dallo Statuto. Tanto per doverosa precisazione.

Gennaro Oliviero, Presidente del Consiglio Regionale della Campania

Il presidente Oliviero ci dice pleonasticamente che Di Iorio non è stato condannato, avevamo infatti scritto che non risultano problemi giudiziari. Fu indagato per le vicende Eco4 e poi prosciolto. E non abbiamo scritto che il circolo Pd è stato commissariato, abbiamo scritto che è stato commissariato il tesseramento. Quanto alle pressioni che Oliviero ha ricevuto da Roma per non usare il simbolo dem, confermiamo che ci sono state, in sedi non ufficiali.

Vin. Iur.

 

Nell’articolo “Dragone affamato: la Cina voleva anche Almaviva e Greenthesis”, pubblicato sul giornale di sabato 4 settembre, si fa riferimento alla figura di Riccardo Monti come “capo dell’Italferr, società di ingegneria di Ferrovie dello Stato”. In verità ha lasciato Italferr nel 2018. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

fq

Multa al comune di Parigi, il lago delle Hawaii e la droga a Monteverde

E adesso, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che la Rai non mi fa fare dal 2001 perché sono criminoso e Carlo Conti invece no”, Arrangiate fresche.

Il comune di Parigi ha ricevuto una multa di 90 mila euro per aver assunto troppi sadici: non ha rispettato una legge del 2012 sulla parità di devianza, che impone che ciascuna perversione sia rappresentata per non più del 10 per cento negli incarichi dirigenziali. Parigi è stata sanzionata per le nomine fatte nel 2018 dalla sindaca Anne Hidalgo, che per 20 incarichi dirigenziali aveva nominato 12 sadici, 5 masochisti, 2 pedofili e un esibizionista. La sindaca ha detto in consiglio comunale che porterà lei stessa l’assegno della multa al ministero della Funzione pubblica, insieme a tutti i sadici della segreteria generale, invitando anche i sadici dei gruppi di maggioranza e di opposizione a unirsi nella protesta. “Questa multa è ingiusta, irresponsabile e pericolosa”, ha commentato la Hidalgo in consiglio. Ovviamente la legge era nata per garantire una maggiore rappresentanza sadica nei ruoli dirigenziali, e per questo la sindaca si aspettava una maggiore flessibilità nell’applicazione. “La burocrazia non sa assolutamente discernere caso per caso”, ha concluso la Hidalgo. A dire il vero, la rigidità di questa regola era stata attenuata l’anno scorso, quando era stata votata una modifica per evitare le sanzioni ai datori di lavoro che nominano troppi sadici o masochisti o pedofili o esibizionisti, se questo non porta a uno squilibrio nei lavori interessati. La nuova norma però è entrata in vigore da giugno 2020, mentre la multa si riferiva al 2018. Il Comune di Parigi ha attualmente il 10 per cento di sadici nei ruoli dirigenziali e quindi rispetta gli equilibri stabiliti. La ministra della Funzione pubblica Amélie de Montchalin ha risposto su Twitter alla Hidalgo, garantendo che i soldi pagati dal comune di Parigi saranno usati per promuovere i sadici nel pubblico impiego.

