Tutto (e di più) sulla madre: al Lido Almodóvar si ripete

Troppo su mia madre. Pedro Almodóvar apre la 78esima Mostra di Venezia con Madres paralelas, ma patisce qualche problema di convergenza: di tutto più che un po’, dai desaparecidos vittime della Guerra civil allo stupro non denunciato, dal femminismo stampato su maglietta alla morte in culla, il paso doble della sodale Penélope Cruz e della rivelazione Milena Smit è più programmatico che sentito, più esibito che indagato.

Riconquistato in pianta stabile dal Lido, a spese di Cannes, dopo il Leone d’Oro alla carriera del 2019 (ieri è toccato a Roberto Benigni) e il corto The Human Voice dell’anno scorso, Pedro si cimenta su tre madri – va aggiunta quella refrattaria di Aitana Sánchez-Gijón – neanche fosse Dario Argento. Anziché lacrime, sospiri e tenebre celebra una imperfezione esistenziale che invero sullo schermo pare un compitino in bella copia: Penélope è bella, Milena anche, il dolore pure. Più interessante del parallelismo materno orizzontale di Cruz e Smit è quello verticale ovvero generazionale, in cui il lascito di madre in figlia è tangibile, pregnante e parla allo spettatore: non solo dei corpi dalle fosse comuni, la riesumazione dei sentimenti. Non c’è da stupirsi che per lo stesso Almodóvar siano Storia e Memoria il cardine del film, che non mancherà di irritare fascisti ed estrema destra: “Reagiscono a tutto in modo delirante, preferisco non pensarci: non perché rifiuti la battaglia, ma io e loro siamo condannati a non capirci. In Spagna c’è una situazione difficile, un partito che dice cose mai dette, anticostituzionali e illegali”. E la democrazia rimane incompiuta: “La storia recente è una questione in sospeso nella società spagnola, è difficile anche farci film, per esempio sull’Eta. C’è un debito morale enorme nei confronti dei desaparecidos. Il problema andava affrontato già nel 1978, non averlo fatto rende la legge sull’amnistia imperfetta: non ci ha consentito di andare avanti, e oggi è la generazione dei nipoti a chiederlo”.

Se nel mirino di Pedro finisce l’ex presidente Rajoy, che si vantò di aver destinato zero euro alla memoria storica, di politica parla anche Isabelle Huppert, agguerrita sindaco di banlieue ne Les promesses di Thomas Kruithof. In apertura di Orizzonti, confessa: “Non ne sono affascinata, ma tutto è politica: non si può sfuggire. Essere politici è qualcosa che ha a che fare con i sentimenti”.

Che vita agra, Bianciardi. Dalla Maremma a Milano

Milano viveva la frenesia del miracolo economico e veniva raccontata, da destra e da sinistra, con esaltata eccitazione. Davanti alla Stazione Centrale veniva tirato su il Pirellone che diventava il simbolo di tanto fervore (c’è sempre un grattacielo pronto a essere icona delle glorie di Milano). Intanto, uno scrittore arrivato dalla Maremma, Luciano Bianciardi, scriveva in una lingua “dotta, popolare, carognona” una insormontabile invettiva contro la città: il romanzo La vita agra, che racconta di un anarchico che voleva far saltare per aria il “torracchione” milanese della Montecatini. È un successo immediato e inaspettato. “È la storia di una solenne incazzatura scritta in prima persona singolare”, spiegava l’autore, che dopo qualche anno di fama torna alle sue inquietudini.

