Vaccini, il trucchetto di Figliuolo per l’80%

Il dato è aggiornato a ieri, ore 6 del mattino. Ufficialmente oltre 38 milioni di italiani hanno concluso il ciclo vaccinale. Il che significa che quasi il 71% è stato immunizzato. Fin qui tutto bene. Il risultato appare del tutto in linea con l’obiettivo del commissario all’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, che ha fissato l’immunità di gregge (l’80%) entro la fine di settembre. Obiettivo ribadito ieri dal premier Mario Draghi. E considerato ormai a portata di mano. Eppure il traguardo potrebbe essere molto più lontano. Se cambia la base di riferimento i numeri non tornano affatto.

L’inghippo della platea per arrivare alla quota

Dov’è l’inghippo? La percentuale del 71%, nel report del governo sull’andamento della campagna vaccinale (report che viene aggiornato quotidianamente), è ricavata (e non certo da ora) dal calcolo fatto sulla popolazione over 12, cioè su quella vaccinabile. Cosa ben diversa da quanto previsto dal piano di Figliuolo, presentato il 13 marzo scorso. Il piano infatti non considera la platea degli over 12, considera il totale della popolazione. In particolare precisa che l’immunità di gregge, quel fatidico 80%, è calcolata prendendo in considerazione tutti i cittadini, anche quelli di età inferiore ai 16 anni (è necessario ricordare che in marzo non era ancora arrivato da parte degli enti regolatori dei farmaci, Ema e Aifa, il via libera alla somministrazione del vaccino ai ragazzi di età inferiore). Ecco perché, in realtà, stando proprio a quanto previsto dal piano Figliuolo, il tasso di immunizzazione raggiunto è molto più basso: siamo al 64,3%. Puntualizzazione doverosa. Anche perché è proprio facendo riferimento al totale della popolazione che possiamo fare un confronto con gli altri Paesi europei.

Spagna più avanti Francia e Germania no

In questo caso i numeri sono aggiornati al 1° settembre. Ma già vediamo che Portogallo e Spagna sono molto più avanti di noi. Hanno immunizzato, rispettivamente, il 75 e il 71,40% dei cittadini. Più avanti anche la Danimarca (72,44), mentre la Germania (60,1%) e la Francia (59,76%) sono qualche passo indietro. Va detto che negli ultimi tempi un po’ tutti sembrano avere tirato il freno a mano. Questo, almeno, stando all’allarme lanciato nei giorni scorsi da Hans Kluge, direttore dell’Organizzazione mondiale della Sanità per l’Europa. Per Kluge nelle ultime sei settimane le vaccinazioni sono diminuite del 14%. Certo, ci sono state le vacanze estive di mezzo. Ma anche in Italia il ritmo delle somministrazioni è decisamente rallentato. Lunedì ne sono state fatte poco più di 346 mila, martedì nemmeno 297 mila, il 1° settembre (mercoledì) quasi 284 mila. Numeri molto inferiori a quella di quota mezzo milione circa a cui ci eravamo abituati. Nel frattempo i decessi per Covid-19 aumentano (366 nella settimana compresa tra il 25 e il 31 agosto contro i 345 dei sette giorni precedenti), i nuovi casi di infezione restano stabili intorno ai 45 mila (sempre dal 18 al 31 agosto), crescono, seppure moderatamente, le ospedalizzazioni e i ricoveri in terapia intensiva (40 in più in una settimana) e mancano ancora all’appello della vaccinazione oltre 3,3 milioni di over 50. Tutti dati che arrivano dall’elaborazione della Fondazione Gimbe.

In pratica, ci dice la Fondazione, il 12,2% della popolazione che ha superato i 50 anni non ha ancora ricevuto nemmeno una dose, con nette differenze regionali: si va dal 18,6% della Sicilia al 7,6% della Puglia. Qualche timida inversione di tendenza sembra esserci. L’introduzione dell’obbligo del green pass anche su treni, aerei e traghetti potrebbe aver persuaso molti scettici a farsi vaccinare, dato che nella fascia d’età 50-59 anni si assiste infatti negli ultimi giorni a un incremento: dagli oltre 24 mila del 24 agosto (dati in media mobile a sette giorni) ai più di 29 mila di martedì scorso.

3,4 milioni di over 50 ancora senza dosi

Niente da fare, invece, per quelli che hanno dai 60 ai 69 anni (in questo caso i non vaccinati sono il 17%): la curva delle somministrazioni non prende quota. Anzi, continua a scendere, visto che le vaccinazioni sono state poco più di 15 mila sempre il 24 agosto e 13.688 il 31. Così a livello nazionale, con alcune eccezioni. Si assiste infatti a inversioni per questa fascia d’età in Friuli-Venezia Giulia, nel Lazio, in Lombardia, Sicilia, Valle d’Aosta.

