Sahraa Karimi da Venezia: “Il mondo intero ci ha tradito”

Arriva dal Lido di Venezia l’ennesimo appello disperato per le sorti della popolazione afghana dopo la presa del potere da parte dei talebani. A lanciarlo ieri è stata Sahraa Karimi: “Il mondo ci ha traditi, chiedo il vostro appoggio, non finanziario ma intellettuale. Meritiamo di vivere in pace, meritiamo di realizzare i nostri sogni”, ha detto la regista al panel organizzato alla Mostra del Cinema sulla situazione disperata degli artisti nel Paese, perseguitati dai talebani. “Il 15 agosto ho dovuto prendere la decisione più difficile della mia vita, decidere in poche ore di lasciare l’Afghanistan”, ha raccontato con gli occhi lucidi Karimi, prima donna nominata presidente dell’Afghan Film Organisation. “Io sono potuta andare via, ma ci sono migliaia di talenti in Afghanistan che non sono riusciti a uscire e ora si stanno nascondendo perché sono in pericolo”. “Immaginatevi un paese senza artisti. Come potrà difendere la propria identità? Ora i talebani stanno cercando di mostrare un lato più morbido ma sono gli stessi di sempre. Immaginate cosa vuol dire nel XXI Secolo che qualcuno arrivi nel tuo Paese e ti dica: la musica è proibita, il cinema è proibito, alle donne anche l’istruzione. Chiediamo aiuto per raccontare attraverso le vostre voci, di filmmaker e giornalisti, cos’è l’Afghanistan”, ha detto la regista agli addetti ai lavori. Con lei la collega documentarista Sahra Mani (presente con il progetto “Kabul Melody”, su una scuola di musica per bambini osteggiata dai talebani): “Stavamo combattendo per un Paese migliore ma gli eventi delle ultime settimane ci hanno tolto gli strumenti. Giorni fa è stato arrestato un musicista. Come è possibile che dei terroristi internazionali abbiano potuto travolgere una parte del mondo. Oggi è il mio popolo a perdere tutto, ma domani potrebbe toccare ad altri. Dobbiamo interrogarci su cosa possiamo fare”, ha detto Mani.

L’ultima resistenza in Panshir ritarda il governo dei Talib

Sono le mine antiuomo piazzate sulla strada per il capoluogo Bazarak dai combattenti del Fronte di Resistenza Nazionale, basato nella valle settentrionale del Panjshir, a rallentare di fatto la proclamazione del nuovo governo dei talebani, già posticipata nei giorni scorsi. Nonostante due settimane fa, Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonima rete – la più violenta e ambigua perché punto di incontro tra l’ala oltranzisti e i terroristi di al Qaeda – avesse pubblicamente definito un “martire” il comandante Ahmad Shah Massoud, ucciso proprio da al Qaeda, padre del giovane Ahmad attualmente a capo dei resistenti, l’Nfr non ha accettato di deporre le armi e accodarsi ai nemici. Anzi, sull’account twitter Panjshir_Province, riconducibile alla resistenza, è stata dichiarata “una rivolta generale contro l’aggressione talebana. Secondo i principi del Panjshir, in una situazione come questa, nessuno abitante della valle deve aspettare a casa, tutti devono essere pronti a prendere le armi”.

L’account mostra anche un filmato in cui dei talebani vengono catturati e riporta di “pesanti scontri” nei distretti di Shutul e Anabah. In un altro tweet si afferma che le Forze della Resistenza hanno intrappolando un migliaio di combattenti talebani che erano appena entrati nella valle del Panshir. “La difesa della roccaforte dell’Afghanistan è indistruttibile”, ha twittato il portavoce del Fronte, Fahim Dashty. Di fronte alla sfida di trasformarsi da insorti a governanti, i talebani sono consci che dovranno prima spegnere la resistenza. Un fatto è certo, il premier del probabile governo sarà il Mullah Abdul Ghani Baradar, che ha pesantemente redarguito i militanti talib dopo che Venerdì notte a Kabul – nonostante la mancanza di una dichiarazione ufficiale dei vertici – si erano lasciati andare a festeggiamenti sparando raffiche di mitra lungo le strade per festeggiare la vittoria sulla resistenza. Baradar li ha accusati di “sprecare inutilmente munizioni preziose” e solo successivamente di aver messo a repentaglio la vita dei cittadini. Le “celebrazioni” hanno infatti provocato 17 morti tra i civili e una quarantina di feriti, portati all’ospedale di Emergency.

