Rischi. Giovedì si riunisce la Bce: i falchi premono, ma è importante non ripetere gli errori di 10 anni fa

Il Consiglio della Bce che si terrà giovedì sarà il primo in dieci anni a svolgersi con un’inflazione al 3%. Dieci anni fa, al fine di contrastare le pressioni inflazionistiche, la banca centrale guidata da Jean- Claude Trichet decise a distanza di pochi mesi un doppio rialzo dei tassi. Col senno di poi rimane una delle peggiori decisioni di politica monetaria della storia, che in piena fuga di capitali dalla periferia dell’Eurozona alimentò la crisi dell’euro e pose le basi per tutta la bassa inflazione che è seguita.

Nella riunione di giovedì non si discuterà di tassi, probabilmente non si discuterà nemmeno di tempistica nel ritiro del Pepp, il programma di acquisti lanciato per fronteggiare la pandemia. Il ritiro anticipato rimane del tutto improbabile e, stando alle parole del governatore francese Villeroy, ancora prematuro. I dati sull’inflazione diffusi la settimana scorsa sono andati però oltre le attese e questo rafforza la posizione con la quale i falchi olandese, austriaco e tedesco in particolar modo, si presenteranno in Consiglio. La loro impostazione, emersa dalle recenti dichiarazioni, è che si debba iniziare, già da settembre, a ridurre l’ammontare degli acquisti. L’economia sta andando meglio di quanto previsto a giugno, l’inflazione è sopra al target e le condizioni di finanziamento si mantengono favorevoli, si rafforza così l’idea che si arrivi ad una riduzione a 60 miliardi di acquisti mensili, contro gli 80 compiuti nella media dell’ultimo trimestre. Anche un moderato come il vice presidente spagnolo Luis De Guindos ha dichiarato che “se le cose inizieranno a tornare alla normalità, come sta avvenendo, le misure straordinarie dovranno essere gradualmente ritirate”. Sebbene siano ancora premature delle decisioni definitive, insomma, lo stato dell’economia fa presumere che il programma pandemico terminerà senza proroghe alla scadenza fissata del marzo 2022: così fosse, il Pepp terminerebbe senza aver utilizzato tutti i 1850 miliardi che erano stati assegnati. Al ritmo di 60 miliardi al mese nell’ultimo trimestre dell’anno e di 40 nel primo trimestre del prossimo, la BCE arriverà ad impiegarne circa 150 in meno di quanto assegnato, che per l’Italia vuol dire 25 miliardi in meno.

Al momento questa ipotesi si è riflessa solo parzialmente sui rendimenti dei titoli di Stato, che sono sì aumentati ma solo marginalmente. D’altronde se l’economia tira aumenteranno anche le entrate e ci sarà minor bisogno di ricorrere al deficit. Sarà però interessante valutare come la Bce saprà resistere alle più insistenti pressioni dei falchi se, come probabile, l’inflazione si manterrà ancora sopra al target per alcuni mesi, complice l’impatto depressivo sui prezzi che ha avuto la seconda ondata del virus nell’autunno/inverno del 2020.

In realtà quel che conta è l’appropriatezza della politica monetaria, cioè quanto essa rimanga coerente con lo stato dell’economia e con le forze che la guidano. L’inflazione è ancora vista come transitoria e rimarrà sotto al target nel 2022 e 2023, l’economia dell’Eurozona recupererà solo nel primo trimestre del prossimo anno il livello pre-pandemia, sacche di disoccupazione sono ancora da riassorbire: è importante che la Bce sappia evitare di ripetere gli sbagli di dieci anni fa.

 

Il futuro del trasporto aereo: e se i droni diventassero taxi?

Abbiamo visto nel precedente articolo come probabilmente saranno in futuro i trasporti terresti. Vediamo adesso quelli marittimi e aerei. Il trasporto marittimo di gran lunga più rilevanti sono i trasporti merci e in particolare quelli via container. Quella scatola di lamiera corrugata ha rivoluzionato l’equilibrio commerciale del mondo riducendo drasticamente i costi del trasporto merci intercontinentale, riduzione che ha creato anche una spettacolare crescita di domanda, che, circolarmente, ha determinato la crescita delle dimensioni delle navi, che hanno ulteriormente ridotto i costi.

La conseguenza è stata il “gigantismo navale”, che ha raggiunto la incredibile soglia dei 24.000 TEU (Twenty Feet Equivalent, cioè i container “piccoli”, da 6 metri, anche se oggi la maggioranza è lunga 40 piedi, cioè 12 metri). Queste dimensioni non potranno crescere in futuro, per ragioni di fondali dei porti, spazi di manovra, canali ecc.. La propulsione, oggi diesel, potrà passare a carburanti più “verdi”, mentre sembrano precluse altre vie più fantasiose (vele rotanti, o sotto forma di “gliders”, o andature semiplananti, una sorta di alta velocita marina). Per il trasporto passeggeri dominano le navi da crociera e anche qui il gigantismo probabilmente ha raggiunto limiti insuperabili, resta solo la propulsione da rendere più “pulita”.

Molta innovazione sembra invece possibile nel trasporto aereo. Iniziamo da quello sulle brevi distanze. Quello individuale è un sogno tecnologico mancato: gli architetti degli anni 30, che avevano visto sia la motorizzazione di massa, che l’avvento dei primi aerei, immaginavano città del futuro con elicotteri e aerei individuali che dominavano i cieli. Il sogno si rivelò possibile solo per minoranze di gente ad alto reddito, per il costo proibitivo di aerei individuali da turismo sicuri, che comunque richiedono aeroporti con piste di lunghezza adeguata (gli elicotteri costano ancora di più).

Lo scenario ha iniziato negli ultimi anni a movimentarsi con l’avvento dei droni pilotati a distanza, prima ad uso militare e con motori tradizionali, poi come giocattoli o strumenti di sorveglianza aerea, con propulsione elettrica: adesso grandi case automobilistiche, di software, di batterie e piccole ma agguerrite start-up stanno investendo in modo massiccio su droni per il trasporto persone. Il motivo è che, al contrario delle strade, i corridoi aerei possono essere gestiti in modo sicuro, senza altri tipi di traffico non prevedibile. Inoltre la propulsione elettrica è silenziosa e, grazie alla “pressione” a favore delle e-car, tutti prevedono rapidi progressi nel settore delle batterie. I primi esperimenti di servizi di taxi con pilota a bordo sono già previsti, ma si pensa che la tecnologia militare di pilotaggio “in remoto” emigrerà anche al settore civile. E più lontano sullo sfondo potrà ripresentarsi il sogno di un veicolo aereo individuale, silenzioso, sicuro, non inquinante, che decolla e atterra verticalmente.