È così inattuale, Bianciardi, sempre fuori luogo e fuori contesto, negli anni 50 e 60 della sua breve vita agra, da risultare infine lucido sull’allora e addirittura profetico sull’oggi. Incorreggibile provinciale, insegnante, bibliotecario, attivista culturale, fugge nel 1954 dalla sua Grosseto-Kansas City odiata e rimpianta per tutta la vita. “Piuttosto sventatamente partii per Milano, e mi bastò un mese per capire in che guai mi ero messo. Tutti i difetti dell’industria moderna e tutti i difetti del partito comunista”, scriveva a un amico nel 1964, “si mischiavano a formare un casino credo unico al mondo”. Controcorrente e anche contro se stesso. Lascia la Maremma e la moglie e va a lavorare in una nascente casa editrice, dove era stato chiamato da un miliardario antipatico e geniale, Giangiacomo Feltrinelli, dopo aver realizzato con Carlo Cassola un’inchiesta (I minatori della Maremma) sulla vita di chi lavorava nelle miniere della Montecatini. Il 4 maggio 1954 nei cunicoli della Ribolla muoiono 43 minatori. È per vendicare la loro morte che il protagonista della Vita agra vuole abbattere il “torracchione”. Vendetta mancata.

Milano viveva (anche allora) un momento magico. Si abbatteva e si ricostruiva. Con la scusa di sanare le ferite dei bombardamenti, si buttava giù anche ciò che non era stato bombardato, si allargavano vie, si raddrizzavano strade, si inventavano brutte piazze, si edificavano palazzi, in periferia si costruivano le Coree per chi arrivava dal Sud o dalle Venezie con la valigia di cartone. A Milano le industrie sfornavano acciaio e macchinari, auto e televisori, lavatrici e frigoriferi. Nascevano il Giorno di Enrico Mattei e Gaetano Baldacci, il Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, la Casa della cultura di Rossana Rossanda. Ma Bianciardi, con i suoi occhi disincantati e stranieri, vedeva l’omologazione, l’integrazione (che definiva “socialdemocratica”). Scriveva a un amico grossetano: “La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida”. Prevalente era la narrazione entusiasta del boom, sancito dal piano regolatore del 1953 di Giovanni Astengo, che disegnava la nuova città dando il via a quella che ancora si poteva chiamare “speculazione edilizia”. Quella Milano aveva (come oggi) tanti cantori. E un solo critico: Luciano Bianciardi, non addomesticabile, ribelle, malinconico, insofferente, disincantato. Non sopportava quello che Giorgio Bocca definiva “il patriottismo del miracolo”. Non sopportava gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti che “lavorano per la pubblicità di qualcosa”: “Questa non è la Milano che produce, ma quella che vende e baratta”.

Bisogna rileggere oggi il libro di Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, per capire la sorprendente, inattuale attualità di Bianciardi. Anche in politica. Nell’Italia bianca e democristiana, il suo mondo è inevitabilmente quello degli oppositori, della “gente che la pensa come noi, cioè i comunisti (anche senza tessera, la tessera non conta un accidente, anzi…)”. Ma il suo sguardo non tarda a fulminare i riti di partito e i suoi funzionari, che definisce “i preti rossi”. “Io sono anarchico nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità. Certi amici mi dicono: ‘Ma tu vuoi la luna, allora!’ e io rispondo sì: voglio la luna, non quella degli astronauti. Quella di Leopardi, come luna, grazie al cielo già ce l’ho”.

A Milano vive a Brera, allora quartiere popolare, dividendosi tra il bar Giamaica di mamma Lina e dei pittori scapigliati, e le misere camere affittate e spartite con giovani fotografi che si chiamavano Ugo Mulas, Mario Dondero. Frequenta le trattorie dove si può mangiare a credito, lo sferisterio di via Palermo dove si gioca alla pelota basca. Sempre senza soldi, dal lunedì al sabato lavora ferocemente (ancor più dopo il licenziamento dalla Feltrinelli) a tradurre libri, 120 in pochi anni, tra cui i due Tropici di Henry Miller. Solo la domenica si dedica ai suoi libri, una decina, tra cui Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), La vita agra (1962). Lo aiuta Maria, giovane comunista che lascia il suo lavoro alla Cgil di Roma per raggiungerlo a Milano e stare al suo fianco anche quando la convivenza diventa difficile, quando i bicchieri di grappa giallina diventano troppi e minano irrimediabilmente il fegato. Bianciardi lentamente si uccide. “C’è chi sta male perché beve, ma lui beveva perché stava male”, dice a Corrias il suo amico Cesare Vacchelli. Inseguendo il mito di una vendetta mancata e impossibile, invece che il “torracchione” della Montecatini, Bianciardi abbatte se stesso.