La resistenza non è stata dunque piegata e i combattimenti proseguono. I guerriglieri del Panjshir (a circa 80 km a nord di Kabul) che ha resistito per quasi un decennio all’occupazione dell’Unione Sovietica e anche al primo governo dei talebani dal 1996 al 2001, sono ancora dotati di armi pesanti ma, soprattutto, di coraggio. Nel Panjshir è appena giunto l’ex presidente a interim Amrullah Saleh che ha chiesto alla comunità internazionale di riconoscere quella parte del paese come sede de facto delle istituzioni dell’Afghanistan.

Intanto a Kabul i talebani ieri hanno disperso con i gas lacrimogeni un corteo di protesta formato da una trentina di donne, come era avvenuto il giorno precedente a Herat. Nel prossimo esecutivo sarà lo sceicco Hibatullah Akhundzada ad avere in mano il potere diventando il leader supremo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, alla maniera della guida suprema sciita iraniana, anche se i talebani sono musulmani sunniti. Pur protetti dalle montagne e determinati a immolarsi, i resistenti del giovane Massud difficilmente trionferanno, come dimostra l’arrivo a Kabul del generale Faiz Hameed, a capo dell’intelligence pachistana. Il capo della potente agenzia di spionaggio, che ha creato e sostenuto i talebani nei decenni, dovrebbe aiutarli a riorganizzare l’esercito afghano sotto le insegne del redivivo Emirato Islamico.

Infiltrati, armi e pass rubati: caos usa a Kabul

Il principio di Murphy applicato all’ennesima (Super)Potenza: tutto quello che poteva andare storto nell’evacuazione dell’Afghanistan è andato storto. Vent’anni di occupazione militare non sono bastati a vincere la guerra, ma non sono neppure serviti a preparare una ordinata ritirata: lo certifica – ma i fatti erano già sotto gli occhi di tutti – il New York Times, mettendo insieme in gran numero di documenti riservati ma non classificati. È l’ennesima scaramuccia nel conflitto velenoso tra Difesa e Intelligence su chi porti la maggiori responsabilità della Beresina afghana: sull’aeroporto di Kabul venivano al pettine tutte le inefficienze e le incongruenze dell’operazione “tutti a casa”.

Parlando alla Nazione il 31 agosto, a evacuazione bene o male conclusa, lasciando però indietro almeno un centinaio di cittadini americani e migliaia di afghani in diritto d’essere sfollati, Joe Biden ha detto che l’intera operazione, “uno straordinario successo”, è stata condotta nel modo migliore possibile, esaltando la dedizione e l’eroismo dei militari coinvolti, 13 di essi sono rimasti uccisi nell’attentato dell’Isis-K che, il 26 agosto, ha complessivamente fatto 200 vittime.

In un reportage parallelo, il New York Times narra pure come la protezione delle donne afghane sia venuta meno nel giro di una notte, con l’ingresso dei talebani a Kabul: le case rifugio chiuse e il personale ricollocò le ospiti a casa loro, dove i parenti, genitori, fratelli o mariti, pro-talebani o rilasciati dalle prigioni dove erano stati rinchiusi per averle maltrattate, minacciavano di ucciderle.

In qualche misura, l’epilogo del conflitto in Afghanistan è stato analogo all’inizio, stando al libro The Afghanistan Papers del giornalista investigativo del Washington Post Craig Whitlock, pubblicato negli Usa a fine agosto (uscirà in Italia a fine settembre, col titolo Dossier Afghanistan. La storia segreta della guerra. A credere a Whitlock, gli esordi non furono meno approssimativi della fine: il presidente George W. Bush non conosceva il nome del suo comandante in Afghanistan e non trovava il tempo per incontrarlo; il capo del Pentagono Donald Rumsfeld non aveva, per sua stessa ammissione, “alcuna visione” di chi fossero “i cattivi”, forse perché si ricordava di essere stato lui, una quindicina di anni prima, ad armarli e incoraggiarli a puntare su Kabul, nello spirito anti-Urss della Guerra Fredda.

Fra le disfunzioni dell’evacuazione, il New York Times riferisce di voli non autorizzati atterrati sull’aeroporto di Kabul e ripartiti con liste di passeggeri incomplete o non adeguatamente controllate, di centinaia di minori imbarcati senza i genitori, di migliaia di afghani stipati in hangar e tendopoli in precarie condizioni igienico-sanitarie in basi come Al Udeid, sede della 379th Air Expeditionary Wing, e Camp As Sayliyah, gestito dall’Esercito, vicino a Doha, in Qatar. Ci furono fino a 15 mila persone accalcate: succedeva di tutto. A Camp As Sayliyah, uomini soli, spesso militari dell’esercito afghano, erano “fuori controllo”: furono loro confiscate armi che avevano inopinatamente portato con sé sugli aerei. L’affollamento e l’incertezza sul futuro facevano salire la tensione alle stelle: c’erano molte donne incinte, che avevano bisogno d’assistenza medica; l’igiene approssimativa favorì epidemie gastro-intestinali. Separati dagli adulti, 229 minori senza famiglia si ritrovarono esposti al bullismo dei più grandi fra di loro. A nessun rifugiato venne fatto un test anti-coronavirus.

