E l’Ocse benedice il Rdc: “Ha ridotto i danni del Covid”

Mentre buona parte dell’arco parlamentare continua a indicarlo come la causa di tutti i mali del Paese, ieri il Reddito di cittadinanza ha incassato un nuovo riconoscimento dei risultati ottenuti. Nella sua Economic Survey (indagine economica) sull’Italia, l’Ocse ha fatto notare come la misura abbia “aiutato a ridurre il livello di povertà dei più indigenti”. Considerando poi tutti i trasferimenti pubblici messi in campo nel 2020 dal governo – quelli che il presidente di Confindustria Carlo Bonomi definì “Sussidistan” – “la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie è stata limitata al 2,6% in termini reali”. Ciò che invece “non è stata intaccata” è “l’incidenza dei lavoratori poveri”, ha aggiunto l’organizzazione basata a Parigi ricordando pure che tanti immigrati sono rimasti fuori dalla rete di protezione sociale.

Questi dati, accompagnati da un minimo di buon senso, suggerirebbero prudenza nelle dichiarazioni, eppure non passa giorno senza una raffica di attacchi scomposti al Rdc, ormai da settimane al centro di un’offensiva che vede uniti la Lega, Fratelli d’Italia e Matteo Renzi, pronto a raccogliere le firme per proporre un referendum abrogativo. Anche Matteo Salvini ha promesso un emendamento per abolirlo che destinerà alle imprese – guarda caso – i soldi risparmiati. Giorgia Meloni, che domenica aveva definito il sussidio “metadone di Stato”, ieri è tornata sull’argomento: “Lo sviluppo e il lavoro sono i mezzi per liberare la gente dalla povertà, non il mantenimento con la paghetta di Stato per rendere i cittadini dipendenti dalla politica come vogliono fare i 5 Stelle e la sinistra. Si possono raccontare tutte le cose che si vogliono, ma il reddito di cittadinanza è stato un grandissimo fallimento, oltre che un disincentivo al lavoro”.

Anche il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, ha battuto un colpo: “Dobbiamo cominciare a ragionare di lavoro di cittadinanza”. Il mantra cui si rifà la destra è sempre uguale: bisogna creare occupazione per far uscire le persone dalla povertà. Si tratta di un’equazione contestata da tutti gli esperti, i quali segnalano come in realtà spesso il disagio economico non dipenda solo dall’assenza di lavoro, ma da altri fattori più gravi tanto che molti indigenti non sono immediatamente spendibili sul mercato (e infatti il meccanismo del Rdc li manda dai servizi sociali).

Questo a dimenticarsi – cosa che non fatto l’Ocse – che si può rimanere poveri pur avendo un impiego. Lo ha ricordato anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, domenica pomeriggio durante la festa del Fatto Quotidiano: “Non so i poveri cosa gli han fatto di male a qualcuno. Vedo un odio verso chi è povero, verso chi lavora, che non capisco, una di quelle cose che mi fan reagire. In molti casi, poi, quelli che pur lavorando sono poveri, sono quelli che pagano le tasse per quelli che non le pagano per garantire determinate questioni”.

Sullo stesso palco, poche ore prima l’ex premier Giuseppe Conte aveva difeso il provvedimento approvato dal suo governo nel 2019: “Assistiamo a una campagna vergognosa contro il Reddito di cittadinanza. Trovo vigliaccio e folle che esponenti politici, per giunta con trattamenti economici privilegiati, chiedano di abrogare una misura di civiltà nei confronti di chi non ha nulla”. Stesso concetto ripetuto ieri a Napoli, peraltro la città con il maggior numero di beneficiari: se il governo Draghi decidesse di cancellare il Rdc, “sarebbe la rottura di un patto di lealtà e di una logica di sostegno e collaborazione”. Per ora, le posizioni espresse dal ministro del Lavoro Andrea Orlando restano rassicuranti: “È uno strumento fondamentale – ha detto pochi giorni fa – se lo togliessimo saremmo tra i pochi Paesi a non avere strumenti di contrasto alla povertà”. Ma se il problema è che qualcuno odia i poveri la cosa assume un senso…

30.000 in lista se potessi avere mille euro al mese

I numeri restituiscono un apparente paradosso: la fiducia nei partiti è ai minimi (9 per cento da rilevazione Demos a fine 2020) e l’affluenza per le prossime Amministrative rischia di battere i picchi negativi di cinque anni fa (a Napoli, al secondo turno, si presentò un elettore su tre). Eppure questa crisi non tange la vocazione degli aspiranti consiglieri comunali e municipali, se è vero che solo nelle cinque principali città al voto il 3 e 4 ottobre – Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna – correranno oltre 30mila candidati.

E il motivo, ci perdonino i romantici delle ideologie, azzardiamo possa essere piuttosto venale: per quanto lontani dai fasti della Casta del Parlamento o delle Regioni, dove i compensi annui superano con ampio margine le sei cifre, i seggi dei Comuni e dei quartieri garantiscono comunque gettoni di presenza più che dignitosi, utili magari per arrotondare i conti a fine mese. Nulla che attragga chi ha già un lavoro redditizio, ma un aiuto niente male per tutti gli altri.

