11 settembre: la grande paura degli attentati dopo Kabul

È la settimana della Grande Paura, negli Stati Uniti: di qui al 20° anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001, c’è il timore che il ritiro dall’Afghanistan induca estremisti jihadisti a colpire interessi americani, nell’Unione e ovunque nel mondo. Fonti dell’intelligence citate dalla Cnn sono pure preoccupate dall’improbabile simbiosi tra suprematisti bianchi e talebani, in odio a Joe Biden. I racconti apocalittici che giornalisti e militari fanno degli ultimi giorni a Kabul alimentano le ansie dell’America, mentre lo scaricabarile tra militari e intelligence propone scenari da resa dei conti, con i generali che accusano gli 007 e viceversa e rischiano di trasformarsi in un caotico tutti contro tutti all’interno dell’amministrazione Biden. A meno di 72 ore dal definitivo ritiro da Kabul, gli 007 respingono le critiche al mittente e a loro volta accusano la Casa Bianca di cercare un capro espiatorio, qualcuno da mettere alla gogna per la disonorevole fine di una guerra durata vent’anni. Proprio la Casa Bianca avvierà il travagliato processo di “hotwash”: revisione a caldo e nei minimi dettagli di tutto ciò che è accaduto nel corso dell’intera vicenda. Un vero processo per individuare le responsabilità che hanno portato alla catastrofica fuga dall’Afghanistan, con una discussione anche pubblica che approderà nelle prossime settimane in Congresso con l’audizione dei protagonisti della vicenda. Nel mirino ci sono i nomi dei componenti del team per la sicurezza nazionale di Biden, a partire dal consigliere Jack Sullivan, attorno al quale al momento gli uomini del presidente fanno quadrato, allontanando l’ipotesi di possibili clamorosi siluramenti: “Non siamo nella Casa Bianca di Donald Trump”, si commenta tra le mura dello Studio Ovale. Ma a doversi difendere ci sono anche il segretario alla Difesa Lloyd Austin e il capo di stato maggiore delle forze armate Mark Milley, che più di altri soffrono l’onta del ritiro da incubo delle truppe Usa da Kabul con i 13 marines morti. Accade lo stesso a Londra con Difesa e MI5 ai ferri corti.

I mullah ripartono dall’aeroporto

Mentresi lavora per la riapertura dell’aeroporto, continuano gli scontri nel Panjshir. Protestano le donne a Herat, ma i talib pensano ai partner commerciali: Cina e Russia.

Tra due giorni riaprirà il luogo simbolo della fine del conflitto e dell’ultima strage islamista: grazie ai tecnici qatarioti e turchi già al lavoro da giorni, i voli di linea interni riprenderanno all’aeroporto. Oltre ad Ankara e Doha, anche Amsterdam si offre per contribuire alla riapertura delle piste, ha confermato la ministra degli Esteri olandese Sigrid Kaag.

Il fuoco non cessa però nel Paese. Si combatte nel Panshir contro i ribelli dell’Alleanza del Nord guidati da Ahmad Massoud. Hanno raggiunto i tagichi in armi ex membri dell’esercito afghano e uomini delle forze speciali. Gli islamisti hanno però ormai conquistato una decina di postazioni prima difese dalla resistenza, ha riferito il rappresentante talib Muhammad Jalal, che ha chiesto loro la resa su Twitter.

La Cina come principale partner commerciale lungo la via della Seta, la Russia come mediatrice internazionale dell’Emirato, ma i talebani si augurano buone relazioni anche con l’Italia, “un Paese essenziale” per il nuovo governo, ha detto ieri il loro portavoce Zabiullah Mujahid in un’intervista a Repubblica. Mentre i talebani confermano di nuovo che le donne potranno lavorare nei ministeri, senza occupare posti di potere, e negli ospedali, ma solo da infermiere, secondo le regole della Sharia, le donne afghane scendono in piazza a Herat per il “diritto all’istruzione, lavoro, sicurezza e partecipare al nuovo governo del Paese”. Che il futuro esecutivo di Kabul debba essere più inclusivo ed aprire le sue maglie per le varie etnie nazionali e anime politiche presenti nel precedente governo afghano, lo ha detto perfino Sayed Muhammad Tayyab Agha, ex capo degli “studenti di religione” ed ex commissario politico del mullah Omar. Agha ha fatto appello, come gli altri leader talib in queste ore, affinché la comunità internazionale riconosca ed investa nel progetto politico degli uomini in tunica e kalashnikov.