Inquietanti pure le notizie sulle condizioni di sicurezza dell’operazione, in funzione antiterrorismo: controlli frettolosi sull’identità e il background delle persone sfollate, oppure passaggi ai check-point dei talebani con badge elettronici inviati dagli americani agli afghani da evacuare, ma ampiamente condivisi. Constata il NYT: “Qualunque fossero i piani preparati per una ordinata evacuazione, tutto andò a monte quando Kabul cadde da un giorno all’altro”, malgrado l’affannoso prodigarsi di diplomatici, funzionari, militari, medici e sanitari. Un quadro addirittura grottesco, in un contesto drammatico, che stinge sull’immagine dell’Amministrazione Biden: non a caso, l’apprezzamento per l’operato del presidente è bruscamente sceso al suo livello più basso, per la prima volta sotto il 50% – il 44% lo approva, il 51% lo disapprova –, nonostante due americani su tre si pronuncino a favore del ritiro. Ma è il modo sotto accusa.

Il libro di Whitlock, in fondo, gioca a favore di Biden, perché mostra come l’Afghanistan sia stato terreno minato per tutti i presidenti che vi si sono misurati: Bush jr, Barack Obama, che voleva venirne via e non lo fece, e Donald Trump, che negoziò la resa poi trasformatasi in rotta, senza coinvolgere né il regime di Kabul né gli alleati. Whitlock, tre volte finalista ai Pulitzer, racconta una storia sconcertante per i paralleli con la guerra del Vietnam: gli Afghanistan Papers sono stati subito paragonati ai Pentagon Papers che Wp e NYT ottennero dalla talpa Daniel Ellsberg e che servirono a sbugiardare la versione rosea del Pentagono sull’andamento del conflitto nelle risaie dell’Indocina. Vengono a galla le bugie utilizzate per giustificare un conflitto senza fine. Dal 2001 oltre 775 mila militari Usa sono stati impiegati in Afghanistan, molti ripetutamente. Di questi 2.300 sono morti e

oltre 20 mila sono rimasti feriti.

A differenza del Vietnam e dell’Iraq, l’invasione americana dell’Afghanistan dopo l’11 settembre 2001 ebbe inizialmente un sostegno quasi unanime da parte dell’opinione pubblica. Gli obiettivi parevano chiari: sconfiggere al Qaeda e prevenire il ripetersi di attacchi terroristici. Tuttavia, dopo la rimozione dei talebani dal potere e la distruzione delle basi di al Qaeda, la missione assunse un’altra piega, impantanando militari Usa e alleati in un conflitto di guerriglia impossibile da vincere nell’illusoria speranza di porre in Afghanistan le basi di una democrazia d’impronta occidentale. Non si poteva concludere in modo peggiore.

La pupilla di Re Giorgio s’è “bruciata” con la riforma

Raccontano che il momento decisivo nella carriera politica di Marta Cartabia sia arrivato durante un innocuo question time alla Camera. È il 21 luglio e l’aula di Montecitorio è mezza vuota. La ministra della Giustizia prende la parola per rispondere a un’interrogazione dell’ex M5S Andrea Colletti sugli effetti della sua riforma, che con un tratto di penna cancellava la prescrizione di Alfonso Bonafede rendendo improcedibili anche reati gravi e provocando l’allarme tra i magistrati di mezza Italia. “Si è detto in questi giorni che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo – si altera il ministro della Giustizia – Non è cosi: i procedimenti puniti con l’ergastolo non sono soggetti ai termini dell’improcedibilità”. Silenzio gelido in Aula, nessun applauso. I deputati presenti sbarrano gli occhi: nella maggior parte dei reati di mafia non ci sono omicidi e quindi la pena massima non prevede l’ergastolo. Ergo: sono improcedibili anche quelli. Tant’è che dieci giorni più tardi, dopo il pressing del M5S, Cartabia si rimangia tutto: per i reati di mafia viene previsto un regime speciale, per cui non si rischia la prescrizione. Il 21 luglio, dopo il question time, nei corridoi di Montecitorio la frase più ricorrente recita così: “Oggi si è giocata il Quirinale”.

