Panshir: “Uomini-cavie usati sui campi minati”

Notizie drammatiche, frammentarie, contraddittorie dalla valle del Panshir, poco a nord di Kabul, ultima sacca di resistenza anti-talebana in Afghanistan. I talebani sostengono di esservi penetrati e che i leader degli insorti, Ahmed Massoud e l’ex vicepresidente Amrullah Saleh, sono fuggiti, forse in Tagikistan. Il Fronte nazionale della resistenza, citato da media locali, smentisce la resa. Saleh nega la fuga in un audio-messaggio alla Bbc.

Dopo il fallimento dei negoziati intavolati nei giorni scorsi, i combattimenti nell’area sono ripresi, facendo numerose vittime: le milizie sotto il comando di Massoud, il figlio del “Leone del Panshir” Ahmad Shah Massoud, protagonista della resistenza contro i sovietici prima e i talebani poi, si battono, ma non è chiaro se controllano ancora gli ingressi nella valle. Saleh, l’ex vice del presidente fuggitivo Ashraf Ghani, accusa i talebani di crimini di guerra: “Hanno bloccato l’accesso degli aiuti umanitari, tagliato i collegamenti telefonici e l’elettricità e non permettono neppure l’arrivo di medicine”. Uomini del Panshir in età adulta verrebbero utilizzati come cavie nei campi minati, mandandoli avanti per individuare le mine a rischio di saltare in aria. Saleh chiede all’Onu e ai leader mondiali “di prendere atto di questo chiaro comportamento criminale e terroristico”. L’ex presidente Hamid Karzai lancia un appello al dialogo forse segno che gli eventi hanno preso una brutta piega per gli insorti.

In attesa che oggi venga annunciato ieri gruppi di donne hanno manifestato a Kabul e altrove, reclamando l’esercizio dei loro diritti, scuola e lavoro in primo luogo: erano decine, senza burqa, ma vestite nel rispetto della sharia. In Qatar, dove si sono trasferite da Kabul alcune missioni diplomatiche occidentali, si negozia l’allestimento di corridoi umanitari e si tratta per assicurare l’uscita dall’Afghanistan a stranieri e afghani bloccati.

Cruciale a tal fine sarà il ritorno in funzione dello scalo di Kabul. Un aereo del Qatar, con un team di tecnici, è già sceso sull’aeroporto per discutere “la ripresa delle operazioni”. E la Turchia deve decidere se e in che misura accettare la richiesta dei talebani di contribuire alla sicurezza dello scalo. Ieri, sono ripresi i voli interni dell’Ariana Afghan Airlines, la più grande compagnia aerea afghana. S’è intanto appreso che il kamikaze dell’Isis-K fattosi esplodere il 26 agosto all’aeroporto di Kabul, provocando 170 vittime, tra cui 13 militari Usa, era fuggito da una prigione afgana dopo il crollo del regime di Ghani. Cina e Russia confermano attenzione e prudenza. Per la Cina, l’ambasciata in Afghanistan, “normalmente operativa”, è “un importante canale per gli scambi tra i due Paesi”: “Speriamo – dice Pechino – che i talebani formino un governo aperto e inclusivo, perseguano una politica interna ed estera moderata e stabile e creino una rottura netta con ogni gruppo terroristico”.

Il presidente russo Vladimir Putin, da Vladivostok, dice che “la Russia non è interessata alla disintegrazione dell’Afghanistan… Prima i talebani si uniranno alla famiglia delle nazioni civili, più facile sarà contattarli, comunicare con loro e in qualche modo influenzarli e sollevare la necessità di osservare certe regole”.

