“Un genio schivo, allergico a ogni falsa confidenza”

Sono trascorsi tre mesi e mezzo dalla sua scomparsa, eppure quanto si avverte la mancanza di Franco Battiato. Qualche settimana fa sono stato in esclusiva europea alla cerimonia in ricordo del maestro. E forse ho capito… dico forse perché per capire dovrei essere lui in persona. In quell’occasione ho assistito allo spettacolo dei Dervisci rotanti con la Mevlana Ensemble, diretta da Suleyman Erguner, compagnia di musicisti e danzatori sufi provenienti dalla Turchia. Gli artisti sufi, cinque danzatori e cinque musicisti, con cui il maestro Battiato collaborò per decenni, avvertiti della sua scomparsa hanno voluto essere presenti per omaggiare l’amico. Non avrei mai pensato di vedere uno spettacolo del genere: essere stato lì mi ha procurato la convinzione che Battiato fosse in grado di capire quello che noi (comuni mortali) non possiamo capire… Ho pensato a quanto sia complicato l’essere umano… come in quei piccoli paesini dove Battiato viveva e conosceva bene l’invadenza sotto forma di “solarità” ed “espansività” tipica del siciliano. Ogni tanto qualcuno lo ricorda e afferma: “Era un genio, ma troppo schivo per essere siciliano”. lo sono sempre stato un siciliano come Battiato e ho sempre diffidato dell’accoglienza a convenienza, visto che siamo l’avamposto della non accoglienza.

 

Altro che polemiche: quello di Assange è vero giornalismo

Aldo Grasso sul Corriere della Sera ha dedicato un articolo alla bella puntata di Presadiretta che ha avuto come protagonista il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. Sin dal titolo il pezzo è fortemente critico nei confronti del conduttore della trasmissione, Riccardo Iacona, accusato di “totale identificazione nelle tesi di Assange”. A Iacona viene tra l’altro rimproverato di non aver aver fatto cenno alle simpatie di Assange per la Russia e per i regimi latino-americani e di non aver coltivato dubbi sulla figura del giornalista australiano dopo aver letto un libro di Andrew Hogan in cui “Assange è descritto come un piccolo despota, incoerente, bugiardo, viziato, paranoico, una sorta di rovescio grottesco delle istituzioni che attacca”. Grasso è un critico televisivo. E per noi la critica è sacra. Anche la sua. Se la trasmissione non gli è piaciuta, ha tutto il diritto di scriverlo. Noi non condividiamo, ma registriamo il punto di vista. Facciamo però qui notare che le eventuali, e tutte da dimostrare, pecche umane di un giornalista come Assange non possono essere il metro di valutazione del sul lavoro, a meno che non si voglia dare ragione al filosofo francese Paul Valéry secondo cui “Quando non si può attaccare un ragionamento, si attacca il ragionatore”.

Il motivo per cui Fatti chiari ha deciso di occuparsi della critica di Grasso è però un altro. Il suo articolo, dopo aver ricordato che Assange è accusato negli Usa di “cospirazione nella violazione di un sistema informatico” (i famosi documenti segreti sulla “guerra al terrore”), si conclude con una domanda: “L’hackeraggio è grande giornalismo?”. L’interrogativo merita risposta: sì, è grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti smascherano le bugie di chi è al potere. È grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti hanno un interesse pubblico perché dimostrano quanto chi era al potere abbia mentito sull’Afghanistan e l’Iraq.

Assange è privato della libertà dal 2010 ed è detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 2019. Cittadini e giornalisti di tutto il mondo, non necessariamente pacifisti come scrive Grasso, riconoscono che quelli di WikiLeaks sono stati tra i più grandi scoop della storia. E la pensano così pure tanti colleghi americani convinti che anche per Assange valga la celebre sentenza della Corte Suprema, che non sanzionò il New York Times per aver pubblicato nel 1971 i Pentagon Papers, un rapporto segreto sull’inizio della guerra del Vietnam, scatenata, al pari di quella in Iraq, sulla base di una bugia. Una sentenza in cui si legge: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno del governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone”.