Nella corsa di Marta Cartabia al Colle esiste un prima e un dopo la sua riforma della giustizia. Il prima è quello della strategia: il passo felpato, i silenzi-assensi, la cautela nelle uscite pubbliche. Imperativo categorico: non scontentare nessuno per piacere a tutti. Di più, far sentire gli interlocutori importanti per aggiungerli alla lista dei suoi grandi elettori nel 2022. Ai tavoli di maggioranza in via Arenula – nella contesa tra l’avvocato di Berlusconi Francesco Paolo Sisto e Bonafede – usava dire: “Vi ascolto”. Poi prendeva carta e penna, iniziava a prendere appunti e annuiva. Alla fine del giro di proposte, chiudeva la sua cartellina e sentenziava: “Troveremo una sintesi, grazie a tutti”. Ecco le sue parole preferite: “Pacificazione”, “unità”, “vittime”. Piaceva a tutti. Sisto ne è rimasto impressionato: “È umile e ascolta tutti, una gigante”. Walter Verini, del Pd, era d’accordo: “Abbiamo totale fiducia in lei”. Lei questo lo sapeva e, oltre alla strategia cerchiobottista, sapeva che dalla sua parte aveva anche un certo phisique du rôle: donna, giovane ma esperta, cattolica ma laica, istituzionale (è giudice della Consulta dal 2011 e poi presidente tra 2019 e 2021) e con gli agganci giusti, a partire dai trascorsi in Comunione e Liberazione fino alla rete con gli allievi di Sabino Cassese. Dieci anni fa, fu l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a chiederle un colloquio privato tra gli stand del meeting di Cl a Rimini. Gliene aveva parlato bene il figlio Giulio: “Ti va di fare la giudice della Corte?” fu la domanda di Napolitano che, dopo due mesi, la nominò. Cartabia ha ottimi rapporti anche con Bernardo Mattarella ed è stata per anni vicina di casa del presidente Sergio alla foresteria della Consulta, dove sedeva Mattarella. Ma soprattutto, Cartabia aveva un vantaggio sugli altri pretendenti al Colle: donna, la prima presidente della Repubblica.

Poi ecco la sua riforma. Apriti cielo. La prima versione approvata in Cdm, che avrebbe mandato in fumo la maggior parte dei processi in Appello, ha fatto arrabbiare tutti: il M5S, i magistrati, le associazioni delle vittime di stragi e disastri. Anche Mario Draghi e, si dice, pure il Quirinale che, fino a qualche tempo prima, portava Cartabia su un palmo di mano. Lei però andava avanti, teneva un filo diretto quotidiano con i berlusconiani Sisto e Ghedini, ma anche con Giulia Bongiorno (avvocato di Salvini), per poi essere costretta al passo indietro con la seconda versione della riforma. Risultato: tutti scontenti comunque. I 5S, ma pure la destra che voleva una riforma più strong. “È un primo passo, ma la grande riforma è un’altra cosa” dice Matteo Salvini. Di certo, quindi, c’è che i grillini non la voteranno per il Quirinale, ma anche la destra non ha gradito la “resa” ai nemici giustizialisti. Lei però ci crede ancora. Ancora ieri ha partecipato al forum Ambrosetti di Cernobbio per entrare nelle grazie del mondo produttivo e dopo anni di militanza dentro Cl sta provando a scrollarsi di dosso quel marchio, al punto che ha deciso di non partecipare all’ultimo meeting, declinando l’invito alla kermesse di Rimini (non senza provare malumori nel movimento cattolico). Per arrivare al Colle, Cartabia può sperare solo nell’arguzia politica di una persona: Matteo Renzi. Che ha Pier Ferdinando Casini come prima scelta e poi Cartabia. Tant’è che mercoledì i due “quirinabili” erano a Castenedolo (Brescia) per presentare con Renzi una biografia di Mino Martinazzoli. L’impresa, considerando che Renzi a livello parlamentare conta 50 parlamentari sugli oltre 1000 grandi elettori, è quasi disperata. Ché Cartabia ormai ha bruciato i ponti con tutti: “Il Colle nel 2022 se lo sogna”, sentenzia un senatore. Restano in pochi a sostenerla, tra questi Giorgio Napolitano ma anche Sabino Cassese: “Al Quirinale vedo bene Cartabia” ha detto a metà agosto. Più che un endorsement, il bacio della morte.

Saluti romani. Pontinia, Fdi presenta nostalgico del Duce

Il volto fiero, gli occhi ridenti, il braccio teso a ricordare i bei tempi che furono (ma che lui non ha mai visto), sullo sfondo la mascella romanamente marmorea di Benito. Andrea Fabbri è quasi un habitué di Predappio: nel 2016 e nel 2017 è partito in pullman con altri “appassionati di storia” dalla sua Pontinia per rendere omaggio al Duce nel luogo dei suoi natali e non si è voluto negare la foto ricordo con il saluto romano che ha subito postato su Fb con quelle di diversi memorabilia: la divisa stesa sul letto, una presunta lettera scritta a Padre Pio “da fascista a fascista”. “Onore a voi e un saluto a Zio”, commenta un amico, con Fabbri che risponde con una manina tesa, da “patriota”, si dice oggi. Così lo ha chiamato Giorgia Meloni nella dedica lasciata sulla sua copia il 16 luglio, giorno la leader in cui è scesa a Pontinia per presentare il libro Io sono Giorgia. Ora Fratelli d’Italia, di cui in città è pure vicepresidente, lo ha candidato al Comune nella lista civica guidata da Massimiliano Anselmi. Il candidato sindaco, d’altronde, è appoggiato nientemeno che da Edda Negri Mussolini, nipote di Benito. La svolta di Fiuggi è alle spalle, ma il passato è sempre “presente!”.

