Club imprudenti. Juventus e Barcellona imparino da Perez del Real Madrid

Colpo di scena: era tutto un inganno. Un raggiro perpetrato ai danni dei due ingenui compari dalla più astuta e cinica mente del Trio Lescano del Pianeta Pallone, il trio composto da Florentino Perez (Real Madrid), Joan Laporta (Barcellona) e Andrea Agnelli (Juventus), i tre presidenti che ancora oggi, a progetto-Superlega morto e sepolto, continuano nella loro battaglia scissionistica manco fossero Hiroo Onoda, il militare giapponese che 30 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale ancora vagava nella giungla dell’isola filippina di Lubang ignaro che la guerra fosse conclusa. E invece no. Che la guerra per la Superlega sia passata in cavalleria è perfettamente chiaro agli occhi del boss madridista Florentino Perez; ma il sospetto è che Perez continui a tenere all’oscuro della cosa i due soci creduloni per far sì, come già sta avvenendo, che portino alla definitiva rovina i loro club. Se il Barcellona diventa un Malaga qualsiasi e la Juventus una Sampdoria (con tutto il rispetto per Malaga e Sampdoria), per il Real è una cuccagna: lo è in patria, dove i blancos possono tornare a dominare incontrastati, e in Europa, dove la concorrenza si assottiglia limitandosi a Bayern, PSG e ai club inglesi.

Domanda: se nel corso dell’ultimo mercato il Barcellona, dopo aver regalato un anno fa Suarez all’Atletico Madrid, è stato costretto a liberarsi della zavorra Griezmann (36 milioni lordi di stipendio) e a perdere a zero nientemeno che Messi, l’uomo che ha incarnato l’epopea d’oro del club, volato alla corte dello sceicco di Parigi; e se nel corso dell’ultimo mercato la Juventus è stata costretta a liberarsi di Ronaldo, finito a Manchester con minusvalenza di 14 milioni annessa, il campione che ha costretto Exor a operare aumenti di capitale per 820 milioni in tre anni e a ricorrere a un “bond CR7” da 175 (totale: un miliardo meno 5 milioni); se tutto questo è successo, con la Juventus costretta a ingaggiare Locatelli concordando col Sassuolo due anni di prestito biennale a zero euro e un pagamento rateizzato a partire dal 3° anno, e con il Barcellona che può iscrivere al campionato i nuovi acquisti Aguero e Depay solo perchè Piquè, Busquets e Jordi Alba accettano di ridursi gli stipendi della metà, come si spiega che il Real Madrid abbia potuto offrire fino all’ultimo giorno 200 milioni al PSG per acquistare Mbappè, che tra l’altro da gennaio sarà acquistabile a zero? La verità è che Perez, a differenza di Laporta e Agnelli, non s’è messo le fette di prosciutto sugli occhi: e nelle ultime due stagioni, quelle costellate anche dalla piaga Covid, invece di spendere e spandere come i confratelli (la Juve, per dire, ha ingaggiato Chiesa, Kulusevski, Arthur, McKennie, Morata), non ha operato alcun acquisto, ha chiesto e ottenuto dai giocatori una riduzione del 10% degli ingaggi e ha chiuso il bilancio 20-21 con un attivo (avete letto bene: attivo) di 874 mila euro a dispetto di entrate diminuite, come per tutti, da 715 milioni a 653. Ha poi convinto Laporta a boicottare l’accordo Liga-Fondi CVC che hanno portato soldi a tutti i club spagnoli (“Li avessero accettati, avrebbero potuto tenersi Messi”, ha commentato Tebas, presidente della Liga) dopo aver suggerito ad Agnelli di fare lo stesso per l’accordo Fondi-Lega Serie A che avrebbe comportato la rinuncia alla Superlega. “Ci arricchiremo di più col nostro super torneo”, lo convinse. Infatti. Ora Barça e Juventus sono rimasti in mutande. Il Real invece è a caccia di Haaland e Mbappè. Così è.

 

Genova multietnica. La città più meticcia del nord ha il suo festival di cultura africana

In piazza Caricamento a Genova, ai primi di novembre del 2008, ci fu una grande euforia. Barak Obama era appena stato eletto presidente degli Stati Uniti. Nel grande brulichio del primo mattino accanto al Porto antico era tutto un chiamarsi “Obama” tra gli africani genovesi. E così i baristi e i commercianti locali chiamavano i loro ospiti di colore.

Non è dunque un caso se quell’area meticcia e scintillante della città è la stessa in cui si tiene quella originalissima manifestazione genovese che è il Suq Festival. Un appuntamento annuale inventato nel 1999 da due donne con storie di eventi e di teatro: Carla Peirolero e Valentina Arcuri. Retto fondamentalmente da donne. Tagliato su misura per la città del Nord più aperta per definizione. L’idea di ospitare insieme poesia, musica, teatro, letteratura del continente africano (ma non solo), usando il nome simbolo dello scambio: il mercato.