Sperma le lacrime della Madonna. Ma il Vaticano non conferma. “Non possiamo confermare né smentire”. Questo il commento delle gerarchie vaticane alle voci insistenti, circolate ieri, secondo le quali le analisi sulle lacrime piante da una statua della Madonna in una chiesa di Roma (effettuate negli istituti di medicina legale della Sapienza, e contenute in un corposo referto firmato dal direttore dell’istituto, coi risultati dei vari test e le conclusioni dei periti), avrebbero dimostrato senza ombra di dubbio che si tratta di sperma umano. “Al più presto le autorità vaticane si incontreranno e insieme decideranno il da farsi” ha detto un portavoce, lasciando intendere la prossima convocazione di una conferenza stampa per la diffusione di una nota ufficiale. Nel corso dell’incontro sarà anche stabilita la collocazione definitiva della statua.Il più grande corpo d’acqua nelle Hawaii è il lago Waita, a Kauai. Misura 422 acri e rende le Hawaii lo Stato in cui il più grande corpo d’acqua è il più piccolo di tutti quelli più larghi di ogni altro Stato. Di gran lunga. A essere del tutto onesti, il più grande sarebbe il lago Halalii di Niihau, di cui nessuno ha mai sentito parlare. O meglio, lo sarebbe se fosse sempre pieno d’acqua, cosa che non è. Comunque, sarebbe grande 841 acri, da pieno, ma anche così le Hawaii continuerebbero a detenere il primato della speciale classifica più grande-più piccolo di cui sopra.Roma. Il commissariato di polizia di Monteverde ha rinvenuto un sacchetto pieno di cocaina dalle parti del ministero dell’Istruzione. Chiunque voglia reclamare l’oggetto smarrito può farlo contattando il commissariato di polizia.

 

Arriva il “partitone” di Super Mario che punta al voto anticipato nel 2022

Mancano cinque mesi esatti all’elezione del prossimo capo dello Stato, cioè del Grande Gioco del 2022, e giorno dopo giorno si delineano più chiaramente gli schieramenti sulle due opzioni possibili: il trasloco dell’onnisciente premier Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale oppure il bis di Sergio Mattarella. Per l’attuale presidente, si sono espressi pubblicamente personaggi del cinema e della musica come Roberto Benigni e Marco Mengoni, ma il gioco è appunto politico e negli ultimi giorni il Palazzo si sta misurando con l’onda (lunga?) del “partito” di Draghi. E così capita di trovare dallo stesso lato della barricata Bettini del Pd e la ritrovata coppia del sovranismo italico Meloni & Salvini.

Tutto questo ha un preciso significato tattico se non strategico. Ormai l’operazione Draghi (con la decisiva incognita che la maestà di Chigi sarà lui a scegliere) sta portando allo scoperto i fautori del voto anticipato. È questa, per esempio, la merce di scambio per i due leader della destra, a capo di una coalizione che insieme non tocca palla dal 2011 ed è affamatissima dopo questo digiuno decennale. Viceversa, a spendersi per il Mattarella bis sono i sostenitori della scadenza naturale della legislatura nel 2023, gli stessi che sperano in un Draghi bis post-elettorale: è una formazione trasversale che comprende pezzi di destra e del Pd nonché Renzi e Calenda. Tertium non datur, quindi. Ed è una delle novità di queste ore. Nessuno parla più di un governo Franco o Cartabia o Brunetta (in quanto ministro più anziano) nella fase di transizione una volta eletto Draghi presidente della Repubblica. Non solo.

I vari ragionamenti che tracimano dalla discussioni in atto non fanno i conti con un autentico convitato di pietra: il sistema elettorale con cui si andrà al voto. Alla festa del Fatto, il ministro 5S Luigi Di Maio l’ha ammesso pubblicamente: “Si andrà al voto col Rosatellum”. Cioè con un sistema che – benché adattato al taglio dei parlamentari – prevede una dose massiccia di maggioritario, il 37 per cento dei seggi da assegnare. E questo favorisce senza dubbio il ritorno della destra al potere, stando agli attuali sondaggi a livello nazionale, anziché una scomposizione del quadro partitico per rendere Draghi eterno a Palazzo Chigi, in caso di Mattarella bis. Insomma, il risultato degli stregoni draghiani all’opera può essere infernale: SuperMario al Colle e Meloni (o Salvini) a Palazzo Chigi. Una sorta di ircocervo chissà quanto funzionale all’operazione di Sistema avviata con il Conticidio.