Roma. A Roma siamo al record: 22 candidati sindaci sostenuti da 39 liste. Per un posto in Consiglio comunale corrono quindi in 1.800, ma il numero diventa impressionante se si aggiungono i candidati per i 15 Municipi della Capitale. Per farsi un’idea, si tenga conto che gli aspiranti presidenti di zona sono 153, ognuno sostenuto da una o (molto spesso) più liste. Soltanto la civica di Roberto Gualtieri ha presentato 300 nomi in tutto, a cui se ne sommano altrettanti del Pd. Non tutte le liste che corrono per il Campidoglio si schierano anche nei Municipi, certo, ma in ogni caso i nomi in corsa sono più di 7.000.

La posta in palio non è affatto male: ogni Municipio tra Consiglio ed eventuale giunta mette in palio 30 poltrone. Con i gettoni di presenza, gli eletti portano a casa poco meno di 1.000 euro lordi al mese, importo che sale a 2.500 euro per gli assessori e a 3.800 per i presidenti di Municipio, che in una città come Roma somigliano a sindaci di Comuni di media grandezza. In Consiglio comunale il gettone vale poi un po’ di più e si arriva a 2.500 euro lordi al mese per ogni eletto.

Milano. Non siamo ai numeri della Capitale, ma anche a Milano superiamo i 1.000 candidati al Consiglio comunale, con circa 4.000 nomi in corsa per i 9 municipi, merito delle 28 liste che in città sostengono Beppe Sala e i suoi 12 sfidanti.

Anche qui l’elezione viene buona per arrotondare: un consigliere comunale porta a casa circa 1.800 euro netti al mese, mentre i gettoni nel Municipio garantiscono un assegno di 700 euro. E ognuno dei 9 Municipi deve rinnovare ben 30 seggi, con un totale di circa 300 posti tra consiglieri e componenti delle “mini-giunte”. Matteo Salvini presenterà oggi in città i suoi candidati in tutti i Municipi a sostegno di Luca Bernardo. Beppe Sala ha l’appoggio di 8 liste, con il Pd protagonista e presente con una trentina di candidati in ogni zona, ma con anche altri simboli già pronti a presentare nomi nei quartieri (i Radicali, per esempio, corrono in 6 Municipi su 9). Nonostante siano partiti tardi, ci saranno quasi ovunque pure i 5Stelle di Layla Pavone, presenti in 7 quartieri.

Napoli. Ben 40 liste depositate fanno a pugni con il disamore per la politica che cinque anni fa ben si palesava col dato sull’affluenza: nel 2016 solo il 35% degli aventi diritto andò a votare al ballottaggio che confermò sindaco Luigi de Magistris. Oggi le Amministrative sembrano invece una festa di partecipazione. Ai 1.500 nomi in campo per il Comune (31 liste, 2 sub iudice) si aggiungono quelle per le 10 municipalità. Il record ce l’ha il giallorosa Gaetano Manfredi, sostenuto da 13 simboli (contro i 9 per Catello Maresca) che esprimono anche un candidato presidente in ogni zona. E, come altrove, c’è la carica dei circa 5.000 speranzosi: in un anno un consigliere di municipalità arriva a 7.000 euro, importo che raddoppia o persino triplica in caso di indennità di carica. E qui la corsa ai seggi ha già provocato uno scontro politico, dato che in molte municipalità Forza Italia sostiene candidati civici in autonomia rispetto a Lega e Fratelli d’Italia.

Più arduo è però conquistarsi un posto tra i 40 del Consiglio comunale, dove gli stipendi – grazie ai gettoni – si allineano con quelli delle altre grandi città e la frammentazione degli schieramenti – basti pensare al centrosinistra diviso tra Manfredi, Bassolino e Alessandra Clemente – aumenta la concorrenza.

Torino. Come nelle altre città, vale la regola dei gettoni: 120 euro per un massimo di 19 sedute al mese (quasi sempre se ne fanno di più, ma non vengono pagate). Ergo, in fondo al mese un consigliere comunale può arrivare quasi a 2.300 euro lordi, che scendono a un massimo di circa 900 euro per chi è eletto nelle circoscrizioni. Anche a Torino a ottobre la scheda elettorale sarà lunga: 13 candidati sindaci e ben 30 liste a supporto (siamo sui 1.200 candidati), a cui sommare le urne aperte in 8 zone.

Calcolatrice alla mano, siamo su numeri simili a quelli di Milano, con circa 6.000 nomi totali coinvolti.

Bologna. Le spese per gli eletti sono facilmente consultabili sul sito del Comune di Bologna. Quasi tutti i consiglieri arrivano a 1.880 euro con l’attività d’Aula, a cui si aggiungono i 500 dovuti con la presenza in Commissione. Più bassi i costi per i quartieri, dove i presidenti arrivano a guadagnare 3.800 euro, ma dove i gettoni superano in pochi casi i 200 euro.

Tra meno di un mese i candidati al Consiglio comunale saranno 600, sparsi in 19 liste a sostegno di 8 aspiranti sindaci. Rispetto alle altre grandi città, qui i quartieri sono solo 6 e diminuiscono anche i posti disponibili (una ventina tra eletti e giunta nelle zone). Il Pd, per rimanere al simbolo più radicato, in ogni quartiere presenta “solo” 15 nomi (90 in totale), per una competizione che comunque coinvolge oltre 600 aspiranti consiglieri. È il welfare elettorale del seggio, da Napoli a Milano.

Selfie e applausi: battesimo a Napoli per il tour di Conte

In Campania lo avevamo lasciato ad agosto a Salerno a battezzare una lista M5S antagonista al Pd di Vincenzo De Luca. Lo ritroviamo ieri a Napoli a presentare una lista M5S alleata coi dem che qui non sono solo Vincenzo De Luca. Napoli, l’unica grande città dipinta di giallorosa.