Carla è una signora colta e tenace. Un passato nel teatro genovese e maestri prestigiosi, ha aperto con il fiato sospeso questa nuova edizione, la ventitreesima, vent’anni dopo il G8, a cui è stato dedicato un appuntamento speciale. Una vera sfida: il primo rilancio delle pubbliche arti dopo la gelata del lockdown, rinunciando agli assembramenti e alle promiscuità che costituivano una delle ragioni di fascino del festival. Sfida vinta grazie a diversi successi importanti. Energia e inventiva pura negli spettacoli per bambini, che hanno ospitato tra l’altro una deliziosa pièce sulla città africana (nel caso Marrakesch) raccontata da un suo abitante attraverso polveri colorate e parole e musiche cariche di ironia. Giuro che studiare le espressioni dei bambini e le fatiche delle loro maestre è stata una esperienza di pace interiore per il vostro corrispondente. Ma il successo maggiore è stato forse lo spettacolo (splendido) sul razzismo. Una attrice-danzatrice, Bintou Ouattara, vorticosa nel suo monologo, musiche evocatrici di mondi lontani e battute fulminanti: “il razzismo è come il pulviscolo nell’atmosfera; non si vede ma un certo punto un raggio lo illumina”; “sui libri di storia si legge che un giorno un signore di nome Martin Luther King tenne un bellissimo discorso davanti a centinaia di migliaia di persone e il razzismo finì”. Per tacere del monologo musicato improvvisato da Mohamed Ba, grande attore senegalese.

Carla Peirolero scruta il pubblico, in mezzo ai tavoli delle cucine etniche. Soddisfatta ma inquieta. Sta andando bene. “Potrebbe essere un grandioso appuntamento per Genova. Ma funziona al di sotto delle sue possibilità. Il budget messo insieme faticosamente è di 140 mila euro. Qualche esperto ha visto il programma di quest’anno e lo ha stimato sulle 500. Non abbiamo una sede, anche se ci abbiamo provato a presentare dei progetti su luoghi pubblici, proponendo il principio dell’autosufficienza gestionale. Credo che conti anche un po’ di pregiudizio. Inconscio naturalmente. Forse se facessimo un festival della ceramica giapponese saremmo più appoggiati. Eppure siamo una risorsa per la città. Pensi che ormai facciamo da agenzia di intermediazione per i contatti con i popoli africani o del Medio Oriente. Enti o associazioni chiedono a noi di aiutarli a trovare ora un intellettuale palestinese, ora un esponente dell’associazionismo afghano.

Il ricordo più bello? Fu una decina d’anni fa, con la giornata della donna immigrata. C’erano donne di ogni nazionalità: Ucraina, Ghana, Nigeria, Iran, Ecuador, Indonesia, Marocco, Perù…Tutte vestite a festa, come se la stessa vita desse spettacolo. Una folla enorme. Il prefetto regalò a tutte una piantina di basilico e tutte diedero in cambio scialli o oggetti artistici delle loro tradizioni.” Poi lo sguardo che cerca complicità: “Lì sta il significato vero del Suq festival. E oggi più che mai, con l’aria che tira, occorrerebbe valorizzarlo. O no?”.

 

Negligenza medica. “In vacanza a Lampedusa ho avuto un aborto e nessuno mi ha aiutato”

 

Abbandonata su un’isola senza ospedale nel 2021

Cara Selvaggia, sto leggendo i tuoi articoli di denuncia sulla Sicilia e oggi vorrei rac8contarti la mia storia. Una storia magari come tante, magari no (spero), ma la mia storia, che mi ha segnato, mi ha insegnato e mi ha fatto capire ancora di più come raccontare e “denunciare” spesso non sia solo un bisogno ma un vero e proprio dovere.

Parto, anzi partiamo io, il mio compagno e una “nuova” vita dentro di me, per le vacanze verso l’isola di Lampedusa. Come potrai immaginare, la nostra felicità è estrema, prima gravidanza, prima vacanza in “tre”, prima di tante cose e emozioni. Va tutto bene, fino a quando una mattina mi sveglio e qualcosa non va, potrebbe essere qualcosa di grave, ma forse non voglio ancora pensarci, non è ancora detto e ho bisogno di una persona qualificata che sia in grado di rassicurarmi, o nella peggiore delle ipotesi, di prendersi cura di me. Ho bisogno di un medico. A Lampedusa non c’è ospedale, da quanto mi hanno detto gli abitanti locali non ci sono abbastanza persone che ci vivono fisse tutto l’anno da giustificarne legalmente l’esistenza (nemmeno in un periodo estivo nel quale arrivano milioni di turisti? Sempre a detta dei locali, turisti che non “risultano” a causa di “affitti/strutture” non dichiarati). A Lampedusa c’è un poliambulatorio. Lì ci arrivo la mattina stessa, nel panico totale, e ad accogliermi ci sono due signore che non capisco se sono infermiere o donne delle pulizie, avevano la divisa delle prime ma svolgevano compiti delle seconde. Mi dicono che il ginecologo sull’isola c’è solo dal martedì al giovedì, e ovviamente quel giorno è venerdì. Mi chiamano la dottoressa di turno, che scende dopo dieci minuti almeno di attesa, senza mascherina o altra precauzione (poi ho capito che la mancanza della mascherina era la minore tra le sue mancanze) che mi chiede cosa stesse succedendo e me lo fa raccontare, tra le lacrime, nella sala d’aspetto e davanti ovviamente a un uomo, un perfetto sconosciuto, che capisce il mio disagio e abbassa lo sguardo come a dirmi “tranquilla non sento”. Spiego quanto mi sta accadendo, le chiedo se possiamo “entrare” nella sala visite e lì si prende cura di me. Senza provarmi pressione, valori base ecc, ma disegnandomi su un pezzo di carta cosa succede quando una donna sta avendo un aborto. Chiaramente quella parola era l’ultima che volevo sentire, ma per lei è così (purtroppo capirò poi che aveva ragione) e non le serve indagare oltre. O meglio, mi spiega che sull’ isola c è un ginecologo privato ma è in ferie e non gli va l’ecografo, mentre al poliambulatorio l’ecografo c’è e funziona, ma nessuno sa usarlo, lei compresa. Mi dicono di chiamare direttamente il ginecologo che “magari sente la tua voce, si crea più legame, si mette una mano sul cuore e viene a visitarti”. Professionalità questa sconosciuta, empatia ancora meno. Io non so cosa significhi primo soccorso e primo supporto psicologico, ma quel giorno ho imparato tutto quello che non deve essere. La dottoressa invece mi ha insegnato una cosa “se hai un tumore e se sei incinta a Lampedusa non ci devi venire. Qui l’unico specialista è l’elisoccorso”, testuali parole. Sono uscita in lacrime da lì senza risposte, ancora più nel panico di quando sono entrata, e ho prenotato il primo aereo per Milano, per casa, per un pronto soccorso che sapesse “curarmi” e “rassicurarmi”. Ho aspettato sull’isola una notte prima di imbarcarmi, la più lunga di sempre. È davvero possibile che accada questo in Italia e nel 2021?