“Caro amico, non credo ai tour letterari: meglio i banchetti”

Carissimo amico, sono qui a Parigi da 5 giorni un po’ stanco della grande città. Principale premio al mio viaggio l’articolo di Thérive che mandai alla signora Marangoni e che Lei certo avrà visto. È del 4 Febbraio ed io lo scopersi solo ora. Io non credo molto nell’importanza dei viaggi letterarii. Molte persone fanno molte cose per rendersi gradevoli. Resto qui almeno sino a Mercoledì giorno in cui c’è un banchetto in mio onore al Pen Club. Oggi vidi quel Suo simpaticissimo amico ch’è Nino Franck. Scriverà di me sulle Nouvelles Litt. Mi disse che è occupato con la traduz. di Suoi versi. Ciò mi fa un grande piacere ma mi gira la testa pensando alla difficoltà dell’opera. Che Dio l’aiuti e che la sua traduz. possa perciò esserle utile.

Da mia moglie tanti saluti. Mi ricordi caramente a tutti gli amici di Firenze e specialmente Carocci e Loria. Tante volte io penso a Franchi ch’io appena intravvidi e cui sono sempre tanto grato per il suo dolce, caro articolo di cui alcune note mi risuonano nell’orecchio a incoraggiarmi e rasserenarmi. Venne il momento di partire inaspettato quando io sempre m’aspettavo di rivederlo.

Forse s’imprenderà ora la traduzione di Senilità. Qui tutti lodano la traduzione di Michel. L’ho incontrato. Se sapesse che timida figura da asceta. È in procinto di pubblicare un’opera sull’Alberti filosofo cui attende da 7 anni. Conosce tutto il meglio che si fa da noi. Ma devo parlargli ancora. Mi pare non abbia nominato Pea. Il quale – lo scommetto – è ancora a Trieste proprio nei pochi giorni in cui io non ci sono.

Saluti cordiali, caro amico.

Suo devotissimo

Italo Svevo

10 marzo 1928

“Sono poeta mio malgrado: un uomo arreso ai fatti”

Quarant’anni fa, poco dopo le 21 di sabato 12 settembre 1981, Eugenio Montale moriva in una camera dell’ospedale San Pio X di Milano. Poco prima, al medico Massimo Sher, il poeta ligure (era nato a Genova nel 1896) disse di volere acqua perché aveva la “gola arsa”. Il dottore avrebbe ricordato: “Mi è parso molto bello che abbia usato l’aggettivo ‘arsa’, invece di dire come tutti ‘secca’”.

L’arsura è un tema ricorrente nei versi del premio Nobel per la letteratura (nel 1975). A Italo Svevo, nel 1926, aveva scritto: “Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo”. Di Svevo, al secolo Ettore Schmitz (1861-1928), è anche la lettera inedita all’autore di Ossi di seppia che viene pubblicata nel primo numero dei Quaderni montaliani (e qui accanto in anteprima, ndr), la nuova rivista di Interlinea che, “in occasione del quarantesimo dalla scomparsa, nasce dall’interesse di un gruppo di studiosi e amici… nel nome di Montale”. Un primo numero assai ricco, questo, che propone molti inediti, tra cui immagini, l’epistolario con Ugo Ojetti e una conferenza del 1947 mai pubblicata: “Avrei considerato me nell’atto di parlare di me stesso come un personaggio del mondo della noia, come un prezioso ridicolo, indegno d’ogni attenzione e considerazione… Perché io sono, e non a caso ho intitolato queste confidenze, ‘poeta suo malgrado’, un uomo che è giunto alla poesia (o a qualcosa che taluni hanno creduto poesia) senza esserselo proposto deliberatamente e quasi senza saperlo… Un uomo che si è semplicemente arreso a certi fatti”.