Rieccolo, Giuseppe Conte, mancava nel capoluogo campano da giugno, quando accompagnò un semi-silenzioso Gaetano Manfredi fresco di investitura a candidato sindaco, dopo essere stato suo ministro. Conte ha scelto Napoli per iniziare il tour elettorale settembrino, in cui girerà l’Italia per incontrare i cittadini e supportare i candidati, si legge sulla pagina social dell’ex premier che indica i luoghi e le date.

E Napoli non gli è ostile, anzi. Viene accolto da applausi, cori, dall’ormai consueto gruppo di signore più o meno attempate che lo inseguono per un selfie o per dirgli che è un bell’uomo. Stavolta c’è il contorno di una protesta del movimento disoccupati 7 novembre, che aveva riservato la stessa accoglienza, pochi minuti prima, al presidente della Camera, Roberto Fico. Una delegazione riesce a strappare un breve colloquio con la promessa che ci sarà un interessamento alla loro causa. “Tutti si sono assunti la responsabilità di chiamare i ministeri di riferimento, Lavoro e Transizione Ecologica, e lavorare per il coinvolgimento della Regione Campania”, dicono.

Conte spende la sua popolarità durante una passeggiata con Manfredi attraverso i luoghi degli stereotipi di Napoli: i vicoli, la pizza, la chiacchierata con le persone affacciate ai balconi, la periferia difficile. Due passi tra i quartieri a più alta densità di percettori del Reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia da difendere contro gli assalti della destra. Il saluto alla coppia di sposi nella chiesa della Sanità. La visita alla pizzeria Concettina ai tre santi. Un veloce saluto all’autista di un pullman. La visita a casa di nonna Giuseppa, 110 anni. L’incontro coi candidati nel palazzo Spagnuolo, dove si è affacciato con Manfredi per concedersi ai flash. Infine Scampia, al parco Corto Maltese, per incontrare con Manfredi, col quale ha saggiato i campetti di calcio e di tennis.

Ma Napoli è anche l’epicentro di un’offensiva legale contro il voto che lo ha eletto leader del nuovo Movimento. Lo annunciano all’AdnKronos i promotori del ricorso, spiegando che l’iniziativa nasce “a seguito della deriva verticistica che ha portato ad accantonare le regole e i principi fondanti del M5S, con conseguente sospensione della democrazia interna”.

Il ricorso sarà presentato a Napoli e vede come promotori alcuni attivisti storici che si sono rivolti all’avvocato Lorenzo Borrè, ma coinvolge anche militanti provenienti da diverse parti d’Italia, i quali hanno lanciato una raccolta fondi sulla piattaforma Gofoundme.

Tra i motivi di impugnazione “il mancato raggiungimento del quorum della ‘metà degli iscritti’ per l’approvazione del nuovo statuto” e la presunta “non iscrizione di Conte al M5S”.

La sòla di Sala ambientalista: ancora non si è iscritto ai Verdi

La notizia era stata data in prima pagina da Repubblica il 12 marzo, al decollo della campagna elettorale per la riconferma a sindaco di Milano: “Ho deciso”, annunciava Giuseppe Sala intervistato da Piero Colaprico. “Aderisco ai Verdi europei”. Lasciare il Pd e compiere “la svolta green”: una doppia non-notizia: perché Sala non ha mai avuto la tessera del Pd, ma soprattutto non si è mai iscritto ai Verdi. Il suo è stato solo un annuncio: “Colgo la sfida raccogliendo l’invito del Partito Verde Europeo a firmare la loro Carta dei Valori e poi, con i tempi giusti, a essere cooptato nel partito”. Quali siano i “tempi giusti” per la magica “cooptazione” lo sa solo lui. Nell’attesa, si può cercare di valutare i fatti e le realizzazioni concrete, per stabilire il grado reale di ambientalismo del sindaco uscente. Un risultato lo ha comunque già ottenuto: i Verdi milanesi hanno immediatamente chiuso la guerra che gli hanno fatto fin dal suo insediamento e si sono accodati a Sala, sostenendolo fin dal primo turno elettorale. Malgrado i mal di pancia di tanti militanti che, dopo che avevano criticato per cinque anni le scelte ambientali e urbanistiche del sindaco, hanno deciso di abbandonare il partito verde e di passare alla Civica AmbientaLista che, insieme a Milano in Comune, sostiene il candidato sindaco Gabriele Mariani.

Del resto, era stato Sala, nel gennaio 2020, a sbeffeggiare la leader dei Verdi italiani, Elena Grandi, che gli aveva chiesto di scusarsi per la decisione di abbattere gli alberi del milanese Parco Bassini: “Sono i Verdi che dovrebbero scusarsi con gli italiani”, la replica di Sala, “perché sono riusciti a raccogliere a malapena il 2 per cento del consenso mentre in altri Paesi d’Europa sono arrivati anche al 15, perché un ambientalismo che è solo del ‘no’ e della rigidità porta a queste cose. I Verdi in Italia oggi non possono vantarsi di niente perché non hanno mai raggiunto capacità di avere una forza negoziale”. Tutto dimenticato. Ora è amore. Ma quanto è verde Sala?

Piste ciclabili: promosso. Oggi a Milano ci sono 300 chilometri di piste ciclabili. Erano 113 nel 2011. Gli automobilisti si lamentano per le code che rallentano il traffico, il centrodestra protesta, ma Milano così si sta preparando a una futura mobilità meno inquinante.