Anche per le lunghe distanze e per il trasporto di massa sono in vista possibili innovazioni importanti, anche se alcune più incerte. Qui per ridurre le emissioni non si potrà contare, se non parzialmente, sulle batterie per via del peso di quelle necessarie a muovere grandi velivoli su lunghe distanze. Poiché tuttavia la massima energia deve essere erogata al decollo, saranno forse possibili aerei ibridi, che usano motori tradizionali in quella fase e propulsione elettrica in crociera. Per inciso, i tentativi di produrre carburanti “verdi” a costi competitivi sembrano essere in stallo, se non per l’idrogeno, che tuttavia può essere usato solo ad altissime pressioni.

Altre innovazioni importanti sono possibili sui velivoli, cui qui possiamo solo accennare: ali “deformabili”, cioè con parti mobili incorporate che generano meno resistenza, aspirazione dello strato-limite (troppo complicato da riassumere), unione di ali e piani di coda “a rombo” per poterle alleggerire (“ala iperstatica”). Anche qui il gigantismo sembra esaurito col modello Airbus 380 da 600 passeggeri, recentemente uscito di produzione per i troppi problemi di movimentare negli aeroporti simili folle di gente. Anche il ritorno del volo supersonico, dopo il fallimento del Concorde, sembra allontanarsi per ragioni ambientali (consumi altissimi) e un “salto tecnologico” non è alle viste. A meno che di nuovo Elon Musk, l’inventore della Tesla, non continui ad abbassare i costi dei voli suborbitali con propulsione a razzo (sono già un decimo di quelli del progetto Apollo grazie al riuso sistematico dei veicoli di lancio, ma la strada è lunga assai). E noi in Italia? Non ci siamo e non ci saremo nel futuro dei trasporti: quasi tutto il Pnnr punta su infrastrutture tradizionali con contenuti innovativi nulli…

2. Fine

Ita nascerà morta: ve lo spieghiamo coi dati di mercato

La nuova compagnia aerea del contribuente italiano, detta “Ita”, non ha alcuna prospettiva di successo industriale, ma si appresta a decollare egualmente il prossimo 15 ottobre per una scelta ostinata dei nostri decisori pubblici. Essi non hanno avuto infatti né il coraggio di porre definitivamente termine a 74 anni di compagnia di bandiera, di cui gli ultimi 23 di perdite ininterrotte, né quello di progettarne un rilancio adeguato, ponendosi in conflitto con la Direzione Concorrenza dell’Ue sino a ottenere il via libera sulle caratteristiche indispensabili, in primo luogo dimensionali, per rendere economicamente sostenibile il vettore nel nostro complesso mercato. Partirà così una compagnia mignon, dalle dimensioni di vettore regionale che mal si sposano con ambizioni di vettore globale, con una flotta di soli 52 aerei di cui il mercato è destinato a non accorgersi se si considera che in epoca pre-Covid erano necessari in media d’anno circa mille aerei per coprire tutta la domanda di trasporto del nostro paese. La flotta prevista è meno della metà di quella utilizzata da Alitalia in amministrazione straordinaria prima della pandemia e in essa gli aerei di lungo raggio, il segmento chiave di ogni vettore network, sono solo 7 contro i 26 utilizzati negli scorsi anni dai commissari straordinari, dunque meno di un terzo.

Se da un punto di vista dimensionale i numeri sono sconfortanti, le altre caratteristiche del vettore non sono da meno. La nuova compagnia nasce infatti dallo spezzatino, ma sarebbe meglio definire vivisezione, della vecchia Alitalia. Nasce infatti senza poter usare il marchio, che sarà messo all’asta dai commissari, e senza i servizi autoprodotti relativi alle manutenzioni e all’handling, che saranno oggetto di vendite separate. E nasce persino senza personale, che non transiterà dalla vecchia Alitalia assieme al ramo d’azienda aviation, come si è sempre fatto in passaggi di questo tipo, compreso quello del 2008 tra l’Alitalia pubblica e i “capitani coraggiosi”. I dipendenti saranno selezionati da zero tra tutti coloro che faranno domanda su un sito appositamente aperto, ove anche i comandanti più anziani dovranno depositare il loro CV a fianco dei 18enni al primo impiego: in totale i dipendenti saranno solo 2.800, quasi 8 mila in meno di quelli di Alitalia. Per essi i sindacati hanno chiesto la cassa integrazione straordinaria per quattro anni, una soluzione costosa il cui impatto sulla finanza pubblica, tra i maggiori esborsi dello strumento e le minori entrate contributive, è stimabile in circa 2 miliardi di euro.

Siamo pertanto di fronte a un disastro sociale, con tre quarti dei dipendenti della vecchia Alitalia che non troveranno posto nella nuova azienda, e a un disastro economico, dato che i 2 miliardi prima stimati si aggiungono agli oltre 2 di oneri pubblici già sostenuti durante gli oltre quattro anni di amministrazione straordinaria e ai 3 stanziati per la nuova azienda, per un conto totale che si aggira sui 7 miliardi, oltre il doppio dei costi pubblici sostenuti con la decisione del governo Berlusconi nel 2008 di affidare la cloche aziendale ai capitani italiani al posto del vettore franco-olandese.

Ma quali sono in dettaglio le prospettive industriali del nuovo vettore? A quale competizione andrà incontro dopo il suo decollo nei diversi segmenti di mercato in cui opererà? Nella vecchia Alitalia era il lungo raggio intercontinentale a generare i maggiori ricavi, oltre la metà di quelli totali. È anche l’unico segmento nel quale prima del Covid i grandi vettori europei di bandiera riuscivano a guadagnare. ITA volerà tuttavia solo con sette velivoli di lungo raggio contro i 26 pilotati dai commissari di Alitalia prima della pandemia. Su 21 milioni di passeggeri totali del segmento la sua quota era del 13%, con ITA è destinata a ridursi sotto il 4% quando il mercato sarà tornato ai livelli pre-Covid.