Scrive Gianfranca Lavezzi che la lettera di Svevo, spedita dall’Hotel Savoy di Parigi, era “rimasta tra le carte di Montale custodite da Gina Tiossi”, l’amata governante, e “da lei liberalmente donate al Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta dell’università di Pavia”. Si tratta probabilmente “dell’ultima lettera (senz’altro l’ultima conosciuta finora) inviata da Svevo a Montale”. Ed è pure, “la prima inviata dal triestino a Montale in cui ‘Italo Svevo’ prende il posto di ‘Ettore Schmitz’. Nell’epistolario sveviano lo pseudonimo viene usato per la prima volta in una lettera del 17 novembre 1927 diretta al suo traduttore, Paul-Henri Michel; a partire da questa data, Svevo firma a volte con il nome anagrafico a volte con lo pseudonimo”.

Il rapporto fra l’autore di La coscienza di Zeno e il poeta genovese fu molto stretto. Montale fu uno dei letterati, come James Joyce, che s’impegnarono per fare scoprire e conoscere l’opera del grande narratore triestino. E nel 1925, dopo avere raccolto l’invito dello scrittore e critico Bobi Bazlen a leggere i libri di Svevo, scrisse un saggio per la rivista L’Esame, intitolato Omaggio a Italo Svevo.

Nel numero d’esordio dei Quaderni montaliani, diretti dal professor Roberto Cicala, ci sono altri documenti di interesse. Nella corrispondenza con Ojetti, ad esempio, si riapre la vecchia questione della sua presunta iscrizione al Partito nazionale fascista (Pnf), peraltro da lui sempre negata. L’8 gennaio del 1940, infatti, scrisse: “Caro Ojetti, solo oggi, di ritorno a Firenze, leggo la Sua del 28 dic. Avrò presto, come tutti gli ex combattenti italiani, la tessera del Pnf, e in data 1925… Presto; ma quando? È ciò che non posso precisare. Ritengo, del resto, che se questa costituirà una difficoltà, non sarà neppure la maggiore. Perciò preferisco, per ora, non pensarci e non farmi illusioni”. Senna osserva che non esistono “allo stato attuale delle nostre conoscenze altri dati che consentano di attribuire al poeta una decisione in tal senso; anzi, ve ne sono semmai di contrari, che ribadiscono a più riprese il netto rifiuto di Montale per ogni tipo di tesseramento”.

La Ue si prepara a trattare, Draghi parla con Onu e Parigi

Alla fine con i talebani tratterà l’Europa. In forme spurie, semi-clandestine, mascherate da rapporti tecnici, ma ci tratterà. Perché senza i talebani è difficile impostare sia il soccorso umanitario, sia il controllo dei competitor geopolitici.

Così non desta sorpresa – se non per qualche integralista ancora appassionato alla guerra a oltranza – che il direttore generale per l’Asia e il Pacifico del Servizio europeo per l’azione esterna, Gunnar Wiegand, in audizione alla Commissione Affari esteri del Parlamento europeo abbia affermato: “Non ci sono dubbi sul fatto che dobbiamo impegnarci con i talebani, cercare di comunicare con loro, cercando di influenzarli, senza affermarci per riconoscere questa nuova formazione, né avere relazioni internazionali ufficializzate”.

L’idea è quella di un’ambasciata della Ue, magari solo tecnica, il cui obiettivo sarebbe quello di “evitare gravi disastri umanitari” e “affrontare la crisi umanitaria in Afghanistan per evitare una crisi migratoria”.

Chi non ha smesso di trattare sono gli Stati Uniti, che continueranno a evacuare americani sotto la guida del Dipartimento di Stato. L’Europa si vedrà oggi e domani in Slovenia a livello di ministri degli Esteri (presente Luigi Di Maio) e lavorerà soprattutto sulla questione umanitaria oggetto anche della telefonata avuta ieri da Mario Draghi con il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, mentre stasera si svolgerà a Marsiglia il vertice con Emmanuel Macron. Draghi vuole il via libera a un G20 straordinario e sta quindi concordando l’agenda. Telefonata chiave sarà però quella con Xi Jiping: senza la Cina il G20 non avrebbe senso. E così si torna alla geopolitica.