Consumo di suolo: bocciato. Milano è una città ad altissimo consumo di suolo: 510 mila metri quadrati (dati Ispra) nei cinque anni di Sala sindaco. Ma il bello deve ancora arrivare: saranno “riqualificati” (cioè cementificati) milioni di metri quadri che invece si potevano restituire al verde: una bella fetta degli 1,3 milioni degli Scali ferroviari, dell’1,1 milioni dell’ex Expo, i 150 mila mq dell’ex Macello, e forse anche l’area di San Siro, i 416 mila di Piazza d’armi, gli 800 mila di Bovisa Gasometro.

Verde: bocciato. Per far posto ad altro cemento, sono stati abbattuti (o lo saranno) alberi del parco Bassini, di piazza Baiamonti, del parco La Goccia, del parco Cividale, del parco dei Capitani. Non è stata mantenuta la promessa (sancita da un referendum popolare) di mantenere a parco l’area ex Expo. In cambio, però, il progetto ForestaMi ha l’obiettivo di piantare 3 milioni di alberi entro il 2030. “È, vero, sono state piantate molte decine di alberelli. Molti però sono morti durante l’estate per mancanza d’acqua”, documenta (con foto) Patrizia Bedori, uscita dal Movimento 5 stelle e capolista di Milano in Comune. “Il traguardo al 2030, invece che a fine consiliatura, è poi un trucco per non dover rendere conto dei veri risultati finali”.

clima: bocciato. Il Piano aria a clima del Comune di Milano dichiara di voler raggiungere entro il 2025 i livelli di inquinamento indicati dalla Direttiva europea, ma non propone alcuna azione concreta per ottenere questo risultato. Non indica alcuna azione per ridurre l’ozono, che supera tutti i parametri di sicurezza indicati dall’Europa e dall’Organizzazione mondiale della sanità. Quanto al CO2, il Comune dichiara di volerne ridurre le emissioni del 45 per cento entro il 2030. “Risultato impossibile”, contesta l’avvocato Veronica Dini, che assiste 29 comitati e associazioni milanesi, perché ha stanziato il 98,5 per cento del suo budget affinché gli edifici comunali diventino meno inquinanti dieci anni dopo, entro il 2040. E nessuna attività per la riqualificazione delle case private, “che rappresentano la stragrande maggioranza degli edifici milanesi, rendendo così sostanzialmente velleitario l’obiettivo indicato”.

Zingaretti, ma anche Letta: il Pd rompe il tabù delle urne

Non è più il consigliere maggiormente ascoltato dal segretario e neanche il teorico dell’ “amalgama” giallorosso vicinissimo al premier, Goffredo Bettini. È più un battitore libero, un pensatore indipendente, per stare a come lo definiscono al Nazareno. Ma la sua uscita – alla festa del Fatto – in favore di Mario Draghi al Quirinale è in realtà un pensiero niente affatto isolato all’interno del Pd. Tanto è vero che Bettini ha cercato con le sue parole di forzare la mano a Enrico Letta.

Il segretariosi è affrettato a ribadire anche domenica la sua linea ufficiale: “Il premier deve arrivare a fine legislatura”. Tra i dem, in più d’uno raccontano però che questa posizione è tutt’altro che granitica. Perché Draghi al Colle significherebbe elezioni anticipate: uno scenario che al segretario potrebbe convenire. Primo, gli permetterebbe di salvare l’alleanza con Giuseppe Conte, che un anno e mezzo di governo Draghi rischia di asfaltare del tutto. Secondo, gli consentirebbe di portare il partito al voto, senza il fantasma del congresso anticipato, e dunque di fare le liste elettorali. Chiaramente, per rendere possibile questa opzione si devono verificare una serie di condizioni. Tanto per cominciare, i dem devono vincere le Amministrative. E soprattutto lo stesso Letta deve conquistare il seggio di Siena. Un traguardo che in questo momento sembra abbastanza raggiungibile, sempre che non ci siano novità sull’acquisto da parte di Unicredit del Monte dei Paschi molto sfavorevoli per il territorio (vedi spezzatino e/o perdita dei posti di lavoro). Al Nazareno continuano a insistere sul fatto che sostenere il governo Draghi è un atto di responsabilità e che uno scenario diverso significherebbe davvero una specie di rischiatutto dal- l’esito pericoloso (o vittoria alle elezioni con una maggioranza di centrosinistra o consegna del Paese al centrodestra). Ma l’agitazione tra i dem fa capire che le cose sono effettivamente in movimento. A stigmatizzare Bettini è stato per Base Riformista, Lorenzo Guerini. La corrente sua, di Andrea Marcucci e di Luca Lotti è per arrivare a fine legislatura con Draghi, la cui agenda sposa in pieno. E per un congresso prima di quel momento. Mantenere il controllo del partito e rientrare in Parlamento sono obiettivi non secondari. Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna, si prepara da mesi. Non a caso ieri, a metà pomeriggio, il Pd si è affrettato a precisare con nota ufficiale: “La data di scadenza del mandato dell’attuale Segretario nazionale rimane immutata (17 marzo 2023), così come i termini e le modalità di indizione del nuovo congresso per l’elezione del Segretario e dell’Assemblea”. Oltre alla fibrillazione politica, a creare il caos era stato un voto di venerdì, in modalità online, dell’Assemblea nazionale sull’“esplicitazione” dell’art. 8 dello Statuto, che stabilisce che “il presidente dell’Assemblea indice l’elezione dell’assemblea e del segretario nazionale sei mesi prima della scadenza del mandato del segretario in carica”. Votazione che aveva fatto pensare a un congresso nell’autunno del 2022. A smentire questa interpretazione arriva la nota del Pd: la modifica riguarda “la numerazione dei commi a cui si fa rinvio per disciplinare il caso di cessazione anticipata dal mandato, necessaria per adeguare lo Statuto a precedenti modifiche statutarie”. Il linguaggio da azzeccagarbugli tradisce le difficoltà.

