Kabul, la Fao avverte: la siccità minaccia 7 milioni di afghani

In Italia. La rinfrescata da Nord-Est di fine agosto, normale per il periodo, ha chiuso un trimestre estivo che molti al Settentrione hanno percepito come mediocre a causa di un luglio atlantico, nuvoloso e temporalesco. Tuttavia i termometri dicono che, per effetto dei calori di giugno e metà agosto, si è trattato nel suo insieme dell’ennesima estate calda con quasi 1 °C sopra la media dell’ultimo trentennio, settima in classifica nella serie dal 1878 a Parma, ottava dal 1871 a Piacenza, nona dal 1753 a Torino, decima dal 1929 a Pontremoli. Ma la calura anomala è stata ancora più presente al Sud, dove gli anticicloni nord-africani hanno insistito più del solito, con eccesso termico di 2 °C. E mentre le Alpi hanno sofferto nubifragi rovinosi, dal Po in giù ha prevalso una grave siccità che i rovesci sparsi degli ultimi giorni non hanno risolto. A Pachino (Siracusa) non cade una goccia dal 19 aprile (138 giorni), fatto inconsueto anche per la secca estate siciliana. Tra il 30 e il 31 agosto per la prima volta nella stagione le temperature minime sono scese sotto i 10 °C in alcune località padane; inoltre, spruzzata di neve a 2000 m sulle Dolomiti, grandine sul Ravennate e pomeriggi a 30 °C confinati tra Tirreno ed estremo Sud.

Nel mondo. L’uragano Ida, di categoria 4, si è abbattuto domenica 29 agosto sulle coste della Louisiana producendo raffiche di vento distruttive fino a 277 km/h e vaste inondazioni per le piogge torrenziali e una marea di tempesta da tre metri. A differenza di 16 anni fa con Katrina, le dighe di protezione a New Orleans hanno retto ma la città è rimasta al buio. Benché declassato a depressione extra-tropicale, Ida ha poi proseguito verso il Nord-Est riversando diluvi eccezionali che mercoledì 1° settembre a New York hanno determinato una delle peggiori alluvioni urbane della storia statunitense (214 mm d’acqua sono piovuti in 24 ore a Newark, massimo mai registrato in tutto l’agglomerato di Nyc). Bilancio di 59 vittime e danni per oltre 50 miliardi di dollari, sesto uragano atlantico più dannoso negli Usa e secondo in Louisiana dopo Katrina. Proprio mentre Ida era in azione, usciva su Nature Climate Change lo studio Extreme sea levels at different global warming levels coordinato da Claudia Tebaldi del Joint Global Change Research Institute (Maryland), secondo cui entro il 2100, anche con un riscaldamento globale moderato (i +1,5 °C auspicati dall’Accordo di Parigi), metà delle località costiere mondiali saranno allagate almeno una volta all’anno, specie in occasione di tempeste, da estremi di marea che oggi hanno ricorrenza solo centenaria. Negli ultimi giorni le alluvioni hanno infierito anche in Catalogna e Andalusia, Messico, Indonesia, Sud Sudan, Ghana, nell’Assam indiano e ad Auckland, in Nuova Zelanda, mentre proseguono gli incendi in California e la Fao segnala che la siccità minaccia la sussistenza di 7 milioni di afghani peggiorando la crisi umanitaria. Intanto, con la caduta in mano ai talebani, l’aeroporto di Kabul dal 31 agosto ha cessato di trasmettere i preziosi dati meteorologici, base per l’elaborazione delle previsioni, fondamentali per trasporti, sicurezza, agricoltura ed economia. In un mondo sempre più colpito da eventi meteorologici estremi, quintuplicati negli ultimi 50 anni anche a causa dei cambiamenti climatici, proprio lo sviluppo di avanzati sistemi di allerta ha permesso di ridurre allo stesso tempo le vittime di almeno tre volte, dice il nuovo Atlas of Mortality and Economic Losses from Weather, Climate and Water Extremes dell’Organizzazione meteorologica mondiale. Ma il vantaggio riguarda soprattutto i Paesi ricchi: in quelli in via di sviluppo, ancora in attesa di efficaci servizi di protezione civile, si è concentrato in questo mezzo secolo il 91% delle perdite umane.

