Obbligo, Rezza frena Pass, Crisanti a Draghi: “Non dà la sicurezza”

“Vedremo tra un mese ma l’obbligo vaccinale deve essere l’ultima ratio: prima bisogna provare a convincere le persone, poi ne potremo discutere”. Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, non è pregiudizialmente contrario all’obbligo del vaccino annunciato giovedì in conferenza stampa dal presidente del Consiglio Mario Draghi ma pensa che debba essere solo l’ultima soluzione disponibile e che debba passare da un approfondito dibattito pubblico. Che tenga conto anche dei problemi pratici e costituzionali di questa scelta: “Come si applica? A chi, in che maniera, quante volte? – chiede Rezza – Ci sono delle questioni tecniche che andrebbero comunque discusse. Aspettiamo un mese”. Più convinto Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova: “Se mi si dicesse che abbiamo un vaccino che copre all’85-90% per dodici mesi, direi assolutamente di sì all’obbligo. L’importante è spiegare e comunicare bene le decisioni in modo da non sconcertare nessuno”. I due esperti di epidemiologia si sono confrontati ieri mattina alla festa del Fatto intervistati dalla vicedirettrice Maddalena Oliva su tutti i temi fondamentali della lotta alla pandemia: non solo sull’obbligo vaccinale ma anche sull’utilizzo del Green pass, sull’ipotesi della terza dose e sulla situazione di Israele, primo Paese al mondo ad averla somministrata dopo la recrudescenza estiva dei contagi.

Sull’uso del pass i due esperti hanno idee piuttosto diverse. D’altronde, le contraddizioni sono tante: come coniugare il fatto che l’efficacia della copertura vaccinale vada scemando con l’estensione del certificato a dodici mesi? A cosa serve il Green pass se i vaccinati sono contagiosi e contagiabili? Crisanti ha ribadito la sua contrarietà all’utilizzo del certificato verde come strumento di “sanità pubblica” criticando anche l’espressione usata da Draghi nella conferenza stampa di fine luglio secondo cui il pass servirebbe anche per creare ambienti più sicuri. “Dire che il Green pass crea ambienti sicuri è una baggianata –­ha spiegato il microbiologo di Padova – è solo uno strumento che incoraggia le persone a vaccinarsi. Per considerarla una misura sanitaria dovremmo misurarne l’impatto”. Secondo Rezza, invece, il pass può essere considerato un surrogato dell’obbligo e serve a “convincere qualche indeciso che non vuole vaccinarsi” ma poi ha spiegato che, a suo avviso, si può considerare anche come una misura sanitaria: “Un certo grado di protezione lo dà – ha detto l’epidemiologo molto ascoltato dal ministro della Salute Roberto Speranza – se siamo convinti che con il Green pass si possa andare a fare baldoria senza rispettare le regole, stiamo sbagliando tutto. Se invece siamo tutti vaccinati, stiamo a distanza, abbiamo una certa probabilità in più di essere protetti. Se le alternative sono non prendere misure o mandare all’aria l’economia e i rapporti sociali, allora il Green pass può considerarsi una misura di sanità pubblica. In questo senso il certificato non ci dà la sicurezza al 100% ma in termini probabilistici è una misura utile”.

Per entrambi però resta fondamentale completare la campagna vaccinale. Crisanti si appella direttamente a chi non è ancora immunizzato, a partire dai 3,5 milioni di over 50 che non si sono ancora vaccinati: “Con un R0 (il tasso di replicazione del virus, ndr) pari a 6 o 7, nel giro di un paio d’anni si infetteranno tutti i non vaccinati perché uno prima o poi un errore lo fa”. Rezza ha aggiunto che, per chi ha più di cinquant’anni, “il rischio di finire in terapia intensiva c’è”. Oltre alla “minoranza rumorosa” dei no-vax, l’epidemiologo però ha aggiunto che c’è anche “una larga fascia di persone indecise, influenzabili in qualche misura, che magari non ha la percezione del rischio molto elevato di contrarre la malattia”.

Poi c’è il caso di Israele dove, nonostante la massiccia copertura vaccinale, nelle ultime settimane i contagi sono risaliti e per questo si è deciso di iniettare la terza dose sulla popolazione. Ieri è stato toccato il tasso più basso di contagi da due settimane a questa parte e gli esperti ritengono che la quarta ondata sia superata ma la preoccupazione rimane. “In Israele – è la spiegazione di Rezza – c’è un aumento impressionante dei casi per un Paese che ha vaccinato tanto e bene. Il loro caso mostra che anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, e che alcuni sviluppano una malattia grave”. Per questo, ha concluso, “è normale che si facciano più di due dosi”. Più cauto Crisanti secondo cui “bisognerà capire se la terza dose in Israele sarà efficace”. Solo dopo si potrà iniziare a somministrarla.

“Dopo Mani Pulite, siamo alle mani libere per i potenti”

Una “stagione delle mani libere” è alle porte. Un “assalto finale del sistema” politico alla giustizia: “Tutte le riforme di quest’ultimo periodo sono state di palazzo, derivanti dall’esigenza di abbattere il rischio per le classi dirigenti”. Il procuratore generale uscente di Palermo, Roberto Scarpinato, l’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo e il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, alla Festa del Fatto Quotidiano hanno attaccato duramente il tentativo del governo di Mario Draghi di mettere mano alla giustizia. Intervistati da Valeria Pacelli nel corso del dibattito “La giustizia al tempo dei migliori”, non sono mancate critiche anche ai sei referendum proposti da Lega e Partito Radicale.

Sulla riforma voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, Scarpinato ha parlato di “una forma di amnistia strisciante e permanente”, spiegando che “ogni anno il Parlamento, i cui componenti ridotti nel numero sono tutt’oggi nominati dall’establishment, deve stabilire la priorità nei processi, quali si devono celebrare e quali no”. Un “assalto finale da parte della politica”, appunto, iniziato con la Seconda Repubblica, quando “tutta la classe dirigente ha dovuto mettere in moto due distinte manovre”. “La prima – ha detto Scarpinato – è stata la depenalizzazione selettiva dei reati della classe dirigente. Sono state abbassate le pene e ridotti i termini della prescrizione”. “La seconda”, ha aggiunto, “è il tentativo continuo di sottoporre i pubblici ministeri al controllo politico”. Il magistrato ha portato ad esempio i disegni di legge proposti da Luciano Violante che nel 2008 “per far iniziare le indagini alla polizia e non ai pm”, e di Andrea Orlando, nel 2017, per l’utilizzabilità delle intercettazioni. Ora la riforma Cartabia, “l’assalto finale del sistema”, appunto. “Se è vera – ha detto – la stima dell’Unione europea secondo cui la corruzione in Italia vale 60 miliardi l’anno, vuol dire che il 30-40% se li prenderanno i soliti noti”.

