Accuse e litigi, Raggi e Gualtieri poco giallorosa

I contorni di uno scontro, di una quasi litigata da urne già vicine, li raccontano gli autobus. Perché la sindaca che vorrebbe restare dov’è, Virginia Raggi, rivendica la distanza dal Pd partendo dai trasporti: “Non c’è stata alleanza perché noi la pensiamo diversamente, loro volevano privatizzare l’Atac, la municipalizzata dei trasporti, mentre noi vogliamo rendere accessibili gli autobus”. Ma il dem che vorrebbe scalzarla, l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, la accusa “di inventare di sana pianta”, perché lui l’Atac non vorrebbe privatizzarla: “Dirlo è una comica, quella era un’idea di Roberto Giachetti, che ora sta in un altro partito”. Che poi sarebbe Italia Viva, ma Raggi non rammenta e insiste (“No, è nel Pd”), e ovviamente Gualtieri lo fa notare. Vietati gli sconti, nel dibattito tra la sindaca e il deputato alla festa del Fatto: membri di partiti ufficialmente alleati, eppure pronti a darsele di santa ragione, davanti ai cartonati dei due che hanno disertato, Enrico Michetti e Carlo Calenda. Perché la partita di Roma è sangue e surrealtà. Raggi e Gualtieri sanno che bisogna prendersi un posto nel ballottaggio per il voto di ottobre. L’altro andrà per inerzia al candidato del centrodestra, quel Michetti a cui dopo reiterate gaffe hanno consigliato di fuggire da ogni confronto, mentre Calenda, che prima aveva detto sì e poi ha detto no all’invito del Fatto tramite interposto giornale, dovrebbe arrivare quarto su quattro.

Così è confronto a due, con Gualtieri che nel secondo turno è già pronto a chiedere il voto degli elettori a 5Stelle, “che in maggioranza sono favorevoli all’alleanza con il Pd per fermare la destra sovranista”. Mentre Raggi no (eventualmente) non chiederà sostegno e a naso non lo prometterà: “Gli elettori non sono mandrie da condurre, decideranno in base ai programmi”. Non ci sono punti di contatto, solo micce per lo scontro. La sindaca ricorda che lei è la donna della legalità, quella che ha abbattuto le villette dei Casamonica e risanato l’Atac schiacciata da un miliardo e 300 milioni di debiti: “Presentava bilanci falsi dal 2003 e nessuno se ne è mai accorto”. Chiarissimo il messaggio: votatemi, altrimenti torneranno quelli di prima. Gualtieri invece gioca la carta del competente al posto di chi ha fallito: “Roma è governata male”.

E naturalmente infierisce sui rifiuti – “la città non è mai stata così sporca” – sulla 5Stelle che in cinque anni ha cambiato quattro assessori e otto amministratori di Ama, la municipalizzata che si occupa (anche) di immondizia. “E poi sui rifiuti Virginia dice cose lontane dalla realtà”. Raggi prova a frenare l’avversario, elenca investimenti per 300 milioni in Ama e riapre la solita ferita: “È la Regione che deve garantire gli impianti, ora i camion non sanno dove portare i rifiuti”. Ovviamente Gualtieri contesta: “La Regione deve solo autorizzarli, ma discariche e impianti devono proporli privati e Ama”. È una disputa infinita, quella sulle competenze e responsabilità sulla peggiore grana per Roma. I toni però non si placano, sotto un sole pallido che è una morsa. “Mi avete attaccata per cinque anni come donna” ringhia la sindaca e Gualtieri salta sulla sedia: “Io, ma cosa dici?”. Si interrompono i due, si danno sulla voce. L’ex ministro cerca il colpo da ko: “Inviterei la sindaca ad avere maggiore cautela nelle sue parole, ho letto che a suo dire nelle precedenti amministrazioni c’era chi rubava. Non le ricorderò che delle persone dello staff della sindaca sono state arrestate, non userò questo tipo di metodo”. Lei prima rivendica – “Sì, certo, ho detto che rubavano” – poi ricorda di essersi “scusata” per certi toni del passato”.

Ma contrattacca in fretta, Raggi, incalzando sull’Ignazio Marino cacciato dal Campidoglio proprio dal suo ex partito, il Pd, con le firme raccolte presso un notaio”. “Nelle vostre liste avete chi lo ha accoltellato” punta il dito. Gualtieri giura che fu un errore – “quella scelta fu presa da un gruppo dirigente che ora è in un altro partito (Matteo Renzi, ndr) – e ricorda di aver candidato anche un ex assessore di Marino, Giovanni Caudo. Ma Raggi continua: “Fu presa dall’alto e realizzata da chi è nelle vostre liste, potevate chiedergli scusa”. Finisce con la moderatrice, Paola Zanca, che saluta il pubblico e loro due che ancora discutono, interrompendosi. Perché a Roma i giallorosa ancora non esistono.