Fatti Chiari non è una rubrica pacifista. Chi scrive, dopo l’attentato alle Due Torri, era contrario alla guerra in Iraq, ma era favorevole (sbagliandosi) a quella in Afghanistan, perché quel Paese nascondeva Bin Laden. Fatti chiari però ricorda i Pentagon Papers e pensa che Assange sia un paladino della libertà di stampa. Il fatto che Grasso, come altri, sospetti un ruolo dei russi nella successiva pubblicazione da parte di WikiLeaks delle email di Hillary Clinton, che contribuirono alla vittoria di Donald Trump nelle elezioni del 2016, non sposta di una virgola questo giudizio. Perché quelle email erano autentiche e dimostravano il supporto all’Isis, sotto lo sguardo Usa, da parte di Arabia Saudita e Qatar. Erano una notizia vera che gli elettori avevano il diritto di conoscere. #freeassange

 

Noi “radical chic”? È Cingolani che è accecato dall’ideologia

Le recenti esternazioni del ministro Cingolani, sguaiate e avventate alla stregua di certe chiacchiere da bar, confermano la caratura del personaggio, che è quella che è. Il suo ruolo e la sua figura sono enormemente sopravvalutate e sarebbe quindi privo di senso scaldarsi per nulla: i problemi sono altri. Certe sue affermazioni appaiono così strampalate (“Il gas è uno dei mali minori … Il fotovoltaico … è bello, rinnovabile, ma ancora troppo caro… Sul nucleare abbiamo visto che ci sono diversi veti di varia natura… Le trivelle? Le autorizzazioni c’erano già, non posso omettere atti d’ufficio”) che, se non fossero noti i suoi trascorsi, si sarebbe autorizzati a pensare che il ministro sia piovuto in Via Molise da Marte oppure, più realisticamente, che a essere accecato dall’ideologia sia proprio lui, fino al punto di non rendersi conto di quanto sia contraddittorio dover far presto per salvare l’Italia dai danni climatici e attendere invece i tempi lunghi del nucleare a fusione.

“Poche idee molto confuse”, chiosò a inizio mandato Domenico Gaudioso, esperto senior di cambiamenti climatici e con importanti trascorsi all’Ispra. Sarà, ma Cingolani pare essere piuttosto “l’uomo giusto al posto giusto”, selezionato e scelto da Draghi con metodo scientifico per svolgere il ruolo di addetto alle pubbliche relazioni dell’esecutivo piuttosto che di ministro della Transizione Ecologica. Cingolani si dimostra “abile” nel destreggiarsi nel confronto con le forze sociali e nell’interpretare al meglio il ruolo di portavoce del governo, ma difetta di quella capacità decisionale e operativa che si richiedono a un vero ministro, ancor più se il suo dicastero è quello della Transizione Ecologica. A pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si indovina: ma non sarà che Draghi ha piazzato Cingolani, già gradito di suo a Eni e ad alcune forze della coalizione di maggioranza, al piano più alto di Via Molise con l’intento di farne il parafulmine del governo sul terreno scivoloso della transizione? A giudicare dai risultati dei primi sei mesi di mandato del ministro, parrebbe di sì. Mentre le decisioni sulla Transizione si prendono in molti – forse troppi – “altrove” (si veda il caso “Fit for 55” avocato a sé dal sottosegretario agli Affari europei, Amendola) il Mite e Cingolani brillano per i ritardi nell’adozione dei decreti attuativi di competenza (tra tutti, quelli che attuano il decreto Clima) e nel raggiungere gli obiettivi assegnati dal presidente del Consiglio (fonte: Terza Relazione sul Monitoraggio dei Provvedimenti Attuativi riferibili alla XVII e XVIII Legislatura, Relazione del Sottosegretario Roberto Garofoli, Consiglio dei ministri 15 luglio 2021).