E all’estero la situazione appare anche peggiore, visto che tra gli over 65 mancano all’appello circa il 40% della popolazione in Francia e Germania, il 30% in Belgio e in Spagna. In Italia anche Calabria, Südtirol, Friuli-Venezia Giulia hanno alte percentuali di ultracinquantenni che non hanno alcuna copertura contro il rischio di infezione: sempre sopra il 17%, la Calabria si avvicina alla Sicilia e arriva al 18,3.

Nel suo ormai consueto report, Gimbe prende in esame anche l’efficacia dei vaccini, dato che – come spiega il presidente della Fondazione Nino Cartabellotta, “la scadenza del green pass per le persone vaccinate all’inizio dell’anno ha innescato il dibattito sull’opportunità della terza dose. Il risultato è che la vaccinazione si conferma la principale arma per contrastare la pandemia.

L’efficacia del vaccino, da aprile ad oggi, appare infatti stabile e superiore al 94% nel ridurre i decessi e le forme gravi della malattia che richiedono l’ospedalizzazione e anche il ricovero in terapia intensiva. Per quanto riguarda le diagnosi, invece, l’efficacia si riduce dall’88,5% del periodo che va dal 4 aprile all’11 luglio, al 79,7% (dal periodo compreso tra il 4 aprile e il 22 agosto). Significa che si sta manifestando una progressiva riduzione dell’efficacia delle coperture vaccinali di fronte a infezioni asintomatiche e forme lievi di malattia che non necessitano di ricovero. Le due aree del Paese dove c’è la più bassa percentuale di persone completamente vaccinate si confermano il Südtirol e la Sicilia (57%), seguite da Calabria (59,4) e dalla Valle d’Aosta (60,5). Al contrario il record di popolazione che ha completato il ciclo spetta a Lombardia (67,7%) e Puglia (66,9).

 

“Non aspettiamoci i monoclonali a casa. Il sistema è indietro”

“Io e mia moglie abbiamo preso il Covid a dicembre, quando i monoclonali non c’erano, li avrei presi di corsa, mi son dovuto curare con l’Aulin rischiando complicazioni. Da mesi c’è una cura specifica autorizzata contro il Covid ma non viene data a chi ne ha bisogno, qualcosa mi sfugge”. Renato Bernardini è un farmacologo di fama, consigliere del cda Aifa e membro del Consiglio superiore di Sanità. Rilegge una notizia diffusa pochi giorni fa dall’Aifa, in cui si da conto di “quasi 8.000 monoclonali prescritti, +30% in 7 giorni”. Ma anziché esultare, gli cadono le braccia. E dà un consiglio ai cittadini: “È ora di mobilitarsi per le cure cui avete diritto”.

Cosa ne pensa dei dati?

Un aumento del 30% significa 505 pezzi contati francamente un po’ deludente, diciamo così. Nel dettaglio emerge il divario enorme tra regioni: la mia Sicilia, ad esempio, ha avuto un picco di 9.715 nuovi contagi, pari al 25%-30% a livello nazionale, nella stessa settimana ha garantito solo 57 terapie. Si è perso il criterio di “prevalenza” che è alla base delle forniture.

I farmaci ci sono da mesi, perché si fatica ancora a darli?

Al momento sono disponibili le infusioni da 60 minuti che richiedono una forte di organizzazione sanitaria territoriale. Su questo c’è molto da fare, perché i monoclonali saranno un’arma sempre più indispensabile. Lo dimostra l’allargamento della platea dei pazienti trattabili.

Aifa ha cambiato orientamento.

All’inizio i dati indicavano un’efficacia solo nelle fasi iniziali dell’infezione, dunque in pazienti non ospedalizzati. Studi recenti la dimostrano anche in fasi avanzate, purché non ad alti flussi e in ventilazione meccanica. Per questo Aifa ha allargato la platea dei pazienti e i numeri sono in crescita, un trend che speriamo si consolidi. Anche i medici devono fare la loro parte.

Esiste un problema medici di famiglia?

È una delle spiegazioni alle basse prescrizioni. Il medico di medicina generale sembra non gradire di instradare il paziente verso gli ospedali in favore degli specialisti. Ma non è tempo di difese corporative.

Come si vince questa resistenza?

I cittadini sanno che c’è una terapia specifica che può essere efficace, a certe condizioni. Devono sapere anche che nessuno verrà a prenderli a casa per dargliela. Devono insistere col loro medico.

Quando avremo dati sull’efficacia?

A maggio sono stati approvati studi finanziati da Aifa, ma non si concluderanno prima di un anno. Contiamo confermino quanto già vediamo con l’uso emergenziale.

Che fine ha fatto il “monoclonale italiano” su cui lo Stato ha investito 15 milioni di euro?

Quello della fondazione Toscana Life Sciences aveva suscitato molte aspettative: è disegnato per essere iniettato intramuscolo, anche a casa con forti risparmi in termini organizzativi e sanitari. Doveva arrivare a maggio, poi luglio. A quanto mi risulta non è partita la sperimentazione di fase 2-3. Pare manchino candidati.

Del resto, perché immolarsi alla ricerca anziché curarsi?

