La sparata di Draghi per stanare la Lega e smuovere indecisi

In Consiglio dei ministri c’era stato appena un accenno all’estensione delle attività e delle categorie per cui sarà necessario il Green Pass, come nella scuola e nell’università, a partire dal pubblico impiego di cui aveva già parlato il ministro della Salute, Roberto Speranza. Perciò anche qualche ministro è rimasto sorpreso di fronte alla pur sintetica risposta di Mario Draghi, che giovedì in conferenza stampa ha risposto sì a chi gli chiedeva della possibile introduzione dell’obbligo vaccinale. Un annuncio buttato lì per indicare la direzione di marcia, per spingere almeno qualcuno dei milioni di italiani non vaccinati (3,3 milioni gli over 50) a fare la prenotazione, per vedere l’effetto che fa e anche per mettere alle strette Matteo Salvini, che ancora ieri indicava l’obbligo vaccinale tra le “battaglie” cui la Lega “non rinuncia”, per quanto l’ala morbida del suo partito – da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia – non sembri pronta alle barricate. Era anche una risposta al Carroccio che nei giorni precedenti aveva votato contro il Green Pass nella commissione Sanità della Camera in sede di conversione del relativo decreto, che la stessa Lega aveva approvato in Consiglio dei ministri. Al momento non c’è ancora nessuno impegnato a scrivere la nuova norma, il tema non è all’ordine del giorno del Comitato tecnico scientifico e non è nemmeno deciso se sarà un obbligo vero e proprio (come quello vigente per il personale sanitario) o se sarà allargato il perimetro del Green Pass, né per quali categorie o fasce d’età. “Non si deciderà prima di fine settembre, dipenderà anche dall’evoluzione della campagna elettorale e dell’epidemia”, spiegano concordi diverse fonti governative.

Insomma, bisognerà vedere quanto ci avvicineremo all’80 per cento di immunizzati e come andranno le cose dopo la riapertura delle scuole, quando i contagi inevitabilmente saliranno e rischiano di sovrapporsi a una curva dei ricoveri ancora in crescita almeno in alcune Regioni. E in ogni caso bisognerà attendere che l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, dia il via libera definitivo ai vaccini fin qui approvati solo in via provvisoria, come ha già fatto la Food and drug administration negli Usa dove però il governo non ha imposto obblighi. Nell’Unione europea nessuno l’ha fatto, ma comunque non sarebbe neppure possibile prima dell’ok dell’Ema.

Detto questo, l’uscita del presidente del Consiglio sul possibile obbligo vaccinale non era un fulmine a ciel sereno. Nei giorni scorsi Draghi aveva sondato i leader dei partiti della maggioranza, Salvini è contrario ma Giuseppe Conte, nonostante alcune dichiarazioni nettamente negative, si è mostrato possibilista, tant’è che ieri ha aperto pubblicamente all’obbligo dove ci sono “assembramenti”. Nelle ultime ore l’ex premier ha spiegato ai 5Stelle la sua linea, anche in una call interna. E il primo punto, espresso ieri anche ai cronisti in un evento pubblico, è che “bisogna assolutamente sgomberare il campo da posizioni anti-scientifiche, su questo tutti i partiti devono prendere posizione in modo molto chiaro e non sono tollerabili ambiguità”. Parole per ribadire la lontananza dai no vax. Dopodiché Conte è convinto che si debba estendere il più possibile l’obbligo del Green Pass, come strumento indiretto di persuasione a vaccinarsi. Sull’obbligo vaccinale invece è cauto. Per l’ex premier, sarebbe “l’extrema ratio”, da scegliere solo dopo aver consultato la comunità scientifica, “come sempre”. Sono favorevoli le altre forze che sostengono il governo, compresa Forza Italia, come del resto la Confindustria che anzi preme in questa direzione da tempo, la Cgil di Maurizio Landini e buona parte dei sindacati. Il presidente del Consiglio si era consultato con i ministri più direttamente interessati alla questione, in primis Speranza che tendenzialmente preferisce l’estensione del green pass e comunque ha ripetuto ieri che l’obbligo rimane un’opzione, ma anche Renato Brunetta titolare della Funzione pubblica e Andrea Orlando, ministro del Lavoro.

