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Gli strafalcioni di Salvini sull’attentato a Kabul

Scusate, ma ho letto in un vostro post che l’intelligence Usa e Uk sono convinte che gli autori dell’attentato a Kabul siano dell’Is, mentre per Salvini sono stati i talebani. Quel che non capisco è: con che coraggio avete usato la parola intelligence e Salvini nella stessa frase?

Antonio di Pietro

 

Ha ragione: è un ossimoro.

M. Trav.

 

Con i talebani si deve dialogare, ma guai a dirlo

Gli attentati all’aeroporto di Kabul (tra le vittime anche un alto numero di miliziani talebani), dimostrano che il vero pericolo per l’Occidente è rappresentato dall’Is e non dai talebani, con i quali in nome e per conto del realismo politico, bisogna dialogare. Conte da autentico statista ha sostenuto tale posizione ed è stato massacrato dai media italioti, che per l’ennesima volta hanno manifestato la loro vera essenza di analfabeti politici. Stendiamo, altresì, un velo pietoso sulle deliranti dichiarazioni del “cucuzzaro” destrorso, compresi i nani di “Italia più morta che Viva”, folgorati sulla via del “rinascimento arabo”.

Maurizio Burattini

 

Gli integralisti non sanno apprezzare la bellezza

I talebani proibiscono la musica e la visione del volto delle donne. Cioè la fonte delle emozioni più forti che l’armonia può suscitare. Talmente forti da annullare la paura, l’elemento fondativo di ogni religione fondamentalista. Il cristianesimo ha avuto momenti simili di mortificazione del “bello che distrae”, con l’imposizione del velo alle donne in chiesa e la loro antica segregazione nei matronei. Mentre la musica non è stata vietata, ma costretta in un filone sacro – per lo più “gregoriano” – severo nelle voci prevalentemente maschili, in armonia basiche senza l’accompagnamento di strumenti (“a cappella”). L’impatto con la laicità con il mondo cattolico ha sciolto questa diffidenza tra elevazione spirituale e piacere dell’armonia. Quanto ci vorrà all’Islam più severo per non perseguitare più il bello?

Massimo Marnetto

 

La scienza procede per errori (non dogmi)

Non sono un no-vax, ma con il ragionamento di alcuni lettori per cui i no-vax dovrebbero pagarsi le cure sanitarie se ricoverati, penso che anche chi fuma, beve, non mette le cinture e provoca un incidente, dovrebbe pagarsi le cure. Siamo alla follia, a parte chi strilla senza grosse motivazioni, penso che chi solleva dei dubbi faccia un enorme favore alla scienza che su dubbi e sperimentazione si basa. Non su atti di fede a prescindere, che ingrassano chi sta facendo miliardi di utili per gli azionisti e fregandosene degli altri.

Nanni Giorgio

 

Farmaci, confezioni e code ingiustificate

Ho 79 anni e da vari anni devo prendere, tutti i giorni, quattro farmaci per la pressione arteriosa. Purtroppo, il contenuto per scatola varia per ognuno dei farmaci, con il risultato che sono spesso in farmacia. Questa situazione, ripetuta per qualche decina di milioni di cittadini italiani, fa sì che le farmacie siano spesso intasate da utenti che magari devono acquistare un solo farmaco. Suggerisco quindi alle case farmaceutiche italiane, di confezionare tutti i farmaci che hanno un lungo utilizzo nel tempo, in scatole da 30 compresse. In tal modo, alcuni milioni di cittadini risparmieranno un bel po’ di tempo e non intaseranno le farmacie.

Sergio Cannaviello

 

L’assenza di Calenda alla festa del “Fatto”

Caro direttore, appena letto la ferale notizia dell’assenza di Carlo Calenda alla festa del Fatto sono impallidito e, subito, sono stato preso da un attacco d’ansia. Devo dire che lei, purtroppo, sottovaluta l’importanza della presenza di Calenda. Non si rende conto di cosa significhi, tra un intervento serio ed un altro, una pausa per poter raccogliere le idee e riflettere. Un momento in cui non si dice nulla che aiuta la concentrazione e la preparazione all’ascolto dell’intervento successivo. lo non so se riuscirò a sopportare la mancanza di quella sensazione di degrado cognitivo e regresso conoscitivo procurato da ogni intervento di Calenda. La prego di non sottovalutare mai più il ruolo di pausa nel dibattito politico che Madre Natura ha sapientemente donato a quest’uomo.