Che la catastrofe umanitaria sia imminente nel Paese lo ha ricordato Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite. La vera sfida delle nuove autorità sarà evitare la morte per fame ad almeno un terzo del Paese di 38 milioni di abitanti che non ha accesso ad alcuna forma di cibo. Secondo le ultime stime delle Commissioni del Parlamento europeo, tra due settimane, se le operazioni rimarranno bloccate, si esauriranno del tutto le scorte mediche a Kabul e questo potrebbe costare la vita a circa 120 bambini al giorno, confermano i dati dell’ultimo studio dell’Oms.

Gli Usa aprono ai talebani per battere l’Isis e il jihad

L’Unione europea ha capito che senza gli Usa in Afghanistan non ci sarà più l’agibilità di prima e inizia a sbracciarsi in modo disordinato. Anche perché, con il capo di Stato maggiore Usa che ipotizza un asse con i talebani per fronteggiare l’Isis, Washington dimostra di non essere andata via del tutto. Il confronto tra i vari blocchi mondiali è così aperto e in divenire e potrebbe delineare nuovi equilibri internazionali.

Chi ha le idee chiare è Josep Borrell che guida la politica estera della Commissione e che continua a insistere sulla necessità di dotare l’Unione di una forza di intervento rapido stimata intorno ai 5 mila uomini. “Spero che saremo in grado di prendere una decisione entro il 16 novembre”, ha detto ieri al vertice dei ministri degli Esteri della Ue che si tiene in Slovenia.

Ma anche se Borrell spiega come Joe Biden sia stato il terzo presidente ad avvertire che gli Stati Uniti sarebbero stati meno presenti nei teatri di guerra, di forza comune europea al momento non se ne parla. Non c’è unanimità. Gli Stati dell’est e del Baltico non sono d’accordo e allora la Germania spinge per costruire alleanze tra chi ci sta. Ma non sarà un processo semplice e al momento le uniche linee comuni sembrano riguardare gli interventi umanitari (l’Italia ha stanziato ieri altri 120 milioni di euro).

La questione sostanziale sul tavolo della diplomazia internazionale è se occorra o meno trattare con i talebani. Ieri, nella doppia intervista concessa a Repubblica e La Stampa, il portavoce dei mullah, Zabihullah Mujahid, ha lanciato ulteriori messaggi di distensione (se la parola già utilizzata da Giuseppe Conte si può impiegare ancora) e dal Vecchio continente si sono sentite dichiarazioni di possibile dialogo dal premier olandese Mark Rutte, ma anche dal dem Piero Fassino, filo-atlantico tutto d’un pezzo. Ma la madre delle trattative è quella ipotizzata dal capo di Stato maggiore dell’esercito Usa, generale Mark Milley, secondo cui “è possibile” che gli Stati Uniti cerchino di coordinarsi con i Talebani in Afghanistan per condurre operazioni antiterrorismo contro l’Isis-K. Un segnale che se fosse confermato dimostrerebbe che gli Usa non se ne sono andati del tutto.

Di fronte a questo quadro si capisce perché in Europa si continua a discutere della comune presenza in un’ambasciata a Kabul, utile certamente ai piani umanitari, ma necessaria a non rimaner tagliata fuori.

Ma di un’Europa ripiegata su se stessa parla Mario Draghi quando nella conferenza stampa tenuta a Roma fa riferimento a una “inconcludenza” europea, manifesta nel caso afghano. Draghi, ovviamente, infonde ottimismo per il futuro, dicendosi convinto che sul piano umanitario la Ue saprà rispondere e che le riuscirà di organizzare il G20 straordinario.

Al momento, però, i vari Paesi si stanno muovendo ognuno per conto suo come conferma la decisione russa di promuovere una conferenza con Cina, Usa e Pakistan.

Un assist a Draghi potrebbe giungere da Emmanuel Macron incontrato ieri sera a Marsiglia. Un vertice che però non si è occupato solo di Afghanistan, ma anche di Ue, Libia e affari commerciali.

Intanto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha reso noto l’imminente viaggio in Pakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Qatar. Tre Paesi limitrofi all’Afghanistan, e quindi essenziali per progettare interventi umanitari a sostegno dei profughi, o di possibili operazioni di rimpatrio e uno, la piccola penisola araba, che ha una relazione privilegiata con i talebani e quindi rappresenta un canale utile a discutere indirettamente con loro. Lì si torna.