Salvini ricambia idea: adesso gli piace la Cina

Il tour nelle ambasciate era partito a metà agosto quando era scoppiata la crisi afghana. Ma, dopo gli incontri con i diplomatici in Italia di Pakistan e Afghanistan, nessuno avrebbe mai immaginato che Matteo Salvini decidesse di confrontarsi anche con gli acerrimi nemici della Cina, il primo Paese al mondo a riconoscere e legittimare i talebani. Come un Beppe Grillo qualunque, direbbe lui. E invece così è stato: ieri mattina il leader della Lega è entrato nell’ambasciata di via Bruxelles per incontrare Li Junhua, ambasciatore di Pechino a Roma. Un’ora di colloquio in cui i due leader hanno parlato soprattutto della crisi afghana e del rischio terrorismo ad essa connessa. Una conversione che ha sorpreso molti, anche dentro la Lega, visto che Pechino considera pienamente legittimo il nuovo regime dei talebani ma soprattutto alla luce della nota rilasciata dal Carroccio dopo l’incontro: tra Salvini e Li Junhua c’è “piena condivisione a proposito della messa in sicurezza della popolazione afghana, con l’impegno di moltiplicare gli sforzi per riportare il Paese alla normalità coinvolgendo tutti gli attori internazionali” e “l’impegno comune per contrastare il terrorismo”. Non solo: nell’incontro si è parlato anche dei rapporti tra Cina e Italia, della partecipazione di Pechino al G20 e della telefonata che ci sarà martedì tra Draghi e il Presidente cinese Xi Jinping. Il premier italiano, infatti, per organizzare il G20 sull’Afghanistan ha bisogno di coinvolgere la Cina, ma per farlo Pechino potrebbe chiedere che la Lega, tra i pilastri del governo Draghi, abbassi i toni contro di lei.

Così, nonostante Salvini ribadisca che “non è ipotizzabile alcun riconoscimento del governo dei talebani”, ieri il leader della Lega e l’ambasciatore cinese in Italia sono andati d’accordo su tutto. Una visita che infatti è stata rilanciata con grande enfasi dall’ambasciata cinese in Italia che rivendica il successo diplomatico nei confronti del nemico, cioè Salvini: “Le due parti hanno concordato di approfondire ulteriormente le conoscenze e gli scambi reciproci – recita il comunicato di Pechino – promuovere le relazioni sino-italiane e la cooperazione di mutuo vantaggio. Hanno anche scambiato le vedute sull’Afghanistan”.

Il voltafaccia di Salvini è evidente visto che nel 2019, in pieno governo gialloverde, il leader del Carroccio attaccó così i 5 Stelle per le visite di Grillo e Di Maio all’ambasciata cinese: “Vedo che i 5s vanno d’accordo con la dittatura cinese”. Un anno fa, inoltre, Salvini e i parlamentari leghisti avevano organizzato un flash mob davanti all’ambasciata di via Bruxelles con tanto di cartelli per protestare contro il regime cinese che reprimeva nel sangue la protesta di Hong Kong: “Quando la violenza viene dal regime cinese nessuno nella maggioranza apre bocca – diceva Salvini – Trovo imbarazzante il silenzio del governo sulle violenze della Cina”. Negli ultimi mesi, inoltre, la Lega ha più volte attaccato Pechino chiedendo i danni per aver causato la pandemia da Covid-19. A marzo, quando l’ambasciatore Li Junhua era stato audito in commissione Esteri, i deputati leghisti erano addirittura usciti per protesta. Ora Salvini deve aver cambiato idea.