Sei mesi di permanenza a capo di una struttura di nuova istituzione e oggetto di una profonda riorganizzazione potrebbero non consentire una valutazione compiuta dell’operato di un ministro, ma i pochi fatti e le troppe – e sovente a sproposito – parole spese fin qui sono più che sufficienti per segnare in negativo l’esordio di Cingolani e per renderlo meritevole di censura. Il suo blaterare di ambientalisti radical chic un po’ fuori moda (siamo addirittura ai “quattro comitatini” di renziana memoria!) fa sorridere; non la sua “leggerezza” nel confrontarsi con le cause e con gli effetti della crisi climatica, che non è degna di un ministro della Repubblica, soprattutto se della Transizione ecologica. L’Italia non è la Repubblica di Paperino! Cingolani e le sue scelte sono parte della crisi climatica; ne consegue che si dimostrerebbe capace di un grande atto di generosità scegliendo di tornare da dove è venuto.

 

Draghi e le neo-tangenti dietro le porte girevoli

I circa 200 miliardi di fondi Ue per il rilancio dell’economia italiana colpita dalla pandemia dovrebbero convincere il premier Mario Draghi e il suo “governo dei migliori” a introdurre nuove regole in grado di ridurre al minimo i rischi che i maxi-esborsi di denaro pubblico comportano un po’ in tutti i Paesi. In particolare appare necessaria una normativa più efficace e stringente sulla corruzione con tangenti dilazionate nel tempo e sui conflitti d’interessi nei passaggi tra il settore pubblico a quello privato (detti “sliding doors”): perché è ormai noto che tanti politici e alti burocrati corrotti di molte nazionalità preferiscono – invece di “mazzette” in contanti o su conti segreti nei paradisi fiscali – pagamenti rinviati a dopo la loro uscita dalle cariche di potere, molto meno rischiosi in quanto nascosti dietro ricchi contratti per consulenze, lobbying, pubbliche relazioni, conferenze, ecc.

Le attuali regole italiane e quelle Ue consentono a banche, multinazionali, lobby, fondazioni o agenzie varie di mantenere la riservatezza sulle prestazioni e sulle retribuzioni dei loro assunti provenienti dal settore pubblico. Questa “discrezione” rende così difficile e spesso impossibile distinguere tra ex governanti e alti burocrati ingaggiati per competenze reali, a prezzi di mercato, e quanti potrebbero essere percettori di tangenti camuffate da stipendi. In queste “mazzette” future è difficile individuare anche il corruttore, che può finanziare contratti di consulenza, assunzioni o conferenze nascondendosi dietro il segreto garantito da banche, società, lobby, fondazioni, think tank e infinite entità di intermediazione.

Sarebbe quindi auspicabile un potenziamento specifico della normativa penale sulla corruzione. Ma, come primo passo, si dovrebbe imporre subito l’assoluta trasparenza sui contratti e le prestazioni nel settore privato di ex governanti ed ex dipendenti pubblici. Anche perché converrebbe agli stessi ex politici ed ex alti burocrati qualificati e corretti poter prendere le distanze dai “colleghi” con incarichi professionali fittizi, ottenuti per fondi, appalti o “favori” elargiti nel loro passato nello Stato.

Draghi conosce bene questa problematica. Quando fu esaminato dall’Europarlamento e dalla stampa – prima di assumere la presidenza della Bce – scontò gli effetti negativi della riservatezza sul suo passaggio dal 2002 alla banca d’affari privata Usa Goldman Sachs, dopo un decennio da potente direttore generale del ministero del Tesoro (dove aveva guidato la vendita ai privati di grandi aziende dello Stato, gestito il maxi-debito dell’Italia e aperto le porte a lucrosi guadagni con la Pubblica amministrazione per multinazionali della finanza e della consulenza). Il suo curriculum di alto livello e l’ampio consenso tra i governi Ue sul nominarlo alla Bce furono in parte offuscati dai dubbi sul passato da banchiere privato. Gli fu contestato, per esempio, che Goldman Sachs aveva comunicato che avrebbe operato anche con governi e agenzie governative, mentre Draghi negava eventuali conflitti d’interessi sostenendo di essersi limitato a trattare con clienti privati. La semplice regola di dovere rendere noti – fin nei dettagli – il contratto nel privato e come è stato attuato avrebbe potuto eliminare le ombre. E può allontanare i sospetti che tra gli impegni imposti da banche e società agli ex governanti e alti burocrati – in cambio di “stipendi d’oro” – possano esserci clausole nell’interesse del “datore di lavoro” privato da rispettare se in futuro tornassero in un ruolo pubblico.