Bettini “manda” Draghi al Colle: “Questo non è il nostro governo”

Va bene sostenere il governo Draghi come esecutivo di “garanzia repubblicana”. Ma questo non può essere il governo e il programma del centrosinistra. Goffredo Bettini, a lungo uomo-ombra di Nicola Zingaretti e artefice dell’alleanza giallorosa, alla festa del Fatto dice chiaramente che nel governo Draghi non è tutto oro quel che luccica e che, soprattutto, non c’è futuro per un’altra maggioranza con tutti dentro dopo le prossime elezioni politiche. Bettini così manda un messaggio anche al suo Pd, che ogni giorno sposa in toto la linea draghiana e a cui non sembra dispiacere l’ipotesi di un governo “stile Draghi” dopo il 2023. “Io sono contrario alla formula secondo cui ‘il governo Draghi è il mio governo’ e secondo cui il suo programma è il nostro programma – spiega Bettini – questo è un errore perché nell’esecutivo le forze di maggioranza sono divise su tutto, dall’economia ai vaccini alla politica internazionale”. Condivide, anche se in maniera più sfumata per il suo ruolo da ministro e capodelegazione del M5S, Stefano Patuanelli: “Sono d’accordo su oltre il 95% di quanto dice Bettini, questo è un governo straordinario col compito di guidare questa fase del Paese e per questo dobbiamo mettere insieme le nostre forze per contare di più”.

D’altronde la cornice è quella giusta, considerati gli interlocutori. Al dibattito su “Il centrosinistra al tempo dei migliori” si confrontano Bettini, Patuanelli, la vicepresidente della Regione Emilia-Romagna Elly Schlein e Pier Luigi Bersani intervistati da Andrea Scanzi. In un’ora di confronto, i volti più noti dell’alleanza giallorosa parlano di tutto: non solo del sostegno al governo Draghi, ma anche la difesa delle cose fatte dall’esecutivo di Giuseppe Conte fino a cosa dovrebbero fare Pd, M5S e LeU per vincere le elezioni contro il centrodestra. In primis, tutti difendono i risultati ottenuti dal governo Conte-2: “Abbiamo salvato l’Italia, poi è stato fatto cadere ma dobbiamo rivendicare quello che ha fatto per il Paese” introduce Bettini. È lui il mattatore e, contrariamente alla linea di Enrico Letta, spinge Draghi verso il Quirinale: “Se pensiamo a un governo che arrivi a fine della legislatura, bisogna fare molta attenzione perché si rischia di logorare anche quella risorsa repubblicana che io vorrei conservare anche come Presidente della Repubblica. Questa autorevolezza Draghi la può esprimere anche con altre funzioni”. Insomma, Bettini vuole per Draghi al Colle e un governo che sia di nuovo politico, legittimato dalle urne: “La sua garanzia deve rimanere ma poi deve tornare la dialettica democratica”. Anche Patuanelli spiega che si può stare nel governo Draghi ma provando a strutturare l’alleanza: “Dall’altra parte abbiamo la destra dobbiamo far pesare le nostre battaglie”.

Sul futuro dell’alleanza giallorosa il capodelegazione del M5S dice che “con la scelta della leadership di Conte e definendo i principi e i valori del Movimento nel nostro statuto abbiamo fatto una scelta di campo nel centrosinistra”. D’accordo Elly Schlein, una delle prime esponenti politiche del centrosinistra a voler creare un’alleanza con il M5S. Secondo la vicepresidente dell’Emilia-Romagna si deve creare un progetto politico che si basi su “candidature credibili e un programma serio sulla giustizia sociale e la giustizia ambientale”. Come nella sua Bologna. Pier Luigi Bersani invece rivolge un appello direttamente a Enrico Letta e Giuseppe Conte: “Dobbiamo fare presto perché io non vedo tutta questa stabilità di governo – ha detto – e la destra proverà a sfruttare il fatto che non siamo ancora preparati per andare al voto: dobbiamo farci trovare pronti”. Puntando proprio sui due leader, Conte e Letta: “Due amici – conclude Bettini – che possono fare da pilastro del nuovo centrosinistra”.

Mario, in arte Tolomeo

Dopo un po’ di meritato riposo, ci riavventuriamo nell’arrampicata libera su un editoriale di Massimo Franco, la penna più arrapante del Corriere, al cui confronto Stefano Folli di Rep è Moana Pozzi. Il titolo “Cambio di gioco” fa pensare a qualcosa di ludico. Infatti si parla di Draghi che “sta ridefinendo il rapporto tra il proprio governo e i partiti in un modo che potrebbe far pensare a un rimodellamento delle gerarchie istituzionali”. Vi viene l’acquolina in bocca? A noi sì, unita alla curiosità che già fu di Totò: chissà ’sto Franco dove vuole arrivare. Per lui Draghi si colloca “in un ruolo quasi ‘tolemaico’”, e così Copernico e Galileo sono sistemati. Tutti i pianeti ruotano attorno a Lui. È la variante franchista e mariana del mussoliniano “Duce, tu sei la luce”: il Faro “traccia sfere di competenza e di influenza distinte tra i vari protagonisti, dopo la confusione e gli sconfinamenti degli ultimi decenni e anni” (ma anche – volendo – lustri): decenni e anni di tale casino che, per dire, governava chi vinceva le elezioni anziché chi le perdeva o non si presentava proprio. “Draghi è il garante di questa riscrittura delle regole e degli ambiti”, perché è un tipo “trasformativo” che “modella nuovi equilibri”, “un’occasione di rinnovamento e non di frustrazione e di irrilevanza per le stesse forze che lo sostengono”. I partiti dicono una cosa, lui fa l’opposto, ma non devono offendersi, anzi godere della “opportunità offerta da questa fase”: è per “una causa nobile”, il “sistema ha un tremendo bisogno di rilegittimarsi” e per farlo deve perpetuare in eterno questa ammucchiata di voltagabbana.