Certo, il problema c’è, ma anche le motivazioni per contribuire alla ricerca. Abbiamo bisogno di tanti anticorpi perché rispondono diversamente alle varianti, anche qui si gioca la partita contro il Covid.

A ogni variante, riguardo al monoclonale, come si sceglie quale dare?

Per saperlo dovremmo sequenziare il virus come fanno altri Paesi, trovo inspiegabile non si faccia. Sento rispondere che non serve, ma come si farà a trattare il paziente con l’anticorpo specifico più efficace?

Qualcuno ne risponderà dei ritardi?

Temo di no. Pagheremo noi contribuenti e a costi sociali molto alti. Non c’è altra soluzione che aumentare la consapevolezza di questo tra gli operatori sanitari e i diretti interessati.

“Tre quesiti su sei in odore di bocciatura”

Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere. E limiti alle misure cautelari. Per Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre, già capo degli uffici legislativi di ex ministri come Roberto Calderoli, Federica Guidi e Giulia Grillo, vi sono dubbi di ammissibilità costituzionale per almeno tre quesiti fra i 6 referendum sulla giustizia proposti da Lega e Partito Radicale. Al centro c’è sempre il referendum n° 5, quello che elimina le misure cautelari in presenza di possibile reiterazione per reati che non prevedano il “concreto e attuale” pericolo che si commettano “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”.

Professor Celotto, il quesito potrebbe essere dichiarato inammissibile dalla Consulta?

La premessa è che l’ammissibilità del referendum non è una certezza ma quasi sempre un’opinione. Il quesito numero 5 vorrebbe inserire limiti rispetto all’applicazione delle misure cautelari, ma introduce un meccanismo solo aritmetico, basato sulla durata temporale della pena e su una discrezionalità del magistrato o del giudice. Si lasciano indietro reati anche gravi come lo stalking, che ne è l’esempio più concreto.

Dove interviene il cortocircuito?

L’ultimo comma dell’articolo 13 della Costituzione richiama il compito della legge di fissare i limiti della custodia cautelare massima. Ma andando a tranciarlo di netto, in maniera meccanicistica, si rischia di creare degli spropositi. Sarebbe bene se ne occupi il Parlamento.

Nel 2000 due referendum radicali non furono ammessi: si parlava anche di responsabilità civile delle Procure…

I quesiti sembrano leggermente diversi. Ma anche questo secondo problema è antico. Il tema è che bisogna evitare forme di intimidazione al giudice. Non si può dire: “Attento, che se mi fai un’inchiesta o mi condanni io ti chiedo i danni”. Perché così crei disparità nella giustizia.

Ritorna anche la separazione delle carriere.

Argomento delicatissimo. Le funzioni sono già separate, le carriere no. Mi sembra un quesito un po’ macchinoso. Oggi già sappiamo che se faccio il pm a Roma non posso diventare giudicante a Roma, devo andare da un’altra parte. Un quesito confuso, eterogeneo, per un problema delicato.

“Stalking, io viva solo perché il mio ex fu tenuto in carcere”

“Sì, chi è?”. All’altro capo del telefono la voce trema. Rosa è sospettosa, timorosa. Da questa parte c’è un uomo che non ha mai visto, e lei non si fida. Ancora oggi. Sono passati 15 anni, l’inferno è finito, ma ora c’è da curare le cicatrici che le ha lasciato addosso, e dentro. E che non passano. Cinquantatré anni, due figlie di 30 e 23 anni, Rosa vive a Roma. Suo marito l’ha prima picchiata, poi perseguitata per anni. I primi schiaffi sono arrivati poco dopo il matrimonio, con il tempo la violenza si è fatta condizione di vita: “Abusava di alcol e non si curava – sospira –, mi picchiava, diverse volte ha provato a violentarmi, in altre occasioni mi ha messo le mani al collo per strozzarmi. Non ci faceva dormire, né a me né alle ragazze. Ci svegliava di notte, ci puntava i coltelli della cucina, minacciava di ucciderci con il gas”.

Così Rosa si rivolge alle forze dell’ordine, ma non serve: “Le prime denunce le feci nel 2006, ma al massimo veniva richiamato, gli veniva consigliato di smettere. Forse non ero io convincente, o forse non accadeva nulla perché il mio ex marito era un poliziotto”. Nessuno interveniva e lui non si fermava: “Vedeva che non accadeva nulla e continuava a perseguitarci. Si sentiva sempre più forte, e ogni volta era più violento”.

Dopo 4 anni, la fuga: “Nel 2010 io e le mie figlie siamo scappate di casa e mi sono rivolta a Telefono Rosa. Una famiglia di conoscenti ci ha ospitato: ci hanno preso con loro, pur conoscendo la situazione”. Nel 2011 arriva l’ennesima denuncia. “Ma lui se ne fregava – continua Rosa –, continuava a cercarci. Mi aspettava fuori dal lavoro, oppure si fermava giù in strada e fissava le finestre. A volte veniva fin sul pianerottolo del condominio e se ne stava lì, fuori dalla porta. Bussava, provava ad aprire. Noi stavamo lì dietro, mute, paralizzate dalla paura, le ragazze non smettevano di piangere. L’ultima volta è rimasto lì fuori per 40 minuti. Ho chiamato ancora una volta i carabinieri e in quell’occasione, finalmente, lo hanno arrestato”.