Sessa, il Pd candida l’uomo di Cosentino

A Sessa Aurunca (Caserta) il candidato sindaco del Pd, Lorenzo Di Iorio, è un uomo legato alla stagione del potere dell’ex coordinatore campano di Forza Italia, Nicola Cosentino, fresco di condanna in appello a dieci anni per concorso esterno in associazione camorristica.

Non è gossip: risulta da una deposizione di un capitano dei carabinieri in una delle prime udienze del processo concluso con la condanna di Cosentino: “Di Iorio sì, era un uomo che interessava all’onorevole Cosentino, un’assunzione che interessava!”. Si riferisce all’ingresso di Di Iorio, all’epoca (primi anni 2000) consigliere comunale di minoranza, in Eco 4, il consorzio dei rifiuti del casertano. La cui presunta gestione politico-camorristica è costata la pesante condanna per l’ex sottosegretario di Berlusconi.

Di Iorio è anche citato nelle motivazioni della sentenza di primo grado: “Di Iorio Lorenzo, amico di Sergio Orsi (imprenditore dei rifiuti il cui nome ricorre in quasi tutte le inchieste sui rapporti tra il clan dei Casalesi e il settore dell’igiene urbana, il fratello Michele fu ucciso dal gruppo di fuoco di Giuseppe Setola, ndr), fu assunto dall’Eco 4 affinché si occupasse delle relazioni della società con le amministrazioni comunali. (…) non era inserito nell’organigramma della società, né la sua assunzione poteva dirsi davvero necessaria per la società. Non aveva neppure un suo ufficio presso la sede della società, né lavorava presso tale sede (…) Sull’assunzione di Di Iorio vi furono anche numerose interpellanze politiche ed un’inchiesta giudiziaria; tali circostanze indussero il Di Iorio a dimettersi”.

Fatti antichi e ricoperti dalla polvere del tempo, Di Iorio non risulta coinvolto direttamente in nessuna vicenda penale. Ma fa discutere il pasticcio del Pd che si affida a un politico di una stagione compromessa e dimenticabile. E, come è consueto a casa loro, finisce per dividersi al suo interno. E infine concede il simbolo a una coalizione dove prevalgono le forze di centro destra, con pezzi importanti di Lega e Fdi – tra cui il referente cittadino di Meloni, Francesco Brasile – camuffati in liste civiche, tra cui una, ‘Azzurra Libertà’, ispirata dal consigliere regionale di Forza Italia Massimo Grimaldi.

L’operazione non è stata indolore. Una parte dei dem ha provato a opporsi ed ha trovato sponda in Pina Picierno. L’europarlamentare ha investito della questione il segretario Enrico Letta e il responsabile Enti Locali Francesco Boccia. Il tesseramento di Sessa Aurunca è stato commissariato, mentre il segretario provinciale Emiddio Cimmino affidava al presidente del consiglio regionale Gennaro Oliviero la delega per il simbolo.

Diffidato da Letta e Boccia in persona in diverse sedi ad usarlo, Oliviero è andato avanti lo stesso. E così sulla scheda di Sessa Aurunca c’è il Pd alleato con la destra per sostenere un (ex) cosentiniano. Sono soddisfazioni.

Liste, caos Fratelli d’Italia: a Napoli si parte a testate

Peccato che nella sede di Fratelli d’Italia in via Calata San Marco a Napoli non ci siano le telecamere del Var. Sarebbero state utili per visionare le presunte testate che il consigliere regionale Marco Nonno e l’ex consigliere comunale Pietro Diodato si accusano reciprocamente di essere stati vittime, al culmine di un dissidio sulla composizione della lista Fdi per le Amministrative del 3 e 4 ottobre, tra due politici notoriamente nemici.

Nonno sostiene di essere stato colpito sui denti, Diodato in foto esibisce una ferita alla fronte. Ora si denunceranno tra di loro. È la politica da quelle parti, dove ci sono precedenti. Nonno fu condannato in primo grado a otto anni per la violentissima rivolta anti-discarica nel quartiere di Pianura del gennaio 2008, pende un appello dai tempi biblici. Diodato nel 2010 fu allontanato dal consiglio regionale campano per gli effetti di una condanna a un anno e sei mesi per i disordini elettorali della tornata del 2001, quando si votò in contemporanea per le Politiche e i comuni, e le lunghe code davanti ai seggi di Napoli degenerarono in scontri con la polizia.