Per ora in verità i sondaggi premiano la Meloni e Conte, unici ostacoli al progetto “Draghi Forever”, ma magari col tempo la gente si rassegna. Oppure, a furia di farsi trasformare dal premier trasformativo, Salvini finirà per credersi Letta, Letta per credersi Calenda e Renzi per credersi B. (cosa che peraltro già fa da un pezzo). Un tempo, fino a quando Conte cercava 5 o 6 responsabili, si chiamava “trasformismo”. Ora si chiama “trasformatività”, “esperimento”, “laboratorio”, “recupero su nuovi presupposti”. Voi vi domanderete: ma che minchia vuol dire? Se i giornaloni sottotitolassero gli editoriali per i non paraculi, quello di Franco sarebbe riassumibile in una sola frase: “È dal 2013 che gli italiani sbagliano a votare, punendo i nostri padroni: onde evitare che perseverino, mettiamoci d’accordo che, comunque vadano le prossime elezioni, Draghi resta lì con questa ammucchiata, possibilmente senza Conte e Meloni, così salviamo l’argenteria”. Nell’attesa, ci rifacciamo gli occhi e la bocca con l’altro editoriale del Corriere: “Ora un piano per Kabul”. È di un giovane virgulto di belle speranze: un certo Silvio Berlusconi.

I fiori dal male: le piante sopravvissute a Chernobyl

“Le impronte presagiscono la sopravvivenza, il bagliore rifratto di ciò che si dà alla vista. Riflettono il significato vissuto e sopravvissuto”. Non una fotografia, ma nemmeno una linea di luce: solo un’impronta.

L’artista visiva francese Anaïs Tondeur e il filosofo ambientale russo Michael Marder hanno scelto di raccontare il lascito della tragedia di Chernobyl così, attraverso tracce di vita: commenti poetici, riflessioni e fotogrammi impressi su carta fotosensibile delle piante cresciute dopo l’incidente che investì l’Europa nel 1986 e che incrinò per sempre l’illusione del progresso scientifico. Chernobyl Herbarium, la vita dopo il disastro nucleare, appena uscito con Mimesis, è un volume illustrato da trentacinque frammenti di vita floreale radioattiva, realizzati da Tondeur dopo numerose spedizioni sul luogo dell’incidente. Trentacinque “impronte” come gli anni che sono passati dal 26 aprile del 1986, quando quella notte esplose il reattore numero 4 della centrale nucleare nella città di Pryp”jat’, al confine tra l’attuale Bielorussia e l’Ucraina. Da quel giorno, dopo che le radiazioni hanno impedito la presenza dell’uomo nell’arco di 30 chilometri dal luogo dell’esplosione, le piante sono l’unica traccia di vita resistita all’interno della Zona di esclusione. Al momento dell’esplosione, Marder viveva con la famiglia nella città di Anapa, a 800 chilometri da Chernobyl. Col tempo diventa anche lui un sopravvissuto alla tragedia nucleare. Trascorrendo la sua giovinezza, interagisce con una natura ormai contaminata: “Accade senza che ce ne accorgiamo, cioè, come se non accadesse”. Marder commenta i fotogrammi riflettendo sui risultati del progresso tecnologico ormai tossico. E le immagini ricalcano plasticamente questo trauma. Il filosofo fa una radiografia “vegetale” della natura umana e della flora: “Se le piante di Chernobyl hanno ancora una vita dopo le radiazioni, allora i fotogrammi di Tondeur sono la sopravvivenza di quella sopravvivenza, una variazione sul tema della ‘copia di una copia’ che, fin dai tempi di Platone, ha determinato i contorni del dominio estetico”. Filosofia e scienza si fondono nell’unica tragedia che è quella dell’uomo e del suo tentativo di sottomettere la natura. Di tutto questo sforzo, però, nel tempo non resta che un mucchio di frammenti. O di impronte.