 

MailBox

 

Il mistero del Green pass sul traghetto per Messina

Non fanno che ripetere in tv, e immagino che i dati siano corretti, che la Sicilia sia la regione con meno vaccinati e più contagi. Allora perché i traghetti dello Stretto di Messina sono gli unici sui quali non vi è l’obbligo del Green pass? Per poter esportare meglio il virus dall’isola alla terra ferma? E perché se vengo o vado dalla Liguria alla Lombardia (o Piemonte), con un intercity devo mostrare il lasciapassare verde e se uso un treno regionale per la stessa tratta no? Perché costa meno, non c’è la prenotazione obbligatoria e quindi spesso più affollato? Non attendo risposte… non ce ne sono!

Annamaria

 

L’incoerenza di Renzi e della sua “scuola”

A Ponte di Legno, le scuole di formazione politica impazzano e i protagonisti si specchiano negli stagni senza fondo della vanità. Renzi ha illustrato il testo per il referendum, che propone di abolire il Reddito di cittadinanza. Il leader di Italia Viva vuole creare lavoro, non sussidi. Quel lavoro che ha saputo incrementare quando era premier, con il famigerato Jobs Act. L’ex “rottamatore” ha irriso Di Maio, un politico che disse “abbiamo abolito la povertà”. Anche lui, il “conferenziere” d’Arabia, sostenne che, se avesse perso il referendum costituzionale, si sarebbe ritirato. Invece, è ancora qua ad ammorbare l’aria.

Marcello Buttazzo

 

La mia più profonda gratitudine al “Fatto”

Va riconosciuto il capolavoro portato a compimento dai manovratori attraverso i mass media (al soldo di un liberismo padronale che ha ridotto la politica a complice servile e interessata): aver convinto buona parte delle classi meno abbienti che, questa deleteria mistificazione, è anche a vantaggio loro. Per fortuna nostra e (a loro insaputa) anche dei suddetti utili sprovveduti, esiste un gruppo di uomini e donne intellettualmente “untouchables”. Persone libere di cui Montanelli sarebbe fiero, che hanno assunto facente funzione di quell’esercizio democratico che, normalmente, dovrebbe essere di prerogativa politica. Cosa ne sarebbe stato di un Paese in una situazione comunque distorta se non fosse esistita un’isola (pur assediata) di libertà d’informazione come il Fatto? Il mio senso di gratitudine va molto oltre un lavoro ben fatto fine a se stesso. È il salutare conforto che i giornalisti con la G maiuscola stanno dando a tutti quei cittadini che hanno a cuore una democrazia di dignità, libertà, solidarietà e interesse comuni.

Giovanni Marini

 

Anche chi non lavora può arricchire la società

Concordo con l’articolo di Giovanni Valentini relativo al Reddito di cittadinanza, tranne che su un punto. Valentini scrive che “chi non lavora non occupa né un posto né ha spazio nella società”. Io ho vissuto otto anni senza lavorare. In quel periodo mi sono occupato di volontariato: accompagnavo persone verso luoghi di cura per terapie, prevalentemente di carattere oncologico. Ho resistito grazie al sostegno di molti amici, finché ho trovato lavoro. Certo, vivevo una condizione che non dava grosse possibilità, ma ho impiegato il tempo ad aiutare il prossimo e non lo facevo per il piccolo rimborso spese che ricevevo. Di fronte a chi ha lavoro, carriera, famiglia posso essermi sentito sminuito, ma un ruolo me lo sono dato e la dignità non è mai venuta meno. Il lavoro, secondo la nostra Costituzione, è qualsiasi “attività o funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4). È quello che ho fatto: mi sono dato “un posto e uno spazio nella società”.

Paride Antoniazzi

 

Non dimentichiamoci le donne di Herat

Per costruire democrazia e giustizia ci vuole tanta piazza dei cittadini, non le bombe degli stranieri. In Afghanistan, lo hanno capito prima di tutti le donne, le quali hanno manifestato a Herat per il “diritto all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza e alla partecipazione al nuovo governo del Paese”. Una manifestazione di coraggio enorme nei confronti dei fautori della sharia, che vedono le donne come esseri inferiori e da controllare. Ma il coraggio è contagioso e questa mobilitazione – che nessuno si è azzardato a disperdere con fruste e bastoni – fa ben sperare anche per altre conquiste sociali, oggi impensabili nella teocrazia dei talebani. Ora che è finita la guerra, possono iniziare le lotte sociali. Teniamole d’occhio queste indomite donne afghane, sosteniamole con l’attenzione. E se ottengono risultati concreti candidiamole al Nobel per la Pace.