“Stasi” dei Verdi, noia Cdu: il dopo Merkel si è spostato a sinistra

È stata subito soprannominata la Stasi dei Verdi. In Baden-Wuerttemberg il governo del Land ha istituito un portale per denunciare in forma anonima i sospetti di reati fiscali. A presentare il sito è stato il verde Danyal Bayaz, ministro delle Finanze del Land. La replica è arrivata da Berlino. Unione, Afd e Fdp hanno etichettato l’iniziativa come “gogna fiscale”. Bayaz ha spiegato che non si chiede di denunciare il proprio vicino di casa, ma aziende, banche e agenzie di consulenza finanziaria. L’evasione fiscale in Germania è calcolata attorno ai 50 miliardi di euro annui. Ribadendo questo dato la candidata cancelliera dei Verdi, Annalena Baerbock, ha evocato un portale anonimo a livello federale per le denunce.

Ma anche i parlamentari socialdemocratici, alleati naturali dei Verdi, hanno risposto freddamente al sito per le denunce anonime “promuove la cultura di sfiducia, risentimento, subordinazione. Valori che non si devono infiltrare nella nostra società” ha detto un portavoce del gruppo al Bundestag. Più cauto, come sempre, Olaf Scholtz, ministro delle Finanze e candidato Spd alla cancelleria: “Penso che tutti debbano pagare delle tasse giuste, ma sono gli ufficiali dell’agenzia delle entrate che devono fare il loro lavoro”.

Dopo 16 anni sotto la guida di Angela Merkel, il Paese è si trova senza un leader. Sono le elezioni più aperte dalla caduta del Muro di Berlino, ma temi e candidati non scaldano l’opinione pubblica. Nel settembre 2017 la cancelliera venne confermata per la quarta volta con il 33% dei voti. Lei la considerò una mezza sconfitta. Fu costretta una nuova coalizione con i socialdemocratici e a lunghe trattative per il programma di governo. Oggi i tre partiti principali, secondo i sondaggi, si trovano attorno al 20%. Il delfino di Merkel è Armin Laschet, governatore della Nord Reno-Westfallia, che per il quotidiano Bild è “vuoto di carisma”. A fine inverno l’Unione raccoglieva il 36% delle intenzioni di voto. In questi mesi Laschet ha ottenuto la presidenza del partito, ma ha perso più di un terzo dei suoi elettori. Angela Merkel non voleva essere coinvolta in prima persona nella campagna elettorale, eppure è stata costretta più volte ad andare in soccorso di Laschet. A inizio agosto il presidente della Csu, Markus Söder per primo ha posto il problema: “L’Unione rischia di non deve scegliere un alleato con cui governare, si deve invece preoccupare di finire all’opposizione”.

A inizio campagna i Verdi apparivano come il nemico da battere. Il partito è fondato su quello che, a detta della stessa Merkel, dovrebbe essere il tema principale del prossimo cancellierato: il cambiamento climatico. La novità Baerbock, vent’anni più giovane di Laschet e Scholz, aveva portato il suo partito oltre il 30%. Poco dopo venne a galla che il suo curriculum era stato ritoccato e che parte della sua tesi di dottorato era copiata. Due piccoli scandali, ma sufficienti a sgonfiare i sondaggi. Oggi i Verdi sono il terzo partito al 19%. Ma Laschet non riesce a piacere ai tedeschi. Si presenta come un conservatore, moderato, credente, un uomo di partito. Complici le sue continue gaffe l’Unione continua a perdere voti, 21%. Cresce invece la popolarità di Olaf Scholz che porta l’Spd a essere la prima forza politica, 25%, non succedeva da oltre vent’anni. In una recente intervista al New York Times l’ex ambasciatore Usa in Germania, John Kornblum, lo ha descritto così: “Il candidato più apprezzato è l’uomo più noioso di queste elezioni, forse il più noioso del paese. A confronto pure l’acqua che bolle sembra eccitante”. Scholz si propone ai tedeschi come il volto familiare, il candidato della continuità con l’attuale governo. La sua campagna elettorale si può riassumere con un cartellone: lui in primo piano e sotto la scritta “anche un uomo può essere cancelliera”. Questo continuo accostamento alla figura di Merkel ha indispettito la diretta interessata: “Fra lui e me la differenza per il futuro del paese è nettissima. Con me cancelliera non potrebbe mai esserci un governo con Die Linke, con Scholz la questione resta invece aperta”. C’è infatti la possibilità, neanche troppo remota, di una coalizione tutta a sinistra: Spd, Verdi, Linke (8%): il governo più rosso della Germania Federale.