London Bridge: Elisabetta II quando muore stacca i social

Premessa d’obbligo: la regina Elisabetta II d’Inghilterra ha da poco compiuto 95 anni e gode di ottima salute. Dopo essersi accertato di aver rassicurato i sudditi della corona, il quotidiano Politico ha rivelato il piano per la morte della sovrana. Denominato “Operazione London Bridge” – dalla parola d’ordine con cui riservatamente Buckingham Palace e Downing Street si daranno riservatamente la notizia: “London Bridge is down” – molti dei dettagli sul triste giorno erano stati in parte svelati già dal Guardian nel 2017. Di nuovo, rispetto ai 10 giorni di lutto che seguiranno il D-Day (i giorni successivi saranno indicati in ordine progressivo D+1, D+2 ecc…), grazie a documenti riservati visionati da Politico, ora sappiamo che ci sarà anche un black-out delle comunicazioni via social media da parte di tutte le istituzioni pubbliche britanniche e che a dare l’annuncio sarà per prima, in esclusiva, con un primo flash, l’agenzia Pa cui seguirà una gestione ferrea della diffusione della notizia su siti web governativi e della famiglia reale. L’ufficialità sarà data dal portale di Buckingham Palace su sfondo nero, mentre tutti i siti istituzionali e di governo verranno contemporaneamente listati a lutto: con interruzione della diffusione di qualsiasi contenuto non urgente e sospensione temporanea della possibilità di ritwittare i messaggi. Politico conferma anche le disposizioni sull’ultimo saluto alla regina dei record, 70 anni sul trono: fra l’altro con la traslazione della salma nel Palazzo di Westminster, sede del Parlamento, dove sarà istituita la camera ardente e vi sarà l’opportunità di far affluire il pubblico per tre giorni di omaggio. Mentre i funerali di Stato solenni si terranno 10 giorni dopo il decesso, sullo sfondo d’una giornata di lutto nazionale. In questi 10 giorni saranno impegnati nel rito tutti i ministeri, da quello dei Trasporti a quello della Difesa. Il cruccio di Downing Street, emerge in uno dei documenti, è la possibile ondata di rabbia del pubblico se non riuscirà a sistemare la bandiera a mezz’asta entro dieci minuti dall’attivazione del piano, per questo viene proposto di affidare il compito a un appaltatore esterno. Già predisposta anche l’operazione “Spring Tide” che regolerà le modalità dell’ascesa al trono di Carlo che prima dei funerali sarà in tour per il Paese. Il discorso alla nazione del nuovo re sarà trasmesso alle sei del pomeriggio, dopo un’udienza con il Premier. La chicca: saranno invitati a partecipare centinaia di consiglieri privati che indosseranno abiti da mattina o da salotto, ma nessuna decorazione. Non c’è festa per Carlo.

Nutella sponsor del green. Macron si lava a Marsiglia

La biodiversità è di casa a Marsiglia, dove si è aperto ieri il Congresso mondiale dell’Unione internazionale per la protezione della natura (Iucn), rinviato due volte, causa Covid, e che prepara alla Cop15 del 2022 in Cina. Viene presentato come un evento fondamentale per il futuro della biodiversità, che dovrà servire alla Comunità internazionale a elaborare le direttive a scadenza 2050, fissando obiettivi intermedi per il 2030. Il tempo stringe.

Gli Stati non hanno tenuto neanche gli impegni presi per il 2010-2020 e, nel suo rapporto 2019, l’Ipbes, la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi degli ecosistemi, ha sottolineato che circa un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione.

Siamo di fronte a “un congresso pieno di contraddizioni”, scrive Mediapart. Al giornale online questo summit ricorda piuttosto il forum di Davos, dal momento che si vi incrociano i responsabili dei più grandi gruppi francesi, come Total e Veolia, simboli dell’anti-ecologismo per eccellenza per i militanti Verdi. Non è sfuggito neanche che tra gli sponsor figuri Nutella. Extinction Rebellion France accusa spesso il gruppo Ferrero di greenwashing: “Ma che ci fa Nutella in un evento dedicato alla biodiversità?”, ha scritto il movimento ecologista su Twitter. Da fonti dell’Uicn citate da Mediapart, Ferrero avrebbe speso circa 185.000 euro per fare da “mecenate” all’evento. La Nutella è vista Oltralpe come all’origine di disastri ambientali. Nel 2015 era già stata al centro di un’accesa polemica che ha rischiato di sfociare in caso diplomatico, quando l’allora ministra dell’Ecologia, Ségolène Royal, aveva accusato la famosa crema di nocciole di contribuire alla deforestazione perché contiene olio di palma: “Non mangiate più Nutella – aveva scritto su Twitter –, se volete salvare il pianeta”.

La ministra aveva poi dovuto fare marcia indietro data l’indignazione di politici e industriali italiani e chiesto scusa. All’inaugurazione del congresso di Marsiglia ha partecipato anche Macron. “Il presidente ne approfitterà per vantare la sua azione e presentarsi ancora una volta come il ‘campione della Terra’”, scriveva ieri con una certa ironia Reporterre, quotidiano online di informazione ecologica. Per Macron è stata l’occasione per fare annunci, tra cui l’organizzazione in Francia, fine 2021, inizio 2022, del summit “One Ocean” per la protezione delle aeree marittime. Ieri mattina Macron ha poi preso il largo tra le Calanche in compagnia di Nicolas Hulot, l’ex ministro dell’Ecologia, celebre e amato presentatore Tv, che tre anni fa aveva sbattuto la porta del ministero sotto il peso delle lobby e per la mancanza di ambizione ecologica del governo.