Vaccini, l’obbligo non regge: in Aula si può sempre entrare

C’è chi, come Francesco Lollobrigida, che è capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, ha fiutato l’aria e nella contraddizione ci si è infilato a pesce da settimane. “Non vogliamo alcun privilegio come parlamentari, quindi pur essendo contrari al Green Pass diciamo che quello che vale fuori vale anche qui dentro: deve essere obbligatorio per entrare in aula a Montecitorio”. L’altro meloniano di stretta osservanza, Ignazio La Russa, che al Senato è vicepresidente, sapendo che tra gli apostoli dell’obbligo c’è anche chi predica bene e razzola male, si è concesso il gusto della provocazione sadica: “I colleghi che non sono vaccinati potremo metterli al piano di sopra, distanziati e con la mascherina”. Parlamento, ferie finite o quasi: si torna al lavoro dopo una lunga pausa estiva che non ha rasserenato gli animi. Perché l’altro giorno Palazzo Chigi ha fatto sapere che l’ipotesi di introdurre la punturina obbligatoria non è affatto remota, anzi. Ma si fa presto a dire obbligo quando per gli inquilini di Camera e Senato la regola potrebbe non valere comunque, neppure a Mario Draghi piacendo.

Perché ci vorrebbe come minimo una modifica ai regolamenti interni di Camera e Senato che a oggi prevedono la possibilità di impedire l’accesso ai lavori per gli eletti solo in caso in cui siano protagonisti di gazzarre e scontri in aula, unici casi che possono far scattare il Daspo: la squalifica che può costare al massimo l’interdizione di 15 giorni dall’esercizio dell’alto magistero democratico (con annessa e dolorosissima perdita della diaria) comminabile solo a seguito di un regolare “processo” in cui a chi è capitato di finire sul banco degli imputati, pur di scampare la pena, ha persino invocato la moviola. Per dire che introdurre l’obbligo per tutti, almeno a Palazzo non è una passeggiata: “Di certo non basterebbe una delibera del collegio dei questori”, spiega il questore anziano della Camera, Gregorio Fontana, di certo non sospettabile di simpatie No Vax: “L’imposizione di un obbligo del genere ha implicazioni non indifferenti che vanno ben al di là del profilo della sicurezza sanitaria che comunque siamo riusciti a garantire. Io sono favorevolissimo al vaccino e a tutto il resto ma mi domando: chi si assume la responsabilità di dire che senza certificazione i deputati non possono esercitare le loro prerogative costituzionali”.

La questione, insomma, è delicata: tiene banco da quando Palazzo Chigi ha varato il Green Pass, figurarsi ora che Draghi ha parlato di obbligo vaccinale. Camera e Senato finora si sono adeguati alle nuove regole che valgono per tutti dal 6 agosto: gli eletti e non solo loro (dipendenti, assistenti parlamentari, giornalisti, visitatori autorizzati) continuano a entrare a Palazzo senza dover esibire alcunché come negli altri luoghi di lavoro e devono mostrare la certificazione solo al ristorante o a mensa o se partecipano a eventi, convegni e conferenze stampa all’interno di Palazzo Madama e Montecitorio. Il controllo è affidato ai commessi che sono dotati di tablet per controllare con l’app chi è in regola con la certificazione. In aula e in commissione ogni controllo è invece escluso anche se inevitabilmente alla ripartenza delle attività prevista per la prossima settimana il dibattito sull’obbligo vaccinale anche per gli eletti potrebbe tornare a tenere banco. Nel frattempo sono confermate le misure di prevenzione che hanno cambiato anche la logistica a Palazzo e che garantiscono il distanziamento durante le sedute. E sono ripartiti anche gli screening sanitari volontari, come spiega anche il questore anziano del Senato, Antonio De Poli. “Abbiamo ripreso a fare i tamponi: da martedì riaprono i battenti ed è prevista l’informativa di Di Maio sull’Afghanistan e il dibattito sul non passaggio agli articoli del ddl Zan. Sedute che si prevedono affollate: ci si potrà controllare prima e dopo”.