Il secondo segmento più importante di Alitalia, per la quota che vi deteneva, era quello dei voli nazionali. Nel 2019 il 37% dei passeggeri domestici volava con Alitalia mentre nel 2022 più della metà di essi non potrà farlo, perché ITA non avrà aerei e voli sufficienti per prenderli a bordo. La previsione è che la quota di ITA scenda sotto il 20%, più probabilmente al 17%, e che i vettori low cost salgano all’80% del mercato domestico con Ryanair attorno al 50%. Già nel 2019 il vettore irlandese ha trasportato il doppio dei passeggeri totali di Alitalia volando a meno della metà, circa il 40%, dei suoi costi. Se anche ITA potesse ridurre i costi unitari del 20% essi resteranno comunque doppi di quelli di Ryanair, con conseguenze nel medio termine che è facile immaginare.

Infine vi è il segmento infra europeo, già in passato dominato dalle low cost: meno di 7 passeggeri ogni 100 vi volavano con Alitalia nel 2019 e la previsione è che scenderanno a 3 con ITA nel 2022. In pratica decollerà un vettore irrilevante su tutti i segmenti di mercato tranne quello domestico, sul quale tuttavia si scontrerà direttamente con dei pesi massimi dal punto di vista del vantaggio di costo e della quota di mercato che già detengono.

Difficilmente ITA potrà ambire al medesimo risultato di Davide contro il gigante Golia, mentre con certezza il suo tentativo comporterà un costo pubblico aggiuntivo di 5 miliardi rispetto ai 2 già spesi a causa della cattiva gestione dell’Alitalia privata negli anni precedenti il 2018. Ma se ITA non serve a trasportare passeggeri in quote rilevanti, non serve ad alimentare il turismo estero nelle nostre città, non serve a conservare occupazione nel settore e non serve a risparmiare soldi pubblici ma solo a spenderne di più, allora a cosa serve veramente? E perché il governo in carica la difende in maniera ancora più intensa di quanto non fece re Leonida col passo delle Termopili?

Al Tesoro un conto da 10 mld per regalare il Monte a Unicredit

Come sempre capita nei disastri bancari italiani, il vero conto per lo Stato lo si vedrà più avanti. Fatto sta che i giochi intorno al Monte dei Paschi di Siena si vanno definendo: la più antica banca del mondo, o meglio quel che ne resta che abbia valore, finirà a Unicredit nonostante alcuni nodi, e non da poco, siano ancora da sciogliere. In ogni caso la scadenza del 9 settembre non sarà rispettata: ci sarà una proroga e l’annuncio arriverà dopo il 4 ottobre, cioè dopo le elezioni suppletive di Siena, per evitare figuracce al segretario del Pd, Enrico Letta, che si batte per il seggio parlamentare lasciato libero dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, l’uomo che dopo aver nazionalizzato il Monte tre anni fa si fece poi eleggere deputato a Siena per il Pd e ha infine salutato i suoi 50 mila elettori per andare a presiedere proprio Unicredit. Posizione dalla quale deve ora convincere il Governo italiano che la banca per cui ha speso 5,4 miliardi (oggi valgono 700 milioni) gli va regalata e pure con una cospicua dote pubblica.

Polverizzando il concetto di “porte girevoli”, al Tesoro sono gli uomini di Padoan a gestire la partita. Il direttore generale Alessandro Rivera – che lui stesso portò ai vertici del ministero ai tempi del governo Renzi – è il vero negoziatore, l’amministratore delegato di fatto di Mps.

Il quadro, come detto, è delineato. Le condizioni le ha imposte l’ad di Unicredit Andrea Orcel: si prenderà solo gli asset che non hanno impatti negativi sul capitale. Gli attivi di Mps ammontano a circa 90 miliardi, ma – se va bene – poco più della metà andrà a Unicredit: Orcel ha chiesto i crediti garantiti dal Tesoro in base ai decreti liquidità per far fronte alla crisi Covid, circa 10 miliardi, più mutui e crediti collateralizzati considerati più sicuri. Mps ha 80 miliardi di prestiti in bonis ma non tutti passeranno di mano. Una parte, pur formalmente non deteriorata, è a rischio di diventarlo perché riguarda imprese operanti in settori in difficoltà (turismo, ristorazione, etc.). Sono i cosiddetti crediti “stage 2”: quasi 15 miliardi, di cui circa un decimo statisticamente finisce per andare in sofferenza. Unicredit non li vuole o ne rileverà solo una parte al termine della due diligence avviata ormai un mese fa. Altri circa 15 miliardi, tra crediti deteriorati e a rischio finiranno ad Amco, la bad bank pubblica del Tesoro.

Resta da capire che fine faranno le altre attività. Una parte – 150 sportelli al Sud – verrà rilevata dal Medio Credito Centrale (Mcc), la controllata di Invitalia che due anni fa ha salvato Popolare di Bari: la banca guidata da Bernardo Mattarella – nel giro dei papabili per succedere a Domenico Arcuri quando scadrà il suo mandato – per accollarsi le filiali avrà bisogno di un aumento di capitale, soldi che arriveranno sempre dal Tesoro. Da Mcc fanno sapere che solo gli sportelli verranno rilevati, ma si parla anche di uno “spezzatino” del consorzio informatico del Montepaschi, che Unicredit non vuol prendere, se non in minima parte, così come Mps Capital Services, che si occupa di grandi imprese.

Lo “spezzatino” senese comporterà tra i 5 e i 7 mila esuberi, i cui costi saranno a carico del Tesoro, azionista con il 64% del Monte: altri 1-1,2 miliardi. Poi c’è l’aumento di capitale che dovrà rafforzare patrimonialmente Mps prima di consegnarne la polpa a Unicredit. Orcel vorrebbe che fosse di 3 miliardi, cifra che farebbe salire il conto per lo Stato e potrebbe far storcere il naso all’Antitrust Ue.