Ci sono poi altri due partiti che entreranno al Bundestag. Fdp e Afd per i sondaggi sono entrambi al 11%. L’estrema destra non ha alcuna speranza di formare una coalizione di governo. Mentre i liberali del Fdp potrebbero essere la terza gamba sia nella coalizione Kenya con Spd e conservatori dell’Unione, sia nella coalizione semaforo con i socialdemocratici e Verdi. Un cancellierato sostenuto da tutti e tre i principali partiti (Spd, Unione, Verdi) è anche possibile, alla guida ci sarebbe il leader della formazione più votata. Le negoziazioni dopo il voto saranno lunghe, potrebbero durare settimane o mesi. “Per Natale, Merkel sarà ancora cancelliera”, ha detto ieri Dietmar Bartsh, capogruppo Linke al Parlamento tedesco.

Non solo De Pasquale: le altre nomine “centralizzate” di Franceschini

Tra le tante critiche mosse a Dario Franceschini per la nomina di Andrea De Pasquale a sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, c’è anche quella di aver scelto un dirigente che era entrato nel ministero come bibliotecario, senza esperienza di dirigenza d’archivio.

Il ministro spiegava di aver fatto la nomina “come doveroso, esclusivamente in base al curriculum professionale”. Difficile crederlo, ma è vero che nel ministero franceschiniano i dirigenti non archivisti, a dirigere gli Archivi di Stato, sono la norma. Una conseguenza, come scritto dall’Associazione archivistica italiana, “della sconsiderata politica di forte indebolimento degli organici dell’amministrazione, in particolar modo delle posizioni dirigenziali, attuata da almeno un ventennio”. Su 26 incarichi dirigenziali in Archivi e direzioni afferenti, sono solo sei i dirigenti archivisti a disposizione: l’ultimo concorso per abilitarne di nuovi risale al 2008. Conseguenza: utilizzando con frequenza una deroga della legge per le direzioni, il ministero si rivolge ad altre professionalità o ad altre amministrazioni. Insomma, abbiamo archivi diretti da architetti, da bibliotecari, da amministrativi. L’Archivio di Stato di Roma, ad esempio, da gennaio 2021 è diretto da una ex dirigente scolastica, di formazione storica dell’arte che, stando al curriculum, non ha nessuna competenza archivistica. Si tratta dell’Archivio per cui passeranno 16 milioni di euro nei prossimi anni, stanziati per la ristrutturazione dei depositi. Avere una dirigente che non conosce la realtà degli archivi, difficilmente può essere garanzia di spese oculate. Anche per i “musei autonomi”, cardine della riforma Franceschini del 2016, la situazione è simile: le leggi di riferimento sono le stesse, ma in questi casi l’interpello per il posto di dirigente non è una circolare ma un bando ben pubblicizzato. Attraverso una selezione per titoli e colloquio, una commissione sceglie una terna di nomi e poi tra quelli avviene la nomina fiduciaria del ministro. La conseguenza è avere ancora una volta molti dirigenti esterni, con una deroga alla norma che diviene regola de facto. Per il ministero dei Beni Culturali è una novità assoluta, una rivoluzione di cui si è dibattuto poco o nulla. Fino al 2014, i dirigenti erano di norma funzionari che avevano superato un concorso. Ora è comune avere dei direttori che conoscono poco la Pa e/o l’istituto che andranno a gestire: un processo che porta con sé una maggiore arbitrarietà e politicizzazione delle nomine e del ministero. E che permette di avere una preside a dirigere l’Archivio di Stato di Roma.