“Status quo sulla Pac, ritorno parziale dei neonicotinoidi, fallimento sul glifosato: la biodiversità è assente dalle priorità del governo”, ribadiva ancora ieri la Fondation Hulot. A Macron, che fatica a convincere i francesi della sincerità del suo impegno green, è utile mostrarsi al fianco del rimpianto ministro e promuovere la biodiversità a otto mesi dalle presidenziali, occupando lo spazio di ecologisti e sinistra. Il bilancio di questi ultimi cinque anni però non è molto verde. Lo scorso marzo, lo stesso Reporterre aveva stilato una lista di 89 misure anti-ecologiche prese dal governo dal 2017. Se nel 2020 è stata benvenuta la nascita dell’Ufficio francese della Biodiversità, le risorse umane e finanziarie che gli sono attribuite sono considerate insufficienti.

Se nel 2018 è stato abbandonato il progetto controverso di aeroporto a Notre-Dame- des-Landes, presso Nantes, altri sono mantenuti, come la costruzione di un hangar gigante di Amazon nei pressi del ponte romano del Gard, contro cui la popolazione locale si sta battendo. Una battaglia giuridica è in corso in Bretagna contro la costruzione di un parco eolico offshore perché violerebbe la Carta dell’ambiente. La legge sul clima, pubblicata in gazzetta ufficiale il 24 agosto, nata ambiziosa, è stata rivista al ribasso per le pressioni delle lobby. A dicembre, l’Alto Consiglio per il clima ha messo in guardia il governo perché i due terzi delle misure del suo piano di rilancio rischiano di far aumentare le emissioni di gas serra. I sindacati denunciano il taglio del personale degli enti pubblici impegnati nella transizione ecologica. Quanto alla biodiversità, stando al Consiglio economico, sociale e ambientale, essa rappresentava nel 2020 solo lo 0,14% del budget dello Stato.

Fidarsi ciecamente, ecco come facciamo

Voi vedenti siete strani: vi fidate di gente che nemmeno conoscete (ad esempio un tassista) e fate fatica a fidarvi di chi vi vuole bene. A chi non vede invece è ben chiaro che la fiducia consente di entrare in sintonia e rende performante il rapporto tra guida e atleta. Correre i 100 metri senza sapere dove vai è difficoltoso, l’unica è restare collegato a chi ti accompagna tramite un cordino. In piscina è impossibile sapere quando impostare la virata, occorre quindi qualcuno che con una canna da pesca munita di una spugnetta all’estremità tocchi la testa dell’atleta nel momento in cui la vasca sta per finire. Ecco che in allenamento si lavora tanto anche per cementare l’affiatamento tra cieco e vedente. Provate a chiedere a Carlotta Gilli, regina del nuoto categoria S11 con ben 5 medaglie di cui due d’oro, o ad Alessia Berra, argento nei 100 delfino categoria S12. I numeri 11, 12 e 13 rappresentano le disabilità visive: 11 zero visus, 12 moderato e 13 discreto; la lettera iniziale suggerisce la disciplina di appartenenza. S sta per swim. Assunta Legnante e Oney Tapia invece sono entrambi F11, ciechi totali nel field, disciplina dell’atletica leggera. Anche loro per conquistare i podi nel getto del peso e nel lancio del disco hanno dovuto fidarsi ciecamente della guida che ha fatto sentire loro come posizionare il corpo e dove orientare la forza per spingere l’attrezzo più lontano possibile. Se non siete ancora convinti della potenza della fiducia chiedete ad Anna Barbani che insieme a Charlotte Bonin ha conquistato uno storico argento nel triathlon. In quel caso il contatto con la guida è davvero speciale, una sintonia che parte dal cordino sulla coscia per nuotare in acque libere, passa dal tandem e viene sublimata nella corsa, legate polso a polso e perfettamente sincronizzate. Le statistiche collocano gli italiani tra i cittadini più diffidenti, ogni tanto a ragione, altre volte invece faremmo meglio a imparare da chi la vista non ce l’ha coltivando la fiducia in noi stessi, negli altri e nel nostro futuro

I nuovi baudelaire e Roma domani

I giornalisti Giuliano Ferrara, Maurizio Belpietro, Mario Giordano, Vittorio Feltri, Franco Bechis, Paolo Granzotto nonché i giornali Il Foglio, Libero, Il Giornale d’Italia e Oggi sono stati condannati dal Tribunale di Milano al pagamento di 102.000 euro per avere diffuso nel 2002 una “notizia contraria alla verità dei fatti e lesiva dell’immagine, reputazione e onore” di Ignazio Marino.