Gianluca Pinto

 

Scuole di partito: Renzi come Gambadilegno

Leggo che Renzi caccia Bossi da Ponte di Legno e apre la sua Scuola politica. Cioè, Iv che fa formazione politica mi ricorda un numero di Topolino in cui Pietro Gambadilegno teneva corsi alla Banda Bassotti. Ovviamente qui Renzi farebbe da direttore. Ogni commento è inutile.

Diego Tummarello

Crisi afghana. Roma salva i profughi con l’arte: borse di studio agli esuli

Gentile redazione, col precipitare della crisi in Afghanistan, l’Onu ha evidenziato il pericolo di rappresaglia che artisti e intellettuali stanno correndo. Si è riproposto in tutta la sua crudezza lo scontro tra iconofilia e iconoclastia che va avanti da millenni. Una volta occupata Kabul, sono stati cancellati i volti femminili dai cartelloni pubblicitari della città, è stato imposto il silenzio e sono cominciate le epurazioni. Se ben ricordate, sei mesi prima dell’attentato alle Torri Gemelle, furono distrutte le statue dei Buddha Bamiyan. Sembra quasi di poter rilevare un crescendo, dove prima vengono colpite le immagini, e poi i corpi veri. Come dare una spiegazione accettabile, dal nostro punto di vista di studiosi dell’arte, alla dicotomia irriducibile tra iconoclastia e iconofilia?

Tutto sembra ruotare intorno a una diversa idea di corpo e della sua rappresentazione. Del resto, mille anni fa, il matematico arabo Alhazen visse sulla propria pelle il conflitto tra costrizione religiosa e ricerca scientifica. Fu lui a inventare il concetto di perspectiva e a progettare la camera oscura. Ma occorreranno 500 anni affinché il Rinascimento adotti la prospettiva e quasi 900 affinché in Occidente sia costruita la macchina fotografica. Segno che le invenzioni cadono sempre in un contesto culturale e simbolico che ne condiziona lo sviluppo.

In Europa, da cento anni, si registra un’evoluzione in campo artistico che libera l’arte dal suo antico scopo rappresentativo e predilige l’evento. Se guardiamo oltre l’immagine, troviamo la teoria futurista dell’evento. E con essa, la nascita di un nuovo valore: la profondità dell’esperienza emotiva e cognitiva di ognuno di noi. Un valore che preannuncia la possibilità reale di integrazione tra le persone, attraverso l’arte e la conoscenza.

È possibile, con la teoria dell’evento, costruire un ponte tra Occidente e Oriente? Io credo di sì, e credo che i protagonisti della formazione artistica, in tutte le declinazioni possibili, potranno essere i costruttori di questo ponte. A riprova di ciò, mentre si acuiva la crisi afgana, il mondo dell’arte si è unito e ha proposto una sinergia tra le istituzioni Afam, Comune di Roma e i più importanti musei e fondazioni della città mettendo a disposizione degli esuli spazi, borse di studio degli studenti e contratti per i professori.

Tramite l’arte, le modalità di accoglienza e integrazione si attueranno in tempi rapidi e con effetti più profondi. E Roma, dove si intrecciano epoche, pensieri e visioni del mondo, costituirà il terreno ideale su cui fondare la via per l’integrazione. Ciò porterà Roma ad assumere una leadership in campo culturale e umanitario senza precedenti, permettendole di riappropriarsi del titolo di Caput Mundi non più su base militare, ma sulla base dell’Arte.

Miriam Mirolla

“Tsunami” Zanardi, noi ti aspettiamo

C’è una bicicletta vuota che è passata nella testa di ognuno di noi in questi giorni. È la handbike di Alex Zanardi, quell’oggetto che lo ha visto rinascere, lo stesso che lo ha visto cadere di nuovo, quel maledetto 19 giugno in una staffetta che si è trasformata in tragedia. Obiettivo Tricolore, una fantastica idea per lanciare un segnale di ripartenza e dare voce a Obiettivo 3, l’associazione voluta da Zanardi stesso e sostenuta dagli sponsor per far uscire a pedalare fuori da casa nuovi ragazzi e magari tre di questi portarli alle Paralimpiadi. Per Tokyo 2020 sono partiti in quattro e ieri è arrivata la prima medaglia dell’associazione, il bronzo di Katia Aere, nemmeno a dirlo: nel paraciclismo.