Massimo Marnetto

 

Salvini e le sue frottole su migranti e talebani

Ogni tanto penso alle cazzate di Salvini, come quando diceva di essere fiero di aver difeso i confini del nostro Paese, e a me venivano in mente carri armati e sottomarini pronti a invaderci, salvo poi scoprire che si trattava di piccole imbarcazioni con gente che scappava dalla povertà o dalla guerra. Quando diceva che avrebbe rimpatriato i clandestini, senza mai spiegare come avrebbe fatto. Adesso dice che lui con i talebani non ci parla, vorrei chiedergli come risolverebbe lui il problema, parlando forse con i foggiani o i bergamaschi? Con tutto il rispetto: cazzaro si nasce… e citando Totò, lui modestamente lo nacque.

Antonio di Pietro

In cammino. I sentieri di Dio sono imprevedibili e lontani dai riflettori

Gesù è per strada. Dio cammina. È sempre in uscita. Marco (7,31-37) ce lo fa vedere su una cartina, come un puntino visto dall’alto, mentre esce dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, e andando verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. La descrizione del percorso verso nord è puntuale. Però basta guardare una mappa per accorgersi di una stranezza: per scendere a sud da Tiro verso il lago di Galilea Gesù decide di passare da nord. Non ha senso. O forse ha molto senso: Tiro, Sidone e la Decapoli sono i territori pagani. Lì cammina Gesù. Da lì vuole passare facendo giri incongrui e attraversando luoghi dove non è conosciuto. I sentieri di Dio sono imprevedibili, fuori comunque dalla logica dell’efficienza e dell’ovvio.

Lungo questa strada gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli le mani perché guarisse. Immaginiamo la scena perché Marco prima ci fa vedere il tragitto dall’alto, poi zooma sulla strada. Sappiamo che c’è folla. L’obiettivo di Marco si stringe ancora di più e adesso si concentra sui due: Gesù e il sordomuto, anche perché il Messia rifugge dagli occhi indiscreti: lo prese in disparte, lontano dalla folla. La gente ama lo spettacolo, e qui Gesù ha bisogno invece di stabilire un contatto a tu per tu. Dio non dà spettacolo per imporsi facendo gesti clamorosi sotto gli occhi dei riflettori. Fosse anche per convertire. Non lo fa. L’ottica di Marco si stringe ancora e ancora di più e si concentra su un dettaglio: le dita di Gesù. Vediamo solo quelle mentre compie un gesto inaudito: gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua. L’intimità di Dio con quell’uomo di terra pagana è talmente forte che coinvolge il tatto e un liquido corporeo come la saliva. E le dita si poggiano su orecchie e bocca, porte del volto umano. Aperture che il sordomuto aveva bloccate. Per essere precisi, il termine greco ci fa capire che non era del tutto muto, ma parlava con difficoltà, non articolava bene i suoni. La sua relazione di scambio col mondo e con gli altri era monca, povera, disarticolata.

Marco adesso sposta il suo obiettivo sugli occhi di Gesù. E così ci fa vedere che il Salvatore non chiude il sordomuto in una relazione io-tu, tutta concentrata su se stessa. Gesù, infatti, guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro. Il cielo, cioè l’Alto, il Padre. Gesù coinvolge il sordomuto nella relazione tra Figlio e Padre. Lo guarisce quando alza gli occhi al cielo. Non ha il tocco magico, poteri parapsicologici. Ha fede. E sospira. Gesù emette un sospiro e gli disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!”. Cielo e terra si saldano in uno sguardo e un sospiro. Apriti! Gesù lo stappa da dentro. Non gli dice “guarisci” o “sii guarito”. Dice “apriti!”. Il racconto ha una accelerata improvvisa e si attiva il sonoro. Fino a questo momento è stata una scena muta: E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Sentiamo il botto della barriera del suono che è superato. Sentiamo il “nodo” della lingua sciogliersi e uscire le prime parole corrette. Il guarito non blatera più parole disarticolate, ma parla con proprietà di linguaggio.

Adesso Marco può allargare a grandangolo il suo obiettivo. Gesù proibisce di parlare in giro di quel che era accaduto, ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”. Ecco la parabola della fede: dal dettaglio muto delle dita di Gesù bagnate di saliva alla visione di un annuncio che si propaga sonoramente dappertutto.

Il morbo di Orbán tende a diffondersi in fretta

Come accade per le più pericolose epidemie, è facile all’inizio sottovalutare il pericolo: Viktor Orbán – capo di un partito minore e prepotente di un Paese che ha la storia, la reputazione, la cultura dell’Ungheria – è diventato importante quando, proprio in quel Paese, ha cominciato a vincere.