La notizia “falsa” e “non rispondente alla verità fattuale” riguardava “un fatto non vero”, cioè che Ignazio Marino sarebbe stato costretto a dimettersi dall’University of Pittsburgh Medical Center dopo una controversia riguardante alcune irregolarità nei rimborsi spese. Attualmente Marino è Executive Vice-President della Thomas Jefferson University, una delle prime cinque Facoltà di Medicina e Chirurgia degli Stati Uniti. Dunque, resta stimatissimo a livello internazionale per quanto riguarda la sua professione medica che ha esercitato fino ai cinquant’anni, quando fu folgorato dalla politica a Roma. Eletto due volte senatore, presidente di un gruppo parlamentare e di una commissione d’inchiesta, nel 2013 vinse le primarie su Gentiloni e conquistò il Campidoglio; nel 2015 divenne sindaco della neo-istituita Città Metropolitana. Con la sua giunta, composta per il 50% da donne e da molti tecnici, intraprese una coraggiosa battaglia contro le rendite di posizione, gli abusivismi, la mafia di Ostia e il degrado dei monumenti. Pure essendo cattolico, trascrisse sul registro anagrafico i matrimoni contratti all’estero fra coppie dello stesso sesso e dichiarò il suo aperto favore sia al “Roma Pride” che al testamento biologico. Mettersi allo stesso tempo contro il clientelismo del suo stesso partito, il bigottismo del Vaticano, i privilegi dei palazzinari e la ferocia della mafia significa collocarsi nel bersaglio di quattro potentissimi cerchi di potere. Andreotti direbbe che “se l’è cercata”.

Perfino Papa Francesco, solitamente gesuita, scese in campo contro Marino con un intervento astioso e infondato che, se non fosse venuto da un Papa, avrebbe fatto in Tribunale la stessa fine delle diffamazioni dei Feltri e dei Giordano. A Matteo Renzi, allora segretario dello stesso Pd cui apparteneva Marino, il comportamento integerrimo di quest’ultimo apparve intollerabile. Nella città dove, da millenni, le ruberie impunite saccheggiano disinvoltamente suolo e denaro, fu imputato al sindaco di avere parcheggiato la sua Panda in sosta vietata e di avere pagato una bottiglia di vino con la carta di credito del Comune: tutti capi d’accusa poi rivelatisi non solo infondati, ma pre-costruiti dolosamente dagli accusatori. Il 30 ottobre 2015, 25 consiglieri si dimisero in giunta e davanti a un notaio ponendo fine alla giunta Marino. Così Matteo Renzi e il Pd regalarono il Comune ai 5 Stelle.

Praticamente, dei sei sindaci riferibili in qualche modo al “modello Roma” proposto dalla sinistra, solo Ugo Vetere ha portato a termine il suo mandato: Argan lo ha interrotto nel 1979 per motivi di salute; Petroselli nel 1981 per morte improvvisa; Rutelli nel 2001 per guidare la coalizione di centrosinistra; Veltroni nel 2008 dopo aver assunto la segreteria del Partito democratico; Marino nel 2015 perché sfiduciato dal suo partito.

Marino fu eletto con il 64% dei voti; Virginia Raggi con il 67%. Si tratta, dunque, di due sindaci spinti in Campidoglio da un forte consenso popolare. I problemi di Roma sono così complessi che anche un triunvirato composto da Roosevelt, Churchill e Stalin avrebbe stentato a risolverli. Difficile che ci potesse riuscire una sindaca inesperta, accerchiata da un tourbillon di improbabili assessori, ragionieri generali, capi gabinetto, top manager dell’Ama, dell’Acea, dell’Atac, pressata da migliaia di dipendenti demotivati, impietosamente criticata dai media ostili, sfiduciata – secondo gli attuali sondaggi – da due terzi di quei cittadini che l’avevano votata quattro anni fa. Se diamo credito al Sole 24 Ore, che fornisce annualmente una scrupolosa classifica sulla qualità della vita nelle province italiane, scopriamo che venti anni fa Roma (dove città metropolitana e provincia coincidono) era al 21° posto della classifica e oggi è scesa al 32°. Scopriamo inoltre che i settori peggiorati sono “demografia e società” (sceso dal 54° al 59° posto); “ricchezza e consumi” (dal 4° al 29°); “ambiente e servizi” (dal 15° al 32°); “cultura e tempo libero” (dal 14° al 28°). Per quanto riguarda “giustizia e sicurezza” Roma era e resta a un disonorevole 101° posto. È invece migliorata nel settore “affari e lavoro” dove è risalita dal 40° all’8° posto. Così pure è al secondo posto in Italia per numero di abbonamenti a Internet; al terzo posto per numero di diplomati e laureati; al quarto posto per indice di trasformazione digitale; al decimo posto per numero di imprese in Rete.