Non c’è solo la riforma del governo Draghi a tenere banco. A breve al vaglio della Corte Costituzionale arriveranno anche i referendum sulla giustizia sottoscritti anche da Italia Viva. Secondo Davigo, “le intenzioni sono le peggiori”. “Questi pensano che i cittadini siano dei cretini – ha affermato l’ex magistrato di Mani Pulite – La Lega per anni ha fatto una campagna sulla sicurezza” e “ora prende in giro i suoi elettori”. Se andasse in porto il referendum sui limiti alla custodia cautelare, ad esempio, “se uno viene a casa tua e la svaligia, il ladro lo possono arrestare ma poi lo devono rilasciare, perché non può restare in carcere”. Non solo. “La responsabilità diretta dei magistrati non c’è in nessun paese al mondo. Chi sbaglia paga è uno slogan cretino”. Se passasse questo concetto, “potrebbero iniziare a crearsi rapporti non chiari con gli avvocati e vi sarebbero cause pretestuose, in via preventiva, per togliersi di mezzo un giudice scomodo”. Gli fa eco Scarpinato. “Ripropongono ciclicamente anche la separazione delle carriere, per portare i magistrati sotto il controllo dell’esecutivo”. Insomma: “La questione giustizia in questo Paese è irredimibile a causa del gioco politico. È la stagione delle mani libere”.

Negli ultimi due anni la magistratura ha dovuto affrontare anche la crisi culminata con l’indagine per corruzione ai danni dell’ex magistrato romano Luca Palamara, già membro del Csm, che secondo quanto emerso sarebbe stato primo attore di una “guerra tra correnti” che ha condizionato le nomine nelle principale procure italiane. “Palamara non votava da solo – ha affermato Nicola Gratteri – e non poteva da solo condizionare tutte le nomine che si sono avute”. Il magistrato calabrese avanza una proposta: “Penso che si debba agire a monte, modificando il Consiglio superiore della magistratura e introducendo il sistema del sorteggio”, anche a costo “di cambiare la Costituzione, se necessario”. “È la madre di tutte le riforme”, ha concluso.

 

“Comunali sempre difficili per i 5S. Dalla Meloni volgarità sul Reddito”

Ora si fa sul serio, adesso è partita vera per l’avvocato. Perché a ottobre verrà giudicato anche delle urne, le prime da leader di partito. E naturalmente Giuseppe Conte lo sa ma soprattutto lo dice, dal palco della festa del Fatto: “Noi del M5S abbiamo sempre avuto difficoltà e risultati modesti nelle amministrative, perché non siamo radicati a livello territoriale, e oggi questo non può cambiare. Voi direte che metto le mani avanti, e io invece io ci metto la faccia, andrò anche dove prenderemo l’uno per cento”. Intervistato da Antonio Padellaro e Peter Gomez, l’ex premier lancia così il suo tour che partirà oggi da Napoli, dove sarà assieme al presidente della Camera Roberto Fico. Poi seguirà una lunga teoria di tappe, concentrate nel Nord e nei Comuni che andranno al voto. “Questo è il tempo della semina e dell’ascolto” ripete Conte, come a dire che andrà un po’ ovunque – solo martedì girerà cinque comuni in Veneto – innanzitutto per gettare le basi del suo progetto, del nuovo Movimento.
Quello che sarà “radicale nei contenuti e moderato nei toni, perché dovremo dismettere i toni aggressivi del M5S del Vaffa” assicura l’avvocato. Ma sui numeri non può essere ottimista. “Se già migliorassimo un po’ di percentuali nei territori andrebbe bene” dicono dal M5S. Con una postilla: a Napoli il contiano doc Gaetano Manfredi deve vincere, altrimenti sarebbe un disastro.

Nell’attesa c’è anche tutto il resto, per esempio il Movimento che deve starsene nel governo Draghi. “All’inizio c’è stato un po’ di disorientamento da parte nostra, ma lo sosterremo in modo leale e costruttivo, finché farà misure e riforme che migliorano il Paese” giura Conte. D’altronde, teorizza, “se non si fosse fatto un nuovo governo dopo il mio si rischiava di aggravare la crisi per la pandemia e di rallentare la ripartenza”. Padellaro gli chiede se non noti una notevole differenza di trattamento tra lui e l’attuale premier da parte della stampa. E l’avvocato non si sottrae: “Vedo un eccesso di enfasi per questo governo da parte di alcuni commentatori, e non so se faccia bene all’esecutivo. Ma questo presidente rappresenta bene l’Italia”. Conte non vuole apparire come quello che lavora Draghi ai fianchi. Tanto di avversari ne ha già una sfilza, partendo da Matteo Renzi. “Del suo libro non ho letto nemmeno una sintesi” giura, per poi mordere il capo di Iv sui numeri: “Ci sono partiti con poco consenso che hanno potere di interdizione, questo è un male per la democrazia”.

E non finisce qui: “Ha scritto che gli avrei offerto un incarico internazionale per non far cadere il governo? I colloqui riservati non vanno raccontati, c’era un patto tra noi su questo. Dopodiché Renzi sta antipatico alla maggioranza dei cittadini e simpatico ai familiari…”. Non certo a lui, che racconta: “Quando cercavamo di fare il Conte 3 ero preoccupato, come potevo prendere impegni se dei ministri mi sparavano addosso?”. Passato recente e forse doloroso. L’attualità ora è anche Giorgia Meloni, che dal Forum Ambrosetti a Cernobbio pochi minuti prima maledice il Reddito di cittadinanza come “metadone di Stato”. Conte le risponde dal palco: “È un’espressione volgare, forte”. Ed è l’avvio della polemica politica di giornata. Perché poi anche il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando, ci mette la gamba: “Chi parla di reddito come metadone non sa cos’è la povertà”. Le agenzie si intasano di reazioni, tanto che Meloni insiste (“Il reddito è una paghetta, proprio perché so cos’è la povertà la voglio combattere davvero e non mantenerla”).

Invece Conte difende il totem dei 5 Stelle: “Ricordo che su 3 milioni di percettori gli occupabili sono un milione e che in 250mila hanno trovato lavoro, non è poco anche se non può bastare. Ora serve un network nazionale per le politiche attive, in Germania ci hanno messo lustri per far funzionare il sistema”. Il reddito, si sa, non piace neppure a Matteo Salvini. Conte sostiene che il suo cuore ha sempre battuto “più a sinistra” e che il governo con la Lega, – “fatto con un contratto” – andava varato per dare all’Italia un esecutivo. Ma Gomez non si accontenta: “Lei ha criticato i decreti sicurezza ma era premier quando sono stati varati”. E l’ex premier abiura: “Quei decreti li abbiamo modificati tanto rispetto alla versione originaria, ma ho nutrito subito perplessità sull’abolizione della protezione internazionale, senza una soluzione alternativa. Tanta gente è finita per strada, è stato commesso un errore e me ne assumo la responsabilità”. Ma con la ministra dell’Interno Lamorgese gli sbarchi sono aumentati… “Lei ha dovuto fare i conti con la pandemia e con una guerra in Libia, non sono possibili paragoni”. Certo, poi ci sarebbero anche gli alleati. Per esempio il Pd.