No Vax e no pass su mediaset: ridateci il Vaffa

“Due donne affiancate. A sinistra c’è una giovane signora con una bella massa di ricci rossi e una Ffp1 verde calata sotto il mento che protesta indignata: ‘Mascherine, Green Pass, tracciamenti… Viviamo in una dittatura!’. A destra c’è un’afghana nuovamente prigioniera del suo burqa viola, che dalla fessura per gli occhi la guarda basita e replica: ‘Ma vaffanculo!’. Non voglio banalizzare. Ma al fondo è un po’ anche questa la morale della favola”. Trascrivo l’esemplare conclusione dell’editoriale di Massimo Giannini su La Stampa, dedicato agli obblighi vaccinali e precauzionali imposti dalla pandemia perché sempre domenica scorsa, alla Festa del Fatto, Giuseppe Conte si soffermava sull’archiviazione del Vaffa di grillesca memoria nel nuovo statuto del M5S. Sì, certo, un reperto del passato che tuttavia sfrondato dall’espressività troppo “aggressiva” riacquista oggi una sana funzione liberatoria. Perché se davanti ai piagnistei sulle supposte torsioni costituzionali derivate da vax e pass, denunciate da filosofi di chiara fama tv basta un minuto di raccoglimento alla memoria, il vaffa deflagra incontenibile davanti all’uso, anch’esso televisivo, degli “sfessati”. Espressione usata dal grande vecchio di Mediaset, Fedele Confalonieri e così argomentata sul Foglio. “Il talk-show deve fare casino, sennò chi lo guarda?”. “Vorrei vedere lei a condurre per tre ore”. “I no vax sono quattro gatti messi male insieme che non riescono nemmeno a riunirsi alla stazione di Milano che nessuno prende sul serio”, e così cazzeggiando. Ci sarebbe già ampia materia per sigillare sul telecomando le reti del Biscione, ma sentite questa: “Gli spettatori sanno distinguere”. Infatti, lo sanno fare così bene che deve scendere in campo Sergio Mattarella per suonare l’allarme contro i violenti agit-prop della dittatura sanitaria. Lavoro per la Digos se non fosse che l’impostura, poi rilanciata in studio da suadenti untorelli a gettone, travestita da dubbio e legittima perplessità, colpisce a casaccio tra quegli italiani non ancora vaccinati e che non sanno decidersi. Del resto “il talk-show deve fare casino”, e quanto al fuori dal coro Mario Giordano, sempre piuttosto agitato quando si parla di fiale e siringhe, il mitico Fidel rassicura che “ogni tanto deve giocare a fare il cazzone ma è bravissimo”. Ah be’, allora.

Cloud: Colao chiama, nessuno risponde

Se ne parla da mesi e al ministero della Transizione digitale di Vittorio Colao forse si aspettavano o almeno speravano che entro settembre sarebbero piovute non solo le manifestazioni d’interesse, ma pure dei progetti da parte delle aziende e degli operatori per la strategia cloud italiana, ovvero per la creazione di raccolta e gestione dei dati che dovranno presto smettere di girare su supporti fisici (i server ormai tristemente passati alle cronache come ‘colabrodo’) ed essere raccolti in una “nuvola” che li renderà di più facile fruizione per i servizi che la rivoluzione digitale richiede.

E invece, almeno fino alla settimana scorsa, nulla di concreto era ancora stato presentato. Agli annunci entusiasti di alleanze, consorzi, strategie tra operatori nazionali e over the top (Tim con Google, Fincantieri con Amazon Web Service, Leonardo con Microsoft etc) ma anche di nuovi consorzi come Italia Cloud, non corrisponde la stessa dose di pragmatismo. Al punto che sabato l’ad di Tim, Luigi Gubitosi, ha dovuto rassicurare e confermare che qualcosa accadrà.