Le istituzioni Ue e molti Paesi membri hanno scelto una linea blanda sui rischi di “corruzione dilazionata”. Di fatto lasciano evaporare nel tempo le inevitabili polemiche su “opportunità” e “conflitti d’interessi” provocate dalle attività private, intraprese perfino da big come l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder (passato al colosso russo Gazprom per il gasdotto North Stream), l’ex premier inglese Tony Blair (diventato ricco con consulenze, conferenze e altri business) o l’ex presidente portoghese della Commissione Ue José Manuel Barroso (assunto dalla Goldman Sachs).

In Italia una richiesta di massima trasparenza sugli arricchimenti da “sliding doors” era stata respinta dall’allora premier Mario Monti, che – dopo un decennio da commissario Ue – era passato alla Goldman Sachs. Draghi e il suo “governo dei migliori” dovrebbero dimostrare discontinuità con i predecessori e introdurre regole più rispettose degli interessi dei cittadini e degli ex governanti corretti anche perché l’ex premier Matteo Renzi, leader del mini-partito Italia Viva, rivendica come legittimo (con le norme attuali) perfino potersi arricchire con business privati senza nemmeno aspettare l’uscita dalla politica attiva.

 

I preliminari, i falchi di guerra e la detenzione ingiusta di Assange

E per la serie “Occhio alla cacca”, la posta della settimana.

Caro Daniele, Assange va liberato! (Chiara Berizzi, Livorno). Sono d’accordo, e con noi centinaia di associazioni giornalistiche, il Consiglio d’Europa e milioni di persone nel mondo. Assange è un giornalista ed editore attualmente detenuto in un carcere di alta sicurezza in Inghilterra perché, con la sua organizzazione WikiLeaks, ha informato sui crimini di guerra occidentali in Afghanistan e in Iraq. Se venisse estradato negli Usa, verrebbe processato in quanto lo accusano di spionaggio: rischia 175 anni di carcere. Il tribunale inglese, che in primo grado ha negato l’estradizione poiché Assange versa in un profondo stato di depressione che potrebbe portarlo al suicidio, non lo ha però rimesso in libertà, contraddicendo la sentenza. La persecuzione contro Assange è una rappresaglia contro di lui, e una minaccia per chiunque voglia informare l’opinione pubblica seguendone l’esempio. Tramite Wikileaks, furono pubblicati dal Guardian, dal New York Times e dallo Spiegel i War Logs, i rapporti riservati dei comandi Usa che svelavano le atrocità belliche e le bugie sul conflitto afghano e iracheno: che siano ancora attive le manipolazioni politiche e mediatiche con cui i falchi della guerra e i loro manutengoli cercarono di coprirle lo si comprende dal memorandum riservato della Cia datato 11 marzo 2010, che fu pubblicato da WikiLeaks qualche mese prima degli Afghan War Logs. Come racconta Stefania Maurizi nel suo ultimo libro (Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks, Chiarelettere), quel documento spiegava la strategia da usare se l’opinione pubblica francese e tedesca si fosse rivoltata contro la guerra in Afghanistan chiedendo il ritiro dei propri militari: con i cittadini francesi andava usato l’argomento propagandistico delle conseguenze sulla vita delle donne afghane dopo il ritorno dei talebani al potere: “La prospettiva che i talebani riportino indietro il Paese, dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese”; con i tedeschi invece andava usato l’argomento dei rifugiati: “Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati, potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa”. Ti ricorda qualcosa?