Media e politica europea hanno sottovalutato quelle successive vittorie elettorali, anche se a ognuna seguiva un atto distruttivo nei confronti della democrazia magiara: contro la cultura, contro le università, contro i giudici, contro “gli stranieri” ovvero l’immigrazione, definita subito “clandestina” e contro gli ebrei, o almeno contro un importante e noto cittadino ebreo-ungherese che aveva fondato la più grande università del Paese e si era impegnato nel sostegno dei salvataggi in mare dei migranti e nelle accoglienze. George Soros è diventato nemico pubblico numero uno di uno schieramento sempre più ampio a disposizione di Orbán, con l’impulso e il sostegno da un lato degli uomini di Trump e dall’altro degli appassionati della morte in mare dei profughi, in un mondo fondato sulla invenzione continua del falso.

Ecco, a questo punto è necessaria una riflessione. Molti di coloro che hanno ripugnanza per Orbán si domandano chi è quest’uomo che sbarra con crudeli barricate le vie di terra e crea annegamenti sulle vie di mare per coloro che anelano alla salvezza in Europa. Chi lo autorizza, come se fosse custode di un sangue sacro, a sbarrare una terra che nessun altro ha diritto di calpestare? Non conosco molto della sua vita e non desidero conoscerla. Vedo la disumanità del suo disegno politico, ma non so che cosa lo mobilita e lo fa diventare il leader massimo di tanta gente appena liberata da un’altra oppressione, quella del post-stalinismo, che va in cerca della stessa oppressione. E qui è evidente un altro fenomeno: un leader privo di idee politiche, incapace di comunicare una visione del mondo, tranne varie forme di persecuzione, diventa il prescelto e il favorito di alcuni Paesi dell’Unione europea di cui disgraziatamente Orbán fa parte.

In questo momento il premier ungherese sta facendo vacanze in Italia e riceve visite, attenzioni e scambi di opinioni da una leader politica italiana, Giorgia Meloni, che fa il gioco di accogliere nel suo partito tutto ciò che resta del fascismo, ma intanto riesce nel gioco di sembrare “pulita”, come certi collaboratori di mafia, quelli che nonostante le migliori frequentazioni alla fine scansano il processo e soprattutto l’aggravante di mafia. Tuttavia l’asse Roma-Budapest non è che una parte del contagio: Orbán ha spaccato l’Europa riuscendo a impedire in Ue qualsiasi impegno di accoglienza o soccorso all’intero mondo abbandonato dell’Afghanistan. Spingendo fuori strada il falso buonismo di Salvini – che era arrivato a dire: “Aiuteremo chi viene dalla guerra di Afghanistan, ma non ci dicano che in Africa ci sono guerre” –, Orbán, mentre passa le sue vacanze con Meloni, arriva a dire: “Certo che li aiuteremo. Li aiuteremo a casa loro”.

Soltanto alcuni membri della Commissione e del Parlamento europei (David Sassoli tra i più vigorosi) hanno detto la loro indignazione quando hanno constatato che a uno a uno gli Stati europei se ne stavano andando con il primo ministro ungherese Orbán, di professione persecutore. Proprio nel Paese in cui – ha scritto Giorgio Perlasca nel suo diario, del 1944 – il Danubio, tra le due rive di Buda e di Pest, era rosso del sangue delle vittime (ebrei e antifascisti) si è stabilito che la nuova norma dell’Unione europea sono i sacri confini, sbarrati in terra e in mare, per impedire il passaggio di cerca soccorso.

A questo punto è chiaro che l’avventura Orbán-Meloni non è un fatto locale o personale. È triste e umiliante per l’Italia che ci sia un legame così forte fra due personaggi e due partiti volti alla caccia razzista, antifascista, che ha deliberatamente amputato il grande strumento della solidarietà. Ma è ancora più grave constatare che l’urto di estrema destra (con la partecipazione attiva e vivace dell’Italia) sta spaccando l’Unione europea in un modo che potrebbe essere irreversibile. Poiché sono appena caduti malamente gli Stati Uniti dopo Kabul, una caduta simile (all’indietro, verso il niente) dell’Unione europea svuoterebbe il mondo delle sue attese e delle sue speranze. Una speranza è che il Papa noti e parli sul dirsi cristiani di questa gente che alza muri e affonda barche, e noti quanto sia blasfema la loro invocazione del crocefisso nei commissariati e nelle scuole.