Conte sostiene che il M5S non si è presentato nel collegio romano per la Camera di Primavalle “per non dividere l’area di centrosinistra, visto che il Pd ha presentato un suo candidato. Rischiavamo di avvantaggiare il centrodestra, che potrebbe favorire la candidatura di Luca Palamara (ma il centrodestra un suo candidato lo ha, il forzista Pasquale Calzetta, ndr)”. Di certo con i dem e tutti gli altri bisognerà discutere anche di Quirinale. Ma l’avvocato non ha voglia di parlarne: “Se iniziamo adesso a invilupparci in un dibattito sfibrante rischiamo di distrarci dalle priorità come centrare gli obiettivi del Pnrr”. Invece la discussione sull’obbligo vaccinale è di queste ore. E Conte ridà la sua linea: “Sono favorevole a un maggior uso del green pass che induce alla vaccinazione. Quanto all’obbligo, se sarà necessario, come extrema ratio dobbiamo considerarlo. Vediamo l’evoluzione della curva epidemiologica”. Si scivola verso la conclusione, e naturalmente gli chiedono di Beppe Grillo. “Ci sentiamo, ci confrontiamo” assicura. “Ma pensa ancora che lei non abbia capacità manageriali?”, lo incalza Gomez. E Conte va dritto: “Un partito non è un’azienda”. In dissolvenza, riforma Cartabia (“nella prima versione avrebbe portato al collasso il sistema penale”) e Afghanistan (“Se siamo in questa situazione sono stati commessi degli errori, la democrazia non si esporta con le armi”).

E arriva anche una nuova bacchettata per il ministro della Transizione Cingolani, quello voluto da Grillo, che aveva aperto al nucleare: “Da lui battute infelici, l’energia atomica costa, altri Paesi dismettono i siti nucleari, e anche le energie rinnovabili ora costano meno”. Ha detto tanto Conte, che tra le pieghe del colloquio infila una battuta: “Quando ero premier a un certo punto si parlava solo di Mes…”. Succedeva qualche mese fa, ma sembrano trascorsi anni.

Ma mi faccia

Oremus. “#lariachetira Il segno zodiacale di Mario #Draghi, la Vergine, lo rende già tenace di suo, ma Marte e Saturno così forti nel suo tema natale ne fanno un Vergine particolarmente determinato e molto autorevole” (La7, Twitter, 3.9). La Vergine Mario.

Dragospia. “Cretini e vaccini. Travaglio, pur di andare contro Draghi, ammicca ai No Vax” (Dagospia, 4.9). Io ho fatto il vaccino, Dago fa il cretino.

Solo? “Vaccini, gli italiani con Draghi. Sì all’obbligo da otto su dieci” (Repubblica, 4.9). Già, bella forza: ma il problema sono proprio quei 2 su 10.

Scarogna. “Il nucleare ci serve. Per azzerare le emissioni le rinnovabili non bastano” (Paolo Scaroni, vicepresidente Rothschild, Repubblica, 4.9). “Salvate Cingolani dalle bugie M5S. I grillini sono finti ambientalisti che attaccano il ministro in base a dati fasulli. Giusto pensare al nucleare” (Chicco Testa, Libero, 4.9). Ecco, bravi, fatevi una bella centrale atomica a casa vostra.

Sua Maestà/1. “Benigni show a Venezia. Il saluto a Mattarella: ‘Resti ancora con noi’” (Repubblica, 2.9). Ecco, bravo, pòrtatelo a casa tua.

Sua Maestà/2. “Draghi ha confermato una regola liturgica del potere: la risposta corta colpisce meglio, e non lascia scampo. Watever-it-takes è una parola in meno di lo-Stato-sono-io, ma significa la stessa cosa” (Giuliano Ferrara, Foglio, 4.9). Che è tornata la monarchia.

Urbano poco vigile. “Draghi mi piace molto. Mi ricorda un regista, potrebbe essere uno alla Gianni Rivera, per stile e classe (Urbano Cairo, editore Corriere della sera e La7, 18.3). “Se Draghi fosse un calciatore? Ho apprezzato molto il nostro regista agli Europei, direi Jorginho” (Cairo, Foglio, 4.9). Altre cazzate?

Divieto di nozze. “Bonafede si vergogna delle sue nozze da scialo. Il grosso grasso matrimonio toscano. Per l’ex ministro grillino ricevimento nuziale in una sfarzosa villa toscana. Foto bandite e divieto di parlarne: mica che lo scambino per uno della casta…” (F.F., Libero, 4.9). Uno scandalo mondiale. Siccome sei contro la casta, intanto, non ti sposi; se ti sposi, non lo fai in un bel posto, ma in una discarica o in una latrina; e niente ricevimento, al massimo pranzo al sacco.

Giornalismo abusivo. “Terrazza abusiva all’hotel Forum. ‘Demolire il dehors dei vertici 5S. L’albergo vicino ai Fori che ospita Beppe Grillo nelle sue trasferte romane condannato dal Tar” (Repubblica-Roma, 2.9). Quindi, se la terrazza fosse abusiva, la colpa sarebbe dei clienti. Anzi, di uno solo.

Furbo, lui. “Conte kamikaze: vuole perdere le Comunali per poter processare la linea filo Draghi. Una débacle gli darebbe l’alibi per la svolta” (Giornale, 4.9). Uahahahahah.

Volturara Appula, mondo. “Alleanza informale tra Usa e talebani per colpire il nuovo Daesh” (Messaggero, 29.8). “I talebani sono stati pragmatici ed efficienti” (gen. Kenneth Mc Kenzie, capo del comando centrale Usa, 30.8). “Londra e Parigi trattano per i corridoi umanitari. Negoziati con talebani e Onu” (Repubblica, 30.8). “Pentagono: ‘Cooperazione possibile tra Usa e talebani contro l’Isis-K’” (Repubblica, 2.9). Conte conquista il mondo.

La netta differenza. “Ma come fa Conte a dire che bisogna dialogare con i talebani? Glielo diciamo forte e chiaro: l’Italia sta dalle parte dei diritti umani e non con chi vuole dialogare per interessi economici” (Gennaro Migliore, deputato Iv, 19.8). “Comunicare con i talebani non vuol dire legittimare come vorrebbe qualcuno, vuol dire prendersi cura di chi oggi rischia la vita, di chi ha dato un contributo prezioso ai nostri contingenti e che non possiamo abbandonare” (Gennaro Migliore, 30.8, beccato da @nonleggerlo). Il governo dei Migliore.

Aspetta e spera. “L’autogol di Forza Italia: non sostiene Palamara” (Fabrizio Cicchitto, Riformista, 1.9). Ma solo perché non l’hanno ancora condannato per corruzione.