“In quel caso il giudice ha potuto applicare la custodia cautelare in carcere ed evitare una pericolosa escalation”, conferma Antonella Faieta, avvocato e vicepresidente di Telefono Rosa. “È proprio il pericolo di reiterazione del reato che il 5° quesito del referendum rischia di far cadere come motivo per comminare la carcerazione preventiva – prosegue –. In quel contesto, il marito non aveva usato violenza fisica né aveva armi con sé, condizioni residuali che, se passasse il quesito proposto da Radicali e Lega, un giudice potrebbe utilizzare per applicare la custodia cautelare. Così si rischia di arrivare a tragedia già consumata”. “Il giorno in cui è stato arrestato – riprende Rosa – non era armato, ma era in forte stato di agitazione e di ebbrezza. Faceva paura”. Lo stalking è tutto qui: “Non servono le armi per far del male, basta la violenza psicologica”. La voce all’altro capo del telefono si incrina: “Se avessimo dovuto aspettare la fine del processo prima di fermarlo, chissà che fine avremmo fatto, io e le mie ragazze”. Se il quesito passasse, continua, “le donne sarebbero più sole, scoperte, senza un aiuto. Togliere la carcerazione preventiva sarebbe un grandissimo sbaglio. Io sono sopravvissuta grazie a quel provvedimento”.

L’uomo si fa sei mesi di carcere preventivo, poi il processo e la condanna a 4 anni. “Ha scontato 2 anni e 5 mesi – riprende Rosa – Ma è finita solo ora. Oggi ho accettato di raccontare la mia storia solo perché lui non c’è più, è morto tre mesi fa. Altrimenti non lo avrei mai fatto”. La normalità, però, è una meta lontana: “Sono passati tanti anni, io ancora sono in analisi da uno psicologo. Lo stalking è qualcosa che ti asfissia piano piano, non ti permette di andare a lavorare, di fare cose semplici come fare la spesa, di vivere. E anche quando lui è stato condannato ed è finito dentro, io vivevo lo stesso nel terrore”. Quindici anni dopo le prime botte, l’inferno è finito: “Ora sono libera – riprende Rosa, la voce più leggera –. So che ormai non mi può più fare del male. Ma ci sarà sempre una parte di me che avrà paura”.

Liste in chiusura: sulla scheda arrivano vip, transfughi, “ras” e impresentabili

Alla chiusura delle liste mancano poche ore – i partiti hanno tempo fino alle 12 di domani – ma del variopinto universo delle prossime amministrative si può già dire molto: a sostegno dei più noti candidati sindaci ci sono vip, “ras” delle preferenze e il solito carico di transfughi e impresentabili.

A Roma capolista della Lega è Simonetta Matone – indicata come vicesindaca di Enrico Michetti – ma il Carroccio punta anche sulla deputata Barbara Saltamartini, (ex Msi, Pdl, Ncd). Forza Italia sceglie invece Marcello De Vito, ex 5 Stelle imputato per corruzione. Capolista è Maria Spena, già in giunta con Gianni Alemanno. In lista anche Marco Di Stefano, a destra dopo dieci anni nel Pd. Senza dimenticare i vip arruolati da Michetti: Pippo Franco, Sergio Japino, Enrico Montesano.

Personaggi a cui Roberto Gualtieri risponde, tra gli altri, con l’ex campione della Roma Ubaldo Righetti. Nelle liste del Pd ci sarà pure Stefano Marongiu, infermiere di Emergency che contrasse l’Ebola. A guidare il Psi al fianco di Gualtieri ci sarà poi Bobo Craxi, ormai da qualche anno senza seggio. Carlo Calenda presenta invece una lista unica, il cui nome più noto è quello di Annalisa Scarnera, ideatrice della Gay Street di Roma, riferimento per la comunità Lgbtq.

A differenza del 2016, Virginia Raggi non avrà solo il sostegno del M5S. Oltre alla civica degli sportivi – promossa dall’ex nuotatore Stefano Battistelli, non candidato – ci sarà “Roma Ecologista”, promossa da Alfonso Pecoraro Scanio e dall’ex ministro Alessandro Bianchi. Un insieme di forze che il M5S non vanta a Milano, dove la candidata sindaca Layla Pavone ha ereditato il lavoro degli attivisti solo un paio di settimane fa, con Elena Sironi probabile capolista.

Ancora qualche dubbio in FI, che ha provato a convincere Adriano Galliani a tirare la volata a Luca Bernardo, e già ufficiale la presenza del leghista Max Bastoni, che da settimane lancia segnali d’amore all’estrema destra. Il nome forte del Pd a sostegno di Sala è invece Pierfrancesco Maran, mentre nella lista del sindaco c’è Emmanuel Conte, figlio del fu luogotenente craxiano Carmelo.