Uffizi, il Vasariano si svuota ma sale il prezzo del ticket

Il Corridoio Vasariano che collega il Palazzo degli Uffizi al Giardino di Boboli riaprirà nel settembre 2022, ma “svuotato” della collezione che dal 1973 lo ha arricchito fino alla chiusura nel 2016. Questo permetterà di aprirlo a molti più visitatori e non alle solite poche manciate. Un allargamento delle maglie che, nel 2019, portò il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, a parlare di un corridoio “finalmente accessibile a tutti”. Peccato che il nuovo costo del biglietto, 45 euro, non sia proprio per tutti. Il biglietto cumulativo per le Gallerie degli Uffizi oggi costa 38 euro. Con l’aggiunta del prezzo del Corridoio, guadagneranno il titolo di museo statale più costoso d’Europa con distacco. Ed ecco perché, tornando ad annunciare la riapertura pochi giorni fa, Schmidt ha cambiato retorica: il prezzo, ha detto, “non è nemmeno la metà di quello che chiedevano prima certe agenzie”.

Decisamente strano che un museo pubblico possa usare come termine di paragone i prezzi imposti da agenzie privata. E, comunque, l’affermazione non trova neppure conferma nella realtà: erano poche le agenzie che, prima della chiusura del 2016, prezzavano cifre simili. La maggior parte di loro chiedeva 250-300 euro per gruppi di 10-15 persone. E tutto ciò dopo una discussa concessione dei biglietti alla società Civita, nel 2013, che fece schizzare per la prima volta i prezzi.

La direzione degli Uffizi non è nuova ad affermazioni che si rivelano poco fondate, usate per giustificare rincari. Nel 2017, ad esempio, gli Uffizi aumentarono il costo del biglietto del 100% in alta stagione (caso unico in Italia e tra i pochi in Europa di biglietto stagionale), arrivando a 24 euro con prenotazione. Schmidt affermò che così si sarebbero uniformati “a tutti gli altri grandi musei europei, come il Louvre di Parigi, il Prado di Madrid, il Belvedere di Vienna e l’Hermitage di Amsterdam”. Alla prova dei fatti non è vero: tutti i musei citati costano meno di 24 euro, addirittura il Louvre 17 euro e il Prado 15 euro, prevedendo spesso gratuità come quelle per gli studenti, non previste in Italia.

Il rincaro fiorentino non è però un caso isolato: sono tanti i musei statali che hanno ritoccato all’insù il costo del biglietto dal 2016 (riforma Franceschini e creazione dei musei autonomi). L’aumento degli incassi annui che il ministero ha vantato fino al 2019, con crescite notevoli, aveva e ha un prezzo. In 20 anni i visitatori dei musei sono raddoppiati, ma gli incassi sono triplicati: sono passati da 53 milioni nel 1996 a 243 nel 2019. La spiegazione sta proprio nell’aumento di quasi il 10% dei prezzi dei biglietti sotto la direzione di Franceschini, arrivando a quasi 10 euro, fino allo stop pandemico (erano 5,7 euro nel 2001). Inutile dire che i salari non hanno visto lo stesso incremento. E così abbiamo Palazzo Ducale a Mantova passato da 6,5 a 13 euro, il Cenacolo Vinciano di Milano passato da 6,5 a 15, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli da 8 a 15, la Galleria Borghese di Roma da 9 a 13 euro. Aumenti solo a volte giustificati da nuovi allestimenti, nuove sale, nuovi servizi. Non mancano i casi di musei che mantengono il prezzo intero anche se l’esposizione è dimezzata per prestiti all’estero o per chiusura di sale e piani per carenze di personale. L’introduzione, meritoria, di biglietti annuali in alcuni istituti, non pare sufficiente a riequilibrare il rincaro.

Sono prezzi utili solo in parte ad aumentare i fondi per il patrimonio museale. Non è un caso che nel resto d’Europa, dove gli investimenti in cultura sono maggiori, siano più bassi: i prezzi dei ticket italiani risentono del sistema di esternalizzazione del servizio di biglietteria, che costringe a versare una parte del prezzo dei ricavi (tra il 20 e il 40%, nei maggiori istituti) alla società concessionaria. Anche i diritti di prevendita sono completamente esternalizzati: chi li gestisce di norma tiene per sé oltre il 90% dell’introito. Norme vecchie, scritte all’inizio degli anni 90. Intanto, a farne le spese sono i cittadini italiani: 45€euro per il Corridoio Vasariano.

Macché italiani, prima gli Aurunci!

Eravamo rimasti al rito con l’ampolla delle sorgenti del dio Po, all’elmo con le corna di Borghezio poi copiato da Jake Angeli, al matrimonio celtico di Calderoli celebrato dal druido Formentini… insomma, a quando la Lega Nord prometteva di risvegliare le lontane origini del popolo di Padania. Belle promesse, ma poi un lungo declino; dall’ampolla del dio Odino al mojito del Papeete, rito poco padano, quasi caraibico.