Non sopporto i presentatori e le presentatrici che in tv ringraziano i loro ospiti dicendo: “Grazie. Grazie davvero” (Raffaella Borsatti, Palermo). Neanche io. Se un ringraziamento è vero, “grazie” basta e avanza. Se aggiungi “davvero”, stai recitando. Sei una persona così falsa che hai bisogno di recitare un “grazie”? E allora vaffanculo: tu, il tuo programma e i tuoi telespettatori. (Nulla di nuovo in questa nostra insofferenza, Raffaella: già Holden Caulfield, nel celeberrimo romanzo di Salinger, ce l’aveva coi phonies, i fasulli. Li identificava genericamente negli adulti perché non aveva visto la tv italiana, che sono certo avrebbe fornito bersagli specifici a ogni sua idiosincrasia).

Io e un coetaneo (per il quale ho un debole) da qualche mese abbiamo cominciato a inviarci foto nude: io delle mie tette enormi e lui del suo pisello grosso. Un pomeriggio mi ha fatto venire voglia e l’ho invitato da me. Non riusciva ad avere l’erezione! Perché i diciottenni non riescono mai ad avercelo duro quando serve? (Annalisa Bianchi, Udine). Perché hai saltato i preliminari: la Playstation.

 

La strabiliante arte di Draghi nell’intortare mister Papeete

“Non siamo particolarmente preoccupati per l’accaduto”: così, secondo La Stampa, Palazzo Chigi avrebbe commentato il voto leghista contro il Green pass, frase beffardamente liquidatoria che la dice lunga sulla considerazione che Mario Draghi ha di Matteo Salvini. Leggiamo infatti che il premier, superato “un misto di irritazione e stupore”, ha chiamato al cellulare l’altro, in vacanza a Pinzolo, che “ha abbozzato una risposta rassicurante”. Fermi tutti, perché la scena si presenta deliziosa: Salvini in canotta e alpenstok, che come un allievo somaro cazziato dal professore butta là una scusa sulla mandrakata del degno compare Claudio Borghi, di cui probabilmente era all’oscuro. Ora segnatevi questa: “Non si tratta di essere no-vax o no-Green pass, ho sia l’uno che l’altro”. Fantastico, il leader di un partito di governo giustifica il voto contrario a una legge sottoscritta dal suo stesso partito in Consiglio dei ministri e poi farfuglia la prima cosa che gli passa per la testa. Poteva anche rispondere: “Non tutti trovano 24mila euro in contanti nella cuccia del cane” (ma questa l’ha detta davvero). C’interroghiamo spesso sul giudizio personale che un personaggio come Draghi riserva agli attuali compagni di strada. Con Enrico Letta forse conversano di comuni esperienze internazionali. Giuseppe Conte è un docente di Diritto e forse condividono il linguaggio accademico. Ma con uno come Salvini, che ha studiato a Pontida e a Milano Marittima, di cosa diavolo parli? Ok, il presidente del Consiglio non deve fare conversazione, ma risolvere con gli alleati i problemi del Paese. Soprattutto le grane, materia su cui, dicono, l’ex presidente Bce è maestro nell’intortare l’interlocutore di turno, con una spiccata preferenza per Salvini. Come quando gli ha sfilato le dimissioni di Claudio Durigon (peggio dell’estrazione di un molare), promettendogli in cambio chissà quale giocherello. Ogni tanto lo convoca a Palazzo Chigi, così Letta è contento e i giornali hanno qualcosa da scrivere. Poi, lo mazzola promettendo “una stagione di disciplina”. Se Draghi fa bene a non essere “particolarmente preoccupato” di Salvini, Salvini ci fa venire in mente lo strepitoso Rutelli di Corrado Guzzanti ai tempi di Berlusconi, quello che piagnucolava: “Silvio, ricordati degli amici, ricordati di chi ti ha voluto bene”. Dalle premesse è solo questione di tempo.