La candidatura più “pop” a Bologna è invece quella di Mattia Santori, leader delle Sardine in campo per Matteo Lepore (Pd-M5S). Come capolista dem c’è la professoressa di letteratura inglese Rita Monticelli, insegnate di Patrick Zaki, ma il Pd si è spaccato sull’esclusione dell’ala “renziana”. Protestano gli assessori Virginia Gieri e Alberto Aitini, che parlano di “epurazione”. Ma si litiga pure a destra, dove Umberto Bosco e Federico Caselli hanno mollato Salvini e sono in lista con FdI.

Nulla a che vedere con la transumanza a Napoli, dove una truppa di ex forzisti ha creato una lista in sostegno del giallorosa Gaetano Manfredi, grazie alla mente di Stanislao Lanzotti. Detto della candidatura di Hugo Maradona – fratello di Diego – a sostegno di Catello Maresca, FI ha scelto come capolista Pasquale Perrone Filardi, cardiologo e docente alla Federico II che sfida il suo ex Rettore Manfredi. Il quale deve fare i conti con alcuni big del Pd. Aniello Esposito ha patteggiato 6 mesi per irregolarità nelle liste del 2016, ma è già in campagna elettorale. Pure Salvatore Madonna, che patteggiò uguale pena, dovrebbe farcela.

Meno problemi ci sono a Torino, dove però il dem Stefano Lo Russo fa sponda con Sergio Chiamparino contro i 5 Stelle. La destra di Paolo Damilano manderà in Consiglio Eugenio Bravo, sindacalista di polizia di cui si ricordano dichiarazioni a difesa degli agenti impegnati nel G8 di Genova. FdI sceglie invece Giovanni Crosetto, nipote di Guido, e l’ex sciatrice Barbara Merlin.

Delicata la questione in Calabria, dove due giorni fa la Commissione Antimafia di Nicola Morra ha bocciato due candidati del centrodestra alle regionali. Gli aspiranti consiglieri inquisiti sono parecchi: Piercarlo Chiappetta (FI, indagato per bancarotta), Claudio Parente (FI, imputato per corruzione e peculato, dovrebbe essere fuori), Mario Oliverio, candidato presidente ex Pd imputato in tre processi.

Bianchi: “59mila assunzioni”. Ma più della metà già c’erano

Patrizio Bianchi, arrivato indenne al suo primo inizio di anno scolastico come ministro dell’Istruzione, pare inizi a subire la pressione di chi, tradizionalmente, nella scuola sa sempre bene a chi dare la colpa. Al punto che pur di dimostrare di aver fatto di tutto per accontentare il Draghi-monito di inizio mandato (in sintesi: non ci sarà supplentite) prova a fare quadrare i conti con i concorsi degli altri. “Abbiamo lavorato moltissimo secondo il mandato dato dal presidente (Draghi, ndr) – ha detto ieri in conferenza stampa a Palazzo Chigi – cioè sulle persone, sugli insegnanti, facendo i concorsi, e con neanche una sanatoria”. E ha sciorinato i numeri: 59mila insegnanti, di cui 13.908 di sostegno. Ben vengano i dati, se non fosse che forse pecca di presunzione nel fare il raffronto con lo scorso anno quando a suo dire le assunzioni erano state 20mila (o 19mila a seconda di quanto deve auto-promuoversi), con solo 1700 docenti sul sostegno.

A dirla tutta, infatti, le assunzioni di quest’anno sono per lo più il frutto del concorso straordinario per stabilizzare i precari storici che era stato indetto dalla ex ministra Lucia Azzolina: 33mila persone a cui si sono aggiunte poi le 6mila di quello ordinario di Bianchi, ma solo per le materie matematiche e scientifiche. Anche sul sostegno, in legge di bilancio lo scorso anno, 25mila cattedre di fatto erano passate a cattedre di diritto proprio per aumentare le assunzioni. Il resto proviene per lo più dalle graduatorie già esistenti e, per quanto Bianchi possa insistere a chiamarle diversamente, ci sarà anche un po’ di sanatoria, quella dei docenti precari che – pur non avendo partecipato o superato il concorso straordinario- potranno essere assunti alla fine dell’anno scolastico dopo una prova che, si spera, sarà comparabile a una vera selezione pubblica. Infine, il ministro si spinge a dire che “dove ci sono classi di vaccinati si potrà togliere la mascherina”. Una indicazione quantomeno bizzarra (benché suggerita nel decreto del 6 agosto), visto che due giorni fa l’Iss ha detto che la mascherina va tenuta in classe anche se c’è la distanza di un metro e visto che si porrebbe il grandissimo problema (anche di privacy) del dover verificare la copertura degli alunni, quando ancora non hanno risolto con quella dei docenti.