V.

 

Cara V.,

c’è un pezzo d’Italia che il paese ha lasciato indietro e di cui tanti italiani si accorgono solo quando vanno in vacanza. I turisti, quest’anno, hanno parlato dei problemi del sud più di quanto abbiano fatto il giornalismo e la politica negli ultimi tempi. Chissà che “il turismo d’inchiesta” non diventi il vero salvagente per le regioni d’Italia in cui perfino abortire diventa un lusso da concedersi solo se il ginecologo non è in ferie..

 

 

“I virologi sul red carpet non fanno onore alla scienza”

Cara Selvaggia, ho visto le immagini del dottor Burioni sul red carpet a Venezia. Mi chiedo perché un signore che si occupa di scienza e che ha accompagnato gli italiani in questo difficile cammino che è la pandemia, senta l’esigenza di cercare riflettori che in fondo si sono accesi “grazie” alla pandemia. La sensazione è che questi professori (vedi anche Bassetti affamato di fama) non abbiano ben chiaro che queste loro incursioni nello showbiz danno l’impressione di una gloria ottenuta attraverso lutti e disgrazie. Una gloria che invece sarebbe da onorare con sobrietà e rispetto. Tu che ne pensi?

Marcello

 

Caro Marcello,

pur distinguendo le due figure umane e professionali citate (Bassetti e Burioni), confesso di non apprezzare a prescindere quelle che tu chiami “incursioni nello showbiz” da parte di virologi e studiosi vari. La notorietà, per gli scienziati, doveva essere un effetto secondario della pandemia. Per alcuni è stato la cura per una patologia diffusissima: il narcisismo.

 

 

Il libro di ZanGay, la doppia morale di Salvini: “Ho visto un leghista omofobo baciare un uomo”

Quanti sono i parlamentari italiani che vivono segretamente la loro omosessualità? È una domanda che ricorre ciclicamente. Il primo a dare una risposta, lustri orsono, fu Franco Grillini, storico pioniere a sinistra dei diritti civili.

Disse Grillini nel 2009, nell’indimenticabile stagione a luci rosse dell’etero B.: “In Parlamento i gay non dichiarati sono la maggioranza, soprattutto nel centrodestra”. Adesso il quesito ritorna nel libro di Alessandro Zan, il deputato padovano del Pd che ha dato il nome al ddl contro misoginia, omotransfobia e abilismo. Il libro esce il 14 settembre e s’intitola Senza paura. La nostra battaglia contro l’odio. È una sorta di appassionata biografia-manifesto, che mescola l’intenso racconto personale di Zan sulla sua omosessualità con le incognite oscurantiste sul futuro dell’Italia, a causa della destra omofoba di Salvini & Meloni.

Una destra prigioniera della doppia morale di matrice clericale su sesso e famiglia tradizionale. Annota infatti Zan a proposito degli omosessuali in Parlamento: “Oggi in Italia, tra Camera e Senato, ci sono 945 parlamentari. Quelli apertamente gay e lesbiche sono quattro: Ivan Scalfarotto, Tommaso Cerno, Barbara Masini e io. È statisticamente impossibile che siamo solo noi quattro e io so per certo che ci sono parlamentari gay in Forza Italia e in Fratelli d’Italia”. Non solo. Rivela Zan, senza però farne il nome: “In vacanza a Mykonos ho incontrato un deputato della Lega, del quale mi ricordo cartelli particolarmene aggressivi contro la legge Zan. Stava baciando un uomo”. Ma la critica del deputato del Pd è appunto radicale e investe l’ipocrisia dei due leader sovranisti: Salvini divorziato, Meloni che convive con il compagno.

Il parametro è quello dell’Italia anni Cinquanta: “Se un padre di famiglia degli anni ’50 fosse trasportato da quell’Italia nel futuro e potesse dare un’occhiata dentro le case degli italiani del 2021, di famiglie tradizionali, secondo la sua idea, non ne troverebbe nessuna, e per fortuna. Sicuramente avrebbe da ridire anche con la vita privata dell’alfiere e della paladina di quell’idea di famiglia, cioè Matteo Salvini e Giorgia Meloni”. Insomma, è la prevalenza del Paese reale su quello politico e ideologico e che colora di ottimismo, nonostante tutto, il libro di Zan.