 

Il giudice inflessibile sedotto dalla ballerina formosa e frusciante

Dalle novelle apocrife di Élisabeth de Gramont. Nell’antica città di Tolosa, in Rue Sainte-Lucie, c’è un’elegante villa in pietra con un bassorilievo misterioso sopra l’ingresso. Lo stemma, un leone in campo dorato, era l’emblema della famiglia Sabatier, i vecchi proprietari. E sopra lo scudo c’è un angelo, raffigurato dallo scultore con un dito sulle labbra, un invito a tacere. Pochi sanno che il segreto dell’angelo è un omicidio impunito. Il Sabatier che aveva commissionato il bassorilievo era un giudice noto per la sua inflessibilità. Lo consideravano pure saggio; ma, come si sa, amor vincit sapientiam: e il giudice si era innamorato di una ballerina di café chantant formosa e disinvolta, frusciante, tintinnante, dagli svolazzanti imprimés; una cornificatrice nata che tre mesi dopo il matrimonio, annoiata dalla quiete della villa e dall’austerità del marito, già cominciava una relazione con un aitante giovanotto, Pierre Fragonard, un assistente di tribunale che bazzicava per casa.

Il giudice, addestrato all’investigazione e alle leggi dell’evidenza, capì subito cosa stava accadendo sotto il suo tetto. Era furioso e amareggiato, ma teneva per sé queste emozioni: odiava i pettegolezzi, e l’esperienza gli aveva insegnato che le punizioni non cambiano il carattere, anzi. Un giorno tornò a casa prima del previsto. L’anziano maggiordomo, agitato, gli disse: “Signore, ho visto un uomo entrare di nascosto nella camera di sua moglie”. “Indago subito. Tu resta qui all’ingresso, di guardia” disse il giudice, e irruppe nella stanza. Pierre, il terrore negli occhi, balzò nudo dal letto e s’inginocchiò ai suoi piedi, implorando pietà. Si beccò un ceffone sonoro. La donna, anche lei nuda, si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere. “Silenzio”, ammonì il giudice. “Siete colpevoli di flagrante adulterio. Re ipsa loquitur. Ma non sopporto i pettegolezzi, quindi risolverò la faccenda in altro modo”. Ingiunse a Pierre di lasciare Tolosa entro un’ora, per sempre; e lo fece uscire dalla terrazza sul retro. Quando il giudice aprì la porta della camera, sua moglie era vestita e il letto in ordine. “Là dentro c’è solo mia moglie” disse al maggiordomo, con un effetto di sopracciglia e di narici. “Signore, le giuro che ho visto entrare qualcuno”, disse quello, stringendosi nelle spalle spioventi. “Allora guarda tu stesso”. E lo invitò a cercare ovunque. Fallite le ricerche, il giudice gli disse: “Sei sempre stato un ottimo maggiordomo, ma hai giurato il falso. Sei licenziato. Non voglio più vederti”.

Dopo l’episodio, nella villa per qualche tempo tornò la quiete; ma un giorno la moglie del giudice fu invitata al matrimonio di una cugina, a Muret. Il giudice disse allo stalliere fidato: “Non dar da bere al mulo. E quando gli darai da mangiare, mischia del sale al fieno”. Il giorno dopo, la moglie, tutta allegra, lasciava la villa a dorso di mulo. Si era congedata porgendo al marito una guancia, che il giudice aveva timbrato con un bacio. Mezz’ora più tardi, la strada affiancava la Garonna. Di colpo, il mulo assetato si lanciò verso l’acqua, trascinandoci la passeggera, che fu risucchiata da un gorgo. Il giudice accolse la notizia ferale con dolore e con letizia, poiché in fondo l’amava ancora, ma ancor di più l’amava in fondo. Da quel giorno diventò piuttosto elastico nell’applicazione delle leggi: “Noli esse justus multum”, non essere troppo giusto, ripeteva a se stesso. Aveva capito che sotto la maschera della legalità spesso si nascondono la vendetta e il piacere di fare del male al prossimo. E qualche tempo dopo ordinò il bassorilievo con l’angelo dalle labbra sigillate. Morì pieno di giorni e di merito.

 

L’obbligo vaccinale è un errore

 

“Sì”.