Come ho ricordato in altre occasioni, nel 2030, cioè tra 9 anni, ci saranno nel mondo circa 600 città con più di un milione di abitanti, ma solo una quarantina potranno essere considerate “città-mondo”, cioè capaci di esercitare un’influenza planetaria come fanno già oggi Città del Vaticano o Cupertino. Per essere tra queste, Roma deve avere una grande idea, un colpo d’ala capaci di attirare risorse e aggregare intelligenze intorno a una missione e a un leader di altissimo livello. Al prossimo sindaco toccherà questa prova, determinante per il futuro postindustriale della città più famosa nel mondo. Gli occorreranno qualità personali (carisma, lungimiranza, integrità morale); qualità culturali (universalismo, sensibilità umanistica, scientifica e sociale, perfetta conoscenza di Roma dal punto di vista storico, urbanistico e socio-economico); qualità di leadership (visione strategica, esperienza politica e amministrativa, capacità manageriali, prestigio ed esperienza internazionale). Portare Roma al livello di città-mondo rappresenta una missione quasi impossibile perché ancora nel 2030 la città presenterà i punti di debolezza indicati da una recente indagine previsionale e quasi indelebili nel Dna dei romani: senso di rassegnazione; apatia; assenza di progettualità delle élite; carenze della macchina amministrativa e dei servizi pubblici; incapacità dei cittadini di scegliere una classe politica propulsiva, capace di aggregare le forze economiche e sociali intorno a un progetto credibile e attraente anche per i giovani; propensione a imboccare scorciatoie devianti nei piccoli e grandi affari; eccessive disuguaglianze socio-economiche e conseguenti forme di conflittualità; carenze delle strutture formative, abitative, sanitarie e della sicurezza; scarsa imprenditorialità.

Per fortuna, a questi punti di debolezza possono essere contrapposti altrettanti punti di forza: bellezza, apertura al mondo, tolleranza, inclusività, posizionamento geografico, qualità della vita; storia millenaria ammirata in tutto il pianeta; popolazione studentesca di provenienza nazionale e internazionale; sede del Vaticano e compresenza di ambasciate, consolati, centri culturali di tutti i Paesi del mondo; vivacità del terzo settore; élite giovanili sia nelle zone marginali che nel centro; fermento d’iniziative; protagonismo della società civile; proliferazione delle piccole imprese; brand culturale e creativo; sede delle principali aziende di servizi del paese, dall’energia ai trasporti e alle comunicazioni; massima attrazione turistica; imprenditorialità femminile. Insomma il prossimo sindaco – se ne fosse consapevole e capace – potrebbe fare di Roma, grazie alla sua storia e ai suoi pregi ma anche ai suoi difetti, il luogo privilegiato per il flaneur postindustriale, autoctono o turista, per il Baudelaire del XXI secolo che, delegato il lavoro ai robot e all’Intelligenza artificiale, ormai ricco di tempo libero, di conoscenze, informazioni e curiosità, desidera abbandonarsi all’esplorazione disincantata di quello che Hofmannsthal chiamava “paesaggio fatto di pura vita”.

 

Anvedi come rimbalza strano ’sto Pil…

Già Balzac aveva chiaro in mente quanto sia difficile stabilire dove finisca la cortesia e cominci l’adulazione. Due secoli dopo per Mario Draghi la vita, da questo punto di vista, deve essere un inferno, tanto che a volte è costretto lui stesso a smorzare gli entusiasmi – a volte sinceri, a volte meno, sempre imbarazzanti – che suscita in specie tra giornalisti e commentatori. Giovedì, ad esempio, in conferenza stampa, ha dovuto ricordare a quelli che “abbiamo battuto la Germania” che la crescita, pur superiore alle attese per ora, non dovrebbe spingere nessuno a improprie vanterie: “Non bisogna compiacersi troppo di queste cifre: il nostro Pil è caduto come non si vedeva da decenni e ora sta avvenendo un grande rimbalzo. La sfida sarà mantenere un tasso di crescita più elevato di quello che avevamo prima della pandemia”. Un grande rimbalzo che non ci porterà al Pil pre-crisi entro l’anno e che – a stare ai segnali che arrivano dall’estero, Usa in testa – nella seconda metà dell’anno potrebbe essere meno intenso. Per ora, però, abbiamo il “grande rimbalzo”, solo che mica tutti rimbalzano allo stesso modo. Tralasciando un attimo gli arraffoni del Sussidistan e i trogloditi dell’effetto divano, prendiamo il mercato del lavoro, su cui l’Istat ha appena diffuso i dati di luglio: situazione piatta, leggero calo degli occupati sul mese (-23mila unità, ma con buoni numeri per gli under 35) con saldo annuale positivo (+440mila) e però ancora largamente negativo rispetto al periodo pre-Covid (-265mila occupati con 160mila inattivi in più). Dice: vabbè, c’è stato comunque rimbalzo. Certo, ma conviene chiedersi: com’è fatto ’sto rimbalzo? E qui è tutto un altro paio di maniche: nell’anno tra il luglio 2020 e quello di quest’anno il 76% dei nuovi occupati è “a tempo determinato”. Detto in un altro modo: il lavoro precario è salito del 14,4%, quello stabile dello 0,8%. Risultato: gli occupati a termine sono già 80mila in più rispetto a febbraio 2020. Per rendere il rimbalzo del precariato più alto che mai, poi, sono state pure eliminate a tempo indeterminato le cosiddette “causali” che tanto irritano i Bonomi. Se in lockdown vi chiedevate: “Ne usciremo migliori?”. Ecco, non si sa, intanto ne usciamo precari.