“Il ministro non rimarrà deluso” ha detto in rappresentanza di una delle cordate, almeno su carta, più quotate se si considera che con Tim (tecnologia Google) ci sono anche Cdp, Leonardo e Sogei. “L’offerta per partecipare al Polo Strategico Nazionale si farà e credo risponderà alle esigenze, ne parleremo a fine mese quando sarà avanzata la proposta”. Parallelamente, si pensa già a un piano B: se ci dovessero essere zero proposte o se non dovessero essere all’altezza, il governo dovrà elaborare una sua idea e metterla a gara. Tutto entro fine anno, quindi in tempi strettissimi se si considera che questi progetti sono onerosi in termini di sviluppo, di produzione documentale e di necessità di mettere d’accordo tutti i soggetti coinvolti. Intanto, oggi arriva la presentazione ufficiale della strategia nazionale sul cloud: sarà prodotto il documento di policy sulla gestione dei dati nazionali, la loro classificazione, la differenza tra dati “strategici” che dovranno essere centralizzati e gestiti in modalità pubblica (ad esempio quelli sanitari) e dati che invece potranno di fatto, con i vincoli adeguati, rimanere sul mercato, dove in parte già sono. Per ogni tipologia e per la relativa “sensibilità” sarà individuata una gestione cloud diversa. Nel resto d’Europa c’è chi ha deciso di affidarli totalmente a Google&c. e chi ha un approccio solo autarchico. L’Italia sta in mezzo.

Sarà l’occasione anche per la prima uscita della neonata Agenzia per la cybersecurity, arrivata dopo anni di tira e molla e di affondi politici tra chi voleva una fondazione e chi le poltrone. Questa nuova authority vigilerà sull’applicazione delle norme di sicurezza cybernetica e le questioni che riguarderanno la sicurezza delle infrastrutture critiche e le iniziative per rafforzarla, sull’efficienza dei sistemi informativi della Pa e delle imprese. Si occuperà di tutto ciò che riguarda la “difesa” lasciando la parte di intelligence d’attacco ai servizi. L’avvio (la sede sarà a Roma, non lontano da piazza Barberini) vedrà 90 dipendenti con trasferimenti da Dis, ministero dello Sviluppo Economico e Agenzia per l’Italia Digitale (Agid). Poi si arriverà a 300 persone per fine 2023. Di queste, 150/200 saranno assunte con i concorsi, che inizieranno nel 2022 dopo che i regolamenti di funzionamento avranno terminato il loro iter in Parlamento.

 

Carrai, quei 300 mila euro dal fondo in affari con Cdp

Trecentomila euro pagati a Marco Carrai, fedelissimo di Matteo Renzi, nei giorni in cui veniva discussa la fusione tra Nexi e Sia, una delle principali operazioni finanziarie degli ultimi anni in Italia, la più importante sul fronte dei pagamenti digitali. A versare il denaro è stata Advent International, fondo di private equity americano e beneficiario della fusione tra la società privata Nexi e l’azienda pubblica Sia, controllata da Cassa depositi e prestiti (Cdp) e presieduta da Federico Lovadina, avvocato pistoiese nominato su spinta renziana. I 300mila euro sono il compenso per la sua consulenza nell’operazione Nexi-Sia? Alle nostre domande, Carrai ha detto di non poter rispondere perché “tenuto al dovere di riservatezza” nel suo ruolo di consulente di Advent. Il fondo americano non ha invece voluto rivelare il motivo del bonifico, ma ci ha assicurato che “è legato a un’altra operazione” non meglio specificata.

I fatti. Nel giugno di quest’anno Nexi è stata ufficialmente fusa con Sia. Obiettivo: creare il campione nazionale del paytech, una società da oltre 15 miliardi di capitalizzazione, capace di battersi con colossi mondiali del settore. Tra chi ha guadagnato di più dalla fusione c’è Advent, uno dei tre fondi – insieme a Bain Capital e Clessidra – che controllava Nexi prima che quest’ultima venisse unita a Sia. Tanto per dare un’idea dei profitti realizzati da Advent, che ancora oggi è azionista (di minoranza) di Nexi-Sia, basti dire che al momento della quotazione di Nexi, nella primavera del 2019, un’azione della società valeva 8,50 euro. Oggi, dopo la fusione con Sia, siamo vicini ai 18 euro: una rivalutazione di oltre il 100% per il fondo di private equity. Che, per le sue operazione italiane, ha scelto di farsi aiutare da Carrai, storico braccio destro di Renzi. Suo consulente economico al Comune di Firenze, poi capo della segreteria alla Provincia, infine scelto dal senatore di Rignano (che cambiò idea subito dopo le critiche fatte filtrare da Oltreoceano) come consulente per la sicurezza informatica nel suo governo, Carrai da allora non riveste alcun ruolo politico.