Eppure mai come in tempi di sovranismo rampante e di emergenza profughi è il caso risvegliare l’attenzione sulle orgogliose tradizioni dei fratelli d’Italia. Celti, ma anche Latini, Sanniti, Aurunci, Siculi… Prima gli italiani; più prima di così si muore. A colmare la lacuna ci ha pensato Rai2 con Vitalia – Alle origini della festa (mercoledì, 23), che indaga sui riti popolari. Nulla di folkloristico, qui si fa sul serio. I due curatori-investigatori, Alessandro Giuli e Nicola Mastronardi, risalgono con lodevole acribia fino alle radici romane e preromane. In particolare, l’ispettore Giuli non si risparmia. Lo si vede aggirarsi per l’Isola Tiberina, dove il serpente di Asclepio giunse da Epidauro per salvare Roma da una pestilenza, dunque inseguire il culto del rettile guaritore, inerpicarsi per l’Appennino marsicano fino a Cocullo, sede della “festa dei serpari” dedicata al patrono Sant’Antonio Abate. L’indagine in sé non manca di interesse, e il valore aggiunto è osservare Sherlock Giuli tra i canneti e le sassaie mentre formula le sue ipotesi (“Il serpente che significato avrà?”). Senza scomodare Sant’Antonio Abate, un certo potere taumaturgico è innegabile anche in questo atletico studioso del postfascismo. Quest’anno Giuli è apparso su Rai2 in veste di conduttore (Seconda linea), poi in veste di opinionista fisso collegato in cinemascope (Anni 20) e adesso indaga senza posa in versione trekking. Ogni volta gli ascolti non lo hanno premiato. Eppure, come l’Araba fenice, ogni volta Giuli rinasce dalle sue ceneri.

Fanatici No e Sì Vax: gli eccessi opposti creano assuefazione da mentecatti

Che ci sia in giro una nuova variante? che stufa dei polmoni va al cervello? Mai visto in giro tanta fissità, tanta perentorietà di pensiero: non si ascolta più, si capisce poco, si fraintende molto, e non si mette mai in dubbio la propria opinione. “L’uomo che non varia mai la sua opinione è come acqua stagnante, e nutre rettili della mente”, dice Blake. E stagnante è l’aria che si respira, in questo mesto inizio d’autunno, tra tutte queste menti spente dove non circola più nessun vivifico dubbio. È come un’anestesia generale, un atroce incantesimo che trasforma anche i brillanti e dinamici in letargici e apoplettici.
Se un filosofo si azzarda a esprimere qualche perplessità sulla legittimità giuridica del Green Pass o qualche inquietudine sui vaccini, allegando serissimi dati scientifici, gli si dice: “Taci! Che ne sai, tu? Non sei un medico!”; se un altro filosofo, altrettanto digiuno di medicina, intona la solita solfa pro-vaccini, lo si applaude, lo si onora, lo si beatifica.

Conosco tanti anti-vaccino, e conosco tanti pro-vaccino: questi ultimi, che pure sono più del 70%, che hanno dalla loro il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica, il Papa in persona, e tutta la scienza ufficiale planetaria (quella meno ufficiale non può esprimersi che clandestinamente), ebbene, i pro-vaccino sono i più fanatici, i più furiosi, i più feroci. Un vecchio professore universitario, sentendomi elogiare, in risposta ai suoi insulti, l’intelligenza e l’onestà del filosofo appena citato, mi ha detto: “Ti spacco il cranio!”. Un giovane insegnante, affranto per il dispiacere che dà al padre medico, e preoccupato, molto preoccupato per il suo futuro, mi ha detto con voce pacata: “È così difficile mettere i tamponi salivari all’ingresso della scuola, perché possa entrare anch’io dai miei studenti?”… E questo sarebbe un irresponsabile, un pericolosissimo nemico delle istituzioni e della morale? Sì, lo so che tra gli anti-vaccino ci sono anche balordi, complottisti, negazionisti, ma sono pochi, e tra questi non mancano gli infiltrati…

Per la nostra salute, per il nostro bene, i legislatori sono costretti a legiferare sul corpo, sull’interno dei nostri corpi; ma ogni corpo è tanto differente dall’altro che non ce n’è al mondo uno uguale all’altro, e pretendere di dare a tutti indifferentemente la stessa cura, sarebbe come se un generale d’armata pretendesse che i suoi soldati vestissero tutti quanti una divisa della stessa taglia. Fanno quello che possono, forse fanno meglio che possono, ma questo loro meglio sta creando focolai d’angoscia, colture di oppressione e di terrore: il consenso obbligatorio non può che essere patologico, e patogeno: è come una fucina di infezioni, è come un funesto cantiere di contagi.