Anche il covid-19 ha il suo fantasma

I fantasmisono nei cartoni, sono nei film romantici, nelle commedie, nei melodrammi e nel cinema di paura. Anche la pandemia ha avuto il suo. La vicenda relativa alle origini del virus è stata ampiamente dibattuta e, a oggi, non chiarita. L’ipotesi che il virus fosse fuggito da un laboratorio è stato sottoposto a una vera e propria inquisizione. Persino Facebook ha censurato chi ne parlava. Dopo due anni tutto è ancora nebuloso. Nella strana storia sono stati chiamati in causa pipistrelli, pangolini, tecnici di laboratorio maldestri. Mancava il fantasma. È stato individuato. Si chiama Wilson Edwards. Il suo profilo Facebook lo presenta come un biologo svizzero che ha pubblicato decine di post sull’argomento. L’ultimo, datato 21 luglio 2021, si intitola “Poiché le questioni scientifiche continuano a essere politicizzate, non ho dubbi che questo gruppo consultivo soccomberebbe a uno strumento politico” e sostiene che gli Usa abbiano condotto una politica fuorviante sull’origine del virus, per colpevolizzare la Cina. Piuttosto, dice, bisognerebbe guardare altrove. Il profilo è stato visitato da migliaia di persone ed è comprensibile come abbia potuto contribuire a distrarre l’attenzione dalle responsabilità cinesi, mai del tutto provate, né escluse. Tutto ciò nell’arroccamento più totale della Cina che, malgrado l’invito dei partecipanti al G7 a condurre un’indagine internazionale con la sua partecipazione, resta chiusa a ogni dialogo sull’argomento. Ma chi è Wilson Edwards? L’ambasciata svizzera in Cina, ha condotto delle indagini, scoprendo che il famigerato scienziato non esiste e che dietro a quel profilo c’è la continua e inesauribile comunicazione manipolata dal governo cinese. Non se ne parla. Ed è molto grave. L’origine del virus è un tassello troppo importante nella costruzione della barriera protettiva nei confronti di una prossima pandemia e non solo.

 

Quando i giornalisti rischiano di essere ridotti a “impiegati”

 

 

“Ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati… Questo non è un Paese per giornalisti-giornalisti”

(dal film Fortapàsc di Marco Risi – 2009)

 

Nell’escalation di minacce e violenze dei No Vax e No Pass contro politici, medici e giornalisti, per una categoria negletta come la nostra quello che più colpisce – a parte i pugni sferrati al giovane videomaker di Repubblica, al quale va la massima solidarietà – è l’appellativo di “impiegati” usato come un insulto o un’offesa. Dice il vocabolario che l’impiegato è una “persona che presta continuativamente la propria attività professionale, esclusa quella di semplice manodopera, alle dipendenze di un ente pubblico o privato, in ambito amministrativo o tecnico”. E distingue fra impiegato d’ordine e impiegato di concetto.

Si tratta, insomma, di lavoratori che dipendono contrattualmente da imprese private o dall’amministrazione statale. Una categoria di circa 18 milioni di persone, secondo i dati dell’ultimo censimento Istat, che – al pari di tutte le altre – comprende gli onesti e i meno onesti, i diligenti e i lavativi, i laboriosi e i fannulloni. Pressappoco un terzo dell’intera popolazione italiana, inclusi gli insegnanti o i collaboratori scolastici come l’energumeno che ha aggredito il nostro malcapitato collega.

Di per sé, dunque, l’epiteto di “impiegato” è tutt’altro che offensivo. Può diventarlo, nella fattispecie, quando si ritiene o si presume che questo o quel giornalista dipendente da un’azienda editoriale rinunci – appunto – alla propria indipendenza professionale. Magari per eseguire richieste, ordini o disposizioni che provengano illegittimamente da un potere esterno, istituzionale, politico o economico, piuttosto che compiti e incarichi ricevuti dalla direzione del proprio giornale o dalla sua struttura organizzativa.