Calendario/1. “Calenda: ‘Pulizia nei primi 12 mesi’” (Corriere della sera-Roma, 1.9). Si vede che la sua colf è rientrata dalle ferie, solo che è un po’ lenta.

Calendario/2. “Calenda: non farò accordi con nessuno al ballottaggio” (Corriere della sera-Roma, 1.9). Magna tranquillo, Carlé.

Azzurro tenebra. “Il candidato sindaco di centrodestra galvanizzato dai numeri, Bernardo: “Noi come la Nazionale di Mancini” (Libero, 31.8). Quella dell’1-1 con la Bulgaria.

Il titolo della settimana/1. “A tutti i partiti conviene Berlusconi al Quirinale” (Libero, 2.9). In effetti, sarebbero soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “Il vaccino contro il virus c’è, contro l’idiozia no. Purtroppo” (Foglio, 31.8). Dài che l’avete scampata bella.

Triplete nei 100 metri: Sabatini, Caironi e Contrafatto sul podio. Con record e dedica

Non è un sogno. Non è nemmeno la trama di un romanzo ottocentesco dove s’intrecciano dolori, sofferenze e infine c’è la grande rivincita sul destino avverso e crudele. No, è realtà: tre ragazze italiane che hanno perso una gamba e sono diventate lo stesso velociste, hanno sbaragliato il mondo alle Paralimpiadi di Tokyo nei 100 metri, la vetrina dei Giochi, proprio come Marcell Jacobs lo scorso primo agosto. Ambra Sabatini è la nuova campionessa olimpica. Succede a Martina Caironi, già campionessa olimpica di Londra e Rio, che si è piazzata seconda. Monica Contraffatto è la terza. Un triplete storico. Incredibile. Non finisce mai di stupire l’atletica azzurra, in questa lunga estate dove succede l’impensabile. È tripudio. E (tri)podio tutto tricolore.

Quando il 3 giugno 2019, lungo la strada dell’Argentario, un’auto investe lo scooter su cui viaggia Ambra Sabatini col padre, diretti al campo d’atletica per il quotidiano allenamento (lei era una promettente mezzofondista junior, campionessa regionale degli 800 e dei 1500), per salvare la ragazza le devono amputare la gamba sinistra sopra il ginocchio. Ma lei non si scoraggia. Anzi. Sa che lo sport aiuta a superare certi traumi indicibili. Impegno, sacrifici, ambizione. Comincia col nuoto, poi riprende a calcare la pista. Ventisette mesi dopo, la 19enne Sabatini conquista perentoriamente il titolo paralimpico dei 100 metri categoria t63, stracciando il record mondiale (14”11), battendo la veterana e rivale Martina, 31 anni (e argento nel salto in lungo in questi Giochi Paralimpici di Tokyo), vittima anch’essa di un terribile incidente in moto. Terza, la quarantenne Monica. Nel 2012 era caporalmaggiore dei bersaglieri in Afghanistan. Durante un violento attacco alla base italiana, viene falciata dalle schegge di una granata, subendo danni agli arti, all’arteria femorale, all’intestino, alla mano. Sono costretti ad amputarle la gamba destra: “Voglio dedicare la mia medaglia all’Afghanistan. In fondo, è il motivo per cui sono giunta sino a Tokyo. È il Paese che mi ha tolto una parte di me, ma mi ha anche regalato tante nuove emozioni e una nuova vita, che è fighissima”, ha detto a RaiSport.

“Siamo le fantastiche tre”, hanno ripetuto in coro Ambra, Martina e Monica, che si sono ribattezzate il Trio Medusa. Vincere, ha dichiarato l’esultante Sabatini, “è stato bellissimo, però l’emozione ancora più bella è stata quella di salire sul podio tutte e tre insieme. Lo desideravamo da sempre”. Per Martina Caironi, la leader del gruppo, “è stata una gara molto intensa, non sono stata perfetta in partenza mentre Ambra è schizzata via come un razzo, mi ha battuta e mi ha battuta bene. Lo accetto. Ci unisce la voglia di superarci e di tirare fuori qualcosa di più dalla disabilità che abbiamo”.

Ed è in queste parole la chiave del successo italiano ai Giochi Paralimpici di Tokyo, con 69 medaglie (manca ancora l’ultima giornata), di cui 14 d’oro, 29 d’argento e 26 di bronzo, risultato che ci colloca al nono posto in un medagliere stradominato dalla Cina (200 medaglie di cui 93 d’oro), davanti alla Gran Bretagna (41 ori), al Comitato Paralimpico russo (36 ori) e agli Stati Uniti, solo quarti (35 ori), ma soprattutto con 86 Paesi che sono andati a medaglia, 62 dei quali hanno vinto almeno un oro.

Frammartino fa “Il buco” e Levi ci mette una pezza

“Sembra un film coraggioso, ma ho avuto molta paura. Dopo essere scesi fino al fondo, a 700 metri, eravamo stravolti: ero sicuro si rompesse la corda, che non saremmo usciti mai più”. Michelangelo Frammartino non si nasconde, eppure non tutta la paura – gli ricorda uno degli speleologi che fece l’impresa, Giulio Gècchele – vien per nuocere: “La paura ti fa fare azioni coraggiose, ma non temerarie: senza paura ti ammazzi”.

Undici anni dopo Le quattro volte, il regista torna dietro la macchina da presa con Il buco, in concorso a Venezia e a inizio 2022 in sala. 1961, la spinta ascensionale e settentrionale è quella del boom: a Milano col Pirellone si costruisce il grattacielo più alto d’Europa. La spinta uguale e contraria, ovvero meridionale, è quella che porta i ragazzi del Gruppo speleologico piemontese sull’altopiano del Pollino in Calabria: vi scoprono l’Abisso del Bifurto, la grotta più profonda d’Europa. Nella ricostruzione l’esplorazione è associata agli ultimi giorni di un pastore, canto del cigno di una civiltà minacciata dal progresso economico, e l’indicazione geografica tipica vale ancora oggi: “Guardiamo al Mediterraneo, laddove ci si volge sempre al Nord: dovremmo guardare a Sud, sopra tutto in termini culturali”. La speleologia, confida Gècchele, potrebbe insegnare qualcosa: “Dal punto di vista tecnico è cambiata radicalmente, ma non da quello filosofico. È un’attività che si fa insieme, ciascuno è custode del compagno, a costo della propria vita”. Dopo Il dono e Le quattro volte, Il buco riconsegna l’alterità artistica e “naturale” di Frammartino, però il risultato è inferiore: la fotografia di Renato Berta è suggestiva, ma l’antonimia spiccia del Pirellone in tv che sale e l’Abisso dei giovani che scende, peraltro con un’enfatica copertina d’Epoca raffigurante il presidente Kennedy di troppo, fa rimpiangere il Michelangelo duro e puro, quello più pànico ed empatico.