Nella villa di Scauri tra fan in salotto, boss e le bombe in acqua

Pubblichiamo un estratto del libro di Luca Manfredi, “Un friccico ner core” (Rai libri), dedicato a suo padre Nino

Un giorno ci siamo svegliati tutti dalla solita pennichella pomeridiana e abbiamo sentito dei bisbigli in dialetto campano e dei rumori provenire dal piano di sotto. Ci siamo insospettiti e, devo dire, anche un po’ spaventati: temevamo fossero dei ladri che ci avevano fatto visita in casa, approfittando del fatto che dormivamo e che era tutto aperto. Dopo qualche tentennamento, mio padre prese coraggio e fece capolino dalle scale… e quel che vide lo lasciò a bocca aperta: c’era un’intera famiglia di napoletani, comodamente seduta nel nostro salotto, che si prendeva il caffè. Per quanto sconosciuti, sembravano innocui. Per cui papà si affacciò dalla balaustra delle scale e con un certo stupore, disse agli sconosciuti: “Scusate… ma voi chi siete? Che ci fate qui?”. Il capofamiglia sollevò la testa, posò la tazzina e gli sorrise: “Oh, signor Manfredi buongiorno! Speriamo di non avervi disturbato! Eravamo di passaggio da queste parti e siamo entrati a farvi un saluto. È un onore, per la mia famiglia, fare la vostra conoscenza!”. Poi dando uno sguardo compiaciuto alla moglie, alla suocera e ai due figli, tutti ugualmente obesi, aveva aggiunto: “Siete tale e quale a Dudù! Noi Operazione San Gennaro lo sappiamo a memoria! Concettì…”. E rise.

Insomma, erano suoi grandi ammiratori che, avendo saputo che villeggiava lì a Scauri, non si erano fatti alcuno scrupolo a introdursi in casa nostra. Ma avendoci trovati a fare il riposino, si erano serenamente accomodati e, nell’attesa del nostro risveglio, si erano preparati na tazzuliella e cafè. Mio padre era così sbalordito che non riuscì nemmeno a cacciarli: d’altronde loro non pensavano di aver fatto qualcosa di male (…). Ma il fatto che fosse così famoso, da quelle parti, contava ben poco. Tanto per fare un esempio, un piccolo boss della zona, che voleva acquistare casa nostra, non si fece alcuno scrupolo a mandarci un suo emissario, che alle cinque di ogni mattina faceva esplodere una bomba in mare e poi raccoglieva con un retino i pesci che salivano a galla, morti. Il suo scopo, ovviamente, non era tanto pescare, quanto infastidirci, visto che papà non aveva intenzione di vendergli la casa. Mio padre fu quindi costretto a chiamare i carabinieri, che però, nonostante avessero ancora sotto gli occhi le conseguenze dell’ultima esplosione (…), gli dissero che bisognava beccare quel “signore” in flagranza di reato. I loro appostamenti, però, non portarono a nulla, perché il bombarolo scomparve. E così anche l’Arma, che restò a disposizione. Ma dopo qualche settimana di calma apparente, le esplosioni ripresero. Eravamo tutti esasperati (…). Alla fine, per risolvere il problema, papà decise di prendere contatto con un altro boss della zona, più importante di quell’altro, il quale ci invitò a cena in uno stabilimento balneare della zona. Ci ritrovammo, dunque, tutti e cinque seduti a una lunghissima tavolata di camorristi. Era settembre, l’aria era diventata fresca. Mia sorella, a un certo punto, andò in macchina a prendersi un golfino e per errore chiuse l’auto con le chiavi dentro, come poteva succedere solo con le vetture di una volta. Nostro padre si rivolse al boss che ci aveva invitato, e questi fece tintinnare il bicchiere con il coltello, richiamando l’attenzione di tutti: “Guaglio’… c’è qualcuno che è ladro di macchine, qui?” chiese con sorprendente candore ai suoi numerosi invitati. Un tizio alzò la mano: “Io no… ma ci posso provare” disse, sorridendo. Due minuti dopo tornò con le chiavi in mano: “La guagliuncella s’è shbagliata” spiegò. “La macchina stava aperta”. Solo in seguito venimmo a sapere che quel tale aveva il record di furti d’auto in tutta la zona di Napoli. La sera dopo il boss ci mandò a casa un tale, un certo Angelino. Era un signore con gli occhiali, sulla sessantina, che sembrava un innocuo impiegato di banca, e che invece aveva sul groppone un paio di omicidi. Angelino, con grande educazione, chiese a mio padre se potevamo preparargli un caffè e poi si appostò tutta la notte sulla nostra terrazza. Fu fortunato (o forse era informato…) perché proprio prima dell’alba arrivò il bombarolo. Angelino lo interpellò dalla terrazza con fare allusivo: “Guaglio’… ma non sarebbe un peccato se quella bomba accidentalmente ti scoppiasse in mano? Un ragazzo giovane come te, senza mano… Perché non ti trovi un altro modo di pescare, meno pericoloso?”. Fu così che il bombarolo non si vide più e nessuno venne più a darci fastidio. Quantomeno, nessun criminale. Già perché ormai s’era sparsa la voce che Nino Manfredi e la sua famiglia villeggiavano lì, tra il Monte d’Oro e il Monte d’Argento, e un “imprenditore” della zona, che caricava i bagnanti sul suo barcone e li portava a vedere la costa dal mare, aveva preso l’abitudine di fermarsi proprio davanti casa nostra, per far fare il bagno ai turisti campani. Se poi quelli fossero riusciti ad avvistare il famoso attore, Nino Manfredi, che magari dava loro anche un amichevole cenno di saluto, era previsto un piccolo sovrapprezzo. A un certo punto, questo tizio venne a chiedere a papà un po’ di “collaborazione”. E lui, che aveva capito che in quella zona non era il caso di inimicarsi nessuno, alla fine, suo malgrado, acconsentì: il patto era che a una certa ora, quando il marinaio del suo barcone gettava l’ancora lì davanti, Nino, di quando in quando e a sua discrezione, poteva affacciarsi dalla terrazza e fare un breve cenno di saluto ai bagnanti. Anche se è sempre stato molto disponibile con il suo pubblico e non ha mai creato distanze tra sé e gli spettatori, questa cosa a mio padre dava un certo fastidio, forse perché gli sembrava quasi di prenderli in giro, e poi non poteva godersi la sua vacanza in santa pace. E così accadeva che a volte, appena sentiva la sirena del barcone in avvicinamento, chiamava Ildo, il suo storico autista, che fungeva anche da sua controfigura perché gli somigliava tantissimo, e gli diceva: “Ildo, fammi un favore… vai a fare un salutino ai bagnanti”. E tutti erano felici e contenti.