Le posizioni nel partito – nella migliore tradizione – sono variegate. Con un occhio alla volontà di Draghi. A Palazzo Chigi in questi giorni si registra una certa incertezza sulle intenzioni del premier. Mentre la tensione per gli innumerevoli dossier accumulati, con una situazione politica che si fa sempre più ingarbugliata aumenta.

A vederecon un certo favore le urne, pur non dicendolo esplicitamente, è anche l’ex segretario, Nicola Zingaretti. Mentre Dario Franceschini non gradisce le esternazioni bettiniane: d’altronde lui al Colle punta ancora. Poi una battaglia interna all’ala sinistra della maggioranza del Pd. Andrea Orlando è per arrivare alla fine della legislatura. Ma il vicesegretario, Peppe Provenzano, fa una partita tutta sua, con all’orizzonte guida del partito. Bettini sabato si è detto anche contrario alla formula per cui “il governo Draghi è il mio governo” e “questa maggioranza è la nostra maggioranza”. E lo stesso Provenzano a Bologna domenica ha fatto sua questa parte del ragionamento: “Un governo in cui ci sono nostri ministri è il nostro governo, ma certo non è la nostra maggioranza”. Ancora: “I governi con la scadenza non lavorano bene. Noi ci stiamo, ma con la nostra agenda”. Non si espone più di così, soprattutto durante la campagna per le Amministrative, ma che il quadro è in evoluzione lo sa benissimo. Evoluzione che potrebbe portare persino a un congresso dopo le Amministrative, se invece il Pd dovesse peredere.

Vaccini ai Paesi poveri, deciderà il G8 Finanze

Ad agosto, dopo che con grande strepito si era annunciata la produzione del vaccino Johnson & Johnson in Sudafrica, c’è stata una grande mobilitazione per evitare che gran parte delle dosi prodotte lì fossero poi esportate nell’Unione europea. In parte è riuscita. Per il resto dimostra che la strada per produrre i vaccini anti-Covid 19 nei Paesi a medio e basso reddito è ancora in salita. Ma è l’asse principale della dichiarazione firmata ieri a Roma dai ministri della Salute del G20, accolti da Roberto Speranza ai Musei capitolini.

“L’obiettivo di fondo è di portare il vaccino in ogni angolo del mondo e di agevolarne la produzione”, ha detto Speranza, consapevole che la vaccinazione globale non è solo una scelta di solidarietà ma anche funzionale a ridurre la circolazione del virus negli stessi Paesi ricchi.

La stessa dichiarazione congiunta è un successo della presidenza italiana perché l’anno scorso non c’era stata; un altro è la condivisione dell’approccio One Health che affronta globalmente le questioni della salute umana, animale e ambientale; nuovo è anche il riferimento alla “prospettiva di genere” e ai “bisogni di donne e ragazze” in ambito sanitario; incoraggianti i principi in materia di prevenzione e investimenti. Come previsto, però, nonostante l’impegno di India e Sudafrica, ma anche dell’Argentina e di altri Paesi, nella dichiarazione non trova posto neppure in termini generici la sospensione dei brevetti in mano alle aziende che producono i vaccini, già respinta in particolare da Germania, Unione europea e Giappone in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che gestisce gli accordi commerciali Trips. Restano le donazioni di vaccini, in particolare quelle del programma Covax; si aggiungono passaggi sulla garanzia degli approvvigionamenti di materie prime e tecnologie per i Paesi poveri, nulla però che faccia immaginare una decisa inversione di tendenza per ridurre la forbice tra chi ha vaccinato oltre il 70 per cento della popolazione come nell’Ue e pensa alla terza dose e chi, specie in Africa, si fermano sotto l’1 per cento.

Il G20 condivide l’obiettivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità di portare al 40 per cento entro l’anno la quota di vaccinati a livello mondiale. Ora, se guardiamo alle due dosi, siamo poco sotto il 30, con una sola dose quasi al 40. Qualcosa di più concreto, almeno in termini di incentivi alle aziende produttrici, potrà venire dalla prossima riunione dei ministri finanziari del G20.

La “mancanza di una tabella di marcia chiara e concreta” è dunque il primo rilievo avanzato da Civil 20, che riunisce oltre 550 realtà della società civile provenienti da 100 Paesi e ha preso parte ai lavori della riunione di Roma. E rilancia il tema dei brevetti e delle deroghe Trips. Senza non si va lontano, specie in Paesi che hanno una spesa sanitaria complessiva pro-capite inferiore ai 15/20 dollari di una dose di Pfizer Biontech o Moderna.

Medici No Vax, altro che obbligo: il 60% al lavoro

Da un lato c’è la difficoltà delle aziende sanitarie ad affrontare la riorganizzazione del servizio necessaria a tappare i buchi lasciati dagli operatori no vax che devono essere sospesi. Dall’altro, reti informative regionali che non dialogano tra di loro, trasformando così il procedimento di verifica in un colabrodo. Il risultato è che a oltre cinque mesi dall’entrata in vigore del decreto legge 44, che obbliga gli operatori sanitari e sociosanitari a vaccinarsi contro il Covid-19, più del 60% dei medici non vaccinati continua a lavorare. Nonostante la norma sancisca che l’immunizzazione è requisito essenziale per l’esercizio della professione. Una percentuale altissima. E alla quale va aggiunta quella che riguarda gli altri operatori della sanità: infermieri, psicologi, fisioterapisti.