Effetto boomerang

Rientrato dalle vacanze con la solita arietta da Maria Antonietta, Mario Draghi ha comunicato alla Nazione che “si va verso l’obbligo vaccinale”. Cosa l’abbia indotto a un annuncio così dirompente e a una scelta unica al mondo, mai discussa in Parlamento, in Cdm e nel Paese, anzi sempre esclusa da tutti (a parte qualche isolato esaltato), non è dato sapere. Se all’inizio della campagna vaccinale, quando non si sapeva quanti italiani avrebbero aderito, poteva avere un senso ipotizzarla, ora che il generalissimo Figliuolo e i suoi trombettieri giurano che è stata un trionfo e “siamo all’ultimo miglio”, che senso ha una forzatura che – ripetiamo – nessun governo europeo (e non solo) s’è sognato di varare per il Covid? Mistero. Persino il ministro Speranza, che passa per un ultrà rigorista, ha sempre escluso l’obbligo generalizzato. E non solo perché i vaccini restano un trattamento sanitario personalizzato sul singolo paziente. Ma anche perché uno Stato liberale non impone un Tso a milioni di renitenti. E poi che si fa con una massa così numerosa di contrari o perplessi: si manda i carabinieri armati di siringa a domicilio? E con quale sanzione per chi non li fa entrare: la galera? I vaccini vanno fatti caso per caso, non casa per casa.

Forse Draghi – competente in materia finanziaria, ma incompetente e maldestro in materia sanitaria (e non solo) – non si accorge che annunciando l’obbligo vaccinale smentisce i trionfalismi sulla campagna vaccinale: se davvero siamo i migliori d’Europa, come ripetono il suo governo e i suoi corifei, che motivo c’è di imboccare una scorciatoia esclusa da tutti i suoi colleghi (a cominciare dalla Merkel, che ha molti più No Vax di noi)? Il premier non coglie neppure l’effetto boomerang: anziché spaventare i No Vax trasformandoli in Sì Vax, li rafforzerà sulle loro posizioni. Perché l’obbligo vaccinale, così come l’abuso che si sta facendo del Green Pass, parte da una frottola che tutti i dati ogni giorno s’incaricano di smentire: quella spacciata nella penultima conferenza stampa, quando Draghi disse che il Green Pass garantisce zone protette dal Covid. Ma tutti sanno che non è vero: il vaccino va fatto perché riduce al minimo il rischio di morte e di casi gravi e diminuisce le possibilità di contagio, ma non elimina nessuno dei tre pericoli. Il mondo è pieno di vaccinati contagiati e contagiosi con tanto di Green Pass, paradossalmente più pericolosi di chi è senza vaccino né Green Pass: chi li avvicina si sente sicuro e abbassa le difese. Pensare di legittimare il vaccino e il Green Pass con la forza è una pia illusione: in realtà li si delegittima e li si svaluta. Se chi li ha è così immune, perché mai dovrebbe avere paura di chi non li ha?

“La nostra vita dovrebbe somigliare a un sonnellino su un manto di fiori”

“Una mattina, mentre guardavamo un programma sui Queen alla tv, il nonno si emozionò visibilmente e disse: ‘Freddie era un dio, anche se si muoveva troppo. Era un grande comunicatore, per questo riesce a sentire ciò che desideriamo’. ‘Questo significa che muoversi troppo, in fondo, è una cosa buona?’. ‘È vero che Freddie si muoveva in continuazione, così come è vero che sapeva esattamente quando fermarsi, ma questo non vuol dire niente. Ciò che conta è che non cambiava mai… Siamo esposti ogni giorno a una sorta di trappola che ci spinge a diventare qualcosa di diverso. Resistere non significa soltanto restare come siamo. Solo dove viene meno il desiderio si apre un mare immenso, sconfinato. Il mare è dotato dell’equilibrio più perfetto… Non serve essere famosi, basta accontentarsi del necessario: una volta presa questa decisione si ha tutto ciò che serve. La vita dovrebbe somigliare a un sonnellino su un letto di fiori’”.

Il dialogo tra la protagonista Miki Ohira e suo nonno è il fulcro dell’ultimo romanzo di Banana Yoshimoto, Su un letto di fiori, appunto, da ieri in libreria con Feltrinelli. È un ritorno alle tematiche dell’infanzia (L’abito di piume) e dell’adolescenza (High & Dry) senza fronzoli. Nel bed & breakfast ispirato dalla campagna inglese “il nonno ‘attirava’ i desideri, le persone venivano per ascoltare le sue parole”, riprendendo il filo de Il giardino segreto e Presagio triste. Difatti, come per magia, il nonno arriverà a indossare una t-shirt di Freddie Mercury “caduta dal cielo”.