Dopo l’approvazione alla Camera nello scorso autunno, il ddl si è impantanato al Senato per il tradimento renziano di Italia Viva che ha fatto asse con Salvini. La battaglia riprenderà in questi giorni. Lo spazio è tiranno, purtroppo: ci sarebbe da scrivere sul rapporto di Zan con il papà Lamberto (leghista della prima ora) e sulla libertà scoperta a Sunderland, nell’Inghilterra del nord, grazie all’Erasmus. Ma rimaniamo agli avversari del ddl Zan. Oltre ai sovranisti e alle femministe transfobiche c’è ovviamente la Chiesa. E qui c’è un’altra rivelazione: il colloquio tra Zan e “un alto presule molto legato a papa Francesco”. Si tratta del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna?

 

Senza paura Alessandro Zan – Pagine: 160 – Prezzo: 16,90 – Editore: Piemme

Un sogno. Quando Proietti recitava Cyrano: la prima volta che sono andata in estasi

Ma cos’è l’estasi? Si fa un gran parlare di “andare in estasi” provando sensazioni esaltanti fino all’eccesso. Ma esattamente che cos’è? Prendo il mio Zingarelli , che sa tutto, e lo consulto… Estasi: stato psichico di svincolamento dalla realtà, di entusiasmo fanatico e di commozione, misto a un senso di rapimento e intenso piacere. Ieri per la prima volta in vita mia credo di essere andata in estasi. Ero a teatro a vedere Cyrano de Bergerac con il mio attore preferito: Gigi Proietti. Non l’avevo mai visto dal vivo.

Beh! Io non mi sono mai drogata in vita mia, ma è come se per tre ore fossi stata in un altro universo, in cui attenzione, passione e sensazioni, avessero raggiunto una potenza tale da rendermi più grande, più forte, e più fragile. Nel silenzio della sala mi sembrava di sentire i respiri, i battiti del cuore, i pensieri di tutti gli spettatori e sopra tutti quelli di “Giggi”, come lo chiama familiarmente il suo popolo. È la storia d’amore più bella che io abbia mai ascoltato, il Cyrano è un amore che resterà soltanto e per sempre un sogno.

Cyrano ha un grande naso, ma un’anima bella: “Maledetto naso che mi precede di un quarto d’ora”. E presta la sua vena poetica a Cristiano che invece è bello ma solo esteticamente, rinunciando così al suo amore per Rossana: “Ma in fondo che cos’è un bacio? Un apostrofo rosa messo tra le parole t’amo, un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio di un’ape tra le piante”. Mi identifico, mi trasformo, sento di avere la faccia di Gigi, vorrei recitare il monologo del naso “Il vostro naso è una montagna, un picco, un promontorio! Ma che dico, è una penisola”. Gigi lo fa con la naturalezza che ha del prodigioso.

In camerino gli ho stretto la mano, tremavo: “Scusa Gigi, ma sono in estasi!”. Lui mi ha sorriso. Un ragazzo gli ha detto: “Gigi è la decima volta che lo vedo” e lui: “Perché t’è piaciuto o perché non l’hai capito?”

 

Garavini e Rifondazione, l’altra sinistra (im)possibile

Domani fanno vent’anni dalla morte di Andrea Sergio Garavini che, tra molte altre cose, è stato anche mio padre. Sergio, come lo chiamavano i suoi compagni, ha partecipato alla resistenza a Torino e ne ha guidato la Camera del lavoro negli anni 50, gli “anni duri” della repressione padronale in Fiat. Allora il sindacato seppe reagire con un’analisi innovativa delle condizioni lavorative che costituì il retroterra culturale per la riscossa operaia degli anni 60, sfociata poi nel “sindacato dei consigli”. Nella Cgil è stato segretario dei tessili, segretario confederale, segretario dei metalmeccanici. È stato anche il leader sindacale più vicino all’ultimo Enrico Berlinguer, quello della “questione morale”, ma anche della lotta contro l’abbandono della “scala mobile”.

A lungo membro del comitato centrale e della direzione del Pci, appartenente alla variegata “sinistra” comunista, Sergio è stato anche il coordinatore del movimento per la Rifondazione comunista nato nel febbraio 1991, per divenirne il primo segretario nazionale quando questo si trasformò in partito. Senza pretesa di obiettività mi piace rievocarne scampoli di pensiero, anche perché proprio quest’anno è caduto il centenario della nascita del Partito comunista d’Italia, nonché il trentennale dello scioglimento del Pci.

Difficile incasellare Sergio nelle categorie del velleitarismo, del settarismo o, peggio, della nostalgia per l’Urss – il cui ruolo nell’Europa dell’Est criticò già all’indomani dell’invasione dell’Ungheria nel 1956. Con l’eccezione dei gruppi filosovietici legati ad Armando Cossutta che, pur preziosi in fase organizzativa, furono poco influenti sulla linea di Rifondazione, i (pochi) dirigenti che si impegnarono in Rifondazione provenivano semmai dal “comunismo libertario”. La loro proposta di trasformazione del Pci in una federazione fra varie anime, tra le quali una comunista in grado di esprimere una propria autonomia politica e culturale, fu respinta da Achille Occhetto e dal gruppo dirigente del nascente Pds.