L’ultima sfida di Matteo: in piazza con Durigon

Il silenzio dopo le dimissioni è durato una settimana. Oggi Claudio Durigon, ex sottosegretario all’Economia dimessosi dopo la polemica sul parco di Latina da intitolare al fratello di Mussolini, torna in campo. E non lo farà in un evento qualunque: alle 18.30 sarà lui a presentare la lista della Lega alle comunali di Roma in sostegno del candidato sindaco del centrodestra Enrico Michetti. Insieme a Durigon e a Michetti, nel quartiere La Rustica, periferia est di Roma, ci saranno i candidati del Carroccio in assemblea capitolina Maurizio Politi e Flavia Cerquoni, il candidato al IV Municipio Roberto Santoro e i maggiorenti del partito nella Capitale tra cui il coordinatore Alfredo Maria Becchetti e l’europarlamentare Cinzia Bonfrisco. La presenza di Durigon si deve al fatto che è stato proprio lui, nel mezzo delle polemiche, a fare le liste per la Lega a Roma. Poi, dopo la presentazione, il coordinatore Regionale del Carroccio nel Lazio si sposterà a Formello dove sempre domani sera inizierà “Itaca”, la festa della Lega che ha preso il posto di Pontida, con l’intervento di Matteo Salvini intervistato dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano.

La kermesse è stata organizzata nelle ultime settimane proprio da Durigon e dal senatore leghista Francesco Giro. Nel programma non è previsto un intervento pubblico dell’ex sottosegretario all’Economia ma chi lo conosce assicura che ci sarà. Un modo per tornare a riprendersi il suo ruolo, quello di dominus nel Lazio, e ottenere sempre più spazio nella Lega: nei prossimi giorni sarà nominato vicesegretario con delega al centro-sud. Anche per arginare quell’ala del Nord di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia sempre più insofferente. L’ultima spaccatura tra l’ala governista della Lega e i fedelissimi di Salvini è arrivata mercoledì sera. Il problema non era tanto l’oggetto del contendere, un emendamento sul Green pass che non aveva possibilità di passare in commissione, quanto il mandante della manovra parlamentare. Cioè Salvini. Che mercoledì, poco prima del voto sugli emendamenti leghisti che chiedevano di sopprimere il certificato verde, ha dato il suo via libera all’operazione. Claudio Borghi e gli altri sette deputati del Carroccio che hanno votato contro la maggioranza per abolire il pass, insomma, non erano degli sprovveduti. Erano guidati da Salvini. Una mossa che ha fatto imbufalire i tre ministri della Lega e i governatori del Nord che si sono sempre espressi a favore del certificato.

I ministri Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia si sono sentiti traditi, sconfessati, perché un mese fa proprio loro, con l’ok di Salvini, avevano votato a favore del decreto in Cdm. E così Giorgetti ha reagito con una telefonata durissima al capo, arrivando a minacciare le dimissioni : “Un mese fa abbiamo votato il decreto, se poi facciamo il contrario in Parlamento cosa ci stiamo a fare qui?”, ha detto il capodelegazione della Lega al segretario. Una protesta che si unisce al pesantissimo silenzio dei governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga che nelle scorse settimane avevano detto “sì” al pass proprio “per non chiudere più”.

Conte al ministro “di Grillo”: “Ora deve spiegare”

L’avvocato ora invoca spiegazioni proprio da quel ministro che Beppe Grillo aveva preteso e rivendicato. Il tecnico di cui il Movimento aveva pubblicato la foto a mo’ di santino assieme a quella degli altri Cinque Stelle di governo, appena nato l’esecutivo di Mario Draghi: come a dire che Roberto Cingolani, il ministro della neonata Transizione ecologica, era roba loro. Ma la realtà è giudice inflessibile, e racconta che Cingolani segue la sua rotta, sempre più opposta a quella del Movimento. Fino a inveire due giorni fa contro “gli ambientalisti radical chic” e a celebrare il nucleare di nuova generazione. il tutto in collegamento con la scuola di politica di Italia Viva, a Ponte di Legno. Troppo per il leader del M5S Giuseppe Conte, che ieri ha chiamato Cingolani per fissare un incontro: “Dobbiamo parlare, vederci, sono usciti dei messaggi sbagliati”. E il ministro non ha fatto una piega: “Certo, non c’è problema”. Si vedranno il 14 settembre, i due, per parlare delle frasi come sassi di Cingolani: “Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic e di ambientalisti oltranzisti; sono peggio della catastrofe climatica”.