Miki è stata adottata e percepisce “altri bambini che, come lei, hanno avuto una vita difficile o tragica”: il canovaccio della bambina orfana attinge dalle figure di Guriko e Donko conosciute ne Le sorelle Donguri. Fino all’arrivo dell’amico di infanzia Nomura, Miki si sente inadeguata come la protagonista de Il lago: attraverso gli occhi dell’amico riuscirà a valorizzare la sua quotidianità, squarciando il velo del crepuscolo. Premonizioni, incantesimi, elogio della natura, riti e musica: ingredienti leggeri con un denominatore spirituale e buddista e l’inesorabile attaccamento della famiglia con le sue formalità, retaggio dei capolavori di Yasujiro Ozu. Un libro che annuncia l’autunno e si colora come le foglie dell’indian summer di settembre.

Stile da Califfo: donne, feste, locali. E il letto in pelle di leopardo

Franco Califano è stato un vero personaggio da cinepresa, era il “grande schermo” fatto persona: quando è uscita la serie tv Romanzo criminale, ho pensato immediatamente a lui.

Lui era dentro quel clima, quegli atteggiamenti spavaldi, il desiderio di ostentare, di stupire; l’esigenza di mostrarsi sempre e comunque come un Re: a prescindere dalla situazione o dal contesto, lui si riteneva la situazione e il contesto.

Noi fotografi un po’ lo temevamo, anche perché, spesso, con lui o vicino a lui pizzicavamo i brutti ceffi del periodo, gente pericolosa, non proprio avvezzi ai riflettori: soggetti che preferivano restare lontani dalle liturgie dello spettacolo.

Califano no.

Lui amava venir fotografato, era una sorta di consacrazione quotidiana del suo status di celebrità, quindi ci cercava, ci chiamava e arrivava a creare delle situazioni ad hoc per poi offrirci il servizio giusto. A volte queste “situazioni” si tramutavano in sceneggiate tremende: nel periodo in cui era agli arresti domiciliari per droga, arrivavamo a casa sua e iniziava a piangere, non un pianto normale, proprio una sceneggiata. Poi la sera cambiava linea e apriva la porta a qualcuna delle sue donne, anche più di una alla volta e a tutte mostrava il suo copriletto in pelle e pelo di leopardo.

Sulle donne non transigeva.

Negli anni lo abbiamo visto accompagnato dalle più belle, le più famose, le più cercate. E il programma era una certezza: arrivava, apriva la portiera dell’auto alla signorina, si guardava attorno, quindi con un gesto calibrato si sistemava la giacca e a quel punto iniziava la sfilata verso l’entrata del locale. E noi: “Califfo, che famo stasera?”. “Ragazzi, aspettate e vedrete”. Il problema è che la sua serata finiva all’alba e quasi mai in maniera lucida.

Ha staccato la sua “ombra da terra”: addio a Del Giudice

Viveva non sapendo più di vivere. Confinato in una residenza alla Giudecca, affacciata sul lido di Venezia, Daniele Del Giudice da anni non aveva più memoria di sé, annientato dall’Alzheimer. Lui che era stato uno dei protagonisti della nouvelle vague letteraria degli anni 80 si era ridotto a essere nient’altro che un corpo, accudito grazie al vitalizio della legge Bacchelli. L’autore, morto la notte scorsa, manca per ironia della sorte di pochi giorni il Campiello alla carriera, che sabato all‘Arsenale avrà il timbro di una celebrazione postuma.