L’ultimo nodo riguarda il contenzioso legale. La lunga crisi e i guai contabili hanno lasciato in pancia a Siena cause per 10 miliardi, di cui 6 a rischio soccombenza. Il Tesoro studia come liberare la banca da questa zavorra e ipotizza di chiudere quelle più a rischio con transazioni in azioni Mps. Gli ex investitori e soci del Monte, oggi in causa, si potrebbero così trovare azionisti di Unicredit, mossa che però ridurrebbe la quota che il Tesoro andrà a detenere nel capitale della banca guidata da Orcel (dal 10 al 5%, senza però diritti di voto).

Per poter sfruttare i 3 miliardi di crediti fiscali garantiti per una legge approvata col governo Conte 2, Unicredit dovrà procedere a una fusione con Mps: il marchio rimarrà alla banca milanese, ma non è chiaro che fine farà (visto che Orcel lo considera un disvalore) al netto delle rivendicazioni di quel che resta del mondo senese che sulla banca ha campato per anni. A conti fatti, il conto per lo Stato salirà attorno ai 10 miliardi. L’ultimo grande falò senese, in attesa che la lunga via crucis bancaria italiana faccia tappa altrove.

Da Siena alle garanzie di Stato: Amco fa fruttare le “sofferenze”

La scopa del sistema (bancario). È il ruolo di Amco, la società di recupero crediti del ministero delle Finanze in grado di acquistare, digerire e trasformare in incassi – e utili – le sofferenze (i crediti ormai inesigibili di aziende insolventi) e le inadempienze probabili (i crediti di clienti incamminati verso l’insolvenza). L’ex Società gestione attivi (Sga) deve assicurarsi grandi masse da lavorare per mantenere le proprie economie di scala. Le dimensioni contano: in base ai dati al 30 giugno 2020, è sesta per masse in Italia tra gli operatori attivi nei crediti non performing e seconda per quanto riguarda le inadempienze probabili (unlikely to pay, Utp) e i crediti scaduti (past due). L’ex bad bank sorta nell’89 per gestire 36mila posizioni creditizie a rischio che gravavano per 6,4 miliardi di euro sui conti del Banco di Napoli, poi passata al SanPaolo Imi e da questi a Intesa Sanpaolo che nel 2016 l’ha ceduta al Mef, ha una storia di successi: ha recuperato il 90% dei crediti che acquisì da BancoNapoli al 70% del loro valore, tanto che a fine 2015 contava su 469 milioni cash e 214 milioni di crediti residui. Oggi ha chiesto l’accesso al dataroom di Mps per giocare un ruolo nel piano di cessione a UniCredit della banca di Siena. Conti che Amco d’altronde già conosce bene: di Siena è parte correlata perché entrambe sono controllate dal Tesoro. Ma si prepara a giocare da protagonista anche nello scenario post-pandemico.

Dopo anni di calo, con la recessione dovuta al Covid la marea dei crediti malati sta per tornare a salire in Italia. Il 2020 ha visto cessioni di crediti a rischio dalle banche per un valore lordo totale di 40 miliardi. Così lo stock di incagli che gravano sul settore è calato da 135 a 99 miliardi (-27%) . Per la prima volta, le sofferenze (47 miliardi a fine 2020) sono state superate dalle inadempienze probabili (49). Il processo di deleveraging è proseguito anche nei primi sei mesi di quest’anno, con operazioni per 2 miliardi, ma in calo dai 6 dello stesso periodo del 2020. A frenare le cessioni sono le garanzie e moratorie pubbliche, che ritardano l’emersione di incagli e sofferenze: i crediti assistiti sono ancora 83 miliardi, di cui 64 a carico di piccole e medie imprese. Ma le moratorie, che scadranno a fine anno, sono volontarie e valgono solo per la quota capitale, mentre incombono le nuove regole europee che ne prevedono la verifica e la copertura con tempi certi nei bilanci delle banche. Così si prevede che nei prossimi due anni e mezzo emergeranno tra 80 e 100 miliardi di nuovi crediti a rischio.

Amco si candida a gestire questa nuova ondata in un mercato sempre più competitivo, tra tassi di recupero in calo e prezzi di cessione dei crediti deteriorati notevolmente aumentati. L’operatore pubblico ha infatti esperienza sia nel recupero delle sofferenze che, soprattutto, nella possibilità di erogare direttamente fondi per consentire continuità e rilancio di imprese con inadempienze probabili e crediti scaduti. A un aumento di capitale da 1 miliardo nel 2019 e bond già emessi per 2,8 miliardi ha affiancato un piano per emettere obbligazioni per altri 6 miliardi. D’altronde nel 2018 ha acquisito in gestione due portafogli da 16,7 miliardi di 90 mila debitori delle liquidazioni del 25 giugno 2017 di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Le acquisizioni sono poi proseguite con portafogli di crediti targati Banca del Fucino, Credito Sportivo, Carige, con la creazione della prima piattaforma di crediti a rischio immobiliari, da Creval (447 milioni lordi totali in più tranche), Carige (281 milioni totali), poi ancora Fucino, Banca Igea, Banco Bpm (600 milioni), Popolare di Bari (2 miliardi), operazioni immobiliari e cartolarizzazioni varie da sola e insieme a terzi. Il salto è arrivato a fine 2020 con il compendio da 7,7 miliardi di crediti deteriorati acquisito da Mps.

Oggi così Amco gestisce 34 miliardi di crediti dubbi lordi con circa 230 mila controparti, 45 mila delle quali sono imprese, per lo più piccole e medie. Il 58% sono sofferenze, il 42% inadempienze probabili. Il 74% sono gestiti in house da 287 dipendenti a Milano, Napoli, Vicenza, 88 dei quali provenienti da Mps, il resto in outsourcing. Il 2020 si è chiuso in utile per 76 milioni, in crescita dell’80% sul 2019 grazie al contenimento delle spese (il rapporto costi/ricavi è calato dal 45,9% del 2019 al 25,8%), anche grazie al raddoppio dei ricavi per il boom delle masse gestite. Ora il piano al 2025 della ad Marina Natale prevede di mantenere i 30 miliardi di masse tramite nuove acquisizioni. La società è vigilata da Banca d’Italia, Corte dei Conti e Direzione Concorrenza della Commissione Ue che mira a scoprire e bloccare eventuali aiuti di Stato.