“Suonavamo perfino in guerra. Ora inizia il Medioevo afghano ”

Aryana Sayeed, pop star di Kabul da milioni di fan, ha smesso di cantare e parla: “Avete abbandonato il mio popolo e nel mio Paese sono tornati tempi oscuri”. Via whatsapp risponde mentre insieme a suo marito e agente Hasib vola da Amsterdam a Istanbul. Se prima la sua voce era quella della cantante afghana più nota all’estero, adesso è diventata “la voce degli afghani senza voce”. Dopo la sua rocambolesca fuga all’aeroporto, i primi schermi su cui è apparsa per accusare i talebani, che hanno vietato la musica e silenziato perfino le radio, sono stati quelli degli studios americani.

La foto che lei si è scattata mentre partiva sul cargo Usa è diventata virale.

Noi siamo scappati quando una folla ha tentato di mettere le mani su tutto quello che poteva per le strade, mentre i talebani sparavano in aria in maniera casuale. Nessun civile afghano si aspettava la presa immediata della città. Personaggi tv e volti noti erano bersagli diretti dei talebani, io e mio marito compresi. Avevamo un volo prenotato su un aereo che in quei giorni non è mai partito: i civili disperati si sono riversati all’aeroporto. Alcuni sono partiti senza documenti o passaporto, altri erano armati.

Per la sua attività musicale lei è stata minacciata più volte di morte.

Per molti anni, da quando ho fatto ritorno da Londra in Afghanistan nel 2001, ho ricevuto molte minacce di morte, ma non da membri affiliati a un solo gruppo, mi riferiva la polizia che mi proteggeva. La ragione è rintracciabile nel fatto che tutti gli estremisti nel nostro Paese, ovviamente talebani inclusi, non credono che le donne possano fare anche solo un passo fuori di casa da sole. Alcuni volevano che morissi, altri che lasciassi il Paese o smettessi di cantare. Mentre mi dicevano queste cose, sono diventata imprenditrice.

Dopo 20 anni di conflitto, al potere ci sono i talib.

Negli ultimi anni molti progressi sono stati fatti in molti campi, parlo anche di arte e musica. Questo ventennio però è costato molti sacrifici e molte vite per ottenere un grado di civiltà minima e adesso mi riferisco ai diritti di milioni di donne afghane. Perfino prima dei talebani, prima della guerra civile scoppiata quando cadde il governo supportato dai sovietici, la musica era una parte delle nostre vite e della nostra cultura. Alla tv si cantava e si ballava, le note le sentivi alla radio.

I talebani hanno ucciso il comico Nazar Mohammed. Poi hanno brutalmente assassinato il cantante Fawad Andarabi.

Tutta la comunità musicale afghana è in stato di choc. Siamo ritornati in pochi attimi indietro di secoli, al Medioevo. Sono tempi oscuri di regole che credevamo relegate al passato. Migliaia di persone che lavoravano nel business della musica adesso sono rimaste senza lavoro per sfamare i loro figli. Ma ho io una domanda: la comunità internazionale abbandona milioni di innocenti tra le mani di individui crudeli? Voi riuscite davvero a immaginare un Paese dove non esiste la musica?

Vent’anni persi: l’economia a Kabul non è mai partita

“Il rischio di fare la cosa sbagliata perfettamente”: è il titolo del rapporto di giugno diffuso dal Sigar, l’Ispettorato Usa sull’Afghanistan. Potrebbe però essere anche il titolo con cui riassumere quanto fatto in un ventennio dagli americani e loro alleati nel Paese. In quel dossier – e in quelli successivi di luglio e di metà agosto – il Sigar elenca le difficoltà affrontate, dalla corruzione a ogni livello alla mancanza di personale preparato, ma anche i gravi errori organizzativi e strategici dell’intervento.