Anatema seguito da parole – e non è la prima volta – a favore del nucleare: “Si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, e ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, prossima a essere matura. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia”. E non erano provocazioni, ma cose che Cingolani pensa per davvero. Perfette per il padrone di casa dell’evento lombardo, Matteo Renzi, che il ministro lo frequenta da anni e che ha gradito, moltissimo. Chi non ha gradito per nulla sono i 5Stelle, che da mesi leggono e ascoltano dichiarazioni del ministro antitetiche alla loro linea. Anche per questo, nelle scorse ore a Conte e allo staff sono arrivate le proteste di diversi parlamentari e soprattutto di molti attivisti. Tali da convincere l’avvocato a fissare un incontro con il ministro. Con calma però, cioè da qui a una decina di giorni. “Ci vedremo per un chiarimento sui progetti e sulle politiche per l’ambiente e la transizione ecologica, anche alla luce delle recenti dichiarazioni pronunciate da Cingolani a un evento di Italia Viva” ha poi fatto sobriamente sapere l’ex premier. Mentre da ambienti a lui vicini sostengono: “Avevamo solo due alternative, infuriarci o cercare un confronto”. Si cercherà la seconda strada. E chissà se e quanto c’entra il legame forte, ancora, tra il ministro e Grillo. “Si sentono regolarmente, hanno avuto colloqui anche ad agosto” dicono fonti incrociate. Anche se sono successe tante cose in questi mesi. A marzo, di fronte ai parlamentari, l’artista aveva celebrato Cingolani come “il supremo”. Ma tre mesi dopo, sempre davanti agli eletti, aveva ammesso: “Se continua così sarà un bagno di sangue”.

Impossibile non riconoscere che su nucleare, trivelle e inceneritori il ministro parla una lingua diversa. Però il fisico e il Garante hanno continuato a sentirsi. Quanto auspicato proprio da Draghi, dicono, che a Cingolani – ministro di sua strettissima fiducia – aveva chiesto di coltivare il rapporto con Grillo, il comico che aveva posto la nascita del ministero della Transizione come condicio sine qua non per dire sì all’esecutivo dell’ex presidente della Bce. D’altronde anche Draghi, come raccontato più volte dal Fatto, aveva sbloccato la trattativa per formare il governo con una telefonata al Garante. E sempre a Grillo si era rivolto per convincere i ministri del M5S a votare sì in Cdm alla riforma Cartabia. Così tutto torna, nell’affare Cingolani. In cui Conte è entrato anche per ribadire che ora a guidare è lui. Oggi l’ex premier presenterà assieme a Virginia Raggi le liste del M5S a Roma, a San Basilio. E a breve partirà per un tour in molti dei Comuni che vanno al voto. Si concentrerà su questo, e infatti la segreteria e il nuovo organigramma scivoleranno a dopo le amministrative. Ma nel frattempo dovrà parlare con Cingolani. Il ministro voluto da Grillo, che non è Conte.

Draghi vuole l’obbligo vaccinale: maggioranza ancor più spaccata

Il Green pass sarà esteso e il governo introdurrà l’obbligo vaccinale. Mario Draghi si presenta in conferenza stampa ventiquattr’ore dopo che la Lega in commissione ha votato per abolire il certificato verde e fa capire che nel governo non c’è spazio per posizioni diverse dal rigore. Quelle che la Lega vede come fumo negli occhi. “L’applicazione del Green pass sta andando bene – dice il premier – la direzione è quella di estenderlo”. Nelle prossime settimane sarà introdotto anche l’obbligo vaccinale: una misura che non ha eguali in Europa (dove l’obbligo riguarda solo determinate categorie di persone) e che sarà approvata perché la percentuale dei vaccinati è sotto alle previsioni (si vedano le pagine 6 e 7) e chi ha deciso di non immunizzarsi non sembra intenzionato a farlo. Un provvedimento che però rischia di spaccare la maggioranza: di fronte ai sì di Pd, Forza Italia e Italia Viva, Lega e M5S si oppongono a qualunque obbligo vaccinale. Draghi ieri poi ha rifilato anche un’altra sberla a Matteo Salvini respingendo il suo assalto contro la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Sta lavorando molto bene per risolvere un problema difficile”.

Nella conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi con i ministri Roberto Speranza, Mariastella Gelmini, Enrico Giovannini e Patrizio Bianchi per esporre la ripartenza dell’anno scolastico e presentare il piano delle prossime riforme, Draghi prima abbassa i toni dello scontro assicurando che “il governo va avanti” e auspicando “un chiarimento tra le forze politiche” anche se “ognuna di esse ha 5-6 anime e non è piacevole sentirle tutte”. Ma subito dopo sconfessa la Lega su tutta la linea. Sia sulle misure per combattere la pandemia, sia sulle polemiche giornaliere del Carroccio sui migranti. Tant’è che fonti della Lega rispondono picche su entrambi i fronti. Il primo è quello delle misure anti-Covid. Se mercoledì la Lega alla Camera ha votato con l’opposizione contro il Green pass, Draghi ieri ha fatto capire che sul certificato non si torna indietro e che, anzi, sarà esteso. Dando però anche un contentino a Salvini che aveva chiesto una cabina di regia con i segretari di partito e i capidelegazione. Ci sarà ma non nella forma proposta dal segretario del Carroccio: “Come chiesto dal senatore Salvini – dice Draghi – una cabina di regia ci sarà comunque”. Ma l’obiettivo sarà opposto a quello leghista: “Estenderemo il Green pass. Stiamo lavorando con il ministro Speranza per decidere esattamente quali sono i passi da compiere e i settori che dovranno averlo prima”. La norma arriverà in tempi rapidi: entro metà settembre per i lavoratori della Pubblica amministrazione e a inizio ottobre per le imprese private. Poi Draghi annuncia anche che a breve il governo dirà “sì” alla terza dose e all’obbligo vaccinale. Posizioni che piacciono al segretario del Pd Enrico Letta (“Va bene estendere l’obbligo vaccinale e il Green pass, Salvini dica se sta con Draghi”), alla capogruppo di FI Anna Maria Bernini (“un salutare bagno di realismo”) e anche a Matteo Renzi (“Bravo Draghi!”). La Lega invece ribadisce il suo “no” a “obblighi, multe e discriminazioni” mentre il M5S sta in silenzio, ma la posizione è la stessa. Contraria anche Giorgia Meloni che elogia Salvini per il suo voto contro il pass e parla di “conferenza stampa surreale”.