Nato a Roma 72 anni fa, Del Giudice, battezzato da Italo Calvino, sembra esaurire la sua vocazione in una parabola fatale. Lui che avrebbe voluto continuare a scrivere, ma non ha potuto più farlo, aveva debuttato nel 1983 elevando a protagonista del suo Lo stadio di Wimbledon (riedito da Einaudi il prossimo novembre, ndr) Bobi Bazlen, l’intellettuale triestino che pure poteva, ma che rifiutò sempre, di cimentarsi nella scrittura. “Discepolo dell’esattezza”, Del Giudice è stato maestro di stile, capace come pochi altri di armonizzare sulla pagina una sintassi limpida e uno sterminato dizionario tecnico. La sua bibliografia scarna è una ossessiva interrogazione del futuro da “visionario di ciò che esiste”: in Atlante occidentale c’è la percezione del reale attraverso la tecnologia del Cern, in uno dei racconti che compongono Mania c’è la premonizione degli sviluppi della rete. Come Barnaba di Nel museo di Reims, che cerca di vedere i quadri che ama prima di perdere totalmente la vista, Del Giudice, che pilotava piccoli aeroplani, forse sapeva che la sua letteratura non era altro che il tentativo di rincorrere il tempo. Ecco perché, Staccando l’ombra da terra, confidiamo non abbia maturato nessun rimpianto persuaso che “in nessun luogo la parola ti sembra così importante come in cielo”.

“È stata la mano di Dio” con lo zampino del diavolo

Venezia

Dopo il Papa, uno e due, e Berlusconi, non poteva che esserci Dio, ovvero io: È stata la mano di Dio è la prima opera autobiografica di Paolo Sorrentino, che torna alla Mostra di Venezia con un lungometraggio vent’anni dopo l’esordio, L’uomo in più. In Concorso, prende il titolo da un celebre goal di Diego Maradona, ma la ricaduta è intima e tragica insieme: i genitori morirono per esalazioni di monossido di carbonio nella casa di Roccaraso, il diciassettenne Paolo si salvò perché decise altrimenti di seguire la squadra del cuore, il Napoli, e il suo “religioso” condottiero.

Prodotto da Netflix e The Apartment, lascia “totale spazio a sentimenti ed emozioni”, al contempo predica “la desertificazione sentimentale”, con ricadute stilistiche radicali: dimenticate i carrelli del Divo, le iperboli di The New Pope, stavolta Sorrentino al gusto predilige la sostanza e controfirma il bilancio esistenziale di Bukowski, “gli dei sono stati proprio buoni, l’amore è stato bello e il dolore è arrivato a vagonate”. Lo stile trasmuta in sensibilità, l’adrenalina in confidenza, e il cast – l’alter ego di Paolo è il Fabietto Schisa incarnato dal bravo Filippo Scotti, i genitori Toni Servillo e Teresa Saponangelo, il fratello Marlon Joubert, la zia matta e lussureggiante Luisa Ranieri – manda a memoria il ritorno al futuro del Paolo orfano e del suo cinema in divenire: alla commedia s’accosta la tragedia, al riso le lacrime, quelle che il giovane non riesce a versare. Si rammaricherà Fabietto col mentore (Antonio) Capuano, i genitori morti “non me li hanno fatti vedere”: l’elaborazione del lutto avrebbe dischiuso visioni sul grande schermo, e oggi L’uomo in più è forse diventato Il dolore in più.

In cantiere a Netflix già prima della pandemia, Paolo vuole che È stata la mano di Dio arrivi ai giovani e dica loro che “un futuro tocca a tutti, indipendentemente dall’handicap di partenza”. Non lo dice, ma vuole pure – e anziché la campagna carbonara del vittorioso La grande bellezza stavolta c’è Netflix… – che arrivi agli Oscar: dal 24 novembre in cinema selezionati, dal 15 dicembre sul servizio streaming, ne ha tutte le intenzioni, ma gli servirà la designazione per l’Italia dell’Anica, che verrà ratificata il prossimo 1° novembre. Se a parte un improbabile hoola hoop e dei parenti-zoo il marchio visivo di fabbrica latita, le battute icastiche sopravvivono: “Noi siamo comunisti. Siamo onesti a livello interiore”; “Pettinami la spaccatura”; “Senza conflitto è solo sesso, e il sesso non serve a niente”; “Se non hai le idee ti serve un dolore”; “La speranza è una trappola”; “Solo i strunz vanno a Roma”. Sorrentino rivendica l’abbrivio felliniano: “La realtà è scadente”, ma È stata la mano di Dio non è Amarcord né intenzionalmente un film esaltante: si fa nella semplicità e nella pudicizia, gli si chiederebbe forse meno controllo, ma finché sui titoli di coda non parte Napul’è di Pino Daniele è chiedere troppo. In ogni caso, è la cosa migliore in Mostra finora.