I temi principali del gran rifiuto emergono piuttosto chiaramente nei discorsi e negli scritti di Sergio durante il cruciale biennio 1991-1992. Il primo riguarda la collocazione internazionale del nuovo partito (erede della più grande organizzazione politica di massa del mondo occidentale) e la sua identificazione con un Occidente unilaterale e militarizzato. A seguito della crisi del Kuwait e della partecipazione italiana alle operazioni militari contro Saddam Hussein, Sergio riteneva che gli scenari di un governo mondiale a carattere pacifico, evocati da Achille Occhetto, rappresentassero una fuga dalla realtà: “La guerra non è una parentesi che si apre e si chiude, ma una logica di dominio e di potenza da combattere democraticamente e pacificamente”. A vincere era invece la legge del più forte che bombardava gli ex alleati invasori del Kuwait, senza muovere un dito per i territori occupati palestinesi.

Il secondo tema riguardava il rifiuto della strategia della “concertazione sindacale” che portò alla sigla degli accordi tra governo e parti sociali del 1992 e ’93. L’analisi di Sergio era che l’attenzione al tema dei “diritti” e l’accettazione dell’abolizione della scala mobile fossero un salto nel buio, proprio mentre il capitalismo esprimeva la sua vocazione più selvaggia e le pressioni alla riduzione della spesa sociale si facevano più forti. I progressi tecnologici non certo miglioravano la situazione: “La tecnologia non marginalizza il lavoro e non lo libera ma aggrava lo sfruttamento perché si sostituisce alla sua componente di progetto”. Occorreva rafforzare il legame con i lavoratori e stimolarne il protagonismo piuttosto che accreditarsi con Palazzo Chigi, per esempio con leggi sulla rappresentanza sindacale e referendum sui contratti. Sergio denunciava la burocratizzazione dei confederali che sembravano delineare “un sindacato con una struttura forte all’esterno dei luoghi di lavoro – basti pensare ai ben più di 20mila funzionari nelle tre confederazioni – che tutela i lavoratori in un rapporto stretto con le istituzioni e le rappresentanze imprenditoriali”.

Il terzo tema di distanza dalla “svolta” che considerava di carattere liberale e “governista” era l’esigenza di mantenere viva una critica, non solo accademica, al sistema capitalistico. Una critica incarnata in Italia dal movimento comunista, il cui nome “implica una critica al sistema capitalistico, la contestazione di quello che siamo abituati a definire ‘compatibilità di sistema’ ”. Evocando la forza di un movimento che aveva già superato il completo isolamento nelle fabbriche nel 1955 (“eravamo una riserva indiana”), Sergio rifiutava le regole stabilizzatrici delineate dai parametri di Maastricht e la moderazione sindacale imposta da Confindustria, mentre riteneva necessario riaffermare le ragioni del “controllo sociale” sull’impresa.

Potevano sembrare idee minoritarie, eppure nelle prime elezioni Politiche del 1992, senza una struttura organizzativa, Rifondazione ottenne il 5,6% dei voti, un terzo di quelli della “macchina da guerra” del Pds. Dopo imponenti mobilitazioni di piazza, alle elezioni amministrative del giugno 1993, Rifondazione – candidando figure radicali ma unitarie – ottenne in qualche caso più voti del Pds (a Torino il 14,64% contro il 9,55%; a Milano l’11,36% contro l’8,81%). Sergio considerò Rifondazione pronta ad imbarcarsi in un percorso federativo, aprendo a sensibilità come quelle dell’ambientalismo (Verdi) e della legalità (Rete), per dar vita ad uno schieramento maggioritario nella sinistra italiana. Su questo progetto si trovò in minoranza e si dimise.

Il modo più scontato per ricordare il lascito di uomini politici è quello di sottolinearne la modernità. Un trentennio di militarismo e unilateralismo americano, accompagnato dalla sostanziale inesistenza di un contraltare europeo di carattere pacifico e cooperativo, un trentennio di declino dei salari reali (e aumento del precariato) con rendite e profitti messi al riparo dalla concertazione, un trentennio di incapacità della sinistra italiana di elaborare alternative all’inevitabile fallimento del capitalismo su ambiente e giustizia sociale, dovrebbe tornare a farci riflettere sullo scioglimento del Pci e sulla vocazione a farsi del male dei dirigenti post-comunisti (almeno per quelli che non si sono arricchiti).

L’insegnamento più importante di Sergio, parlo per me, resta quello di non fuggire mai l’analisi del mondo reale (“in un sistema capitalistico l’unica variabile indipendente è il profitto”), di non rifugiarsi sempre nell’idea nello Stato come soluzione di ogni problema, ma di mantenere vivo un orizzonte utopistico fatto di democrazia, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e di utenti alla gestione dei servizi.

Il pensiero critico degli Atenei è il vaccino contro il fascismo

“G li ambientalisti oltranzisti e radical chic sono peggio della catastrofe climatica» (il ministro Cingolani dixit) è una versione di “gli antifascisti sono peggio dei fascisti”: in entrambi i casi parla la pancia conservatrice di una classe dirigente italiana istintivamente nemica di ogni pensiero critico radicale, una ‘classe digerente’ che pensa di salvarsi da sola, senza democrazia, e addirittura senza più un pianeta.