In sostanza, Amco compra crediti dubbi a prezzi di mercato e poi cerca di incassarli, evitando però di mandare in fallimento le imprese debitrici che hanno qualche possibilità di risollevarsi. Lo fa attraverso l’analisi delle garanzie e l’ottimizzazione dei recuperi attraverso modelli matematici e negoziazioni. Qualche incidente di percorso non è mancato: la relazione della Corte dei Conti sul bilancio 2019 segnala la mancata erogazione di due corsi di formazione finanziati da fondi inter-professionali a consulenti esterni con costi non corrispondenti alle prestazioni ricevute. Le irregolarità sono state sanate con provvedimenti disciplinari e l’azione di contrasto è stata valutata positivamente dalla magistratura contabile.

Sempre la Corte dei Conti segnala che, a 4 anni e 3 mesi dalla liquidazione di Vicenza e Veneto Banca, Bankitalia non ha ancora varato le regole per favorire il recupero delle “operazioni baciate”: crediti a rischio per 1,8 miliardi finanziati dalla banche venete stesse per sostenere surrettiziamente il patrimonio, attraverso l’acquisto di azioni o obbligazioni subordinate proprie. Nel 2019 Amco ha comunque lavorato 855 delle 900 posizioni “baciate” totali per un valore lordo di 1,6 miliardi, incassando però appena 14 milioni.

Da inizio anno è operativa una nuova divisione immobiliare e, da aprile, Amco fornisce garanzie su cartolarizzazioni sintetiche. Ora la società controllata dal Tesoro lavora alla due diligence di Mps per valutarne i crediti deteriorati classificati “stage 2”. Sono le esposizioni con il rischio più elevato di deterioramento, anche se al momento risultano ancora “in bonis”. La valutazione dei crediti “stage 2” sarebbe legata ad alcune clausole sulla retrocedibilità dei crediti di Mps che potrebbero essere acquistati da UniCredit, se si dovessero deteriorare rapidamente dopo la cessione. Si tratta dello stesso percorso di garanzia ottenuto nel 2017 da Intesa Sanpaolo su PopVicenza e Veneto Banca.

Come scrive Amco nei suoi bilanci, nel contratto con il quale a giugno 2017 acquisì per 2 euro la parte “in bonis” delle due banche venete, Intesa si riservò il diritto di retrocedere ad Amco, tra il 26 giugno 2017 e la data di approvazione del suo bilancio al 31 dicembre 2020, i crediti delle due banche venete originariamente “in bonis” che in seguito fossero riclassificati “ad alto rischio”. Intesa ha esercitato questa facoltà sette volte: tre nel 2018 , due nel 2019 e due ad aprile e giugno 2020. Nell’operazione sul Monte, ora UniCredit vuole insomma che il Mef le conceda lo stesso trattamento di favore erogato alla sua concorrente.

Se sul fronte di Mps fonti finanziarie fanno sapere che per Amco le ipotesi sono ancora tutte sul tavolo, la bad bank si sta però muovendo rapidamente sul progetto Glam: vuol gestire lo stock di 148 miliardi di finanziamenti “in bonis” garantiti dal Medio Credito Centrale attraverso il Fondo Pmi. Amco avrebbe presentato alle banche diverse ipotesi in ottica win-win: gli istituti potrebbero deconsolidare dai propri bilanci i crediti garantiti, riducendone i costi relativi all’assorbimento di capitale e Amco si garantirebbe un enorme flusso di masse da gestire anche per i prossimi anni. La “scopa del sistema” fa progetti a lungo termine per assicurarsi il futuro.

Giordania. Tra i giovani spopola il mito di Saddam

Dagli adesivi sui paraurti alle cover per gli smartphone e persino sulle mascherine per proteggersi dal coronavirus, l’immagine dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein è dappertutto in Giordania, specie ad Amman. Nonostante il suo terribile record di violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità, il defunto leader baathista – giustiziato nel 2006 dopo l’invasione statunitense dell’Iraq – è ricordato con affetto da molti giordani per i suoi ideali nazionalisti arabi e per la sua percepita resistenza all’interferenza occidentale in Medio Oriente. Fa breccia l’immagine dell’eroe arabo che si oppone agli Stati Uniti e a Israele, e Saddam come icona ha surclassato in Giordania quella del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, l’eroe per eccellenza nella gran parte dei cuori arabi.

Alla richiesta di una spiegazione, la maggior parte dei giordani attribuisce la popolarità di Saddam al suo sostegno alla causa palestinese, che includeva pagamenti alle famiglie delle persone uccise da Israele, oltre al finanziamento di borse di studio per studenti palestinesi e giordani per studiare in Iraq. Altri citano i generosi sussidi economici di Baghdad alla Giordania durante l’era di Saddam, che includevano la fornitura di petrolio a tassi agevolati o gratis. Nonostante sia stato deposto nel 2003, Saddam è così popolare tra i membri della tribù giordana Al Nawaysa che tutti i loro figli maschi nati nel 2010 portano il nome del dittatore iracheno.

Come la maggior parte degli Stati arabi, la Giordania sostenne l’Iraq nella sua guerra contro l’Iran negli anni ‘80, e si schierò con Saddam dopo l’invasione del Kuwait nel 1990, una rarità tra i Paesi arabi, che si opposero all’occupazione e si unirono alla Coalizione guidata dagli Usa per cacciare gli iracheni. Nel decennio successivo le relazioni tra i due stati si sono raffreddate. La Giordania ha concesso delle basi alle forze speciali Usa sul suo territorio durante l’invasione dell’Iraq nel 2003 e – nonostante i sentimenti avversi della popolazione – la presenza militare americana nel regno hashemita è ancora molto evidente.

 

Afghanistan, dopo 20 anni tra Usa e Talib ha vinto Doha

Come era prevedibile, nella risoluzione Onu adottata lunedì dal Consiglio di sicurezza non figura la proposta di Emmanuel Macron di instaurare una “safe zone” a Kabul. Il documento si limita a ribadire gli “impegni” presi dai talebani, di garantire cioè la partenza “sicura e ordinata” di tutti gli afghani che desiderano lasciare il paese. Riafferma poi “l’importanza del rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle donne, dei bambini e delle minoranze” e chiede che il territorio afghano non venga utilizzato per “minacciare o attaccare” altri paesi o per dare rifugio ai “terroristi”. Nel momento, o quasi, in cui la risoluzione veniva votata, il generale Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aviotrasportata e ultimo soldato statunitense a lasciare il suolo afghano, imbarcava a bordo di un aereo cargo C-17 della Us Air Force all’aeroporto di Kabul, mettendo fine, senza gloria né pace, a 20 anni di presenza militare statunitense.