Risposta di Mario Draghi alla domanda sulla possibilità di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il Covid

 

Pensiamo che una legge del governo che renda obbligatoria la vaccinazione sia, nelle attuali condizioni, peggio di un crimine, un errore (Joseph Fouché). Ne ha già scritto ieri Marco Travaglio spiegando “l’effetto boomerang” di un tale annuncio, ma convinti come siamo che su materie tanto sensibili il più ampio confronto sia indispensabile abbiamo guardato alla nostra destra. In un caso abbiamo il direttore del “Tempo”, Franco Bechis, che a “In Onda” osserva, giustamente, che una risposta sì e basta “la dà il dittatore dello Stato di Bananas”. Difatti, un presidente del Consiglio spiega “il perché e il come”. Poi c’è Giuliano Ferrara che sul “Foglio” va in solluchero per la “risposta corta” che “detta bene realizza con basso dispendio di energia il massimo della cattiveria, della sicurezza di sé, della beffa alle critiche verbose”, e così via sdilinquendosi per il “tocco d’artista” e il “naturale elegante cinismo”. Una prosa che, insieme all’inevitabile sviolinata al premier (quando è che Palazzo Chigi istituirà un ufficio moderazione soffietti per placare i più scalmanati?), contiene la mai sopita pulsione eroticopolitica per un Re Sole, fosse anche nato a Monteverde. Se casomai il premier volesse attingere a un’opinione mediana, non troppo male, o peggio ancora, bene intenzionata, Tito Boeri e Roberto Perotti su “Repubblica” fanno al caso suo. Nel definire “semplicemente impensabile” costringere milioni di persone a subire con la forza la siringata vaccinale, e anche improponibile una qualunque sanzione ai non ottemperanti, pena altrettanti milioni di ricorsi e sentenze in tempi biblici. Non resterebbe dunque che la via del “pragmatismo”, cioè “abbandonare l’idea dell’obbligo assoluto” e invece adottare “l’obbligo relativo nella sanità, nella scuola e nella università, nella Pubblica amministrazione e nel privato a diretto e stretto contatto con il pubblico”. Noi più modestamente pensiamo a quel “sì” (troppo perentorio per essere vero) come a uno spauracchio. Ovvero: sbrigatevi a vaccinarvi prima che vi mandiamo i carabinieri. Con il solo annuncio del Green pass ci fu l’assalto ai vaccini. Forse agitare l’obbligo potrebbe indurre altre moltitudini a scoprire il braccio. Nei prossimi giorni vedremo l’effetto che ha fatto.

 

Debiti miliardari e scorie senza fine: l’eredità delle centrali è solo in perdita

Il revival dell’energia nucleare ventilato dal ministro della transizione energetica, pardon, ecologica, di ecologico non ha nulla. Questa modalità di produzione di energia elettrica mostra da decenni i suoi problemi insolubili, di cui l’incidente di Fukushima a seguito dello tsunami del marzo 2011 è l’esempio lampante. Dennis Normile, corrispondente dal Giappone della rivista Science, nel numero di marzo 2021 ha pubblicato un pezzo dal titolo Endless cleanup, pulizia senza fine, che illustra come la gestione della bonifica dei quattro reattori della centrale Daiichi impiegherà più di trent’anni e costerà almeno 76 miliardi di dollari. Di Chernobyl 1986 sappiamo meno, trattandosi di dati che l’Unione Sovietica di allora non ha mai voluto rendere pubblici, ma il disastro fu epocale.

Se volete una fonte più che affidabile sul costo del nucleare civile, basta attingere ai documenti governativi del paese che storicamente ha sviluppato una delle filiere più avanzate: la Francia. Scaricatevi il rapporto n. 1122 all’Assemblea Nazionale, redatto dalla commissione d’inchiesta sulla sicurezza delle installazioni nucleari del giugno 2018. Si legge che il costo complessivo dei danni prodotti dall’incidente di Fukushima, quindi estesi al territorio e non alla sola centrale, ammontano almeno a 170 miliardi di euro e che il costo di un incidente molto grave sarebbe dell’ordine di 400 miliardi di euro. Senza contare che i danni economici non indennizzano la sofferenza delle persone e l’abbandono perpetuo dei territori contaminati. Ci si augura che gli incidenti siano rari, ma non si possono purtroppo escludere. E se le centrali dovessero moltiplicarsi, statisticamente aumenterebbe anche la loro frequenza. Anche nel caso in cui tutto fili liscio, c’è il problema dei costi di decommissioning, lo smontaggio dei reattori arrivati a fine vita, la messa in sicurezza dei rottami radioattivi e la restituzione a green field del sito, cioè a prato verde. Sempre dal rapporto si evince che lo smantellamento dei 69 reattori dell’Esagono – i 58 in servizio più i già chiusi – costerà non meno di 75 miliardi, il che fa tremare i polsi alle casse dello Stato.