Una parte di Afghanistan è cambiata in questi anni. Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che dal 2001 il Pil pro-capite è cresciuto di 4 volte, negli ultimi dieci anni l’inflazione è rimasta contenuta nell’obiettivo a una cifra della banca centrale, l’aspettativa di vita è passata da 56 a 64 anni, la capitale Kabul è passata da 1,5 a oltre 4 milioni di abitanti e si è dotata di servizi e infrastrutture moderni. Ma l’Afghanistan è rimasto anche uno tra i Paesi più poveri al mondo. Con le sanzioni al vicino Iran e poi il diffondersi della pandemia, l’economia ha visto ridurre sensibilmente la crescita, diventando negativa nel 2020, e il Paese si è trovato ad assorbire più di un milione di immigrati di ritorno dagli Stati limitrofi. Il Pil pro-capite è iniziato a diminuire. Secondo i dati della Banca Mondiale circa la metà dei 40 milioni di abitanti si trova sotto la soglia di povertà, meno di un dollaro al giorno. L’economia sommersa è ancora prevalente e solo una minima parte delle transazioni avviene per via bancaria, mentre il 90% segue ancora la pratica della Hawala. La Banca centrale afghana stima che solo il 4% delle imprese finanzia le spese in conto capitale attraverso prestiti bancari. È un’economia che non esporta quasi niente, principalmente prodotti agricoli (tra cui l’oppio) e tappeti, per meno di un miliardo di dollari. Nonostante i fondi spesi, la continua instabilità, il rischio di attentati e la sfiducia verso le istituzioni, non hanno consentito di creare un embrione di struttura manifatturiera in grado di esportare e servire il mercato interno. La popolazione dipende per i consumi più evoluti dalle importazioni, che contano il 40% del Pil.

Il Sigar ha stimato che oltre un terzo delle infrastrutture realizzate grazie ai 150 miliardi di dollari del fondo di ricostruzione è andato in interventi del tutto inutilizzabili dal sistema economico afghano. Di tutti i soldi spesi (900 miliardi secondo dipartimento della difesa, 2mila per la Brown University), quello che resta è un’economia da 20 miliardi di Pil, con un settore privato arretrato e uno Stato che per compiere l’80% delle spese necessita degli aiuti dall’estero. Un mare di soldi che è piovuto troppo in fretta per le capacità del sistema afghano di poter impiegarlo, senza obiettivi strategici, perso in parte in corruzione, ruberie e scandali, come quello legato al collasso della Kabul Bank del 2010 che ha coinvolto il fratello dell’ex presidente Karzai.

Il futuro potrebbe esser perfino peggio. Le riserve valutarie della Banca centrale, 9 miliardi di dollari, pari a più di un anno di importazioni, sono congelate nei conti internazionali e inutilizzabili senza il consenso americano. L’arrivo di banconote in dollari, essenziali per un’economia che è in pratica dollarizzata, è sospeso. Anche il Fmi e Banca Mondiale hanno congelato i fondi. Le banche, chiuse dal 15 agosto, hanno riaperto solo parzialmente, e per frenare l’assalto dei correntisti hanno autorizzato i prelievi solo per 200 dollari la settimana. Il cambio è sceso del 10% da inizio agosto. Senza riserve valutarie e aiuti dall’estero, anche spingendo la produzione di oppio e derivati (che è aumentata negli ultimi anni), il deficit commerciale rimane troppo ampio e potrà esser chiuso solo comprimendo i consumi talmente forte da far scendere le importazioni a livello delle esportazioni. Una serie di misure “draconiane”, da raggiungere o con una feroce austerità o con l’iperinflazione che schianterebbero l’economia. Così oltre alla pandemia, ai conflitti e alla siccità, gli afgani affronteranno anche la crisi economica. Per evitarla, il nuovo governo avrà bisogno di interlocutori internazionali che coprano i trasferimenti e i fondi bloccati. Che siano Cina, Russia o gli Usa è presto per dirlo. Di certo dovranno scendere a compromessi.