Giulia Schneider nominata nuovo amministratore indipendente

Il Consiglio di amministrazione della Società Editoriale Il Fatto nella giornata di ieri 2 settembre ha provveduto alla nomina per cooptazione di Giulia Schneider come consigliere indipendente. Giulia Schneider, con doppia cittadinanza italiana e tedesca, è avvocato iscritto all’Albo degli Avvocati di Firenze, Dottore di ricerca in International Law ed Economics presso l’Università Bocconi di Milano, esperto in diritto societario e della concorrenza. Ha concluso diversi percorsi formativi, tra cui la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Pisa e il Diploma di licenza in scienze giuridiche presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, entrambi conseguiti con 110 e lode. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti e partecipato a innumerevoli convegni e seminari, oltre ad aver realizzato prestigiose pubblicazioni. Attualmente è assegnista di ricerca presso la Scuola Superiore Sant’Anna e tiene corsi in diritto commerciale presso l’Università di Pisa ein Corporate Governance presso l’Universitè Catholique de Lille a Parigi. Gli studi a cui si è dedicata di recente hanno a oggetto la corporate governance delle società di capitali, con particolare riguardo all’impatto sulla governance societaria delle nuove tecnologie, CSR e amministratori indipendenti. “Sono particolarmente orgogliosa – commenta il presidente e amministratore delegato di SEIF Cinzia Monteverdi – che Giulia Schneider entri nel Consiglio di Amministrazione di SEIF. È difficile sintetizzare il suo CV: a soli 29 anni vanta un profilo di impressionante brillantezza e respiro internazionale. Sono convinta che la nostra Società possa ricavare da un talento fuori dal comune come quello di Giulia Schneider un grande contributo per i progetti di sviluppo del futuro”.

Mail box

 

Reddito di cittadinanza e case popolari

La polemica sul Reddito di cittadinanza mi infastidisce quanto poco altro. Vivo nelle case popolari della mia città, ma non ho il Rdc perché l’Isee della mia famiglia, è troppo alto. Pochi di voi forse sanno che uno dei modi per essere buttati fuori da una casa popolare è superare l’Isee minimo per cui se ne ha diritto. Nella pratica le case popolari sono un incentivo maggiore a non lavorare o a non tentare di migliorare la propria condizione, poiché, se si comincia a guadagnare di più, si rischia di perderla. E invece parliamo del Rdc: se ne avessi uno, riuscirei a farmi una vita lontano da questo letamaio? Forse è il caso di parlare di altro.

Giovanni Contreras

 

Troppi impresentabili nelle liste elettorali

L’articolo “Gli impresentabili nascosti dai partiti” di Lorenzo Giarelli sul Fatto di ieri, suggerisce che il vaglio delle liste elettorali da parte della Commissione Antimafia non dovrebbe essere su invito, ma imposto come legge. Pena l’esclusione dalle elezioni. Visto che le liste elettorali sono piene di farabutti di ogni tipo, sarebbe uno strumento efficace per ripulire le amministrazioni. Ovviamente la legge dovrebbe contenere paletti come, ad esempio, la non candidabilità di soggetti condannati, ma soprattutto l’etica dimostrata. Così si rimetterebbero in circolo le buone usanze cadute in disgrazia da decenni: ridare valore al significato delle parole e rispettare i principi e i valori della nostra Costituzione.

Stefano Bevilacqua

 

C’è chi ha fame e soffre senza sussidi né lavoro

Provo solo schifo dopo avere letto l’articolo di Rodano sui parlamentari di Italia morta. Vorrei dire a questi signori, felici nelle loro camicette di lino mentre festeggiano nei ristoranti spagnoli, che esistono casi come il mio. Disoccupato da anni, senza i soldi per un caffè al bar. Per far felice il loro capo (quello della villa da un milioncino sulle colline toscane), sono anche senza reddito di cittadinanza. Per rendere tutta la compagnia ancora più spensierata e felice, dica pure loro che ho inviato oltre 400 curriculum ovunque, per qualsiasi lavoro, e nonostante un discreto curriculum, zero risposte. Dica a questi signori sorridenti e felici che a 56 anni c’è chi soffre e puzza di fame anche senza reddito di cittadinanza, ma soprattutto senza speranza di trovare un lavoro.