In Italia lo smantellamento della centrale nucleare di Trino Vercellese, iniziato nel 1999, terminerà probabilmente soltanto attorno al 2029 ed è già costato 245 milioni di euro secondo quanto riporta il sito della Sogin. Se facessimo il bilancio energetico di quanto sta assorbendo lo smantellamento rispetto alla produzione effettiva, emergerebbero delle sorprese rispetto alla presunta riduzione delle emissioni dell’energia nucleare. Sì, perché mai si fa cenno alla filiera completa: prima della fase di esercizio bisogna estrarre l’uranio in miniera, poco diffuso e poco concentrato, poi bisogna costruire le centrali, decenni di lavoro, tonnellate di cemento, rame e acciaio. Infine smontarle e stoccare per millenni le scorie, altra energia per la costruzione di depositi geologici che al momento nessuno ha identificato come permanenti e sicuri. Insomma, questi problemi del nucleare a fissione, nonostante annunci pieni di condizionali, nessuno li ha risolti né si intravvedono soluzioni nel breve termine dei prossimi 10 anni nei quali bisogna intervenire con decisione per evitare la catastrofe climatica.

L’idea poi di diffondere molti impianti nucleari di piccola taglia è quantomai rischiosa: se già è difficile controllare un settore fortemente centralizzato e sussidiato dai governi, pensate in un Paese come l’Italia dove non si riesce nemmeno a fare una decente raccolta dei rifiuti cosa significherebbe avere operatori disonesti e privi di scrupoli che alla prima difficoltà si sbarazzerebbero del giocattolo nucleare buttandolo a mare o scavando una buca. Nessuno piangerà mai i danni di un campo fotovoltaico dismesso, magari brutto da vedere, ma assolutamente inerte e privo di conseguenze sanitarie. Una potenziale proliferazione dell’inquinamento o del rischio di esplosione di impianti nucleari “puliti” solo a parole non avrebbe nulla di ecologico. Puliti davvero sono efficienza, risparmio e fonti rinnovabili.

Tana per Cingolani e la lobby del nucleare: ma Enel dice no

Pragmatismo, dati, numeri. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ama ammantare di inevitabilità le sue preferenze politiche. Come si ricorderà mercoledì, ospite di Matteo Renzi, ci ha intrattenuto sul nucleare “di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante: ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura”. “Nessuna proposta”, per carità, come ha spiegato ieri l’interessato, ma parole che venendo da un ministro vanno prese in considerazione. Ora, a parte che “prossima a essere matura” è definizione bizzarra (oltre vent’anni secondo i più ottimisti), sono le reazioni all’uscita del ministro – peraltro non la prima sul tema – che raccontano a quali mondi parli e quali ascolti Cingolani. Non certo gli ambientalisti “radical chic” o quelli “oltranzisti” – che secondo il nostro sono quasi peggio del cambiamento climatico – ma la sempre più smandrappata lobby dell’atomo. Gente come Paolo Scaroni, già a capo di Enel e Eni negli anni d’oro del berlusconismo, oggi vicepresidente della banca d’affari Rothschild & C.: “Sul nucleare condivido quanto ha detto Cingolani. Non si può escludere a priori una tecnologia che annulla le emissioni di anidride carbonica”, ha detto ieri a Repubblica. È il nucleare ambientalista la nuova canzone (e a Scaroni per la verità interessa poco pure che sia di quarta generazione): “Con le tecnologie che abbiamo oggi, e anche ipotizzando uno sforzo enorme sulle rinnovabili, non saremmo in grado di rispettare gli impegni per il 2050”, dice al quotidiano degli Agnelli. Un’affermazione su cui è in completo disaccordo l’Agenzia internazionale per l’energia dell’Ocse, ma tant’è, diamo retta a Scaroni, che nel 2013 – a un convegno di Confindustria Energia – definì “da ubriachi” investire nelle rinnovabili.

La compagnia di giro è sempre la stessa: oltre Scaroni, c’è l’Associazione italiana nucleare (citata ieri da La Stampa, sempre gruppo Gedi) e Chicco Testa, ex ambientalista e parlamentare di sinistra, poi assiduo nei cda para-pubblici in quota centrosinistra e infine manager e lobbista pro-nucleare (“pensare di garantire energia a sei miliardi di persone con le rinnovabili è una pia illusione”). Ci sono poi quelli che si entusiasmano quando sentono parlare di pragmatismo, anche se non sanno di cosa parlano: “Questa tecnologia (il nucleare di quarta generazione, ndr) è molto innovativa, non è il vecchio sistema della fissione nucleare. E se, come sembra, ha un sostegno scientifico, la considero una via estremamente interessante” ha detto al Forum Ambrosetti di Cernobbio (e dove sennò?) il presidente della Brembo Alberto Bombassei.