Bonus bebè agli stranieri, la Corte Ue boccia la manovra di Renzi. Ora l’Inps deve pagare

L’Italia ha violato il principio comunitario di non discriminazione negando agli stranieri il bonus bebè. A sancirlo è la Corte di Giustizia europea che, chiamata in causa dalla Corte costituzionale italiana, ha evidenziato come il “divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia, salvaguardati dalla Costituzione, dovesse essere interpretato anche alla luce delle indicazioni vincolanti offerte dal diritto dell’Ue”. Per questo motivo l’Inps dovrà ora pagare a tutti gli esclusi l’assegno di natalità e l’assegno di maternità previsti dalla normativa italiana. Riavvolgiamo il nastro. L’annuncio lo aveva dato Matteo Renzi nel salotto di Barbara D’Urso: dal 2015 tutte le neo mamme avrebbero percepito un bonus bebè da 1.500 euro per i primi tre anni. La misura viene inserita nella manovra del 2015, ma inizia sotto i peggiori auspici escludendo i figli dei migranti che hanno un normale permesso di soggiorno per motivi di lavoro, di chi ha lo status di rifugiato o di protezione umanitaria. Una dimenticanza, voluta o meno da parte del governo renziano, in contrasto con la direttiva dell’Unione europea, che prevede parità di trattamento nei servizi sociali tra cittadini e stranieri in regola. Decisione che da lì e per i successivi 7 anni ha riempito le aule dei tribunali con migliaia di ricorsi da parte delle associazioni per richiedere da parte dell’Inps il pagamento dell’assegno di natalità e di maternità anche per le neo-mamme con regolare permesso, anche se in Italia da meno di cinque anni. Così alcuni stranieri titolari del solo permesso unico di lavoro, dopo il rifiuto dell’Inps, si sono rivolti alla Consulta che a sua volta ha interpellato la Corte Ue, ritenendo che il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia, garantiti dalla Costituzione italiana, debbano essere interpretati alla luce delle indicazioni vincolanti fornite dal diritto dell’Unione europea. “Ora da gennaio prossimo – spiega Alberto Guariso dell’Associazione per gli Studi giuridici sull’Immigrazione che ha assistito i ricorrenti davanti alla Corte – le due prestazioni saranno assorbite dall’assegno unico che non presenta più la limitazione oggi dichiarata illegittima, ma che ancora non prevede una chiara estensione a tutti gli stranieri destinatari della direttiva rischiando di innescare nuove incertezze e nuovi contenziosi. Nel frattempo rimangono nel nostro ordinamento altre prestazioni, come il bonus asili nido, ancora riservate ai soli lungo-soggiornanti, alle quali il Parlamento dovrà ora mettere urgentemente mano per evitare ulteriori condanne da parte della Corte di Giustizia europea”.

Addio Theodorakis. Compose il sirtaki di “Zorba il greco”

Ti pothos ke ti pathos (“che desiderio, che passione”) è uno dei versi del Nobel per la letteratura Giorgos Seferis che il compositore Mikis Theodorakis, morto ieri ad Atene, ha musicato. Ed è forse tra i più indicati per raccontare la vita del direttore d’orchestra e politico dell’isola di Chio, 96 anni, che ha contribuito a far conoscere la tradizione popolare greca nel mondo. Nato nel 1925, Theodorakis è stato il simbolo della lotta contro il nazismo e per la libertà. Musica e politica sono stati i due pilastri della sua vita. Comunista convinto, attivista, deputato ed ex ministro, sin da giovane ha preso parte alla Resistenza all’occupazione nazi–fascista, finendo durante la guerra civile per essere imprigionato e torturato. Una volta libero si è diplomato al Conservatorio e ha viaggiato a Parigi e a Mosca. Ha composto opere liriche, balletti, lavori sinfonici, cameristici e musiche per il cinema ma la sua grande passione è stata la canzone popolare greca a cui ha lavorato incessantemente collaborando con i grandi poeti nazionali, Yannis Ritsos e Alessandro Panagulis. È stato anche il protagonista di numerose battaglie per la democrazia durante la dittatura dei colonnelli che gli sono costate care: dal carcere al confino. Restano celebri la colonna sonora di Zorba il greco, il film di Michael Cacoyannis con Anhtony Quinn del 1964, che ha reso il sirtaki famoso in tutto il mondo, Z-L’orgia del potere, Trilogia di Mauthausen e le Canzoni in esilio del 1970. Ha sempre coltivato il rapporto con la poesia, che traduceva sapientemente in musica, come accaduto con il Canto General di Pablo Neruda. Con la fine della dittatura nel 1974, è diventato uno dei punti di riferimento per l’opinione pubblica di sinistra. Nell’80 è stato insignito del Premio Lenin per la pace. In Italia, dov’era già noto a partire dal ‘65, la sua fama è cresciuta grazie a Caro Theodorakis … Iva, l’album di Iva Zanicchi, e a Come spiegarti di Milva.