Boeing, Lockheed Martin&C. I veri signori della guerra Usa

Chi lo dice che la guerra non è mai un buon affare? che ne escono sconfitti, vincitori e vinti? È vero per i poveri diavoli: perdite, dolori, devastazioni, ferite del corpo e dell’anima che ci mettono anni a guarire e che talora non guariscono mai. Parlando alla Nazione, l’altra sera, Biden ha ricordato il tasso di suicidi impressionante fra i reduci: solo nel 2005 – anno tragico – furono 6.256 i reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan che si tolsero la vita, 17 al giorno in media, più del doppio del resto della popolazione statunitense.

Ma la guerra è un grosso affare per l’apparato militare-industriale, per chi produce armi ed equipaggiamenti che le battaglie consumano e per le società che forniscono alle forze armate servizi e contractor , veri mercenari.

The Intercept, webzine di giornalismo d’inchiesta, ha calcolato che chi investì 10 mila dollari nell’industria della difesa prima del 17 settembre 2001, quando l’allora presidente George W. Bush fu autorizzato a usare la forza per rispondere agli attacchi terroristici dell’11 settembre, si ritrova oggi sul conto oltre 97 mila dollari, il 58% in più dei 61 mila dollari di un investitore nell’S&P500 di Wall Street – le 500 maggiori aziende quotate alla Borsa di New York –. E, in mezzo, in questi vent’anni, c’è stata la crisi finanziaria del 2008/2009, che questo settore non ha quasi risentito.

A tirare forte sono i cinque maggiori assegnatori delle commesse del Dipartimento della Difesa Usa, con rendimenti annuali diversi gruppo per gruppo, ma sempre altissimi. Parliamo di Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grummann. In testa alla classifica dei rendimenti, Lockheed Martin – i 10 mila dollari del 2001 sono oggi oltre 133 mila –, Northrop Grumman – quasi 130 mila – e la Boeing – oltre 107 mila –. Nota The Intercept: “La guerra in Afghanistan non è stata un fallimento, anzi è stata uno straordinario successo” per quanti ci hanno speculato su e, in particolare, per i consigli di amministrazione dei cinque giganti dell’apparato militare-industriale, in cui spesso siedono generali in congedo. Una storia a parte la meriterebbe la Blackwater, oggi Academy, un’azienda militare privata fondata nel 1997 da Erik Prince un ex ufficiale dei Navy Seals, che ha poi cambiato più volte ragione sociale, anche per sottrarsi alla cattiva nomea derivatale da un episodio del 2017: alcuni suoi dipendenti uccisero 17 civili iracheni e ne ferirono una ventina a piazza Nisour a Baghdad. Quattro responsabili di quella strage furono poi condannati negli Stati Uniti, ma prima di lasciare l’incarico, nel dicembre 2020, il presidente Donald Trump concesse loro la grazia. E un capitolo spetterebbe pure alla Halliburton, società attiva nell’energia e nelle costruzioni, di cui Dick Cheney era vicepresidente nel 2000, quando divenne vicepresidente degli Stati Uniti, e che sarebbe stata favorita dall’Amministrazione Bush-Cheney nell’assegnazione di appalti e commesse per le forze armate in Iraq e in Afghanistan. Adesso, buona parte delle armi e degli equipaggiamenti acquistati per la campagna d’Afghanistan o, peggio ancora, per addestrare e dotare di mezzi le forze armate locali sono rimasti in Afghanistan e sono finiti nelle mani del talebani. Che, a vederli martedì aggirarsi per l’aeroporto di Kabul vestiti da marines e su jeep da marines sembravano dei marines: poi si dice che l’abito non fa il monaco.

Il Pentagono insiste che attrezzature e mezzi lasciati all’aeroporto sono stati demilitarizzati e messi fuori uso. Il portavoce John Kirby ha commentato così le immagini provenienti da Kabul: a jeep ed elicotteri, i talebani “possono girarci attorno quanto vogliono, ma non possono né partire né volare”. “Abbiamo lasciato in funzione solo un camion dei vigili del fuoco e un carrello elevatore, così che lo scalo possa restare operativo”.

Questo può valere per i mezzi dei militari Usa. Non per quelli dell’esercito afghano. Come dimostra l’elicottero sequestrato dai talebani in volo su Kandahar con un uomo che, appeso al verricello, sventola una bandiera jihadista.