Storicamente, la responsabilità di questi “migliori” è enorme: per esempio nell’affermazione del regime fascista: “Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina”. Sono parole di un discorso ufficiale di un rettore di una università italiana (dunque i rettori possono perfino essere antifascisti!): Concetto Marchesi, latinista e comunista, poi padre costituente e primo ideatore di quell’articolo 9 che fonda la Repubblica sulla cultura, sulla ricerca, sul patrimonio artistico e sull’ambiente. Era il discorso agli studenti con cui, nel 1943, Marchesi – magnifico rettore dell’Università di Padova – passava in clandestinità e si univa alla Resistenza, per combattere la scellerata Repubblica di Salò (nella quale affonda le sue sanguinanti radici il neofascismo attuale): “Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che – per la defezione di un vecchio complice – ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori … Studenti: … una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria. Traditi dalla frode, dalle violenze, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costruire il popolo italiano”.

Era il punto estremo cui fu costretta una generazione di intellettuali che da vent’anni costruiva strumenti culturali per resistere al fascismo. “Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo – aveva scritto Carlo Rosselli in Antifascismo perché, 12 gennaio 1925 – la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare”. Cultura, pensiero, ricerca non potevano esser divisi da un antifascismo che era la difesa delle ragioni stesse per essere colti, pensare, fare ricerca. Era una battaglia minoritaria, perché in Italia l’apologia della necessità dello stato attuale delle cose ha una lunga e solida tradizione. Carlo e Nello Rosselli prima ancora che antifascisti sono anticonformisti: esercitano una critica radicale del reale che affonda le radici nell’essenza stessa della cultura umanistica, e segnatamente in quella storica. La cultura come resistenza: la cultura come mezzo per comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista. “Prima di agire – racconterà Piero Calamandrei, padre costituente eletto col Partito d’Azione – bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, i Rosselli promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che dettero origine al Circolo di Cultura … ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale. Una breve introduzione di un relatore preparato che poneva il tema, poi una discussione animatissima, che spesso si protraeva per ore. In ogni riunione le idee si chiarivano, i propositi si rafforzavano”. Finché il 31 dicembre del 1924 “una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza Santa Trinita furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo”.

Se il fascismo iniziava la sua ascesa alla luce dei roghi dei libri, dopo la Liberazione fu con i libri che si provò a cancellare la vergogna del fascismo, quella per cui “l’Italia del Beccaria era potuta diventare un paese di carnefici e torturatori, l’Italia del Mazzini un paese di nazionalisti oppressori dell’altrui libertà, l’Italia del Manzoni un paese di sconci razzisti”. Sono ancora parole di Calamandrei. Anche lui era un rettore: e queste cose le disse nel solenne discorso ufficiale con cui riaprì l’Università di Firenze, il 15 settembre 1944.

Draghi torrone bianco, Conte mont blanc, a ognuno il suo dolce

Lasciata felicemente l’università e il lavoro da urbanista, Fabrizio Mangoni dedica ogni energia alle sue molteplici gastroscoperte. La più interessante delle quali, per lievi e giocherellone che possano sembrarvi, è la fisiognomica dolciaria.

“Il dolce, nella sua complessità, produce comparazioni poco arbitrarie e illustra il carattere di chi lo mangia: il suo alter ego. Il dolce si compone della pasta (è frolla? È dura? È fragile?), della crema (cioè l’anima, la passione, l’idea), infine della decorazione (come si presenta: timida? Aggressiva?). Elementi che riproducono, nella comparazione più credibile di quanto si creda, la personalità di ciascuno”.

L’uomo espresso in dolce. Qui è il punto.

Esattamente. Io dico che si può, e i risultati sono eccellenti.

Professore, allora procediamo e puntiamo subito al potere supremo. Mario Draghi chi è?

Un torrone bianco senza alcun dubbio. Il suo odore di santità, l’extra corpus della politica, ha la forza candida dello zucchero e del miele. Ma il torrone è all’apparenza candido. Non si scioglie, si fatica a spezzarlo. E il suo candore nasconde la ruvidezza dell’impasto. L’uomo è infatti ruvido, solo apparentemente candido. Dice le cattiverie con un mezzo sorriso.

E Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo?

Un mont blanc. Un dolce che posa su una base di meringa, struttura quasi evanescente, si gonfia e si sgretola. I cinquestelle sono la meringa, la base franosa di Conte. Su cui poggia però la pasta di castagna, con i suoi innumerevoli fili: è l’articolazione, ora seduttiva, in qualche caso inebriante, con cui Conte cerca di valorizzare la sua proposta politica che, spesso deve confrontarsi con un sano realismo (l’amaro del cioccolato che conclude la decorazione).

Resta da capire che fine fa Enrico Letta in pasticceria.

Kurtoskalacs. È un dolce ungherese, un cannolo verticale. La sua pasta non è croccante ma morbida e duttile, e la sua insolita posizione (il cannolo tradizionale è in orizzontale, come un proiettile che gonfia lo stomaco) illustra l’enigma. Sta fermo o si muove? È solo anima o anche cacciavite?

Un dolce leghista, un dolce populista.