Pur senza esserci fisicamente, tsunami Zanardi ha diffuso bene la propria motivazione, spingendo atleti e staff della onlus a continuare nonostante tutto. A partire dal direttore sportivo Pierino Dainese non ci si è fermati nemmeno per idea e si è mantenuto vivo più che mai il grande sogno del campione dalle mille identità. Perché quando c’era avvitava bulloni, cambiava pezzi e dava consigli ai compagni di squadra e alle loro handbike. Come fa un fratello maggiore che sa bene cosa si prova a passare per quella strada che lui ha percorso tempo prima. Conosce il pugno in pancia che ti dà la disabilità. E sa ancora meglio come farsi forza e rendere il dramma un’autentica opportunità.

Manchi Alex, ai Giochi e alle persone in generale. Mancano i tuoi risultati, le tue interviste e la tua ironia. Soprattutto c’è un gran bisogno di quell’approccio costruttivo a prescindere che solo tu sai trasmettere così bene, di fronte a qualsiasi cosa.

“Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”, dicevi nel 2001. Chissà che non te ne inventi una delle tue e torni pronto per Parigi 2024.

 

*Pluricampione mondiale ed europeo di sci nautico, presidente ad honorem di Piramis Onlus e fondatore di Real Eyes Sport

Quant’era svizzero l’Afghanistan…

Leggendo i giornali e guardando le tv nelle ultime, drammatiche settimane, ci siamo convinti che l’Afghanistan occupato dagli Stati Uniti e dagli altri eserciti occidentali e amministrato da un governo fantoccio fosse una specie di paradiso: pace, tranquillità, diritti umani, scuole, ospedali, donne al lavoro, vivace comunità Lgbtq+. Un po’ San Francisco, un po’ la Svizzera tedesca, ma in mezzo all’Asia. Tutto rovinato dal ritiro delle forze di occupazione che finora avevano faticosamente portato la civiltà in quelle lande precedentemente inospitali e arretrate. Certo, c’era questa cosa che qui e lì – pareva di intuire – ci fossero intere province, metà e più del Paese, controllate dai Talebani o dagli altri signori della guerra afghani in cui l’occupazione femminile, per così dire, languiva, ma tutto sommato la situazione andava migliorando: altri tre o quattro decenni e avremmo avuto una Silicon Valley nel Pashtunistan. Grande è stata dunque la nostra sorpresa nello scoprire il rapporto al 30 giugno dell’Unama (United Nations Assistance Mission in Afghanistan) sulle vittime civili durante il ventennio d’oro: dal 2009, cioè da quando la missione Onu ha iniziato a contarle, si registrano 19.142 morti e 35.899 feriti (rispettivamente 1.659 e 3.524 nei primi sei mesi del 2021). Nota bene: parliamo solo delle vittime civili e solo di quelle che Unama è riuscita a verificare autonomamente, il che significa che morti e feriti sono stati molti, molti, molti di più. Per i tassonomici: quest’anno il 25% delle vittime censite sono state causate dalle forze pro-governative (spesso bombardamenti), il 39% dai Talebani, il 16% da altre forze di opposizione, il 9% dall’Isis, l’11% da fuoco incrociato. Alle vittime andrebbero aggiunti almeno gli oltre 200mila afghani ancora profughi nel loro stesso Paese.

Avere un governo di tagliagole ignoranti e bigotti è una bruttissima cosa (anche se persino loro hanno qualche fan), ma quei morti e le loro tombe dovrebbero ricordare a tutti di che lacrime grondi, e di che sangue, la guerra, anche quella venduta come buona. Un fortunato slogan del passato diceva “combattere per la pace è come fottere per la verginità”: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato.