L’italiano è un idioma straniero: parliamo in inglese. O in dialetto

Basta mettere il naso fuori casa, e d’estate succede più spesso, per fare una scoperta allarmante. Non si sentono parole italiane nel nostro Paese. Nei mercati, nei supermarket, nelle piazze solo dialetti e nemmeno troppo annacquati. Negli anni 60 Tullio De Mauro scrisse una storia linguistica dell’Italia unita in cui sosteneva che l’italiano si era diffuso attraverso la televisione. Allora si aprì un dibattito violento tra scrittori, con Pasolini che temeva l’avanzata di un linguaggio tecnologico e Moravia che, al solito, lo bacchettava. Nessuno però si era accorto che, nonostante la televisione, a parlare italiano erano solo i ceti borghesi più colti, e si trattava di una lingua burocratica, mentre la piccola borghesia, il proletariato e il sottoproletariato continuavano a parlare dialetto. Ricordo un mio zio marsicano che di venti parole che ascoltava in tv ne capiva soltanto una. Erano le immagini a parlare italiano.

Questa estate viaggiando tra il Lazio e l’Abruzzo non ho ascoltato che parole dialettali, spesso incomprensibili. Nonostante la vittoria che ci ha incoronati campioni d’Europa, i successi olimpici e lo sventolio del tricolore alle finestre delle nostre case, l’italiano è ancora una lingua straniera. Quelli della Lega certo ne saranno contenti, ma se l’italiano rimane sconosciuto, come chiamarsi nazione?

Si è detto che gli studenti di oggi ignorano la lingua: anche quella scritta su Facebook resta approssimativa, zeppa di motti inglesi. Quella della televisione è farcita di accenti sbagliati e di parole scombinate come fossimo non il primo mondo ma l’ultimo. Dovrebbero consolarci gli scrittori, ma anche loro preferiscono un italiano non articolato per il timore di perdere lettori. Una volta i politici come Aldo Moro azzardavano espressioni difficili come “convergenze parallele”. Oggi i politici usano dieci parole in tutto nei loro slogan. E quando scrivono libri si capisce che non hanno letto nulla di importante. Giorgia Meloni vorrebbe iscrivere a Fratelli d’Italia persino Pasolini, non avendo nemmeno letto la recensione a Un po’ di febbre di Sandro Penna, che aveva scatenato un dibattito sulla nostalgia del fascismo di un poeta massacrato proprio dai fascisti.

Dunque l’italiano è rimasto al grado zero e nessuno se ne preoccupa. Hanno paura degli elettori che, vedendosi nei panni di completi ignoranti, potrebbero votare altrove alle prossime elezioni. Siamo ridotti malissimo, come uno che circola con i vestiti della propria lingua a brandelli e cincischia su tutto. Oggi poi sono proprio i borghesi a omologarsi con i “barboni”, anche nell’espressione. La lingua di Dante, tanto celebrata nell’anniversario, è ostrogoto. Cari scrittori italiani, come fate a vivere senza lingua?

Dune, Diana, Daughter: il film migliore è fuori dal concorso

Era uno dei titoli più attesi della stagione, e Dune non ha deluso: in anteprima alla Mostra di Venezia, l’adattamento del classico di fantascienza (1965) di Frank Herbert firmato da Denis Villeneuve fa di sogno solida realtà e del sognatore, come voleva Ennio Flaiano, “un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole”.

Lo è l’antieroe dei due mondi Paul Atreides, incarnato con eleganza, fervore e sandwalk da Timothée Chalamet, e lo è lo stesso Villeneuve, ché la via era stretta: David Lynch aveva dato nel 1984 con esiti controversi, Alejandro Jodorowski si era invano dedicato, sicché il regista canadese deve aver mandato a memoria Herbert, “La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura”, e tirato dritto.