Ai vertici della carriera non sono nemmeno gli argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat: pur potendo contare su Penélope Cruz e Antonio Banderas, Competencia oficial non rinnova l’arguzia e lo spasso del Ciudadano ilustre. Fuori concorso delude assai Edgar Wright con il pastiche pasticciato Last Night in Soho, mentre il leggendario chitarrista Jimmy Page accompagna – sugli ospiti Venezia ha già stracciato l’ultima Cannes – il documentario Becoming Led Zeppelin ed esorta i giovani musicisti: “Parlo da autodidatta, lavorate sul legame con gli strumenti. Perché suonare è bellissimo”.

Non competitiva è anche la superlativa serie Scenes from a Marriage, e potrete presto apprezzare: la traduzione contemporanea di Hagai Levi, l’israeliano creatore di In Treatment e The Affair, del classico di Ingmar Bergman arriva il 20 settembre su Sky. Tocca alla brava Jessica Chastain e al magnifico Oscar Isaac restituire i frammenti di un’agonia amorosa, ma se “Bergman, cinquant’anni fa, intese fare una dichiarazione sul prezzo del matrimonio, io sentivo che era giunto il momento di parlare del prezzo del divorzio”. Cinque episodi di litigi e rivelazioni, sopraffazioni e lacrime, narcisismi e ricadute di una coppia scoppiata nell’America oggi, il racconto di Levi, che a quattro mani con Amy Herzog inverte il gap di remunerazione originario a favore della donna, è affilato come un rasoio e non fa prigionieri. Nemmeno tra gli spettatori: “Se la società consumistica ci spinge a cercare costantemente l’autorealizzazione e una libertà superficiale, vale la pena ricordare quanto, solitamente, sia traumatica una separazione”.

Io so’ Lillo, fatalmente

È come avesse sempre sulle spalle il suo mantello da Posaman, la chitarra a tracollo o qualunque altra diavoleria dei personaggi che da anni porta in giro; poi quando parla si guarda attorno, quasi volesse le assi di legno di un palco, assi sulle quali aggrapparsi come un naufrago in cerca d’autore: perché quella è la sua acqua, la comfort zone, il luogo in cui Pasquale Petrolo, in arte Lillo, qualche decennio fa si è illuminato su quale fosse il suo futuro.

Da allora non lo ha più mollato: “Ho capito che talento e passione non sempre vanno d’accordo. In realtà il mio sogno era diventare disegnatore di fumetti”.

Così la gavetta, quella vera (“per andare avanti ho pure venduto cinte ai semafori”), poi l’incontro con Greg, le serate, il passaparola, il successo, le tournée teatrali, fino ad arrivare al 2021: un anno talmente estremo, nella sua esistenza, da apparire perfetto come una parabola evangelica. Prima è finito in ospedale con il Covid (“Mentre mi spostavano in terapia intensiva un infermiere mi ha chiesto un selfie: ‘Magari non ci rivediamo’”) e, una volta fuori, è entrato nel cast di Lol (trasmissione comica di Amazon, ndr) e ne è uscito come un idolo delle masse.

La sua battuta finale, semplice, diretta, essenziale “Aoh, so’ Lillo” è diventata un tormentone nazionale. E oggi, alle 18.30, sarà alla Festa del Fatto.

La sua gavetta…

Anni e anni di spettacoli ovunque, anche dentro le pizzerie con un pubblico più impegnato ad addentare una margherita e a bere birra che ad ascoltare me e Greg.

Soluzione?

Per fortuna abbiamo sempre suscitato una reazione: o ci applaudivano o ci insultavano, ma almeno non restavano indifferenti; (ci pensa) il nostro genere era demenziale, ma avevamo bisogno di guadagnare ed esibirci, quindi andavamo dappertutto, anche in posti frequentati da tipi imparruccati e donne impellicciate; insomma, un pubblico lontanissimo dal nostro mondo che a un certo punto ci implorava di smetterla e di lasciarlo in pace.

Ci restavate male?

Noooo (stupito), capivamo e salutavamo.

Quando si è illuminato sul suo talento?

Per caso, in realtà non avevo messo in conto di diventare attore; da bambino ero estremamente timido, chiuso, amavo giocare da solo con i miei soldatini, non avevo alcuna necessità di esibirmi; (ci pensa) ero già fissato con i fumetti, volevo diventare un fumettista professionista e con tigna ho iniziato a disegnare, ma senza grandi qualità artistiche; c’erano altri ragazzi, oggi professionisti del settore, dotati di una mano fantastica, mentre io mi facevo un culo inaudito solo per stargli in scia.

Allora lo spettacolo.

Appunto, per caso ho scoperto che sul palco il pubblico era attratto da quello che combinavo: nasceva un’empatia reciproca, un dialogo muto tra me e la platea, quasi inspiegabile.

Torniamo a lei bambino.

Uno dei bambini più chiusi del pianeta, giocavo con i soldatini e creavo storie, le arricchivo di giorno in giorno attraverso un lavoro di fantasia introspettiva, dialogavo con me stesso; il problema nasceva quando mamma optava per la socializzazione forzata e mi piazzava accanto i figli delle amiche e questi mi rompevano le palle: si sedevano accanto a me e mettevano bocca, pretendendo pure di variare la narrazione.

E lei?

Mi ribellavo; (pausa) solo dopo le scuole superiori ho iniziato a trovare ragazzi con le mie stesse passioni e stile di vita, prima di allora sono stati “cacchi” (guai, ndr).

Perché?

Sono cresciuto in borgata, quella vera, dove la strada era prerogativa di chi se la sapeva conquistare senza freni. Molti dei ragazzi di allora non sono finiti bene.

Il suo ruolo?

Sempre il mio: preso in giro.

Errori scampati…

Professionalmente? Anni e anni fa abbiamo rinunciato a un contratto con Rai2, eppure eravamo veramente poveri, non avevamo ’na lira, guadagnavamo qualcosa solo con le Iene; (pausa) lì c’era il rischio di perdere un nostro percorso.

Complicato andare avanti.

Come dicevo, né io né Claudio (Greg) veniamo da famiglie benestanti, mio padre era appuntato di polizia, tre figli, e mia madre casalinga; potevo acquistare un fumetto la settimana, per questo ho iniziato a inventarmi qualunque tipo di lavoro e per questo sono nati Latte e i suoi derivati; tutto potevamo immaginare meno che diventasse, a Roma, una band di culto.

Passaparola.

Allora non c’erano i social, eppure in un anno siamo passati dai localetti da 70 persone a suonare davanti a settemila paganti.

Il punto di rottura verso il successo.

Con le Iene, ma non subito: i primi due anni il programma non andava benissimo, ascolti pessimi tanto che pensavano di chiuderlo; dalla terza stagione c’è stata l’esplosione.

E con la tv non guadagnavate abbastanza?