La stima arriva dalla Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici. Il presidente Filippo Anelli ha fatto una ricognizione.

Alla data di ieri solo 40 Ordini su 106 avevano ricevuto dalle aziende sanitarie la segnalazione del provvedimento di sospensione di iscritti all’albo. Questo per un totale di 600 comunicazioni in tutta Italia (comunicazioni che sono indispensabili per annotare la sanzione). “Poche”, dice Anelli. “Quindi – prosegue – o ci limitiamo a prendere atto che ci sono medici che non si vaccinano o applichiamo la legge. In gioco non c’è solo il tema della legalità: basti pensare all’impatto devastante che può avere su un paziente il rapporto con un medico che non si è vaccinato. Sul piatto della bilancia dobbiamo mettere due cose. Conviene sollecitare un’azione maieutica dell’azienda sanitaria, anche a costo di riorganizzare il servizio, oppure fare finta di nulla? Senza dimenticare che in questo caso un sistema tollerante non è credibile. In ballo c’è la tutela della salute pubblica”.

Attualmente gli operatori sanitari e sociosanitari non vaccinati sono il 2,1%. Con grandi differenze tra le regioni. Le defezioni si concentrano soprattutto in Sicilia (4,8%), Puglia (6,5%), Emilia-Romagna (7,2) e Friuli-Venezia Giulia, dove addirittura raggiungono il 10%. Poi c’è il Trentino, con il 4,1%. “Non ho ricevuto comunicazioni ufficiali da parte delle aziende sanitarie triestine – conferma Cosimo Quaranta, presidente dell’Ordine dei medici di Trieste –. L’unica cosa che so, e l’ho appresa dalla stampa, è che otto infermieri della nostra provincia sono stati sospesi. Questi sono i fatti”.

Lentezza, problemi di organizzazione. Ma anche assenza di una banca dati nazionale, come osserva Quaranta: “Se un medico si laurea a Trieste e inizia a esercitare nella sua città, ma poi decide di lavorare in Veneto e di vaccinarsi lì, quando il dipartimento di sanità pubblica acquisisce gli elenchi dall’Ordine non ha notizia di una immunizzazione conclusa in un’altra regione, perché non esiste una rete informativa nazionale”. Fino ad ora le segnalazioni agli Ordini sono arrivate solo da alcune regioni. Marche, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Sicilia, Calabria, Campania. Eppure i tempi dettati dal decreto legge erano stringenti. Entro cinque giorni dall’entrata in vigore della normativa, avvenuta il 1° aprile, sia gli Ordini professionali sia le aziende sanitarie dovevano inviare alle Regioni, rispettivamente, l’elenco degli iscritti e l’elenco dei dipendenti. A loro volta queste ultime, entro 10 giorni, dovevano verificare lo stato vaccinale di ciascuno e segnalare alle Asl di riferimento i nominativi di chi non si era immunizzato. Il fatto è che spetta poi alle aziende sanitarie il compito di invitare l’operatore a produrre la documentazione necessaria, quella che attesta l’avvenuta inoculazione o, al contrario, condizioni di salute che esonerano dall’obbligo della vaccinazione. E quest’ultimo ha cinque giorni di tempo per farlo, pena la sospensione dell’esercizio della professione a contatto con il pubblico. Disposizioni che possono essere aggirate, come già scritto dal Fatto, ricorrendo al semplice trucchetto di prenotare la somministrazione e poi disdirla, per poi continuare a ripetere l’operazione. Se invece a stoppare la vaccinazione sono le condizioni di salute, entra in gioco una apposita commissione del dipartimento di sanità pubblica che deve esaminare la documentazione ed eventualmente chiedere una integrazione. E i tempi si allungano.

Draghi ordina, Salvini si piega: adesso più Green pass per tutti

Il cul de sac è evidente anche ai suoi fedelissimi: “Come si muove, Matteo prende sberle”. Così è stato giovedì scorso quando il presidente del Consiglio, Mario Draghi, per reagire al voto contrario della Lega in commissione sul Green pass, ha rilanciato sull’estensione del certificato verde e sull’obbligo vaccinale, e così sarà nei prossimi giorni quando Matteo Salvini dovrà ingoiare anche l’estensione del pass per i lavoratori. A spiegarglielo sarà Draghi in persona nelle prossime ore a Palazzo Chigi: “Sul Green pass non sono ammessi scherzi” è la linea del premier. E Salvini dovrà accettarlo. Il leader della Lega dunque è isolato e, dicono, sempre più nervoso. Perché sulle misure anti-pandemia alla fine si piegherà alla volontà del premier e alle altre forze di maggioranza che stanno appoggiando in toto la linea di Draghi: tra oggi e domani arriverà il voto alla Camera sul decreto che ha introdotto il Green pass e la Lega sarà costretta a dire “sì” – fiducia o non fiducia – rimangiandosi il voto in commissione per abolirlo; poi in cabina di regia i leghisti appoggeranno anche l’estensione del certificato verde per i dipendenti pubblici. Ipotesi che fino a qualche giorno fa Salvini vedeva come fumo negli occhi. E invece, su pressione dei governatori del nord e dei governisti guidati da Giancarlo Giorgetti, il segretario dovrà cambiare idea. Lo ha spiegato ieri proprio il ministro dello Sviluppo Economico che prevede “un’estensione del Green pass” per i lavoratori perché il certificato deve essere “uno strumento di sicurezza nei luoghi affollati”. D’accordo Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia: “Il certificato serve per migliorare la nostra vita”.