Spray per mucose: c’è la nuova arma

Nella lotta tra noi e SarSCoV2, è un proliferare di strategie dall’una e dall’altra parte. Abbiamo capito che il virus si aggancia alle nostre mucose con i suoi uncini di superficie (spike) e ciò ha determinato lo studio di vaccini che stimolano il nostro sistema immunitario a produrre anticorpi che li blocchino. Il virus si presenta con nuove varianti per aggirare gli ostacoli che gli poniamo ed ecco anticorpi monoclonali capaci di bloccare anche questi virus mutati, se somministrati in una fase precoce. Recentemente, alla luce anche dell’esperienza maturata nella lotta contro il virus dell’influenza del tipo H1N1, si è pensato a una nuova arma. La premessa è data dal fatto che gli attuali vaccini anti-SarSCoV2 non stimolano l’immunità a livello delle mucose. Sono queste, grazie a immunoglobuline che sono capaci di produrre, le nostre prime difese. Ciò, però, non avviene per tutti i batteri e virus che possono attaccarci. È questo il motivo per cui, in alcuni casi, se si ha un nuovo contatto con il batterio o virus che già ci ha infettato precedentemente o per il quale siamo vaccinati, questo trova “la porta” d’ingresso aperta e veniamo reinfettati. Accade così per SarSCoV2: è stata stimata una percentuale pari al 30% di vaccinati che si infetta anche dopo una doppia dose. Gli attuali vaccini anti Covid-19 agiscono infatti stimolando l’immunità a livello sistemico, e non stimolano una risposta difensiva a livello delle mucose. Da ciò nasce lo studio di nuovi vaccini con formulazione diversa da quella intramuscolare. L’intuizione è di Ed Lavelle e Ross Ward, ricercatori del Trinity College di Dublino, secondo cui sono mature le conoscenze sulla risposta immunitaria nelle mucose e quelle sulle sostanze adiuvanti, capaci di potenziare l’azione dei vaccini. Di conseguenza, osservano, diventa possibile mettere a punto vaccini capaci di stimolare l’immunità nelle mucose. Secondo i dati più recenti dell’Oms, i sieri allo studio sono 294, 110 dei quali in fase di sperimentazione; quelli approvati nel mondo sono 12. Di questi, nessuno genera immunità nelle mucose. La nuova strategia in studio è usare la somministrazione spray per ovviare a questo gap. Diventano tante le nostre armi contro questa pandemia. Dobbiamo avere fiducia nel futuro. La vittoria è a un passo.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Complottisti, il vaccino è farli parlare

Negli anni ’90, il grande Mordecai Richler scrisse per “Playboy” un reportage dal titolo “Un mondo di cospiratori” che andrebbe riproposto come testo scolastico, e come podcast di sicuro successo, per spiegare di che pasta sono fatti i fuori di testa di ogni epoca e foggia. Dei fenomeni convinti che Charles Manson fosse un sicario al soldo del controspionaggio militare, che dietro il successo dei Rolling Stones c’era il “menticidio”, arma del Kgb per indurre al suicidio mentale i ragazzi americani, che Lee Oswald aveva una mira schifosa e lavorava nello spionaggio della Marina (come Nixon del resto), che i cosiddetti grandi della terra possono concedersi robuste dosi di alcol, droga e sodomia perché burattini dei veri reggitori del mondo, riuniti nella “minoranza sifilogiudaica”, e così vaneggiando. Narrazione che spiega l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, e i No-vax. I quali dopo avere annunciato sui “social” di voler mettere a ferro e a fuoco le stazioni ferroviarie, contro l’obbligo di green pass sui treni, alla vista della polizia sono spariti. Probabilmente rintanati sotto le gonne di mammà, come il leone da tastiera immortalato da Maurizio Crozza. Del resto, cosa aspettarsi da soggetti che hanno come cifra politica la codardia, quando insultano il prossimo coperti da un nickname, o quando spalleggiati dagli eroi di Forza Nuova picchiano i giornalisti? Adesso il direttore del “Foglio” teme che nella stagione dei talk show, i conduttori “possano far diventare più grandi di quello che sono i nuovi professionisti del complottismo”, e chiede di evitare che “alle opinioni no vax sia data la stessa dignità delle opinioni si vax”. Sarebbe ragionevole se non fosse che l’arma preferita dei cospiratori è il vittimismo (mutuato dagli ispiratori della destra sovranista), e che dunque costoro sarebbero ben contenti di denunciare censura e persecuzione, su ordine impartito dal potere rettiliano. Infatti, noi moriamo dalla voglia di ascoltarli, anche a lungo, lasciati liberi di esporre le loro sensazionali teorie. Senza però alcun contraddittorio (cosa c’è da contraddire?) e nel silenzio assoluto dello studio. Per poi vedere l’effetto che fa il vuoto spinto.