Curiosamente nello stesso augusto consesso è stato chiesto un parere anche a Francesco Starace, l’ad di Enel, che qualcosa sulle strategie energetiche conta: è realistico pensare al nucleare? Risposta: “No” e poi comunque questo “nuovo nucleare non è tanto nuovo come sembra”. E allora? “Vanno accelerati gli investimenti nelle rinnovabili”. Starace evidentemente non è pragmatico.

Lavoro. Le Maire come Biden: “Pagateli di più…”

Aumentare gli stipendi. È stato già suggerito agli imprenditori americani non da un pericoloso bolscevico, ma da un uomo affezionato al capitalismo come il presidente Usa, Joe Biden. E ieri lo spassionato consiglio è arrivato anche dal ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire. “Se mancano i lavoratori è perché le paghe sono troppo basse”, ha spiegato il ministro, ospite del Forum Ambrosetti di Cernobbio, a ilfattoquotidiano.it analizzando la problematica comune a tutta l’Europa, dove si sta registrando una carenza di manodopera in molti settori. “La carenza di manodopera e materie prime – ha spiegato Le Maire – dimostra che la ripresa c’è ed è rapida” e che per questo “aumentare i salari diventa un dovere, almeno in alcuni settori dove il tema dell’attrattività si fa sentire in modo particolarmente forte”. Del resto in Francia, dove durante i mesi estivi oltre 2 imprese su 5 hanno denunciato problemi di organici sottodimensionati, ci sono comunque 2,5 milioni di disoccupati. Una situazione simile a quella degli Stati Uniti, dove il presidente Biden nel corso di una conferenza stampa, nella quale era stato chiamato a rispondere sulla situazione economica nel Paese e sulle preoccupazioni per la mancanza di lavoratori in diversi settori, è arrivato a dire: “Ricordo che mi dicevate che gli imprenditori non riescono a trovare dipendenti. Io vi dico: pagateli di più”. Ci sono tanti modi per superare la crisi pandemica. Una di queste è aumentare i salari per incentivare i consumi.

La Cig eterna. Dal salvataggio del 2008 a oggi

Altri quattro anni di cassa integrazione per i dipendenti di Alitalia, una corsia preferenziale per l’assunzione in Ita e un pacchetto di interventi per la riqualificazione che potrebbe riguardare almeno 3.200 tra piloti e assistenti di volo. Questo il pacchetto che i sindacati hanno portato al ministero del Lavoro per chiudere il dossier che riguarda la vecchia compagnia, provando così a legare la durata della Cigs dei vecchi dipendenti Alitalia al decollo di Ita previsto il 15 ottobre che partirà, però, solo con 2.800 dipendenti per 52 aerei, rispetto ai 10.500 lavoratori attualmente contrattualizzati con la vecchia compagnia di bandiera. Le distanze restano evidenti: a fine luglio, Alitalia, in amministrazione straordinaria, aveva aperto la procedura per una proroga di un solo anno della cassa integrazione straordinaria a zero ore e riguardante più di 7.000 lavoratori con gli ammortizzatori sociali che però dovrebbero essere prorogati solo di ulteriori 12 mesi. Del resto l’utilizzo della Cig in Alitalia resta una costante da quando, nel 2008, l’ex premier Silvio Berlusconi chiamò un pugno di “capitani coraggiosi” a rilevare la compagnia di bandiera. Da lì la catastrofe: due fallimenti, una privatizzazione. Per i successivi 9 anni, lo Stato ha pagato quasi cinquemila cassintegrati con l’80% dello stipendio senza che venissero impegnati in altre attività o riqualificati per altri lavori. E tra questi oltre 150 tra piloti e dirigenti hanno preso da 10 a 20 mila euro al mese. A contribuire al pagamento è stata una speciale cassa pubblica alimentata coi biglietti aerei (3 euro) che ogni passeggero ha sborsato nelle tratte nazionali. Nuova crisi finanziaria nel 2017 e nuova tornata di cassa integrazione. Da quando si è insediata l’amministrazione straordinaria sono 10 le procedure avviate. La prima è del 2 maggio 2017, l’ultima dei commissari lo scorso fine luglio quando hanno ottenuto l’estensione della Cig fino al 23 settembre 2022, portando a 7 mila il numero dei dipendenti coinvolti. Ora con l’arrivo di Ita, la nuova richiesta è di arrivare al 2025.