Prima del decollo degli ultimi C-17, i militari americani avevano distrutto aerei, veicoli blindati, armi e munizioni. Qualche giorno prima, i diplomatici avevano a loro volta distrutto pile di documenti dell’ambasciata Usa e trasferito tutte le attività a Doha. Il Qatar sembra intenzionato a conservare il ruolo di principale tramite tra i nuovi padroni dell’Afghanistan e il resto del mondo. È proprio a Doha che una delegazione diplomatica francese guidata da François Richier, ambasciatore di Francia a Kabul dal 2016 al 2018, ha incontrato un paio di settimane fa una delegazione afghana guidata da Shir Abbas Stanikzai, vicedirettore dell’ufficio politico dei talebani. In una sua recente intervista a TF1, in diretta da Baghdad, Macron ha preso atto dell’impegno diplomatico dell’Emirato, sottolineando “il ruolo particolare che il Qatar sta svolgendo da diversi mesi” nel “dialogo iniziato con i talebani”. Il che è vero solo a metà. Non sono mesi, infatti, ma anni, e ben dieci, che l’Emirato svolge un ruolo di primo piano nella diplomazia talebana. Il ministero degli Esteri avrebbe forse dimenticato di informarne l’Eliseo? È poco probabile. La direzione per l’Africa del nord-Medio Oriente (Anmo) del ministero francese segue da vicino i movimenti del Qatar, legato alla Francia da solide relazioni politiche, economiche, culturali e militari.

Il Qatar è alleato di Parigi nella lotta al terrorismo e ha acquistato alla Francia 36 aerei da combattimento Rafale, fabbricati dal gruppo Dassault. Abituato a leggere in modo troppo rapido, e a volte superficiale, i documenti che gli vengono trasmessi, Macron, accusato da alcuni diplomatici a New York di aver svenduto il progetto di “safe zone”, avrebbe sottovalutato la natura e la longevità delle relazioni tra il Qatar e i talebani? Una leggerezza deplorevole, dal momento che queste relazioni hanno svolto un ruolo determinante nella crisi afghana e nella sua evoluzione. “Accettando nel 2013 l’apertura a Doha di un ufficio di rappresentanza politica dei talebani, con il via libera – e forse anche su suggerimento – degli Stati Uniti, il Qatar ha offerto al movimento afghano un ‘indirizzo diplomatico’ ufficiale che ha facilitato i contatti con gli emissari americani e l’apertura dei negoziati con il regime di Kabul”, spiega Lakhdar Brahimi, ex ministro algerino degli Esteri e ex rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan dal 2001 al 2005. Gli americani “che intendevano inviare in Qatar i responsabili talebani rilasciati da Guantanamo per sbarazzarsi di loro senza perderli completamente di vista – continua il diplomatico –, hanno persino accettato di far designare la rappresentanza di Doha come “ufficio dell’Emirato islamico d’Afghanistan”.

Il presidente afghano Hamid Karzai, più favorevole ad aprire l’ufficio in Arabia Saudita o in Turchia, non ha potuto cedere a Washington. È così che l’ufficio di Doha è diventato uno strumento capitale negli scambi diplomatici tra Washington e i talebani, soprattutto quando l’amministrazione Trump ha cominciato a negoziare il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e ha voluto incontrare interlocutori credibili nell’opposizione armata”. In cambio di questo aiuto diplomatico, logistico e finanziario fornito ai talebani, Doha sperava di imporsi strategicamente come mediatore nelle crisi regionali. I dirigenti dell’Emirato, accusati di essere segretamente alleati dell’Iran, di sostenere i Fratelli musulmani nei paesi dove invece le popolazioni in rivolta aspirano a una transizione democratica, e accusati a volte di finanziare il terrorismo con i loro petrodollari, speravano in questo modo di convincere gli Stati Uniti e l’Europa della loro abilità ad agire sulla scena internazionale. Intendevano anche presentarsi come promotori della pace, del diritto internazionale e del multilateralismo. “Con tutti i soldi che ha il Qatar pensava di potersi sedere, almeno una volta ogni tanto, al tavolo delle grandi potenze – osserva un diplomatico arabo – e bisogna riconoscere che, nella sua strategia, finora è stato bravo”. Quando nel 2017 è scoppiata la “crisi del Golfo”, che ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita, Emirati, i loro alleati e il Qatar, diventato d’un tratto uno Stato paria, Doha ha fatto subito in modo di mettersi a disposizione dell’amministrazione Trump, alleata di Riad e Abu Dhabi, ma in cerca di una soluzione per uscire dalla trappola afghana. Forse si aspettava in cambio un intervento di Trump, amico di Mohammed Ben Salman, principe ereditario d’Arabia Saudita, e di Mohammed Ben Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi, per allentare le sanzioni che pesano sulla sua economia. Abili e potenti negoziatori, anche grazie agli enormi introiti generati dalla esportazione di gas, i diplomatici del Qatar sono riusciti persino a convincere i talebani della neutralità dell’Emirato, anche se a Al-Udeid si trova la più grande base militare statunitense della regione. È quindi a Doha, mentre i talebani avanzavano di settimana in settimana, che, nel febbraio 2020, è stato firmato un accordo che prevedeva il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, delle garanzie di sicurezza da parte dei talebani e l’apertura di un dialogo inter-afghano.