Salvini è la torta di polenta. A Verona se ne fanno di buonissime. La collinetta dai declivi apparentemente morbidi, quindi zuccherosa. L’impasto di polenta addolcita e dentro, nel suo cuore nascosto, un po’ di arancia, o anche di cassata. La Lega è così. Prima il nord e poi nel nord ci infila il sud, le isole, quel che trova per strada, anche un po’ di fascistume. La polenta copre.

Renzi?

Una miroir. Mousse pannosa, dunque a forte e precoce rischio di inacidimento, con una coltre riflettente, a specchio. Guarda come sono figo, e come sono forte. La potenza della vanagloria e anche la sua dannzione.

Sergio Mattarella.

Il solito, tradizionale, onnipresente diplomatico. Dolce ben equilibrato tra sfoglia e crema e quel pizzico di rum. Non è che piaccia a molti, però è presente in ogni vassoio, in ogni casa. È un dolce pop di riserva, non la prima scelta, si mangia quando è finito il resto. Ma non può mancare. Se non c’è il diplomatico (a Napoli si chiama zuppetta inglese) il viaggio in pasticceria perde di senso.

Eccoci giunti a Giorgia Meloni.

Avevo pensato al maritozzo romano ma penso che lei sia adeguatamente riassunta dal cannolo morbido. Spiego la ragione. La crosta di cioccolato, in apparenza solida, e dentro cioccolato bianco, nocciole, mandorle, canditi. A me la Meloni pare una donna più duttile che ferma nelle sue idee. Tiene al potere e l’ideologia la usa per coprire l’impasto variegato di cui si compone la sua anima. Il torrone morbido è proprio così. Duro all’apparenza, ma basta addentarlo e viene giù tutto.

Salvini in retromarcia: “Sì al super-certificato”

La giravolta è completa. Nel giro di 5 giorni, Matteo Salvini è passato dal voto per abolire il Green pass in commissione al “sì” al certificato, almeno per i dipendenti pubblici. L’obiettivo del premier Mario Draghi, almeno nel breve periodo. Dopo il primo voltafaccia di sabato in cui il leader della Lega, in seguito a un acceso confronto con i suoi 7 governatori, aveva aperto al vaccino obbligatorio “in via eccezionale e per alcune categorie”, ieri Salvini da Cernobbio si è di fatto piegato alla volontà del premier anche sull’estensione del Green pass per gli statali: “Per coloro che hanno contatti col pubblico può essere un ragionamento – ha detto al forum Ambrosetti sul lago di Como – ma proporlo per fare gli esami universitari a distanza mi sembra veramente il teatro dell’assurdo”. Salvini e Draghi si vedranno nelle prossime ore, forse già oggi, per confrontarsi sul decreto sul Green pass che sarà votato domani alla Camera ma anche sulla cabina di regia che si terrà giovedì sull’estensione del certificato proprio per i lavoratori del settore pubblico. “Quello che è certo – ha concluso Salvini – è che la Lega è al governo e ci rimane per vigilare quello che stanno facendo Pd e M5S”.

Nessuna rottura dunque anche se il voto di domani a Montecitorio rischia di provocare una frattura profonda dentro il Carroccio con una decina di ribelli pronti a votare contro il provvedimento sul pass o a non presentarsi in Aula. Per questo Draghi ha tutta l’intenzione di porre la fiducia sul decreto per mettere a tacere il dissenso nel Carroccio ma anche per evitare l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia che proverà a mettere in difficoltà gli alleati. Nella Lega i deputati anti-pass sono guidati da Claudio Borghi che però fa capire che le sue posizioni barricadiere potrebbero venire meno in caso di voto di fiducia: “Se ci faranno votare gli emendamenti, come spero, confermerò il mio voto contrario – spiega Borghi – se invece il governo deciderà di mettere la fiducia vedremo…”. Borghi non è solo e insieme a lui ci sono tutti quei deputati leghisti che sono scesi in piazza contro il certificato e che difficilmente potrebbero votarlo: dai veneti Dimitri Coin e Alex Bazzaro passando per Guido De Martini e Armando Siri.

Il voto di fiducia è uno schiaffo di Draghi nei confronti di Salvini perché quest’ultimo gli aveva chiesto espressamente di non farlo e perché il premier sa che un voto come quello metterebbe la Lega di fronte a una scelta definitiva: essere favorevoli o no ai vaccini e al Green pass? Sostenere o meno convintamente il governo anche sulle misure per combattere la pandemia? Un rebus a cui Salvini dovrà dare una risposta nelle prossime ore anche se l’intenzione è quella di non strappare. “La Lega è leale al governo – ha concluso ieri a Cernobbio – ma alcuni punti per noi non sono in discussione, non sono trattabili: non si torna alla legge Fornero, niente patrimoniali e niente nuove tasse”. Fondamentale sarà il ruolo che nelle prossime ore giocherà anche Giancarlo Giorgetti, numero due del Carroccio e trait d’union tra Salvini e Draghi. Proprio Giorgetti ieri, a margine del Forum Ambrosetti, ha parlato a lungo con Salvini e poi i due hanno avuto una conversazione riservata con Giorgia Meloni e l’europarlamentare di FdI, Carlo Fidanza . Nell’incontro si è parlato soprattutto di amministrative analizzando le situazioni in cui il centrodestra parte in vantaggio (Torino) o in svantaggio (Milano e Bologna) e Salvini e Meloni hanno concordato un incontro nei prossimi giorni a Roma. Obiettivo: rafforzare l’alleanza. Green pass permettendo.