Dopo il lifting umanista praticato da Arrival (2016) e la riesumazione/resurrezione di Blade Runner 2049 (2017), stavolta eleva la science fiction a potenza antropologica e sensitiva, riversando nel racconto di formazione di Paul eredità ancestrali, imprinting materno (Rebecca Ferguson, splendida), echi shakespeariani (il padre interpretato da Oscar Isaac) e nuovi mondi possibili, in cui il potere del deserto è di vermi giganti e indigeni indomiti, i Fremen di Chani (Zendaya, che sarà protagonista del secondo capitolo già in cantiere). Effetti visivi e speciali poderosi ma non posticci, musiche (Hans Zimmer), scenografie e costumi fascinosi, fotografia (Greig Fraser) estatica, Dune fa di Villeneuve un demiurgo da Oscar, nonché un acuto osservatore della realtà: “Il libro è molto più rilevante oggi di quando uscì rispetto agli incroci pericolosi tra religione e politica, le figure messianiche, l’impatto del colonialismo. Sopra tutto, i problemi ambientali”. Eppure, la sfida più dura è stata “dirigere i capelli di Chalamet: godono di vita propria!”.

Dal 16 settembre in sala: “Abbiamo voluto offrire un’esperienza fisica, un’immersione in una realtà completa, e questo può accadere solo sul grande schermo”, Dune non avrebbe sfigurato in Concorso, dove al contrario non esalta Spencer di Pablo Larraín, autodichiarata “favola tratta da una tragedia vera”, quella della Lady Diana interpretata da Kristen Stewart. Reinquadrata e immaginata nel 1991 durante le ultime feste di Natale trascorse nella residenza reale di Sandringham, dove maturò la decisione di lasciare il principe Carlo, Lady D per il regista cileno “ha ridefinito per sempre le icone idealizzate della cultura pop: una principessa che ha deciso di non diventare regina, ma di costruirsi da sola la propria identità”.

La Stewart rintraccia la differenza nella comune fama: “Io posso commettere degli errori, a Diana non era consentito, perché doveva rappresentare un ideale e mantenere unita una nazione. Era uno degli esseri umani più isolati al mondo”. Problema, Spencer non le rende troppa giustizia: Larraín rimane in superficie (la scrittura di Steven Knight ha le sue colpe), non trasfigura, si bea dei vestiti che fa indossare a una Stewart scipita ed estrae dal cilindro una Anna Bolena a rischio sghignazzo. In breve, ha perso il tocco, e non da oggi.

Meglio, seppur non di molto, il passaggio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal, che con The Lost Daughter trasforma La figlia oscura di Elena Ferrante: “Scrive verità pericolose e attraenti. Mi sorprenderebbe che una madre non abbia mai pensato di sbattere la porta e lasciare i figli dietro, pertanto spero sia un film al contempo scomodo e rassicurante”.

Protagonista Olivia Colman, nel cast Dakota Johnson e Alba Rohrwacher, la più brava è invero Jessie Buckley, che interpreta la giovane Leda che sceglie amore, carriera e molla i piccoli: la sua fugace liaison con il professore di Peter Sarsgaard, nella vita marito della Gyllenhaal, è per distacco la cosa migliore. Voltaggio materno anche per La ragazza ha volato di Wilma Labate, che riflette con nitore sullo stupro, al netto di un finale consolatorio.

 

Il tedesco? Tortura e rape “Lingua e gente terribili”

Chi non ha mai studiato il tedesco non ha idea di che lingua assurda sia. Di sicuro, nessun’altra è altrettanto trasandata e caotica, elusiva e sfuggevole. Ci si tuffa nello studio fino al collo, nudi e indifesi, e quando si crede di aver avvistato una regola che offra un appiglio per riprendere fiato in mezzo al turbine furioso delle dieci parti del discorso, si volta pagina e si legge: “Lo studente abbia cura di annotare le seguenti eccezioni”, e basta un’occhiata per rendersi conto che ci sono più eccezioni alla regola che esempi della stessa.

Questa è stata, e continua a essere, la mia esperienza col tedesco. Quando penso di avere in pugno uno di questi quattro sconcertanti “casi”, proprio là dove mi sento più sicuro si intrufola nella frase una preposizione a prima vista insignificante, ma in realtà provvista di un potere terribile e inopinato, ed ecco che il terreno vacilla sotto i piedi. Per fare un esempio, il mio libro di testo si interroga sulla sorte di un certo uccello (questo libro si fa continuamente domande su argomenti del tutto insignificanti): “Dov’è l’uccello?”. La risposta, secondo il manuale, è che l’uccello aspetta nel negozio del fabbro a causa della pioggia. Naturalmente nessun uccello farebbe mai una cosa del genere, ma bisogna dar retta a quello che c’è scritto, e allora mi accingo a risolvere l’enigma, cominciando dalla parte sbagliata, non c’è altro modo, perché è così che si fa in Germania…