Un successo diplomatico per l’emiro del Qatar, Tamim Ben Hamad Al Thani, e per il suo ministro degli Esteri, Mohamed Al Thani. Ma il trasferimento del potere in Afghanistan non si è fatto politicamente come Doha sperava. I talebani, appoggiati da Cina e Russia, hanno continuato a avanzare militarmente. Nel gennaio 2021, quando Joe Biden è entrato alla Casa Bianca, era evidente che l’esercito afghano, formato dagli Usa, che doveva “resistere ai talebani per più di un anno”, non avrebbe resistito neanche sei mesi. Due mesi dopo, Biden ha dovuto ammettere che la data prevista per il ritiro delle forze Usa dall’accordo di Doha – il primo maggio – non poteva essere rispettata ed è stato obbligato a fissarne un’altra: la fine dell’estate, prima del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre. È stato il primo spettacolare fallimento per Biden. Per il Qat ar il bilancio è ancora incerto. “Se i talebani si rivelano brutali e crudeli come quando erano al potere, dal 1996 al 2001, e tornano ad accogliere i gruppi jihadisti, Doha pagherà un prezzo politico molto alto per averli aiutati – analizza una fonte vicina al dossier -. Non dimenticheremo, allora, che è su un aereo dell’aeronautica del Qatar che il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due dei talebani, è rientrato a Kabul. Ma se il Qatar vince la sua scommessa e aiuta l’Afghanistan dei talebani a diventare uno Stato aperto al commercio internazionale, pure se guidato dalla sharia, come lo è stato in passato l’Arabia Saudita, chi potrà criticarlo? Non certo gli attuali alleati e partner diplomatici di Riad. Potrà inoltre vantarsi di aver tirato fuori l’Afghanistan da vent’anni di guerra rispettando il diritto internazionale, permettendo ai nemici di sedersi tutti intorno allo stesso tavolo. È una sfida rischiosa. Ma c’è forse qualcuno che ha fatto proposte alternative?”.

 

Da una lingua all’altra. Il mestiere di tradurre di Renata Colorni: tra psicoanalisi e letteratura

Il piccolo libro “Il mestiere dell’ombra “ che Renata Colorni ha pubblicato con Henry Beyle, nel 2020 e nel marzo 2021, è una rivelazione. Anzi un sovrapporsi di rivelazioni, ciascuna autonoma e trasparente, ciascuna con un racconto autonomo, che l’autrice compone come un oggetto perfetto. È una scrittura che ha la dimensione della biografia, la narrazione della materia, la storia del già detto e già scritto, gli incontri con le persone che sono state parte o presenza dell’avventura.

Il racconto della Colorni è questo: dov’è, come si riconosce il guado per transitare dal mondo di una lingua a un’altra, da un testo all’altro, da una cultura a un’altra? Colorni sosta sul suo versante famigliare, la lingua tedesca, e nel farlo, nel raccontarlo, in compagnia della madre e della sua vita giovane, ci dà intanto una notizia importante. La scrittura lieve e benevola delle sue pagine copre un modo fermo e deciso di affrontare le missioni che le vengono affidate.

Quando il suo racconto comincia, Renata Colorni si è già affacciata su spazi vasti e nitidi della cultura ed è un’analista raffinata e accorta di molte idee e di molto sapere. Ma le viene riservato (come se fosse un compenso per la qualità del suo sapere le cose ) un duplice compito che è come abbracciare una vocazione. La frequentazione di Freud. E il lavoro sulla psicanalisi. In Il mestiere dell’ombra alcune pagine su Freud e la sua scienza sono tra le più belle (scrittura e interpretazione) che si possano trovare nei commentari del personaggio amato e studiato in questo libro.

Ma dove, come entra il mestiere (o la vocazione) della traduzione in questa “storia di Freud” e di coloro che la guidano a Freud, narrata da Colorni ? Ci sono due momenti essenziali in due versanti di questo libro. Entriamo, come abbiamo detto, nella vicenda insieme alla madre di Renata Colorni, inflessibile voce della lingua tedesca nella famiglia italiana dell’autrice. Colorni ce lo racconta come nei libri di memorie borghesi si elencano case e tesoretti messi da parte per questo o quel figlio. Renata Colorni si è impossessata della lingua della madre, che l’ha spinta, anzi legata alla sua avventura. “Proprio dalla lettura di un libro immensamente avventuroso e perturbante (L’interpretazione dei Sogni di Freud, ndr) è nata in me la passione per il pensiero psicanalitico e, nello stesso tempo, per la traduzione letteraria”.

Ma l’autrice non si abbandona alla superiorità dell’altra lingua. Chiede a Leopardi di dire a chi legge alcune parole essenziali dal versante italiano. Leopardi si presta. “L’originalità della nostra lingua (ch’è marcatisima) non deve soffrire applicandola a qualsivoglia stile o materia. Il pregio della lingua italiana consiste in ciò che la sua indole , senza perdersi, può adattarsi a ogni sorta di stile”. E così comincia una storia della traduzione nella cultura del nostro tempo che resterà a lungo “maestosamente sola”.

 

Il mestiere dell’ombra Renata Colorni – Pagine: 104 – Prezzo: 35 – Editore: Henry Beyle

Benigni & la costituzione: È la più bella del mondo proviamo a rispettarla?

 

PROMOSSI

Stiamo sereni. Serena Rossi è stata criticata per l’eccessivo pathos con cui ha recitato il discorso alla festa del cinema di Venezia (è la madrina). “Per essere bella è bella. E anche elegante e il bianco le dona. Ma Serena Rossi presenta la cerimonia d’inaugurazione della settantottesima Mostra del Cinema di Venezia come se recitasse Lady Macbeth, scena madre. Presenta giuria, film, presidente della Repubblica che finalmente accenna un sorriso, tutto con un pathos da dramma incombente e ineludibile”, così la Stampa. Noi l’abbiamo vista e ne abbiamo dedotto una semplice constatazione: era emozionata. Succede.