Lo scontro di ieri mattina, preceduto da avvisaglie la tarda sera di venerdì, è sfociato nel sangue, e all’addio di Diodato alla lista Fdi: è stato ospitato last minute nella civica ‘Catello Maresca’, una delle dodici formazioni a sostegno del pm anticamorra candidato sindaco di centrodestra. Un magistrato che vive sotto scorta per le minacce del clan dei Casalesi, un uomo che ha dedicato la vita al rispetto della legalità, costretto all’imbarazzo di sapere che tra i suoi sostenitori ci sono persone che si picchiano per questioni di candidature.

In assenza di Var, affidiamoci alle versioni dei diretti interessati. Nonno, che si è presentato a Soccavo a consegnare le liste Fdi con una maglia sporca di sangue, dice che le cose sarebbero andate così: “Alle 23.30 di ieri (venerdì per chi legge, ndr) preparavamo le liste insieme agli onorevoli Del Mastro e Schiano, Diodato è entrato inveendo e dicendo che non sappiamo gestire il partito, poi è andato via. Stamattina alle 8.30 è tornato e ci ha ha detto ‘non mi candido più io al Comune e ritiro 35 candidati alle Municipalità’. Sarebbe stato assurdo, non avremmo più avuto le liste. Alle dieci è tornato dicendo di volersi candidare ma non c’era più tempo, allora ha preso le carte con la forza, noi con una serie di esponenti del partito lo abbiamo fermato, io gli ho strappato le carte di mano ma lui mi ha dato una testata davanti ai dirigenti del partito. Mi ha colpito sui denti davanti a sette testimoni, così si è procurato la ferita”.

Diodato invece su Facebook ha pubblicato la sua foto con la fronte ferita e poi in una diretta social ha spiegato: “Marco Nonno ha subdolamente compilato le liste di Fdi togliendo alcuni nostri esponenti. Sono andato al partito per vedere le liste, controllare se fosse vero e mentre provavo a prenderle dalle sue mani mi ha dato una testata che mi ha costretto ad andare in ospedale per medicarmi. Usciva sangue a fiotti”. E per evidenziare la ferita, ha tolto la garza e l’ha mostrata. Al Fatto, che lo ha chiamato mentre riposava su una barella dell’ospedale, Diodato ha aggiunto: “Avevamo trovato una mediazione dopo un chiarimento con l’onorevole Donzelli, ma Nonno ha provato a fare un blitz: e poi ce l’ha con me perché siamo entrambi di Pianura e sono stato testimone del pm al suo processo”. Già. Pianura, un quartierone da 57mila abitanti, è il loro campo di gioco politico e i due da anni si marcano con la stessa tenerezza di Chiellini su Lukaku agli Europei.

 

“Ora tocca al multilateralismo. E Salvini non insegua Meloni ”

Interviene da Doha alla festa del Fatto Quotidiano, da una missione internazionale che lo ha visto in Tagikistan e Uzbekistan e domani in Pakistan. Parla a lungo di politica estera e poi di politica interna. Qui uno stralcio dell’intervista riascoltabile integralmente sul sito ilfattoquotidiano.it

Qual è lo scopo del suo viaggio in quell’area, tra i primi occidentali?

È l’occasione per ribadire l’intervento italiano, apprezzato su vari tavoli e che si svolge su tre fronti: garantire un accesso libero alle Ong e alle Nazioni Unite, la lotta al terrorismo, perché c’è il rischio che l’Afghanistan diventi una comfort zone per le cellule terroriste. E poi l’aiuto umanitario. In Pakistan andrò nel campo dei rifugiati e l’Italia ha già stanziato 120 milioni per gli aiuti concreti.

Ma davvero esiste l’escalation terroristica? Gli attentati peggiori in occidente sono avvenuti dopo il 2001.

Può succedere se l’Afghanistan diventa uno Stato fallito, con campi di addestramento delle cellule terroristiche addensati nei suoi confini

Per evitarlo non c’è bisogno di parlare in qualche modo anche con i talebani?

Ho sentito tutti i ministri dei Paesi impegnati e non credo che assisteremo al riconoscimento del governo talebano, sono dubbiose anche la Cina e la Russia. Come Unione europea abbiamo stilato cinque condizioni: pieno accesso umanitario; lotta al terrorismo; libertà dei civili afghani di lasciare il Paese; il tema degli investimenti umanitari; formazione di un governo inclusivo, cioè anche di altre componenti afghane come i tagiki. E poi l’Italia presiede il G20.