In Concorso delude Jane Campion, di cui il western da camera The Power of the Dog pare una versione for dummies, probabilmente addomesticata da Netflix, mentre Paul Schrader cade su Abu Grahib ma vanta un Oscar Isaac da premio con The Card Counter, da oggi in sala. Bene l’idea di una Taranto apocalittica e sperequata dall’Ilva in Mondocane di Alessandro Celli, con Alessandro Borghi alla Sic, abbiamo già un campione: Atlantide del videoartista Yuri Ancarani, che fotografa una gioventù bruciata sui barchini della Laguna. Bellissimo.

“Una carezza alla me di prima, inno alle adolescenti-farfalle”

Noemi, che voci sente nella testa?

Detta così sembro matta!

Il monologo interiore.

Solo la mia, è malata di protagonismo. Penso troppo, ma sono felice di aver recuperato un dialogo onesto con me stessa. A lungo ho sentito le tante voci delle persone che mi dicevano cosa avrei dovuto fare.

È rinata.

Mi vergogno a dirlo, ma lo stop generale mi ha permesso di riordinare le priorità della vita e del lavoro.

La musica dal vivo è ripartita. Quasi.

Sere fa, al Power Hits a Verona, alla fine di Makumba con Carl Brave mi sono presa dieci secondi per cantare a cappella e godermi quel pubblico. A Sanremo, con l’Ariston vuoto, era stato un incubo.

Questa è un’estate di polemiche per la caotica gestione dei concerti. Qualcuno non rispetta le regole, le istituzioni non applicano direttive chiare.

Nel mio tour la gente sta seduta e se provano ad assembrarsi li bloccano. Ho anche scelto un repertorio più morbido. Ma non possiamo aspettare ancora Godot.

In che senso?

Se ai concerti si può accedere solo con Green Pass e tampone, è ora di allargare la platea, sempre rispettando le norme. Diamo valore alla campagna sanitaria. Non è come l’anno scorso: il 70% della popolazione è vaccinata, anche il settore della musica può andare avanti. Senza un cospicuo numero di spettatori paganti, i tecnici finiranno sul lastrico.

Perché voi artisti non fate massa critica per premere sulle istituzioni?

Metterci d’accordo su un documento è complicato, ma serve una nuova spinta. Il mercato della musica non è di serie B, mentre gli stadi di calcio sono già pieni. Il tempo sta scadendo.

È vaccinata?

Certo. La sacca dei no-vax è una cicatrice di ignoranza nel nostro Paese.

C’è stato un giorno preciso in cui ha sentito di aver ritrovato il contatto con se stessa?

Subito dopo aver visto la copertina del mio album Metamorfosi. La foto del mio volto sorridente, un po’ sfocato. Ero io, pronta ad affrontare la mia trasformazione. I classici e la scienza ce lo insegnano: nulla resta in uno stato permanente.

Ora le riviste le dedicano scatti in pose sensualmente eleganti.

Più che sul corpo, ho affrontato un percorso a ostacoli a livello mentale. Ero abituata ad autosabotarmi. Temevo che apparire carina togliesse spazio al messaggio nelle canzoni. Invece è il contrario. Ho imparato a non scomparire dentro la mia pelle.

Qualche fan potrà aver pensato: Noemi non è più quella della porta accanto.

Il punto è: non puntare alla perfezione, devi andare bene per te stessa. Mostrarti sincera per ciò che sei, altrimenti inganni chi ti segue. E poi sono sempre stata molto sportiva, tranne una parentesi in sovrappeso.

Se incontrasse la Noemi adolescente che per vergogna faceva il bagno con la maglietta?

Le darei una carezza. La timidezza è ok, quando il corpo cambia e non sei più una bambina. Le suggerirei di cogliere l’occasione di crescita per acquisire consapevolezza, non disagio.

Questa nuova generazione di ragazze?