BOCCIATI

Una parola troppa e due sono poche. Non si può dire porca puttena, ma porca puttana forse sì. O forse no. Sta di fatto che il Moige – movimento dei genitori italiani (a cui nostra mamma per fortuna non ha mai aderito) si è risentito per uno spot di Tim, in cui Lino Banfi (nonno Libero!, di nome ma forse non di fatto) pronuncia l’imprecazione suddetta. Giustamente lui ha dichiarato: “Sono quarant’anni che dico questo tormentone, non è una novità per me. L’hanno detto anche i giocatori agli Europei”. E quest’ultima circostanza ha probabilmente indotto l’azienda a chiamare l’attore pugliese. Siccome poi è stata messa in onda una versione diversa della pubblicità in questione, in cui l’espressione incriminata (riferimento al film del 1984 “L’allenatore nel pallone”) non era presente, il suddetto Moige ha dichiarato la vittoria della censura, travestita da “vittoria dei diritti dei minori”. Perché, secondo il movimento dei Catoni, dopo la loro denuncia “all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e al Comitato Tv Minori” (mecojo), la pubblicità era stata modificata. Peccato che Tim abbia replicato con una nota spiegando che “non risulta nessun provvedimento del Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria o del Comitato Media e Minori e che pertanto non vi è stata nessuna censura. La diffusione degli spot previsti a supporto dell’offerta calcio sta proseguendo secondo quanto pianificato lo scorso luglio”. Grazie al cielo. E comunque, genitori, fate un controllino al cellulare dei vostri rampolli: dopo “porca puttena” vi sembrerà una preghierina della sera.

La vita è bella (ma anche la Carta). Roberto Benigni, a Venezia per il premio alla carriera, ha commosso la platea parlando della moglie. “Un pensiero alla mia attrice prediletta, Nicoletta Braschi, alla quale non posso nemmeno dedicare questo premio perché è suo: è tuo, ti appartiene. Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni. Produzioni, interpretazioni. Ma come si fa a misurare il tempo in film? Io conosco solo una maniera per misurare il tempo: con te o senza di te. Ce lo possiamo dividere: io prendo la coda, il resto è tuo. Le ali, soprattutto, perché se qualcosa ha preso il volo nel lavoro che ho fatto è grazie a te. È stato proprio un amore a prima vista, tra noi, anzi a ultima vista. O meglio, a eterna vista”. Lovvissimo. Però poi si è lanciato anche in un invito rivolto al Capo dello Stato, che attraversa il suo semestre bianco con folle di gente che lo tira per la giacca (ma non era maleducato?). “Presidente Mattarella rimanga con noi ancora un po’, almeno fino alla prossima Mostra del Cinema, rimanga con noi magari fino ai Mondiali di Calcio in Qatar, perché porta fortuna, porta bene. Deve rimanere, deve rimanere presidente qualche anno in più”. Ora, Benigni ha letto la Costituzione per gli italiani nel 2012 (c’era Monti, forse non è un caso), in una fortunatissima trasmissione “La più bella del mondo”. Poi, quattro anni dopo, si è detto favorevole al referendum Renzi-Boschi che ne sfigurava un terzo. Robè, urge rilettura senza interpretazioni (sì, sì: lo sappiamo che la rielezione del Presidente non è vietata. Ma abbiamo letto gli atti della Costituente).

Populismo “à la carte”: ora Salvini deve scegliere tra goliardia e quirinale

 

BOCCIATI

Carne o pesce? Le contraddizioni in cui incespica la Lega di Matteo Salvini da quando ha scelto di mostrarsi “responsabile” e prendere parte al governo Draghi, senza riuscire però a elaborare il lutto del partito verace e militante d’opposizione, sono uno degli argomenti preferiti da molti commentatori. Un’efficace istantanea del labirinto di senso in cui si è cacciato il Segretario del Carroccio l’ha scattata Gianfranco Rotondi, arguto dispensatore di ritratti social, maestro nell’arte di girar coltelli nelle piaghe: “Già, la Meloni. È lei l’ombra di Banco che turba le notti insonni del Capitano: Salvini ha divorato il primato berlusconiano, facendosi addirittura alleato del fondatore del centrodestra, ma adesso il timore è che l’ombra del vecchio Pdl torni col volto agguerrito della bella Giorgia, già in corsia di sorpasso sul rivale leghista. Ecco allora che si prova la rimonta con la Lega di lotta e di governo: draghiana sì, ma appena appena, il tempo che super Mario se ne vada al Quirinale e lasci il posto a Salvini. E poi c’è l’immigrazione, infallibile viagra per le prestazioni elettorali leghiste, dunque la colpa è della Lamorgese e dei suoi primati negativi sugli sbarchi”.Insomma un potpourri d’incongruenze, che rischia di vedere una Lega né carne né pesce, perdere consensi sia tra gli amanti del pesce che tra quelli della carne. Forse converrebbe decidersi: meglio una bella bistecca alla griglia rinunciando all’orata al forno, oppure vada per l’orata che per la bistecca ci sarà tempo. E se lo dice una vecchia volpe della politica come Rotondi, c’è decisamente da fidarsi.

Voto 6

 

Elementare Watson Esistono modi e modi per affrontare un discorso. Vero è che quando su un tema, molti, cosiddetti, opinion leader si esercitano a giocare a chi la spara più grossa, tutto appare lecito. Così, senza troppi scrupoli, senza lasciarsi rallentare dalle complessità dei distinguo, Flavio Briatore ha sparato ancora una volta a zero sul reddito di cittadinanza: “In Italia c’è il problema del Reddito di cittadinanza, non c’è alcun giovane che ha voglia di lavorare durante la stagione estiva”. Eh sì, non pochi, non abbastanza, nemmeno parecchi, no no proprio non esistono eccezioni: non c’è alcun giovane, nemmeno uno, che abbia voglia di fare qualcosa. E la quantità è sistemata, crepi l’avarizia. Subito a seguire arriva la qualità: “E non è vero che si offrono contratti bassi, il governo doveva sospendere il reddito da maggio a ottobre, dare la possibilità ai giovani di fare la stagione e poi riprendeva a ottobre. Lo Stato risparmiava e magari c’è qualcuno che trovava lavoro per tutto l’anno”. Insomma inutile esercitarsi in tutte queste difese d’ufficio, o constatazioni di realtà che dir si voglia, basate sull’assunto che sia l’inadeguatezza dei salari a scoraggiare i ragazzi dalla ricerca di un’occupazione: quando mai! Secondo Briatore, quella tentazione del diavolo che è un sussidio da 500 euro è capace di scoraggiare chiunque dal desiderio di trovarsi un lavoro. Persino quando lo stipendio può valere quattro volte tanto (“Un ragazzo che lavora al Twiga ha uno stipendio minimo di 1.800 o 1.900 euro al mese”, Briatore dixit). Una generazione talmente pigra da non saper nemmeno più far di conto. Elementare no? Talmente elementare che lo capirebbe perfino Watson.

NC