Advent è un fondo con all’attivo investimenti per 56 miliardi di dollari in 42 Paesi. Nel tempo ha scommesso su una decina di aziende italiane, ma negli ultimi 15 anni le uniche due operazione finanziarie pubblicizzate riguardano l’azienda sanitaria Ice Group e, appunto, Nexi. Il fondo americano è diventato azionista di controllo di Nexi nel dicembre 2015, quando Renzi era premier. Tra i consulenti di quell’operazione, nata dallo scorporo dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari, c’era Franco Bernabé, legato a Carrai per gli interessi condivisi nel gruppo lussemburghese Wadi.

Carrai riceve 300mila euro da Advent nel maggio del 2020. Sono i giorni delle prime indiscrezioni sulla fusione tra l’azienda pubblica presieduta dal renziano Lovadina e quella privata partecipata da Advent. Il 21 maggio Bloomberg rivela che i dirigenti delle due società hanno chiesto ai loro consulenti di fare una valutazione di Sia. Il titolo Nexi guadagna l’8% a Piazza Affari.

Il giorno dopo, Il Sole 24 Ore aggiunge che uno dei nodi ancora da sciogliere è il prezzo che Sia (cioè Cdp) dovrà pagare ai fondi per prendersi la maggioranza della nuova società. Il 27 maggio Advent, Bain e Clessidra vendono 55 milioni di azioni Nexi: l’incasso è di 781 milioni di euro, con una plusvalenza di 26 milioni rispetto al valore che il titolo aveva solo sette giorni prima. Poi, per alcuni mesi, sulla possibile fusione non escono più notizie. Si arriva all’ottobre del 2020, quando sono le due società ad annunciare che l’operazione si farà. La maggioranza va a Cdp, che ottiene il 25%, mentre i tre fondi (che nel frattempo hanno ulteriormente alleggerito la loro posizione su Nexi con conseguente incasso) restano dentro la nuova creatura con il 23% del capitale. Vista in prospettiva, la scommessa fatta da Advent qualche anno fa ha fruttato sicuramente bene. Quale sia stato il motivo di quei 300 mila euro pagati a Carrai, invece, resta un mistero.

Brunetta è un luddista del ventunesimo secolo

È parimenti difficile capire sia l’accanimento di Renzi contro il Reddito di cittadinanza, sia quello di Brunetta contro lo smart working. Il primo sembra frutto di un’inguaribile cattiveria congenita; il secondo di un’emendabile svista storica.

Brunetta sostiene – e non c’è motivo per dubitarne – che il suo scopo primario sta nell’assicurare ai cittadini servizi sempre migliori attraverso una macchina statale sempre più efficiente. La missione è tanto più meritevole quanto più ardua, data la persistenza secolare dei mali che affliggono la nostra Pubblica amministrazione. Per farcerla occorre che egli tenga in massimo conto le sorprendenti opportunità offerte al mondo del lavoro dalle conquiste del progresso tecnologico e dello sviluppo organizzativo.

Per sbrecciare la fortezza della Pubblica amministrazione, che per 160 anni è riuscita a preservare la sua potenza stagnante, la ministra Dadone, che ha preceduto Brunetta a Palazzo Vidoni, colse a volo l’imprevisto choc della pandemia per rivoluzionare alla radice il luogo stesso di quella stagnazione usando lo smart working come grimaldello con cui avviare la rivoluzione organizzativa che si attendeva da oltre un secolo.