(Sorride) Pagavano poco, siamo arrivati a 200 euro a servizio, ma era giusto: stavamo all’inizio e ha rappresentato una forma di gavetta.

Lei e Greg, in veste di “Iene”, avete organizzato un agguato ad Andreotti: vi siete avvicinati a lui e alla parola “mafia” avete finto una mitragliata.

(Se ci pensa ancora sbianca) Ed eravamo circondati dalle sue guardie del corpo: dopo lo scherzo, Greg ha simulato un malore e non si è mosso fino all’arrivo dell’ambulanza.

I suoi genitori contenti del successo?

Mio padre non se l’è goduta, è morto giovane e mi ha vissuto solo nelle vesti di precario fumettista, mentre mi arrangiavo con i lavoretti del caso; nei momenti di sconforto scuoteva la testa e accompagnava il gesto con la frase: “Guarda che in questo modo finisci a suonare sotto la metropolitana”. Con lui ho discusso molto. E comunque mi sono sempre spesato da solo.

E mamma…

La più pragmatica della terra; (ride) una sera mi vede per casa e mi domanda: “Dove vai questa sera?”. “Ho una serata”. “Che?”. “Mi esibisco in un locale”. Pausa. E poi: “Ma ’ndo vai. Ma che la gente paga pe’ vede’ te?”. Oggi è una fan scatenata, e non perché sono il figlio, si diverte e basta.

Quali lavoretti ha svolto?

Credo di essere stato uno dei primi a vendere al semaforo. E parliamo degli anni Ottanta.

Cosa proponeva?

Cinte di tela colorate per jeans; poi sono passato di livello e con la valigetta presentavo i cerotti porta a porta.

E poi?

Ho mollato i cerotti e la mattina disegnavo ranocchiette per un’azienda di borse da scuola, il pomeriggio frequentavo la Scuola Europea di Design; ah, sono stato pure rappresentante di olio per i ristoranti: un disastro.

Come mai?

Non sono in grado di insistere; presentavo i prodotti, poi spiegavo i prezzi, ma il mio era sempre il più caro. Ogni volta mi rispondevano: “Quello del tuo collega è buono, alla gente piace e lo pago di meno”. E io: “Ha ragione, arrivederci”.

Primo sfizio con i soldi guadagnati.

Fumetti e ancora fumetti: andavo nei negozi e sembravo un bambino di otto anni con in mano la carta di credito; una quantità esagerata, una follia dettata da una forma di riscatto; così tanti da non sapere dove metterli.

Per il resto.

Non mi è mai interessata la macchina figa o altri classici sfoghi.

Quanti anni si sente?

Dal punto di vista mentale sono identico a quando ne avevo 20, non ho cambiato neanche una virgola, a parte un po’ di sicurezza in più; mentre sotto il profilo fisico, quando mi alzo la mattina dal letto, dico “oplà”, e così penso che forse sto invecchiando (e quell’oplà lo ripete con un po’ di sofferenza).

A cosa è scampato?

Al Covid; (pausa, sorride) la frase dell’infermiere è stata fantastica, ho riso, perché lui l’ha pronunciata in maniera positiva, della serie “non torna in reparto”, ma visto il contesto sembrava si riferisse alla possibile morte.

Ora a 58 anni ha compiuto uno scalino ulteriore…

Il segreto è non aver paura di rischiare; (sorride) dopo tanti anni si è aperto un pubblico enorme.

Spesso i suoi colleghi parlano di depressione…

Con me i momenti down sono professionalmente fondamentali, solo dal punto di vista umano danno un po’ fastidio; (pausa) quando sto bene sono la persona meno creativa del mondo: non ho voglia di scrivere, pensare, analizzare, mi godo la giornata e basta; mentre da inquieto trovo lo scatto per uscire dalla situazione buia e ogni volta nascono i progetti migliori.

Un comico che ama.

Corrado Guzzanti, lui è pure un amico fraterno: è il più grande di tutti, un genio, un maestro unico e inimitabile. Aggiungo Caterina e Sabina: in quella famiglia c’è qualcosa di speciale.

Lei è considerato un esperto di cinema, eppure non snobba i cinepanettoni…

(Inizia citando Fassbinder e Herzog in maniera appropriata) Conosco i grandi maestri, però amo pure i film di Vanzina e Neri Parenti; (sorride) durante le riprese di Colpi di fortuna ho rischiato di uccidere la Carrà.

Come?

Avevo una scena con lei: dovevamo ballare su un palco, ma durante le prove, per sbaglio, l’ho spinta un po’ troppo in là senza calcolare che dietro di lei c’era il vuoto. L’ho ripresa al volo mentre, per non cadere, roteava le braccia.

E lei?

Ha riso, io me la sono fatta sotto.

Di recente ha dichiarato: “Non so gestire tutto questo clamore”.

Sia io sia Greg abbiamo raggiunto buoni livelli di popolarità, non come ora. Non posso più andare all’Ikea o al centro commerciale, ma per il resto questa situazione mi piace, sono contento. È solo un po’ inedita.

Chi è lei?

Sono costretto a replicare ‘So’ Lillo’. Può apparire banale ma è la risposta giusta oltre la battuta.

Tradotto?

La vera svolta, sia professionale che psicologica, è avvenuta quando guardandomi allo specchio mi sono chiesto chi sono veramente. “Chi sei?” è la questione che tutti dovrebbero avere il coraggio di porsi per capire qual è la strada per la propria esistenza. Io l’ho fatto. E sono qui.

 

Dio, l’idraulico nel weekend e le basette di Churchill

Stiamo verificando le leggi nascoste che regolano la struttura e il funzionamento della materia comica, così come emersero dall’analisi degli errori di traduzione anni 70 delle raccolte di Woody Allen. Queste leggi nascoste dovrebbero guidare anche il traduttore di testi comici.

 

COMICITÀ: LE QUATTRO LEGGI NASCOSTE

1. ESATTEZZA

Abbiamo visto l’importanza dell’esattezza nel far funzionare la gag: “Il pubblico confuso non ride” (Mack Sennett). Vediamo un errore delle traduzioni anni 70: “Allora, tenendo saldo il sorcio per la coda, l’ho frustato con apposito frustino e il boccone è schizzato fuori”. Versione corretta:

“Tenendo saldamente il topo per la coda, l’ho fatto schioccare come una piccola frusta e il boccone di formaggio si è liberato”. L’esattezza rende esplosiva la gag. Per far ridere è sì necessario creare il caos (Qc #1), ma questo richiede esattezza, poiché la gag dev’essere comprensibile, e dev’essere chiaro che il caos è voluto. Fondamentale, per l’esattezza, la chiusura della gag. Jerry Lewis: “Stan Laurel mi ha insegnato una regola base della comicità: dire agli spettatori che farai una cosa; eseguirla; poi far capire che è conclusa”. (bit.ly/3sZFAu5 a 3’14”)