In tedesco ci sono dieci parti del discorso, e sono tutte una tortura. In un giornale, la frase media è di una sublime e impressionante astrusità. Occupa un quarto di colonna e contiene tutte e dieci le parti del discorso, non in ordine, ma mescolate. È costruita principalmente da parole composte inventate dal giornalista sul momento, e perciò irreperibili in qualsiasi dizionario: sei o sette parole combinate in una senza giunzioni o cuciture, vale a dire senza trattini; affronta quattordici o quindici temi diversi, ciascuno chiuso in una parentesi, con qua e là extra-parentesi che racchiudono tre o quattro parentesi minori. Da ultimo, tutte le parentesi e le parentesi delle parentesi vengono stipate dentro una coppia di super-parentesi, una delle quali è piazzata nella prima riga della frase principale, e l’altra nel mezzo dell’ultima riga; infine arriva il verbo, e si può finalmente capire di che diavolo abbia parlato il tizio fino a lì. Dopo il verbo – con valore puramente ornamentale, per quanto riesco a capire – il giornalista se ne viene fuori con un haben sind gewesen gehabt geworden sein (un’accozzaglia senza senso di verbi, ndr), o qualcosa del genere, e il monumento è completato. Io credo che questo urrà finale abbia lo stesso valore dello svolazzo nelle firme: non serve a niente, ma fa la sua figura. I libri tedeschi non sono troppo complicati se si mettono davanti a uno specchio o capovolti sopra la testa, in modo da poter leggere le frasi al contrario; ma arrivare a comprendere un quotidiano tedesco rimarrà sempre, io credo, un’impresa inarrivabile per un forestiero… Anche la nostra letteratura (americana, ndr) soffre del “morbo parentetico”, ma se tra noi questo è il segno distintivo di uno scrittore dilettante o di una mente confusa, in Germania è il marchio di fabbrica di una penna esperta e di quella sorta di luminosa foschia intellettuale che fra quella gente vale per chiarezza. Certamente non è chiarezza, non può esserlo: anche un tribunale riuscirebbe a capirlo… Uno scrittore deve avere le idee un bel po’ confuse, un bel po’ fuori squadra se inizia dicendo che un uomo incontra per strada la moglie del consigliere, e poi nel mezzo di un’impresa così banale costringe i due personaggi a star lì impalati finché non ha finito di sciorinare l’inventario dei vestiti della donna. È inconcepibile, come quei dentisti che con le tenaglie attaccate al molare ti raccontano un aneddoto noiosissimo, e tu rimani lì trattenendo il fiato ad aspettare lo strappo mortale. Le parentesi in letteratura e in odontotecnica sono di cattivo gusto…

Quando un tedesco mette le mani su un aggettivo, lo declina e insiste nel declinarlo finché non è scivolata via anche l’ultima briciola di buon senso… In Germania una ragazza non ha sesso, mentre una rapa ce l’ha. Questo fa riflettere sulla grande considerazione che i tedeschi hanno per le rape, e sul loro straordinario disprezzo per le giovani donne… Ora, in base alla disamina di cui sopra, il lettore capisce bene come in Germania un uomo possa credere di essere tale, ma se indaga la questione più a fondo sarà costretto a farsi qualche domanda. Nella realtà è un miscuglio assai ridicolo, e se prova a consolarsi pensando che almeno un terzo di questo caos è fatto di maschia virilità, subito dopo viene l’umiliante riflessione che da questo punto di vista non è diverso da qualunque donna o mucca del Paese… È vero che in tedesco, per una svista dell’inventore della lingua, una donna è di sesso femminile; ma una moglie (Weiss) non lo è, il che un po’ dispiace. Una moglie in Germania non ha sesso: è neutra… I miei studi filologici mi hanno dimostrato che una persona dotata è in grado di imparare l’inglese in trenta ore, il francese in trenta giorni e il tedesco in trent’anni: è dunque evidente che si tratta di una lingua che ha bisogno di essere semplificata e rimessa in sesto. Se dovesse rimanere così com’è, converrà archiviarla rispettosamente fra le lingue morte, perché solo i morti avranno il tempo di impararla.

Nuova Zelanda. Isis, torna il lupo solitario: sei feriti

Ancora una volta l’isolamento geografico e la reputazione pacifica della Nuova Zelanda non si sono dimostrati una difesa contro l’estremismo. Forse galvanizzato dal ritorno a livello internazionale del dibattito sul terrorismo islamico con l’emergere dell’Isis-K in Afghanistan e al riuscito attacco all’aeroporto di Kabul, un immigrato musulmano dallo Sri Lanka ha accoltellato sei clienti di un supermercato di Auckland. Alcuni sono ancora gravi, ma non in pericolo di morte. La premier neozelandese, Jacinda Ardern, ha subito dichiarato che si tratta di un atto “terroristico” molto probabilmente di un cosiddetto lupo solitario. L’uomo, la cui identità non è stata rivelata in base alle regole del terrorismo, è stato in pochi minuti raggiunto dalle pallottole delle forze dell’ordine ed è morto. “Quanto accaduto oggi è stato, spregevole, odioso, sbagliato”, ha sottolineato la premier, dicendo che l’aggressore era arrivato nel paese dieci anni fa. Secondo le autorità neozelandesi, l’immigrato, che finora non aveva commesso alcun crimine, si era radicalizzato nel 2016, scegliendo di affiliarsi all’Isis. Per questa ragione era sotto sorveglianza 24 ore su 24. Questa rigida misura ha permesso alla polizia di intervenire non appena il terrorista ha iniziato a colpire all’impazzata con un grosso coltello preso da una delle vetrine. Ardern ha tuttavia sottolineato che “l’assalto è stato eseguito da un individuo, non da una fede”. Questa considerazione potrebbe essere il tentativo di non fomentare l’odio religioso e, in particolare, l’islamofobia che due anni fa provocò la morte di 51 fedeli riuniti nella moschea di Christchurch. L’autore della strage era un suprematista bianco. Dall’altra parte del mondo, in un tribunale degli Stati Uniti, Alexanda Kotey, un membro del sanguinario quartetto inglese dell’Isis soprannominato “The Beatles” (per l’accento british dei suoi componenti) si è dichiarato colpevole dell’omicidio di quattro ostaggi Usa. La cellula è responsabile della decapitazione dei giornalisti statunitensi James Foley e Steven Sotloff, degli operatori umanitari Peter Kassig e Kayla Mueller ed è anche sospettata dell’omicidio di altri ostaggi, rapimenti ed estorsioni. Il trentasettenne Kotey ha deciso di patteggiare ma verrà comunque condannato all’ergastolo così come il trentenne El Shafee Elsheikh, l’altro membro superstite della cellula,