Per sua natura il lavoro agile può contribuire a risolvere molti problemi congeniti alla burocrazia: la microconflittualità, l’assenteismo, l’aggregazione di gruppi informali che si contrappongono al cambiamento, la resistenza alla digitalizzazione, la tendenza a ostacolare la circolazione delle informazioni, la carenza di spazi e di strutture, i tempi morti, le chiacchiere di corridoio e quel cappuccino aziendale contro cui Brunetta ingaggiò una sua precedente battaglia.

Di sicuro il lavoro agile comporta due vantaggi imprescindibili per la Pa: costringe a operare per obiettivi, razionalizzando e semplificando l’organizzazione; aumenta la produttività, che da sempre rappresenta il tallone d’Achille della macchina statale. Secondo i numeri del Politecnico di Milano, nelle organizzazioni che hanno applicato il lavoro a distanza la produttività è aumentata del 10%, i costi vivi per gli immobili sono calati tra il 30 e il 50%, senza contare il miglioramento dell’impatto ambientale e l’aumento dell’inclusione. Mettendo tempestivamente in lavoro agile il 97% del suo personale, l’Inps è riuscita a smaltire 6,4 milioni di pratiche relative alla Cig laddove, prima, ne evadeva solo 800mila. Se, dunque, la PA adotterà lo smart working in misura inferiore alle imprese private, aumenterà il suo gap negativo di produttività rispetto a queste.

È davvero incomprensibile che un ministro dinamico e ambizioso come Brunetta rischi di passare alla storia come il luddista del XXI secolo puntando non sull’innovazione organizzativa, ma sul ritorno alla palude dell’inerzia. Né si capisce perché il Pnrr dovrebbe destinare decine di miliardi alla digitalizzazione della Pa se poi i dipendenti pubblici dovranno restarsene in ufficio, analogici per sempre. Praticamente essi potranno tele-apprendere, tele-commerciare, tele-curarsi, tele-amare e tele-divertirsi, ma non potranno tele-lavorare.

Possiamo già immaginare quali reazioni susciterà tra questi lavoratori la costrizione esercitata da Brunetta a rientrare nella “normalità” dopo una loro soddisfacente sperimentazione biennale di lavoro agile. Ne saranno soddisfatti alcuni tra coloro che hanno il privilegio di abitare a quattro passi dagli uffici e tutti quelli che rifiutano l’innovazione tecno-organizzativa, la ricongiunzione tra lavoro e vita, la ricca varietà dei rapporti sociali, la vita di quartiere, l’impegno civile. Per tutti gli altri – soprattutto i più giovani – che si erano illusi di trovare nello Stato un datore di lavoro finalmente all’altezza dei tempi, questa sarà l’ennesima dimostrazione che la Pa è irrecuperabile. Per fortuna le punte avanzate della macchina statale, da Bankitalia all’Inps, hanno già contrattato che, a partire dal 2022, consentiranno un centinaio di giorni all’anno in smart working al dipendente che potrà e vorrà farlo.

A quanto pare, Brunetta non disdegna solo il progresso socio-organizzativo, ma anche il lavoro di gruppo. La ministra Dadone creò un Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni e, al suo interno, una Commissione tecnica, di cui fanno parte alcuni tra i massimi esperti della materia. I due organismi, per tutto quanto riguarda lo smart working nella Pa, debbono definire gli indirizzi tecnico-metodologici, svolgere attività consultive, di studio e analisi, monitorare le applicazioni pratiche, analizzarne i risultati, promuovere specifiche iniziative di sensibilizzazione e di comunicazione. Brunetta ha confermato questi due organismi, ma finora li ha convocati solo due volte per comunicare, a tumulazione avvenuta, le decisioni da lui già prese e divulgate.