Il non sequitur

Un modo per rendere evidente la chiusura di una gag è il finale (cursus) parossistico, usato da tutti i comici (un esempio di Gigi Proietti: bit.ly/3BuKfYd). Il cursus preferito da Woody Allen è il non sequitur (la gag assurda): “Un buon esempio di manifestazione fu il Boston Tea Party, dove degli americani offesi travestiti da pellerossa buttarono il tè inglese nella baia. Poi, dei pellerossa travestiti da americani offesi buttarono veri inglesi nella baia. Quindi gli inglesi travestiti da tè si buttarono l’un l’altro nella baia. Alla fine, dei mercenari tedeschi vestiti solo coi costumi delle Troiane si buttarono nella baia senza motivo alcuno”. Isomorfo a questo, il non sequitur del cameriere del Copacabana ne La rosa purpurea del Cairo:

CAMERIERE: “Ce ne stiamo fregando della trama, signore?” TOM: “Precisamente. Ognuno per sé e Dio per tutti”. CAMERIERE: “Allora non porto più la gente ai tavoli, posso fare quello che ho sempre sognato di fare!” (Si lancia in pista davanti all’orchestra, a ballare il tip tap).

Quando il contesto è tutto surreale, invece, la chiusura non sequitur è lo scarto dallo scarto (Qc #16) in cui è la realtà a diventare non sequitur: “Ben Johnson non va confuso con Samuel Johnson. Lui era Samuel Johnson. Samuel Johnson non lo era. Samuel Johnson era Samuel Pepys. Pepys in realtà era Raleigh, che era evaso dalla torre per scrivere Paradiso Perduto sotto il nome di John Milton, un poeta che a causa della cecità evase accidentalmente dalla torre e fu impiccato sotto il nome di Jonathan Swift. Tutto questo diventa più chiaro quando ci rendiamo conto che George Eliot era una donna”.

Il non sequitur chiude la sequenza in modo chiaro, e il comico può passare ad altro senza generare confusione nell’uditorio. Allen lo usa anche isolato: “La seconda grande eroina nell’opera di Lovborg appare nel dramma di passione e gelosia ‘Mentre noi tre abbiamo un’emorragia’”.

L’astanza

L’esattezza ha il pregio di rendere più vivida la scena descritta. Quando la parola rende l’oggetto come presente alla coscienza, si ha “astanza”, concetto che Brandi (1957) contrapponeva alla “flagranza” (la realtà dell’oggetto che colpisce la percezione). Guardate cosa combina questo errore grossolano: “Una volta ho visto un quadro in cui tu giocavi a scacchi”. Ma la battuta originaria era “I once saw a picture of you playing chess”, ovvero “Una volta ho visto un film in cui giocavi a scacchi”. Una sola parola sbagliata (“picture” tradotto con “quadro” invece che con “film”) fa perdere l’allusione di Allen a Bergman.

L’anti-climax

Quel brano, “La Morte bussa”, è una parodia del “Settimo sigillo”: la Morte non gioca a scacchi con un nobile cavaliere, ma a gin rummy con Nat Ackerman, un industriale sulla cinquantina in accappatoio e pantofole. È un anti-climax (Morte/Nat Ackerman), la formula con cui Allen crea la maggior parte delle sue battute, e il cui prototipo è la celebre gag “Non solo Dio non esiste, ma provate a trovare un idraulico nel weekend.” In un altro racconto, con una sostituzione maldestra (“l’amico con cui giocava a liberi tutti in Rush Street”), il traduttore cancellò il riferimento di Allen al dreidel, la trottolina di Hanukkah (“his friend who used to play dreidel with him on Rush Street”, ovvero “l’amico con cui giocava a trottola in Rush Street”). Togliere i riferimenti alla realtà ebraica piccolo-borghese dai testi di Allen uccide le sue gag per due motivi: rovina l’anti-climax, dove quei riferimenti sono la chiusura bassa rispetto alla premessa alta; e rende la scena meno vivida (ne indebolisce l’astanza). Nelle gag di Allen, i due fattori sono gustosamente complementari: “Questi analisti moderni! Fanno pagare così tanto. Ai miei tempi, per cinque marchi ti curava Freud in persona. Per dieci marchi, ti curava e ti stirava i pantaloni. Per quindici marchi, Freud lasciava che tu curassi lui, e questo includeva una scelta fra due contorni”.

Altra traduzione sbagliata: “Dove finirà il mondo ora che esiste una bomba capace di uccidere più gente di uno sguardo della figlia di Max Rifkin?”. Battuta originaria: “What’s the world coming to when they have a bomb that can kill more people than one look at Max Rifkin’s daughter?”, ovvero “Dove finirà il mondo ora che esiste una bomba che può uccidere più gente di uno sguardo alla figlia di Max Rifkin?”. Non è uno sguardo “della” figlia, a uccidere: è uno sguardo “alla” figlia.

Altra traduzione sbagliata: “Stava Churchill pensando di farsi crescere le basette – voleva sapere – e se era così, di che lunghezza e quando?”. Battuta originaria: “Was Churchill contemplating sideburns, he wanted to know, and if so, how many and when?”, ovvero “Voleva sapere se Churchill stava pensando di farsi crescere le basette, e se sì, quante e quando?”. Chi si interroga su questo dilemma, nel racconto di Allen, è Hitler. In questa battuta, l’anti-climax fra ciò di cui Hitler dovrebbe preoccuparsi (le sorti della guerra) e la preoccupazione banale per le basette di Churchill è la premessa per la punchline (“e se sì, quante e quando”). “Quante” basette: è ignoranza infantile, una gag comica. Isomorfa a quella è la scena di Amore e guerra in cui Napoleone rimprovera i suoi pasticceri perché non stanno realizzando un Napoleon (un dolce millefoglie) cremoso come lo vuole lui, e più rapidamente di quanto Wellington stia facendo realizzare una nuova ricetta, il filetto alla Wellington (filetto cotto in una crosta di pasta sfoglia). NAPOLEONE: “Il futuro dell’Europa dipende da questo!”.