“Ricordatevi che siete tutti impiegati”, ci diceva ogni tanto scherzosamente Eugenio Scalfari ai tempi della prima Repubblica, con il suo humour sottile e la sua caratura professionale. E un altro “grande vecchio” come Enzo Biagi avvertiva: “Un buon direttore di giornale non deve aver paura di perdere la poltrona”. Ecco, questo è il punto. Il direttore responsabile è l’anello di congiunzione (di darwiniana memoria) fra l’uomo e la scimmia: e cioè, senza offesa per nessuno, fra la redazione e l’editore, ma anche fra il pubblico dei lettori e la proprietà del giornale. È lui, per primo, il garante di questo ménage à trois, di questo rapporto triangolare che implica sul piano psicologico un transfert quotidiano tra chi fa un giornale e chi lo legge.

Al di là della maggiore o minore autonomia personale, il tema va inquadrato ovviamente in un contesto più generale, di ordine giuridico ed economico, per salvaguardare il pluralismo e la libertà d’informazione. E, proprio qui, abbiamo parlato già troppe volte di “editori puri” e “impuri” per doverci ripetere. Se si vuole restituire alla stampa (e ora anche all’informazione online) autorevolezza e credibilità, è necessario assicurare le condizioni perché i giornali – a maggior ragione se appartengono a un privato – siano gestiti in piena trasparenza e i giornalisti non siano ridotti a “impiegati”. La soluzione ottimale, però, non può essere quella – ipotizzata recentemente dal governatore pugliese, Michele Emiliano – di consentire ai soggetti istituzionali l’acquisizione o il controllo di una testata: così diventerebbe un’informazione di Stato ovvero di Regione. Occorre, piuttosto, introdurre uno “Statuto dell’editoria” che in forza dei principi e dei valori costituzionali garantisca i giornalisti e specialmente i lettori, anche quelli No Vax o No Pass. E non violenti.

 

Lavoro, reddito, pensioni: ecco pronto L’assalto d’autunno

C’è grande soddisfazione sulla stampa di Palazzo per la prova di forza esibita l’altroieri da Mario Draghi. Cipiglio da leader, visione, forza contrapposta alla debolezza manifesta dei partiti (si vedano, all’unisono, Stefano Folli su Repubblica e Marcello Sorgi su La Stampa).

Non c’è dubbio che Draghi goda di un credito inerziale dovuto a un quadro politico la cui debolezza è resa evidente dall’innaturale coalizione che sorregge il governo. Nemmeno Giuseppe Conte, il meno incline all’alleanza, ha al momento la forza per tirarsi fuori dalla maggioranza e quindi Draghi può fare il bello e il cattivo tempo, almeno ancora per un po’.

Ma per fare cosa? Certo, in primo piano c’è l’emergenza Covid e, ora, la questione dell’obbligo vaccinale lanciato apparentemente senza calcolare tutte le complicazioni che si porta dietro. Ma in fondo c’è un autunno di scelte politiche e sociali che non sarà facile e le cui avvisaglie sono state già date dalle prime esternazioni post-agostane del governo dei “migliori”.

Renato Brunetta, il ministro anti-fannulloni, è tornato agli amori di un tempo declassando il tanto decantato (in tempi di pandemia) smart working a strumento anti-Pil. Una posizione che ha iniziato ad alienare al governo un po’ di consenso anche nella fascia alta della Pubblica amministrazione, delusa dal gesto. Che ha però un valore simbolico, perché inverte la narrazione sulle potenzialità innovative e moderne del digitale che, tra l’altro, potrebbe rappresentare anche un terreno di miglioramento della condizione di lavoro e dei tempi di vita. Brunetta, che si vede come possibile primo ministro nel caso Draghi si trasferisca al Quirinale (così dicono alcuni suoi amici), ha ridato, in questo modo, il giusto segno di classe al governo ponendolo ancora una volta (ricordate i licenziamenti?) sul fronte opposto del lavoro.

L’altra insidia riguarda il Reddito di cittadinanza. L’altroieri La Stampa riportava un’intervista a Matteo Renzi in cui si scriveva senza timori che l’offensiva dell’ex dem serva proprio a facilitare la strada a Draghi per una revisione del Rdc. Una revisione la propone anche il leader del M5S, Conte, ma si tratterà di capire come sarà fatta, chi sarà penalizzato e a chi andranno eventualmente le risorse che dovessero liberarsi. Tutti hanno capito che su questo fronte si realizzerà un’altra iniziativa negativa sul piano sociale.

