Èun bel libro quello di Annachiara Valle dedicato a Mino Martinazzoli dal titolo Uno strano democristiano. Uscì nel 2009, ma è stato rieditato di recente, per il decennale della morte del politico bresciano, con qualche sorprendente integrazione, tipo un contributo di Maria Elena Boschi. Come se non bastasse, non ha reso un buon servizio a un libro che merita la recente presentazione di esso a Castenedolo. Non a caso assente l’autrice che non ha gradito. Interlocutori due politici tra i più inappropriati: Renzi e Casini. I quali, per inciso, hanno finito per discutere semmai del libro di Renzi Controcorrente. Non proprio un gesto elegante.
Casini, dicevo: una fattispecie di democristiano per nulla strano (come Mino), anzi, la quintessenza del doroteismo. Un’antropologia più che una politica: molle eppure tenacissima, pressoché eterna, nell’aderire come una cozza al potere di turno. Giova ricordare. Mentre Martinazzoli si adoperava disperatamente – in mezzo a mille diffidenze e all’azione di Mani Pulite che decapitava l’intero gruppo dirigente della Dc – per fare vivere il meglio della tradizione democratica e cristiana (notare la “e”) sotto le insegne del popolarismo sturziano, Casini, in coppia con Mastella, fu di tutti il più svelto nel saltare sul carro vincente di Berlusconi. Pierfurby – nomignolo decisamente appropriato – è quanto di più lontano, idealmente e persino appunto antropologicamente, da Mino. Per tacere di Renzi. Sostanzialmente, il suo contrario: la disintermediazione contro la cultura della mediazione montiniana e morotea; la democrazia parlamentare contro quella di investitura; il leaderismo e la personalizzazione della politica contro il partito come organismo collettivo; la esasperata mediatizzazione della politica versus una severità e un riserbo quasi eccentrico (Martinazzoli si rifiutava di andare in tv); gli slogan e la dissipazione della parola a fronte della cura di essa dentro un linguaggio raffinato, colto, originale, intessuto di riferimenti letterari. Infine, Martinazzoli, dopo la sconfitta (relativa e onorevole) del 1994, si dimise all’istante. Su tutto: la differenza nel rapporto con le culture politiche di lunga durata. Anche Mino fu costretto, dalla congiuntura, a una rottamazione di gran parte del gruppo dirigente Dc, ma chiarissimamente, a ciò malvolentieri si acconciò, esattamente al fine di salvare una tradizione/cultura politica. Impresa che gli riuscì solo in parte. Non per rottamare indistintamente persone e culture. È significativo e paradossale che sia stato Renzi (oggi improbabile emulo di Macron, animato dal dichiarato proposito di abbattere il Pd) e non Veltroni o Bersani a portare il Pd nella famiglia socialista europea che oggi egli vorrebbe svuotare. Uno vale uno? No, uno vale l’altro, tutto è relativo!
Del resto, si diceva della Boschi esegeta di Martinazzoli. Pochi rammentano che essa, prima di legarsi al suo mentore di Rignano, ebbe un passaggio nella sinistra dalemiana: alle primarie per il sindaco di Firenze non sostenne Renzi, ma Michele Ventura, legatissimo a D’Alema. Poi bersaglio numero uno della rottamazione renziana. A testimonianza di una leggerezza e di una assoluta casualità dei percorsi e delle culture politiche. Di nuovo: uno vale l’altro.
Povero Mino. Un politico serio e perbene, forse uno sconfitto, che semmai si segnala (e svetta) per una sua virtuosa inattualità. Perché non rispettarla, perché non rispettarlo?