 

E l’Ocse benedice il Rdc: “Ha ridotto i danni del Covid”

Mentre buona parte dell’arco parlamentare continua a indicarlo come la causa di tutti i mali del Paese, ieri il Reddito di cittadinanza ha incassato un nuovo riconoscimento dei risultati ottenuti. Nella sua Economic Survey (indagine economica) sull’Italia, l’Ocse ha fatto notare come la misura abbia “aiutato a ridurre il livello di povertà dei più indigenti”. Considerando poi tutti i trasferimenti pubblici messi in campo nel 2020 dal governo – quelli che il presidente di Confindustria Carlo Bonomi definì “Sussidistan” – “la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie è stata limitata al 2,6% in termini reali”. Ciò che invece “non è stata intaccata” è “l’incidenza dei lavoratori poveri”, ha aggiunto l’organizzazione basata a Parigi ricordando pure che tanti immigrati sono rimasti fuori dalla rete di protezione sociale.

Questi dati, accompagnati da un minimo di buon senso, suggerirebbero prudenza nelle dichiarazioni, eppure non passa giorno senza una raffica di attacchi scomposti al Rdc, ormai da settimane al centro di un’offensiva che vede uniti la Lega, Fratelli d’Italia e Matteo Renzi, pronto a raccogliere le firme per proporre un referendum abrogativo. Anche Matteo Salvini ha promesso un emendamento per abolirlo che destinerà alle imprese – guarda caso – i soldi risparmiati. Giorgia Meloni, che domenica aveva definito il sussidio “metadone di Stato”, ieri è tornata sull’argomento: “Lo sviluppo e il lavoro sono i mezzi per liberare la gente dalla povertà, non il mantenimento con la paghetta di Stato per rendere i cittadini dipendenti dalla politica come vogliono fare i 5 Stelle e la sinistra. Si possono raccontare tutte le cose che si vogliono, ma il reddito di cittadinanza è stato un grandissimo fallimento, oltre che un disincentivo al lavoro”.

Anche il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, ha battuto un colpo: “Dobbiamo cominciare a ragionare di lavoro di cittadinanza”. Il mantra cui si rifà la destra è sempre uguale: bisogna creare occupazione per far uscire le persone dalla povertà. Si tratta di un’equazione contestata da tutti gli esperti, i quali segnalano come in realtà spesso il disagio economico non dipenda solo dall’assenza di lavoro, ma da altri fattori più gravi tanto che molti indigenti non sono immediatamente spendibili sul mercato (e infatti il meccanismo del Rdc li manda dai servizi sociali).

Questo a dimenticarsi – cosa che non fatto l’Ocse – che si può rimanere poveri pur avendo un impiego. Lo ha ricordato anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, domenica pomeriggio durante la festa del Fatto Quotidiano: “Non so i poveri cosa gli han fatto di male a qualcuno. Vedo un odio verso chi è povero, verso chi lavora, che non capisco, una di quelle cose che mi fan reagire. In molti casi, poi, quelli che pur lavorando sono poveri, sono quelli che pagano le tasse per quelli che non le pagano per garantire determinate questioni”.

Sullo stesso palco, poche ore prima l’ex premier Giuseppe Conte aveva difeso il provvedimento approvato dal suo governo nel 2019: “Assistiamo a una campagna vergognosa contro il Reddito di cittadinanza. Trovo vigliaccio e folle che esponenti politici, per giunta con trattamenti economici privilegiati, chiedano di abrogare una misura di civiltà nei confronti di chi non ha nulla”. Stesso concetto ripetuto ieri a Napoli, peraltro la città con il maggior numero di beneficiari: se il governo Draghi decidesse di cancellare il Rdc, “sarebbe la rottura di un patto di lealtà e di una logica di sostegno e collaborazione”. Per ora, le posizioni espresse dal ministro del Lavoro Andrea Orlando restano rassicuranti: “È uno strumento fondamentale – ha detto pochi giorni fa – se lo togliessimo saremmo tra i pochi Paesi a non avere strumenti di contrasto alla povertà”. Ma se il problema è che qualcuno odia i poveri la cosa assume un senso…