Il secondo schiaffo di Draghi alla Lega arriva sui migranti. Il premier fa lo scudo umano della ministra Lamorgese: “Sta lavorando molto bene per risolvere un problema difficile – dice il premier tirando una frecciata all’ex ministro dell’Interno – nessuno ha avuto la bacchetta magica e gli sbarchi di quest’anno non sono spaventosi, vanno paragonati al periodo pre-Covid che ha bloccato gli arrivi”. “Lasciamo parlare i numeri” è la risposta gelida della Lega che attacca sui 39 mila sbarchi del 2021. A ogni modo Draghi dice “sì” a quell’incontro a tre chiesto da Salvini per parlare proprio dell’immigrazione (“non in tv o in streaming” scherza). Perché il suo governo, assicura il premier, va avanti. E quindi, dice, basta parlare di Quirinale: “È offensivo pensare a un’altra possibilità, anche per il presidente Mattarella”.

Che so’ Migliore, io?

Mario (il capocomico). “Ti racconto un esipodio che mi è capitato qualche giorno fa…”.

Sergio (la spalla). “Vorrai dire un episodio”.

M. “Appunto, un esipodio. Mi è venuto incontro un giovanotto barbuto, mi ha guardato fisso negli occhi e mi ha urlato ‘Pasquale!’. A me! Ahahah! ‘Era un pezzo che ti cercavo, figlio di un cane, finalmente t’ho trovato!’. Insultava la mia ministra dell’Interno e voleva cacciarla. Poi in Parlamento ha bocciato il Green Pass che aveva approvato in Consiglio dei ministri! Ahahah!”.

S. “Quindi è chiaro che ce l’aveva con te! E tu?”.

M. “Io pensavo tra me e me: chissà ’sto stupido dove vuole arrivare! L’ha raggiunto il suo compare Durigon, un tipaccio di 200 chili: mi ha preso per la giacca, mi sbatteva al muro e urlava ‘Pasquale, te possino ammazzatte! Sai che ti dico? Meglio Arnaldo Mussolini di Falcone e Borsellino!”. E pum, pam! Due schiaffi! Ahahahah, ’sta cosa mi scompiscia!”.

S. “Mussolini? Due schiaffi? E tu?”.

M. “Io pensavo: chissà ’sto stupido dove vuole arrivare! Una mia ministra mi ha detto: ‘Pasquale, ti ho preparato una riforma della giustizia che stermina tutti i processi d’appello!’. E m’ha fatto incazzare i 5Stelle, finché il loro capo le ha riscritto mezza riforma. Ahahahah!”.

S. “Voleva sputtanarti e farti linciare coi forconi da vittime, magistrati e avvocati! E tu?”.

M. “Io pensavo: chissà ’sta stupida dove vuole arrivare. Poi il mio ministro della Transizione ecologica insulta gli ambientalisti e inneggia al nucleare, rimettendomi contro il M5S. Ahahahah! Poi il capo degli industriali bombarda il mio ministro del Lavoro per le sanzioni alle imprese che prendono i soldi e scappano all’estero. Poi il mio groupie, quello senza voti che prende i soldi dai sauditi, appena dico che sono favorevole al Reddito di cittadinanza lancia un referendum per abolirlo. Poi il mio ministro dell’Istruzione si vanta di non aver fatto sanatorie, mentre ne ha fatte, e di aver assunto nella scuola 58mila persone grazie a un concorso da 6mila facendosi bello con quello da 33mila fatto da chi c’era prima. Poi i leghisti ansiosi di spedirmi al Colle strillano contro Green Pass e vaccini: ‘Pasquale, giù il cappello ché dobbiamo sfondarti il cranio. E giù cazzotti proprio qui, guarda, ci ho ancora la ficozza! Ahahaha le risate!”.

S. “Pure i cazzotti in testa! Ma che figura ci fai? Questo non è un governo, è un troiaio. E tu?”.

M. “Io pensavo: chissà ’sti stupidi dove vogliono arrivare! Ahahahahah!”.

S. “Ma che ti ridi? Ma perché non reagisci mai?”.

M. “E che me frega a me! Che so’ Pasquale, io?”.