Ma Salvini ha grossi problemi anche fuori dal governo. L’altro incubo è quello delle prossime amministrative che potrebbero segnare non solo una pesante sconfitta nelle grandi città ma anche il sorpasso di Fratelli d’Italia nel voto di lista. E i sondaggi che girano a via Bellerio non sono rassicuranti: secondo le ultime rilevazioni FdI triplicherebbe la Lega a Roma (20 a 7%), la doppierebbe in Calabria (16 a 8%) e i due partiti sarebbero appaiati intorno al 10-11% a Milano e Napoli. Il sorpasso nel capoluogo lombardo, spinto dalla candidatura di Vittorio Feltri con Giorgia Meloni, sarebbe una batosta pesante per Salvini, perché Milano è la sua città natale e considerata un luogo simbolo del Carroccio. Per questo ieri pomeriggio Salvini ha convocato la segreteria federale e ha dato la sveglia ai suoi: “Bisogna fare una campagna pancia a terra a Roma, Milano e Napoli – ha detto – io farò 80 comizi in un mese”. Ma l’isolamento e le sberle ricevute negli ultimi giorni stanno portando Salvini ad aprire sempre nuovi fronti nel governo: l’abolizione del Reddito di cittadinanza, gli attacchi alla ministra Lamorgese sugli sbarchi, la battaglia su Quota 100 e l’appoggio a Roberto Cingolani sul ritorno al nucleare. Un modo per mettere pressione su Draghi. “Ma così Salvini spara a salve – attacca un ministro – perché non può permettersi di lasciare l’esecutivo con tutti i soldi del Pnrr”.

Il primo test arriverà oggi sul voto alla Camera. Ieri la Lega ha chiesto in una riunione di maggioranza di non mettere la fiducia ma allo stesso tempo ha deciso di non ritirare i 5 emendamenti che chiedono di eliminare l’obbligo del pass per gli under 12, di introdurre i test salivari e il risarcimento danni da vaccino. Che, se aggiunti ai 10 di FdI, potrebbero mettere in crisi la maggioranza nei voti segreti. Draghi deciderà se mettere o meno la fiducia ma se non lo farà la norma passerà con il voto della Lega. Poi arriverà il decreto per estendere il pass: la cabina di regia non è stata ancora convocata e potrebbe slittare alla prossima settimana. Ma, nel giorno in cui Roberto Speranza annuncia la terza dose da fine settembre e l’estensione “a breve” del pass, il governo vuole introdurre l’obbligo del certificato per i lavoratori da ottobre, dando 15 giorni di tempo ai non vaccinati per fare la prima dose: riguarderà i dipendenti pubblici e quelli di ristoranti, bar, palestre e mezzi pubblici. Per questo ieri Draghi ha ricevuto a Palazzo Chigi il segretario della Cgil Maurizio Landini e in serata i sindacati hanno visto i vertici di Confindustria per parlare del tema. Ma la strada ormai è tracciata.

Quirinale a ore

Dopo Benigni al Festival di Venezia, anche il cantante Marco Mengoni al Salone del Mobile di Rho-Pero, forse influenzato dal clima di antiquariato e modernariato, ha chiesto a Mattarella di restare ancora un po’. Come nel 2013 con Re Giorgio I e poi II, è partita la rumba delle perorazioni al capo dello Stato perché accetti la rielezione. Non per 7 anni, come prevedrebbe quel testo desueto chiamato Costituzione, ma solo un po’, per tenere in caldo la poltrona a Sua Altezza Reale Mario I, che poi deciderà quando ascendere al Colle dopo avere spicciato le ultime faccende a Palazzo Chigi. Come se il Quirinale fosse un albergo a ore. Immaginate cosa pensano all’estero di un Paese che, su 950 parlamentari, non ne trova uno in grado di fare il presidente della Repubblica, cioè di dire quattro banalità a Capodanno (“vestitevi che fa freddo, mettetevi le galosce”), baciare bambini, tagliare nastri ed estrarre dal cilindro un banchiere o chi per lui nelle crisi più serie. Anzi, uno ce l’avremmo, ma purtroppo fa già il premier e, se trasloca, restiamo senza e non troviamo più nessuno in grado di guidare il governo, pur formato integralmente da Migliori.

Questa barzelletta fa ridere in Italia, figuriamoci fuori dalla cinta daziaria. Eppure è il mantra che salmodiano i giornaloni e seguiteranno a biascicarlo fino alla data di scadenza di Mattarella. I Costituenti, che avevano chiara la distinzione fra una Repubblica e una Monarchia (gli italiani avevano appena scelto la prima e salutato la seconda), assegnarono al capo dello Stato un mandato settennale per sganciarlo dalla logica maggioranza-opposizione e affinché l’interessato ne avesse abbastanza. Infatti nessun presidente pensò al bis fino a Napolitano, che ruppe la tradizione. E non, come ci fu raccontato, perché non c’erano alternative, ma proprio perché c’erano: Prodi e Rodotà, che però minacciavano un governo coi vincitori delle elezioni (M5S e Pd), anziché con gli sconfitti. Infatti i padroni del vapore imbalsamarono il loro santo patrono al Colle per propiziare il governo Letta, cioè l’ammucchiata fra Pd e sconfitti (FI e montiani), e tagliar fuori i vincitori. Ora i soliti noti ritentano l’audace colpo per tagliar fuori M5S e Meloni dal prossimo governo con un’ammucchiata ancor più vasta (ora c’è pure la Lega perché i partiti “affidabili” si sono ristretti un altro po’). Se Mattarella e i suoi fan pelosi vogliono provarci, liberissimi. Ma ci risparmino le balle tipo “non ci sono alternative”, “ce lo chiede l’Europa” e “il presidente è costretto al bis”. Le alternative sono almeno 950. In Europa, quando scade un presidente, se ne fa un altro. E nessun presidente può essere costretto al bis: se non vuole, lo dice chiaro e il Parlamento elegge un altro.