Baradar, da ribelle a negoziator. Il “fratello” di Omar capo politico

I diplomatici occidentali lo considerano da tempo “il talebano che negozia”: si comporta, dicevano di lui, “come un vecchio capo tribale Pashtun”, che cerca di costruire il consenso, non di imporre una decisione. Abdul Ghani Baradar, 53 anni circa – la data di nascita non è certa –, nove trascorsi in una prigione pachistana (dal 2010 al 2018), pare sia confermato come il capo del governo che i talebani s’apprestano ad annunciare – oggi potrebbe essere il giorno buono, ma a Kabul tutto è fluido.

Fra i fondatori del movimento, figura di spicco già nella seconda metà degli anni 90, Baradar è gerarchicamente subordinato alla guida suprema Hibatullah Akhundzada, la cui autorità è essenzialmente religiosa, ma è il leader politico. Si racconta che fu il Mullah Omar, capo un po’ mitico dei talebani che presero il potere nel 1995, a chiamarlo Baradar, che significa fratello: Mullah Baradar, mullah fratello, a segnalare il legame che li univa.

Dopo che il regime dei talebani venne rovesciato dall’invasione occidentale, nel 2001, Baradar assunse la guida della Shura – il consiglio dei capi – di Quetta, in Pakistan. Nonostante conducesse l’opposizione all’occupazione dell’Afghanistan, Baradar avrebbe provato più volte a intavolare trattative con il governo afghano del presidente Hamid Karzai e con gli Stati Uniti, nel 2004 e ancora nel 2009, sottraendosi all’influenza e al controllo dell’intelligence pachistana. Il che gli valse una nomea di moderato e di negoziatore, ma gli costò l’ostilità pachistana. Infatti, nel 2010 fu arrestato, in circostanze mai del tutto chiarite: la sua vera colpa, avere tenuto il Pakistan fuori dagli approcci di pace tentati. Uscì di prigione nel 2018, su richiesta degli Stati Uniti: l’immarcescibile inviato speciale Usa per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad chiese al governo di Islamabad di rilasciarlo, perché poteva dare una mano nelle trattative che stavano per aprirsi. Neppure tre mesi dopo, a gennaio 2019, a Doha, in Qatar, Baradar diveniva il ‘numero due’ della gerarchia talebana e il capo dell’ufficio politico: è stato lui a gestire per i talebani il negoziato con gli Usa di Donald Trump. Poco più di un anno dopo, a febbraio 2020, la firma dell’intesa che apparve subito una resa quasi incondizionata: gli americani e gli occidentali vanno via, i talebani tornano al potere; il tutto concordato senza il coinvolgimento del governo di Kabul e degli alleati di Washington.

Il 17 agosto, Baradar è tornato in Afghanistan per la prima volta dal 2001: quasi vent’anni d’esilio, da ribelle, da detenuto, da negoziatore. Prima a Kandahar, roccaforte dei talebani, poi a Kabul, dove il 23 agosto, quando bisognava ancora da negoziare qualcosa, Biden ha mandato il direttore della Cia William J. Burns a incontrarlo. Risultato: i talebani non hanno interferito, anzi hanno collaborato, con l’ultima fase concitata dell’evacuazione occidentale, senza riuscire a evitare l’attacco dell’Isis-K il 26 agosto. Il governo che, sotto la guida di Baradar, dovrà guidare il Paese sarà forse meno inclusivo di quanto si sperava. Candidati a ruoli chiave sono gli altri due vice di Akhundzada: Mohammad Yaqoob, figlio del Mullah Omar, e Sirajuddin Haqqani, del potente clan nell’area al confine con il Pakistan. Possibili le conferme di Ibrahim Sadr all’Interno, del mullah Abdul Qayyum Zakir alla Difesa e di Gul Agha, amico d’infanzia del Mullah Omar, alle Finanze.