(71. Continua)

 

Calcio al destino senza una gamba

Ambra, Martina e Monica un calcio al destino con la gamba che non c’è! Ce l’hanno fatta, era nell’aria già in batteria e arriva un tris monumentale che mette il punto esclamativo sulla strepitosa spedizione azzurra di Tokyo 2020. Nella pista di Jacobs e della 4X100 olimpica maschile le ragazze con la protesi consacrano il dominio azzurro nella velocità e gratificano il lavoro della Fispes, la federazione di competenza. Le storie nella storia ci dicono che queste tre atlete arrivano lì grazie a una tragedia per una: Martina perde la gamba in un incidente in motorino; comincia presto a dominare negli stadi di mezzo mondo con le sue protesi sempre originali nello stile e conquista l’oro a Londra nel 2012. Qui c’è da parlare di contagio, quello bello perché Monica Contrafatto, reduce da un attentato subito in Afghanistan, perde la gamba, finisce in sala operatoria e proprio dal letto dell’ospedale vede Martina in televisione e decide di voler intraprendere quello stesso percorso in seguito all’amputazione. È di parola Monica e a Rio vince il bronzo alle spalle di una certa Caironi che bissa l’oro paralimpico. La sfiga sullo scooter dev’essere un destino e il 5 giugno 2019 tocca ad Ambra Sabatini dire addio a una gamba, ma “si può ripartire con la vita attraverso lo sport” ed ecco che, oltre all’ambulanza, in suo soccorso arriva il team di Art4sport per sostenere la ragazza toscana neo amputata che fa intendere a Dubai il suo valore e lo grida a tutto il mondo il 4 settembre 2021, fermando il cronometro sui 14 secondi e 11 centesimi, primato mondiale della categoria. Per la cronaca, il record è passato in pochi minuti da Ambra, Martina ed è ritornato alla fresca campionessa paralimpica. Un podio tutto italiano in cui il contagio e la forza di queste ragazze ha trasformato una tragedia apparente in una vittoria reale. E noi ci godiamo lo spettacolo, orgogliosi di essere loro connazionali.

La nostra disfatta in Afghanistan

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha elogiato, nel momento del definitivo disimpegno dall’Afghanistan, le nostre Forze Armate. E in effetti siamo riusciti a lasciare Kabul in fretta, ma con una certa compostezza. Del resto nel fuggire noi italiani siamo specialisti.

Uno dei primi a lasciare Kabul è stato l’ambasciatore Vittorio Sandalli che avrebbe dovuto essere invece uno degli ultimi, seguendo una collaudata tradizione che va dalla fuga scomposta della borghesia delle retrovie nel 1917 quando i fanti-contadini ruppero le righe a Caporetto stufi di farsi ammazzare, a pro di quella stessa borghesia vergognosamente in fuga che a quella guerra li aveva spinti, in nome della tattica omicida dell’“attacco frontale” del generale Cadorna, e prosegue con il Re e Badoglio che, con ben forniti bagagli, se la filano da Roma lasciandola in balia dei tedeschi, con Mussolini, che dopo tanta retorica sulla “bella morte”, che aveva convinto tanti giovani fascisti ad andare a morire per Salò, scappa travestito da soldato tedesco e finisce, più recentemente, con Bettino Craxi che condannato a più di dieci anni di reclusione si rifugia in Tunisia gettando fango sul nostro Paese di cui pur era stato presidente del Consiglio e quindi, in definitiva, su se stesso.

Sul comportamento delle Forze Armate italiane in Afghanistan c’è qualcosa da dire. Siamo stati fedeli come cani agli americani, ma sleali come servi. Quando nell’autunno del 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si installò a Khost sostituendo gli americani, i nostri comandi fecero subito un accordo con il comandante talebano del luogo, Pacha Khan: noi avremmo fatto solo finta di controllare il territorio, i Talebani non ci avrebbero attaccato, limitandosi a qualche azione dimostrativa per non insospettire gli alleati anglosassoni. Questi accordi costellano buona parte della nostra presenza militare in Afghanistan, provocando numerosi incidenti con i nostri alleati. Il più grave avvenne a Sarobi. Gli italiani avevano stretto il solito accordo di non belligeranza con i Talebani. In quella zona quindi la situazione era stata per molto tempo tranquilla. I francesi sostituirono il contingente italiano che non li avvertì del tacito accordo preso con i Talebani. I soldati francesi si mossero quindi nella convinzione che non ci fossero pericoli e non presero quindi le necessarie precauzioni. Furono attaccati di sorpresa da un commando talebano e subirono la più grave perdita che i nostri cugini d’oltralpe hanno avuto in Afghanistan: tredici paracadutisti ci lasciarono la pelle, venti furono feriti gravemente. Il colonnello dei marines Tim Grattan sbottò: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti Talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”.

Questo nostro atteggiamento spiega il numero relativamente basso di perdite che in vent’anni abbiamo subito in Afghanistan: 54 morti. Ma solo 31 in combattimento, 10 per incidenti stradali, due di infarto, uno per malattia e un “addestratore” che si è incidentalmente sparato addosso, altri per annegamento. Gli olandesi, che si sono battuti bene in Afghanistan in una delle zone più pericolose, l’Uruzgan, hanno perso 24 uomini, tra cui il figlio del loro comandante, su 1900 effettivi, e quindi proporzionalmente molto più di noi. Gli inglesi, che sono forse quelli che si sono battuti meglio, hanno perso circa 450 uomini, gli americani, pur combattendo prevalentemente con l’aviazione, 2300.

Non pensi il lettore che io disprezzi i soldati italiani che hanno operato in Afghanistan (molte più perplessità le ho sui loro comandi e sui vari ministri della Difesa cui erano sottoposti). La mia biografia del Mullah Omar è dedicata proprio a un soldato italiano, il caporalmaggiore degli Alpini Matteo Miotto. Nell’inverno del 2010 Miotto, veneto, orgoglioso delle proprie radici, scriverà questa lettera al Gazzettino di Venezia: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi”. Questa lettera la pubblicai solo io sul Gazzettino di Venezia che devo dire, pur essendo un giornale conservatore molto lontano dal mio pensiero, mi ha sempre permesso di scrivere ciò che pensavo e solo ciò che pensavo. Fosse dipeso da me quella lettera l’avrei fatta pubblicare sulla prima pagina dei principali quotidiani italiani. Forse così anche i nostri dirigenti politici avrebbero capito quello che il ventiquattrenne Miotto aveva capito. Orgoglioso delle proprie radici e delle proprie tradizioni comprendeva che anche altri popoli, pur tanto diversi da noi, possono avere, e hanno, gli stessi sentimenti di appartenenza nazionale o etnica. Se i politici occidentali avessero capito quello che aveva capito il soldato Miotto, se avessero rispettato la cultura afghana senza ergersi a “cultura superiore” probabilmente la guerra all’Afghanistan, se depurata dai loschi interessi che ci hanno portato là, non ci sarebbe mai stata. Dall’intero tono della lettera si capisce che Matteo non era convinto che la guerra cui stava partecipando fosse giusta, che fosse giusto combattere altri ragazzi come lui, diversissimi in tante cose ma con dei valori essenziali condivisi: la difesa delle proprie radici, della propria identità, della propria dignità, della propria sovranità nazionale. Non era convinto, ma da bravo soldato, da veneto orgoglioso e fiero, ha fatto il suo dovere fino all’ultimo. Morirà in combattimento due mesi dopo questa lettera, mentre il ministro della Difesa Ignazio La Russa (perché abbiamo avuto anche un La Russa come ministro della Difesa) dandosela da D’Annunzio per meno abbienti sorvolava in elicottero Herat, dove era concentrato il nostro contingente, sganciando volantini con cui i nostri soldati si pulivano giustamente il culo.