Non tutto il carcere viene per nuocere

La possibilità di un carcere, ovvero “un film sull’assurdità del carcere”. Ischitano, classe 1958, studi etno-antropologici in carnet, autore dei lungometraggi di finzione L’intervallo (2012) e L’intrusa (2017), nonché dei documentari Prove di Stato (1999) e A scuola (2003), Leonardo Di Costanzo riflette da sempre sulla reclusione, la prigionia, ovvero la messa in cattività di un essere umano da parte di un altro. Lo ha fatto in direzione ostinata e contraria con il bellissimo L’intervallo, dove il giovanissimo Salvatore era chiamato dai clan a sorvegliare la coetanea Veronica in un “gioco” di camorra ospitato in uno stabile fatiscente, multiforme e, forse, liberatorio; lo ha ribadito nel ribaltamento di premesse e promesse de L’intrusa, che altri non è che Maria, giovanissima moglie di un killer che trova riparo con i due figli nel centro La Masseria, oasi di pace nella Napoli criminale.

Fuori concorso alla 78. Mostra di Venezia e dal 14 ottobre in sala con Vision Distribution, Ariaferma stavolta dà alla reclusione la sua forma più tradizionale, il penitenziario, ma Di Costanzo non ha smesso di stupire. “Non è un film sulle condizioni delle carceri italiane”, bensì l’approdo artistico dello straniamento avvertito dal regista e dai collaboratori dopo gli incontri negli istituti con agenti, direzione e detenuti: “Facile si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento”.

La contenzione dello spazio e l’asservimento del tempo vogliono – è l’espediente drammaturgico e il guadagno poetico di Di Costanzo – il sovvertimento dell’azione. Il vecchio carcere ottocentesco di Mortana, che nella realtà non esiste ma sintetizza i sopralluoghi del regista, è in dismissione, allorché un impasse burocratico costringe una dozzina di detenuti e altrettanti agenti penitenziari a rimanere lì, in attesa di nuove comunicazioni e nuove destinazioni. L’imprevisto cambia i piani, la sospensione insinua nuove relazioni, tra secondini e prigionieri la convivenza rasenta la convivialità. Due gli alfieri: l’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) e il detenuto Carmine Lagioia (Silvio Orlando). Tra Servillo e Orlando, che condividono per la prima volta il set, è gara di bravura senza exploit, sostenuta con rigore morale e parsimonia di mezzi espressivi; tra Gaetano e Carmine lotta per la supremazia che saprà votarsi alla mediazione, scendere al compromesso: il bene comune passa dalla cucina, dopo uno sciopero della fame a rischio rivolta, il cibo precotto viene sostituito dai manicaretti di Carmine, che si presta di buon grado alla rivoluzione ai fornelli. Guardia e galeotto, pretendono falsamente, “non hanno nulla in comune”, però molto da spartire: lo scontro votato al potere cede al confronto istruito dalla comune umanità, i gradi di separazione diventano di speranza, e il primo beneficiario è l’ennesimo giovanissimo del cinema di Di Costanzo, Fantaccini (Pietro Giuliano), uno che pare più vittima che carnefice, ultimo tra gli ultimi.

Ariaferma non respira ottimismo inconsulto né concertazione un tanto al chilo, piuttosto mette alla prova la realtà, esplodendo i condizionamenti, le coercizioni e i paradossi del regime carcerario: si può, si deve privare un essere umano della libertà? Non ci sono diretti rimandi alla cronaca, i misfatti di Santa Maria Capua Vetere non abitano qui, però il finzionale carcere di Mortana non conosce infingimenti, non apparecchia un idilliaco e pernicioso volemose bene: per un Gargiulo che concede c’è un Coletti (Fabrizio Ferracane) che non transige né mangia il cibo preparato dai detenuti; per un Lagioia che accomuna c’è un Bertoni (Antonio Buil) che non accetta di sedere vicino a un infame. Nondimeno, è un film resistente, giacché non si risolve ad accettare la realtà, ma prova a forzarla, a scassarla e scassinarla: è l’effrazione del dispositivo il senso di Di Costanzo per la reclusione tout court e insieme per il prison movie, di cui Ariaferma è nei fatti umanissima antitesi.

“Girato a Sassari, tra due ‘bolle’: la gabbia del penitenziario e il lockdown che ci chiudeva ogni sera, tutti insieme, in un hotel”, il film segna la terza collaborazione tra Leonardo Di Costanzo e il produttore di tempesta Carlo Cresto-Dina, che osserva: “Un carcere, che potrebbe essere ovunque in Italia o nel mondo, una situazione bloccata che congela tutto in un’attesa dove ogni gesto, anche piccolo, diventa una riflessione sulla colpa, sulla pena, sullo scandalo della prigionia”.