Il G20 significa anche una linea contro l’unilateralismo degli ultimi 20 anni?

La prima cosa con cui si aprono i colloqui internazionali in questo periodo è che dobbiamo “imparare la lezione”. Il G20 costituisce un’occasione per il multilateralismo, anche se non c’è una posizione unanime sulla convocazione.

Ma questi 20 anni sono stati un disastro. Il M5S si è sempre battuto per il ritiro, ma oggi più che un ritiro è sembrata una fuga.

Non solo il M5S è sempre stato a favore del ritiro delle truppe dall’Afghanistan, ma dobbiamo dire che da Obama in poi l’argomento del ritiro è stato al centro del dibattito. Solo che nessun ritiro è immune dal trauma.

Non sarebbe corretta un’inchiesta sullo spreco di miliardi? Una volta il M5S l’avrebbe chiesta.

La comunità internazionale sta già contemplando iniziative, ma ora la priorità è non lasciare da solo l’Afghanistan, anche per evitare che altri Paesi entrino con la loro influenza politica in quell’area.

L’Italia appoggerà la proposta Borrell di una forza militare europea?

Il meccanismo di difesa europeo doveva essere fatto tanto tempo fa. Ma, attenzione, non stiamo parlando di creare una difesa europea per riportare i militari in Afghanistan. Ma con un esercito comune potremmo avere un peso politico maggiore.

L’Italia non dovrebbe rivedere le sue missioni militari nel mondo, visto il fallimento?

Le nostre missioni sono forti: tutti ci chiedono di restare in Libano o in Iraq. Occorre fare le giuste differenze.

Passiamo alle cose di casa nostra: è favorevole all’obbligo vaccinale?

Tutte le scelte fatte finora sono sempre state prese ascoltando la comunità scientifica. Mi spaventa quando argomenti che riguardano un Paese intero diventano appannaggio di una linea politica. Mi riferisco all’atteggiamento di Salvini. Non ne farei una questione di battaglia politica e Salvini deve decidere se inseguire la Meloni o il bene del Paese.

Questo governo sta facendo bene al M5S?

Non è detto che faccia bene al M5S, ma fa bene al Paese. L’abbiamo visto su Durigon, lo vedremo sul Reddito di cittadinanza. Non saremo mai quelli che ogni giorno creano fibrillazioni, ma la forza politica che lavora e porta a casa i risultati.

Per quanto riguarda una coalizione giallorosa, qual è il futuro a suo giudizio?

Il solco è stato tracciato e lo testimoniano le decine di amministrazioni comunali in cui noi governiamo insieme al Pd. Quando abbiamo visto un Pd più sensibile ai nostri temi, non più il Pd di Renzi ma quello di Zingaretti e Letta, abbiamo aperto alle alleanze locali.

La questione alleanze dipende anche dalla legge elettorale, lei pensa si voterà con l’attuale legge?

Sì, credo che andremo a votare coll’attuale Rosatellum.

Nel rapporto con il Pd che succederà a Roma al ballottaggio? Raggi o Gualtieri potranno sostenersi l’uno con l’altro?

Non stiamo pensando al momento del ballottaggio, ma a sostenere con tutte le nostre forze la Raggi. Le tante liste civiche in suo sostegno confermano che Virginia non è stata solo il presidio di legalità, ma è il motore per lo sviluppo di Roma. Tutto il M5S la sostiene e io la sostengo convintamente.

Lei viene dipinto spesso come emblema dell’ala governista del M5S. Parafrasando Nanni Moretti, ce la dice qualcosa contro la casta?

Più che dirla continuo a farla. Insieme ai miei colleghi continuo a tagliarmi lo stipendio e a finanziare progetti come ad esempio quelli sull’Afghanistan. Fare buona politica è il più grande sgarbo alla casta.

Come fa ad andare d’accordo con il ministro Cingolani?

Confido molto nel chiarimento che ci sarà tra Conte e Cingolani.

Ma da ministro?

Finora non ho visto iniziative sul nucleare in Consiglio dei ministri. Se dovessero esserci io le bloccherò.