Torna il Ruby-ter, B. di nuovo in ospedale: “Aritmia cardiaca”. L’udienza già a rischio

Di nuovo al San Raffaele: Silvio Berlusconi ieri mattina è entrato nell’ospedale milanese, dove è stato sottoposto a una visita di controllo durata circa un’ora ed è poi tornato a casa nella sua villa di Arcore. Un appuntamento programmato, hanno riferito fonti vicine al leader di Forza Italia, che continua a soffrire di aritmia cardiaca e degli strascichi del Covid. Berlusconi, che compirà 85 anni il 29 settembre, negli ultimi tempi è stato più volte ricoverato in seguito a malori o per accertamenti e controlli. L’ultima volta era stata la settimana scorsa, giovedì 26 agosto, quando era entrato al San Raffaele, da cui era stato poi dimesso il giorno seguente.

Questi stop-and-go sanitari hanno influito sul percorso processuale di Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari nei tre filoni del Ruby ter, dove è accusato di aver pagato una trentina di testimoni per farli rendere dichiarazioni false e addomesticate sulle feste del bunga-bunga ad Arcore, nell’estate del 2010. Nel dibattimento in corso a Roma e in quello di Siena la posizione di Berlusconi è stata già stralciata, le udienze rinviate per motivi di salute e il processo è continuato solo per i sui coimputati. A Siena il leader di Forza Italia ha saltato otto udienze e per lui il processo è stato rinviato al 21 ottobre. Intanto il dibattimento senese si è concluso, con una condanna a 2 anni per falsa testimonianza, per il suo coimputato Danilo Mariani, il pianista che allietava con la sua musica le serate del bunga-bunga, il quale aveva dichiarato sotto giuramento che i partecipanti ai festini di Arcore non compivano alcun tipo di atto sessuale.

Il processo del filone principale, in corso a Milano, riprenderà l’8 settembre. Era fermo da tre mesi e mezzo per uno stop concesso dal Tribunale il 26 maggio dopo che erano saltate ben quattro udienze di seguito. Quel giorno, il Tribunale aveva rigettato la proposta della Procura di stralciare (come avvenuto a Roma e Siena) la posizione dell’ex premier per poter proseguire il dibattimento per gli altri 28 imputati, ragazze e invitati alle feste di Arcore accusati di aver mentito ai giudici.

L’8 settembre si capirà che cosa sarà del processo milanese a Berlusconi e se saranno riproposte, da una parte, le richieste da parte della difesa di legittimo impedimento per rinviare le udienze; e, dall’altra, le richieste dei pm di stralciare la posizione di Berlusconi e magari anche di realizzare una perizia sulle sue condizioni di salute.

Milano, il video del vortice di fuoco e cenere. Mahmood: “Qui in molti hanno perso tutto”

Prima si vede il fumo uscire alla base dell’edificio. Poi, in una manciata di minuti, la Torre dei Moro si trasforma in un vortice di fuoco e cenere dal quale precipitano detriti incandescenti. La scena drammatica davanti alla quale si sono trovati i residenti della zona è stata immortalata da alcuni video finora inediti. I pochi secondi registrati mostrano la velocità con la quale è divampato l’incendio del grattacielo di via Antonini a Milano domenica scorsa. Lo spazio d’aria tra il cappotto termico e la struttura avrebbe fatto da “effetto camino” per le fiamme, facendo propagare l’incendio dai piani alti fino alla base dell’edificio. Le immagini sono state depositate agli atti della Procura milanese che ora indaga sulle società che hanno costruito il grattacielo nel 2011. Dagli accertamenti dei Vigili del Fuoco sarebbe la Aza Spa di Fiorenzuola d’Arda (Pc) la ditta che ha realizzato i pannelli esterni. Tra gli sfollati c’è il cantante Mahmood, che ieri ha scritto su Instagram: “Per molti dei miei vicini sarà più dura ricominciare, non tutti possono ricostruire una vita in pochi giorni e riavere ciò che avevano prima”.