Siamo ancora in un mondo dove devi nascere dalla parte giusta. In Afghanistan stanno tornando al Medioevo, qui si può sperare nella fluidità dei ventenni. Cominciano a cadere le barriere tra i sessi. A patto anche che alcune donne rinuncino al maschilismo alla rovescia. Finiamola coi preconcetti.

La sfido: stasera alla Festa del Fatto proponga un brano mai affrontato dal vivo.

Sarebbe bello pescare tra gli stornelli, o nel canzoniere romanesco. Lella di De Angelis.

Che pare da gita in pullman, mentre parla di un femminicidio.

Sì, è tragica. Ma ricordo mio padre con la chitarra e mamma che la intonava. Felici.

Dopo Vasco, Curreri, Moro, Fossati, Masini, Sangiorgi, quale grande autore vorrebbe scrivesse per lei?

De Gregori! Citofoniamo al Principe con un buon vinello!

 

La nostra “lucida follia”: la storia del Fatto in un doc

La sera del 22 settembre 2009 la sveglia suonò alle 20 in punto: l’avevamo regalata noi giovani cronisti ad Antonio Padellaro, preoccupato da eventuali sforamenti nella chiusura del primo numero del Fatto Quotidiano. Si respirava aria di festa, quella sera, e si stapparono le bottiglie quando Cinzia Monteverdi e altri colleghi tornarono in redazione con le prime copie del giornale, ritirate direttamente dal centro stampa. Un’euforia contagiosa, a giudicare dal numero delle copie vendute il giorno dopo (100 mila, andammo esauriti in moltissime città) e dalla quantità di pasticcini che ricevemmo nei mesi successivi da parte di preziosi lettori che attraversavano l’Italia per venire a trovarci in quelle due camere e cucina che erano la sede di allora. “Se fra un anno il giornale va male – ripeteva Padellaro –, si chiude: non si vivacchia”. Una scommessa ardita, perché l’editoria era già in crisi. Anzi, “Una lucida follia”, come giustamente si chiama il documentario in quattro puntate sulla storia del Fatto Quotidiano che arriva oggi su TvLoft (in abbonamento o acquisto singolo al costo di 4,49 euro su tvloft.it, app e smart tv). Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo, Cinzia Monteverdi; e poi ancora, Furio Colombo, Andrea Scanzi, Silvia Truzzi, Gianni Barbacetto, Selvaggia Lucarelli, Massimo Fini, Loris Mazzetti (e chi scrive): le firme e i volti che hanno reso onore – come tutti gli altri colleghi della carta e del sito, anche coloro che non ci sono più – al patto siglato con i lettori: l’indipendenza, la ferma volontà di non farsi dettare l’agenda da nessuno, l’urgenza di raccontare “quello che gli altri non dicono”. Come l’indagine su Gianni Letta, il titolo con cui aprimmo il primo numero: scoop per modo di dire, poiché la notizia era nota in tutte le redazioni, ma nessuno poteva o voleva scriverla. O come tutti gli altri scoop che nel doc vengono raccontati: da Ruby a Stefano Cucchi, da Mps alle telefonate tra Napolitano e Mancino al processo sulla Trattativa. “Guai al giornale che non ha nemici”, ripetono i nostri direttori, e noi certo di nemici ne abbiamo avuti, e ne abbiamo, molti: dall’istrionico Caimano (“il sogno di ogni giornalista”) all’Innominabile, dagli inquilini del Colle (“venerato più della Madonna”, ricorda Travaglio) a quelli di Palazzo Chigi (compreso “il sobrio cane di Monti”).

Dalle parole delle nostre firme emerge la fatica del tenere sempre la barra dritta, ma anche il timore e il conseguente coraggio necessario a distinguersi dal resto della stampa italiana, quasi tutta mestamente asservita al potere. Ma c’è un’altra caratteristica di cui non possiamo fare a meno: l’allegria. Quel prendere in giro bonariamente anche i nostri errori, che ci sono stati e che ci saranno. Con la consapevolezza, però, di non essere mai stati ipocriti. E con la volontà di restare un giornale “allegramente contro”.