Landini: “Se non coinvolti pronti alla mobilitazione”

Finalmente, al termine del dibattito sul “Lavoro al tempo dei Migliori” coi giornalisti del Fatto Quotidiano, Gad Lerner e Marco Palombi, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, lo dice: “Nei prossimi mesi, se su fisco, pensioni e ammortizzatori sociali il governo non ci ascolterà, il sindacato non starà con le mani in mano. Metteremo in campo tutto ciò che è necessario per riportare al centro i diritti di chi lavora”. Insomma, in autunno non è escluso la mobilitazione se l’attuale andazzo fosse confermato.

I due anni di pandemia, è il punto di partenza, hanno di fatto portato alla luce le condizioni di precarietà e nero di milioni di lavoratori. “Al punto – spiega Landini – che non solo sono stati estesi gli ammortizzatori già esistenti, ma ne sono stati introdotti addirittura di nuovi”. Tornare semplicemente alla situazione pre-Covid, dunque, non è accettabile. Bisogna ricucire, prima di tutto, la “totale frattura tra mondo del lavoro e rappresentanza politica” avendo il lavoro come punto di riferimento. “Sono i partiti di sinistra ad aver fatto le leggi peggiori senza neppure essere riusciti a cambiare quelle della destra – spiega- A chi si impegna in politica suggerisco di fare un esercizio: almeno mezz’ora al giorno ragionasse come se fosse nelle stesse condizioni di chi deve lavorare. Perché così, anche quando non si è d’accordo, ci si fida perché ti considerano uno che è dalla loro parte. Ed è questo che si è rotto”. Poi aggiunge: “Abbiamo scritto una lettera a Draghi con la Cisl e la Uil per discutere delle riforme da affrontare, dalle pensioni agli ammortizzatori sociali. Non vogliamo accompagnare riforme che arretrano sui diritti del lavoro”.

Eppure, osservano Lerner e Palombi, sotto gli occhi dei sindacati stanno saltando i vincoli ai contratti precari e sono a rischio pure le tutele per i lavoratori. “Il governo dei Migliori si era presentato come quello che doveva prestare un soccorso urgente – spiega Lerner – e a marzo doveva essere presentato un progetto di riforma degli ammortizzatori sociali come premessa allo sblocco dei licenziamenti di giugno. Invece c’è stato solo un accordo, una raccomandazione a essere clementi e a ricorrere il più possibile alla cassa. Niente di più”. Un accordo, si difende Landini, senza il quale però “sarebbe stato peggio”. Di certo non è imminente la riforma sperata: “Ci hanno già detto che se ne parlerà per la legge di Bilancio, quindi a fine gennaio 2022. Per questo il blocco dei licenziamenti per le piccole imprese e i settori in crisi, che scade il 31 ottobre, va prorogato almeno fino a fine anno”.

Poi il Reddito di cittadinanza che Renzi vorrebbe abolire con un referendum e Giorgia Meloni ha definito ieri “metadone di Stato”: “Non so i poveri che cosa hanno fatto di male – dice Landini – Vedo un odio che sinceramente non capisco. Anche perché, in molti casi, chi pur lavorando è povero, paga le tasse anche per chi non le paga”. Niente cancellazione, dunque, ma modifiche a partire dal potenziamento delle politiche attive assieme ad una seria discussione della questione salariale: “La novità, oggi, è che si è poveri lavorando – dice il leader della Cgil – quindi ben venga il salario minimo, ma anche quello massimo. Servono però una riforma fiscale e investimenti che qualifichino le reti e le filiere produttive del nostro Paese per redistiribuirlo”.

E ancora, lo sblocco dei licenziamenti presentato da Draghi come una misura “condivisa da tutte le forze politiche del governo”, la necessità della legge sulla rappresentanza sindacale “per permettere ai lavoratori di scegliere democraticamente i propri rappresentanti” e prospettiva “da cui i sindacati di base spesso si tengono alla larga”, un sistema di ammortizzatori sociali universale e mutualistico “da cui partiremo per ogni discussione”, il rafforzamento della contrattazione collettiva “per mettere fine ai contratti pirata”, le delocalizzazioni con una proposta di legge “sulla quale ad oggi non siamo ancora stati coinvolti”, il dumping salariale interno all’Europa, lo smart working che “deve essere regolato” e “non può togliere diritti ai lavoratori”.

Il tema del giorno però sono le norme anti-Covid e il loro impatto sul mondo del lavoro: “L’obbligo vaccinale deve essere previsto da una legge: il governo se ne deve assumere la responsabilità. Non si può demandare alle parti sociali”. Il Green Pass è solo “un modo di aggirare il problema” e “introdurlo finisce per creare divisioni sul luogo di lavoro è sbagliato. Il ristorante è una scelta, il lavoro è un diritto”. E se il Green Pass è condizione per lavorare, allora è assurdo che per lavorare bisogna pagarsi il tampone: “La gratuità è fondamentale, come finora per gli altri dispositivi di protezione”. Anche perché “se non tutti si sono ancora vaccinati è sbagliato pensare che siano tutti no vax”. E le accuse mosse al sindacato? “Solo il tentativo di screditarlo prima di discutere di come spendere i miliardi del Pnrr che sono in arrivo”.