Pontremoli, crolla il soffitto di una casa. Un 88enne trovato morto sotto le macerie

Un forte boato e poi il crollo. È stata forse una fuga di gas a provocare l’esplosione che ieri mattina ha causato il crollo di un cascinale di due piani a Pontremoli, in provincia di Massa-Carrara. Il rumore è stato avvertito in tutta la campagna circostante. Tra le macerie è stato trovato il corpo senza vita di Nello Balestracci. Ex ferroviere in pensione, l’88enne viveva da solo nella casa dopo la morte della moglie. Pochi minuti dopo l’esplosione, avvenuta intorno alle 10.50, sono giunti sul posto i Vigili del fuoco. Assieme a loro sono intervenuti sul luogo anche le squadre cinofile da Livorno, l’Usar (Urban Search And Rescue) del comando di Pisa e un’ambulanza della Misericordia locale. Secondo i testimoni era infatti già noto che al momento del crollo il pensionato si trovasse in casa. I Vigili del fuoco hanno lavorato quasi sette ore prima di recuperare il corpo dell’uomo carbonizzato: per questo l’ipotesi della fuga di gas, al momento, sembra la più accreditata. Le ricerche sono poi continuate fino a sera per scongiurare che non vi fossero altre persone coinvolte nell’esplosione.

“ La terza dose anche in Italia: subito i fragili già questo mese”

Si va verso l’obbligo vaccinale e verso la terza dose di vaccino anti-Covid? “Sì a entrambe le domande”. Il premier Mario Draghi, ieri nella conferenza stampa dopo il Cdm, ha risposto così sul nuovo richiamo e sull’obbligatorietà: “Il ministro Speranza e io ne stiamo parlando da un po’ di tempo. L’orientamento è sì, verrà esteso. Per decidere esattamente quali sono i passi da compiere e i settori che dovranno averlo prima, faremo una cabina di regia come chiesto dal senatore Salvini. La direzione è quella”. Concetti ribaditi dal ministro della Salute, Roberto Speranza: “Il confronto che è in atto porterà alla terza dose e si inizierà a fine settembre. Si partirà dai soggetti fragili e tale indicazione è arrivata anche dall’Ema e il Comitato tecnico scientifico ha già espresso la sua opinione in tal senso”.

A spingere verso la terza dose sarebbero anche i dati provenienti da Israele: lo Stato ebraico ha segnato, nelle ultime 24 ore, il record giornaliero di nuove infezioni da inizio pandemia con più di 11 mila nuovi casi, ma al tempo stesso continua la discesa dei malati gravi, che sono scesi per il terzo giorno consecutivo, assestandosi a 666. Secondo il ministero israeliano della Sanità questo è dovuto proprio alla protezione con la terza dose che nel Paese è stata somministrata ad ora a 2.350.440 persone.

Intanto il vice di Speranza, Pierpaolo Sileri non esclude neppure una vaccinazione anti-Covid con cadenza annuale, come quella anti-influenzale: “È verosimile che in futuro questi vaccini verranno migliorati, anche in relazione alle varianti, è possibile che in futuro i richiami verranno fatti con vaccini più aggiornati. È anche verosimile, salvo che il virus non muti diventando un semplice raffreddore, che avremo bisogno di proteggerci con una vaccinazione da ripetere nel tempo, richiami similari a quelli del virus influenzale”. Sileri chiarisce anche da chi si deve cominciare con le terze dosi: “Chi fa la dialisi, i pazienti fragili e per queste categorie la terza dose dovrà essere fatta quanto prima, credo a ottobre. La platea poi aumenterà perché altre categorie avranno bisogno di una terza dose, ad esempio le persone molto anziane”.