Francesco Paolo Minneci

 

La rassegna stampa mattutina di Radio 24

Caro Marco, il mio giorno inizia con la lettura del tuo fondo e con la panoramica della prima pagina; questa necessità mi permette di conoscere in anticipo ciò che la giornalista Crivelli dirà nella sua rubrica sulla radio della Confindustria. Francamente mi divertono i suoi commenti acidi sul nostro giornale, ma questa mattina ha battuto ogni record: citando un articolo del nostro ex vicedirettore Feltri su Conte, ovviamente di denigrazione, si augurava che ci fosse un incontro ravvicinato fra te e Feltri. Magari organizzato dalla Lilli Gruber. Terminava con la bile che usciva dalla radio con: “e attacca pure il Sole 24 Ore…” ovviamente riferito a te. Marco, ma cosa hai fatto a questa signora?

Carmen Gioi

Cara Carmen, non ho il piacere di conoscere la signora in questione, né di ascoltarla di buon mattino: a quell’ora dormo.

M. Trav.

 

Sui dipendenti pubblici Brunetta arriva tardi

Leggo che l’efficiente signor ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, scalda i motori per far rientrare dallo smart working i dipendenti pubblici. Siamo a settembre 2021! Segnalo al ministro che dal mese di aprile 2021, senza vaccino e senza Green Pass, noi della riscossione coattiva di concessionari privati abbiamo riaperto gli sportelli. Personalmente, dal primo aprile, ho ricevuto in ufficio senza appuntamento, oltre 700 contribuenti di un grande Comune del nord. Ho il numero esatto perché teniamo un registro. Segnalo al ministro che sono ancora vivo e vegeto!

Stefano Masino

 

Durigon si è dimesso anche grazie al “Fatto”

Durigon si è dovuto dimettere, grazie anche al Fatto e alle 160mila firme raccolte (tra cui la mia). Rimane un problema: chi glielo va a dire a Concita De Gregorio che ha definito questo penoso caso di rigurgito nostalgico, “una minchiata” e “un fuoco fatuo estivo” per trastullare gli italiani in vacanza? Per lei sarà una brutta notizia e bisognerà usare la massima delicatezza. Un volontario?

Salvatore Gensabella

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo “Finanzieri e residenti furiosi: ora il Papeete è sotto assedio” (del 13 agosto) si precisa quanto segue. Chi ha rilasciato l’intervista – fra l’altro senza possibilità di replica – ha dimenticato che stiamo attraversando un’epidemia senza precedenti, che ha obbligato tutti (giovani compresi) a modificare gli stili di vita, provocando in Italia fenomeni sociali inattesi. Sarebbe utile cercare di comprendere questo disagio, per dare risposte sul piano socio-culturale. Sono convinto che Cervia sia una delle più belle località turistiche italiane. Non si può ridurre tutto a una semplificazione che mette sotto accusa persone e fatti non provati. Qui non esiste nessuna forma di protezione occulta (se qualcuno ha dubbi, ci sono le sedi preposte a cui rivolgersi); negli anni per regolamentare le attività economiche sono stati adottati provvedimenti alla luce del sole, discussi e approvati dagli organi competenti. In questi anni stiamo lavorando per migliorare ancora la qualità della nostra offerta e per mettere al bando forme degenerative di presenze sul territorio. Oltre all’impegno della Pubblica amministrazione occorre una responsabilizzazione delle associazioni di categoria e degli imprenditori. Lo stiamo facendo, con l’adozione di protocolli di comportamento monitorati. Inoltre, per la prima volta, è stato adottato un piano della sicurezza innovativo, che ha potenziato i presidi e il sistema di controlli. Cervia dispone di un patrimonio ambientale e storico importante, offre un panorama ricco di eventi e grazie a tanti imprenditori capaci raggiunge i 3 milioni di presenze turistiche. La nostra città non è e non può essere identificata con il Papeete. Questo lo può verificare chiunque, magari in occasione di una delle manifestazioni che nulla hanno a che fare con la “movida senza regole”.

Massimo Medri, Sindaco di Cervia