Da SuperMario ai due Matteo: chi potrebbe finire all’Inferno

“Chi manderesti all’inferno?”. A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, (il 13-14 settembre) è a questo “gioco”, invero serissimo e politicamente scorretto, che si sono provati ieri alla festa del Fatto Pino Corrias, Massimo Fini e Luca Sommi, guidati da Silvia Truzzi. Passati al vaglio tutti i protagonisti della politica italiana. Giù dalla torre finiscono un po’ tutti (destino amaro della politica). Per primo Mario Draghi: dopo il Paradiso vissuto in Terra, grazie alla stampa encomiastica, “un po’ di purgatorio dovrà pur farlo”, valuta Corrias (che a proposito del premier scrisse: “non è nato a Betlemme, ma a Roma”). Anche se sfiora la “superbia” per frasi come “di solito le cose che faccio mi vengono bene”. Massimo Fini all’inferno ci manda invece Luigi Di Maio, per la ritirata “indecorosa” dall’Afghanistan. Camminando con Virgilio si incontra pure (certo) Matteo Salvini, assegnato al girone degli ipocriti, concordano tutti. Cerchia che pare condividere con l’altro Matteo, Renzi, anche se “lui potrebbe stare in tutti i gironi”, scherza Sommi. Più difficile, per i tre, trovare un peccato a Giorgia Meloni: pur nella distanza ideologica, le viene riconosciuta da Fini una passione politica autentica. Corrias le trova alla fine un girone non filologico (che manca nella Commedia: i “furbi”, per aver capito che dall’opposizione a Draghi si guadagna di più che dal governo. Difficile trovare un peccato anche a Enrico Letta, ma per opposte ragioni, però: non fervore ma apatia politica, in questo caso. Beppe Grillo ha rischiato “la selva suicidi”, vicino a Pier della Vigna (che Dante assolse dall’accusa di tradimento). E Giuseppe Conte? “Eretico”, valuta Sommi, perché primo premier “a non rispondere alle telefonate dei poteri forti”. Resta una parola per Piero Fassino: a lui gli appelli dileggianti “si faccia un partito” (a Grillo), “si candidi” (ad Appendino), e “si faccia un giornale” (ad Antonio Padellaro), valgono il girone degli indovini.

Pilliu: “Le nostre case sono la legalità per tutti”

Sembra una persona qualunque. Savina Pilliu sale le scale con una borsa verde acqua e prima di sedersi sul palco della Festa del Fatto si rivolge al pubblico con la voce rotta dalle lacrime: “Dovevo essere qui con mia sorella, invece sono da sola. Lei è felice se sono qui, doveva esserci anche lei”. Sua sorella Maria Rosa è mancata il 14 agosto scorso. Insieme hanno combattuto contro la mafia, che ha cercato di espropriarle delle due case in cui vivevano a Palermo, per costruirci un palazzo abusivo di nove piani. Il costruttore, Pietro Lo Sicco, colluso con la mafia, prima le invita a vendergli il terreno. Poi le sorelle iniziano a ricevere minacce. Davanti al negozio in cui lavorano vengono messi dei sacchi di calce: “Vuol dire che qualcuno ti augura di finire là dentro”, spiega Savina. A un certo punto il costruttore corrompe “le persone giuste” e costruisce il palazzo lo stesso, senza il consenso delle sorelle Pilliu. Durante i lavori le loro due palazzine vengono danneggiate. Lo Stato dovrebbe risarcirle con 700mila euro, ma quei soldi non arriveranno mai. Poi, oltre al danno, arriva la beffa: l’Agenzia delle entrate chiede alle Pilliu il 3 per cento della somma, nonostante quel risarcimento alle sorelle Pilliu non sia mai arrivato: nel frattempo i beni del costruttore erano stati sequestrati dallo Stato. Nella storia della criminalità organizzata spesso non si capisce dove finisce la mafia e dove inizia lo Stato. Nella storia delle sorelle Pilliu, invece, la linea di demarcazione è nettissima. Scorre tra quelle due case diroccate a piazza Leoni, a Palermo, e il palazzo abusivo di nove piani che svetta a pochi metri dalle impalcature che reggono in piedi le due palazzine.

Assieme a Savina Pilliu, origini sarde, sul palco della Festa del Fatto ieri c’era anche il vicedirettore del Fatto Marco Lillo e Pif, all’anagrafe Pierfrancesco Diliberto, in video-collegamento da Padova. Entrambi seguivano la vicenda delle Pilliu da parecchi anni e insieme hanno scritto Io posso, due donne sole contro la mafia, edito da Paper First e Feltrinelli: un successo editoriale che ha già venduto oltre 80 mila copie. “I diritti d’autore – ha spiegato Lillo – serviranno a ricostruire le case, simbolo della legalità. Per dimostrare che la mafia non vince: Io posso, questo è il senso del libro”. Sempre dal palco del Fatto, Pif ha promosso L’agenda della legalità: il diario scolastico per scuole medie e superiori sull’antimafia spiegata ai ragazzi, con le storie degli eroi che si sono battuti per la legalità. Io posso racconta una storia che, nonostante duri da 30 anni, non ha ancora un finale: “Il finale lo stiamo scrivendo in questi mesi – ha detto Pif – Il virus Pilliu, con la variante sarda: è questo ciò di cui abbiamo bisogno”. “Solo ricostruendo le case vince la legalità – ha detto Savina – sennò abbiamo perso tutti”.