Lo stesso accadrà sulle pensioni. Con buona pace di tutti, “Quota 100” sarà archiviata a fine anno e qualsiasi cosa verrà dopo sarà peggiore. I critici liberali ne parlano come di un gigantesco spreco di risorse, ovviamente perché non riescono mai a mettersi nei panni di chi ha lavorato una vita, magari in nero, senza contributi e non può fare lavori pesanti, usuranti o comunque lavori stancanti per quarant’anni o più.

L’idea più avanzata che circola è “Quota 41” e chiunque abbia saggiato il lavoro vero capisce che tipo di fregatura possa essere quella soluzione. Insieme alla riforma degli ammortizzatori sociali, al momento privi di fondi necessari, il trittico appena descritto compone una linea di attacco molto cara a Confindustria. Possiamo aggiungere a tutto questo le mire nucleariste del ministro falso ambientalista Stefano Cingolani, una certa inconcludenza sul fronte della Sanità e della Scuola, e un rigurgito di militarismo in seguito alla disfatta afghana con il ritorno del tema “esercito europeo”. Vuoi vedere che governo dei “migliori” è la versione abbellita di quello che una volta si chiamava governo “dei padroni”?

 

Renzi è rimasto a sinistra per poterla distruggere

Di Renzi siamo condannati a occuparci perché, sin quando reggerà la legislatura, egli, con il suo manipolo di parlamentari sottratti ad altri gruppi, non dismetterà un solo istante la sua azione da Ghino di Tacco. Ormai lo conosciamo. Dicesi potere di coalizione o, più crudamente, potere di ricatto originato dal “valore” (numerico) marginale dei suoi compagni di ventura.

A fugare ogni residuo equivoco è il suo annuncio di volere ricorrere addirittura a un referendum per sopprimere il Reddito di cittadinanza. Una misura che si può discutere e perfezionare, ma il cui segno è inequivocabilmente di sinistra in quanto strumento di lotta alla povertà. Scomodando argomenti iperbolici tipo l’interesse della criminalità organizzata. Nessuno si è spinto sin lì, specie dopo le parole del suo amato Draghi che ha detto di condividere la ratio del Rdc. È la prova regina di una scelta di campo, il sigillo di una sequela di posizioni a tutti gli effetti ascrivibili alla destra. Qualcuno ha notato che Renzi è una bussola sicura per i progressisti pur di vario rito: egli sta dalla parte opposta! Trattasi di un chiarimento utile. A suo modo, menzognera ma significativa è anche la contestuale “rassicurazione” di posizionarsi nel campo del centrosinistra. Lì e solo lì, infatti, può esercitarsi nell’arte divisiva in cui eccelle. Di là non ne hanno bisogno. Semplicemente lo usano.

Intendiamoci: non si contano più le piroette del Nostro. Nessun ancoraggio a qualche saldo principio. Tutto strumentale, tutto relativo, tutto revocabile. Nei passaggi politici contingenti: dallo “stai sereno” al patrocinio del Conte-2 seguito dal suo killeraggio di esso; dal “tutti fuorché Salvini” (odiato M5S compreso) alla liaison sempre più palese tra i due Matteo. Nella visione sistemica: dalla democrazia maggioritaria e di investitura tesa al bipartitismo al varo del suo partitino personale sortito da un’operazione di palazzo genuinamente trasformistica. Dal tratto populista light della sua leadership (si pensi al tenore della campagna referendaria dagli accenti antipolitici con l’enfasi sul taglio dei senatori) all’attuale crociata contro il populismo altrui (in realtà fatto coincidere con il solo M5S). Dalla rivendicazione della battaglia sui diritti civili (a risarcire la l’insensibilità verso i diritti sociali e del lavoro) al suo boicottaggio della legge Zan. Si può dare per certo che egli darà di nuovo il meglio di sé nell’attesa partita del Quirinale sulla quale si è già portato avanti rimarcando, con singolare zelo e malcelato compiacimento, che si dovrà concordare il candidato con la destra. Fa girare il nome di Casini.

Ipotesi magari non allarmante, ma di sicuro avvilente, un premio alla furberia e all’opportunismo. E tuttavia ipotesi plausibile: Casini si è guadagnato l’ennesimo giro di giostra parlamentare – candidato da Renzi a Bologna nelle liste Pd – grazie al servizio resogli con la sua compiacente presidenza della insidiosissima (per il Giglio magico) Commissione sulle banche nello scampolo finale della scorsa legislatura.

Restano due domande: come sia stato possibile che, per un tempo non breve, a sinistra, si sia dato credito a Renzi quale leader di quel campo, nonché il mistero delle decine di parlamentari suoi seguaci proni a ogni giravolta. Conversioni collettive e persino inversioni a u.