Solo il “capitale umano” può fermare la finanza mondiale

Oggi il lavoro non si chiama più lavoro. Si chiama capitale umano . Che strana situazione. L’epoca fordista, praticamente finita qui da noi, perdura in Cina e dintorni come fabbrica fordista globale manifatturiera ad alto contenuto di manodopera a costi stracciati. Ma, Gramsci insegna, è inevitabile, mettendo insieme tanti operai alla catena di montaggio, si stimola la presa di coscienza della classe operaia come classe in sé e per sé… Così capita che, nella Cina comunista , la proprietà (taiwanese) della FoxConn, megafabbrica dove si assemblano i prodotti Apple (e non solo), a fronte delle proteste operaie per rivendicare un miglioramento delle condizioni di lavoro, decida, d’emblée, di licenziare tutti e assumere robot. Qui sta il punto della discussione: il motore della storia è ancora la fabbrica fordista? Oppure sta nella bioproduzione di beni e servizi ad alto contenuto di conoscenza? Il cambiamento è epocale. L’urbanizzazione, funzionale allo sviluppo capitalista fordista, non serve più. Per produrre quanto serve alla vita delle persone, basta un buon programmatore e una adeguata stampante 3D. Il cibo è migliore se proveniente da produzione locale e di stagione. Perché non sono mai esistite le fragole a Natale. Non serve vivere ammassati vicino alla fabbrica per consentire al capitale di sussumere il plusvalore del lavoro umano. Serve vivere in posti vivibili. Abbiamo capito che, larga parte dei lavori non creativi e ripetitivi, sia manuali sia di concetto , saranno sostituiti da robot e software. Ma questo è, necessariamente, negativo? Il motore è cambiato. Il capitale che prevarrà nel futuro prossimo non è più quello finanziario, ma quello umano. Ma… come al solito, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

1) Come fermare la corsa folle del capitalismo finanziario basata sulla ossessione della crescita infinita? Se non la fermiamo il futuro è un disastro sociale e ambientale mai visto.

2) Chi, politicamente, rappresenta gli interessi del capitale umano? Il capitale finanziario è dotato di strutture poderose. Organizzate in modo quasi militare. La stampa, i vari media, i controllori e proprietari dei Big Data ci impongono la loro narrazione della realtà e ci costringono a vivere in un enorme supermarket. Eppure il mondo pullula di capitalisti umani, cioè di persone che vivono del proprio lavoro. Fino a quando consentiremo a pochi di possedere le chiavi della gabbia mentale nella quale siamo reclusi? Metaforicamente, ma neanche tanto, dobbiamo ricominciare a stampare la nostra moneta. Magari chiamandola euro. Per indicare non tanto prezzi, ma valori. Parlando non tanto di tempi, ma di tempo. Non di ritmi, ma di armonie. Non di velocità, ma di lentezza. In questo modo la vituperata Italia diventerà avanguardia rispetto a questioni che, nei prossimi anni, avranno sempre più valore: la qualità del paesaggio, l’abbondanza di posti dove vale la pena vivere, la dimensione umana delle città, la biodiversità sia naturale, sia umana (siamo ancora piemontesi, veneti, napoletani, siciliani), con tutta la ricchezza di culture che questo comporta. Nel mondo, dice il presidente di Confindustria nostrano, tale Bonomi, ci invidiano la qualità unica del nostro capitale umano, cioè la qualità del lavoratore italiano. Cioè la nostra qualità. Salvo poi dannarsi l’anima, il Bonomi, aiutato dal governo dei migliori, per aumentare le misure che favoriscono la precarietà, abbattono il costo del capitale umano e aumentano i profitti per il capitale finanziario. Ormai la situazione l’abbiamo capita. Sulla nostra pelle. Cambiare è più semplice di quanto sembri. Ci vuole un’organizzazione (su questo, diciamocelo, dobbiamo applicarci). Poi, basta un dito. Quello medio.

* Medico del lavoro – Torino

 

Attacco alla riforma Basaglia: a Trieste tira una brutta aria

Dovremmo prestare più attenzione a quello che sta accadendo a Trieste, estremo lembo a Nord-est dell’Italia. Quello che succede lì, sotto il soffio della bora, potrebbe arrivare presto in tutto il Paese. È in corso un attacco alla riforma psichiatrica di Franco Basaglia, che aprì i manicomi e nel maggio del 1978 ispirò la legge 180. È stata una delle grandi conquiste civili (insieme al divorzio e allo Statuto dei lavoratori) arrivate sull’onda del movimento democratico scoppiato a partire dalla grande rivolta del Sessantotto. Il manicomio di Trieste, dove Basaglia operava, fu il primo a essere aperto e a sperimentare le sue idee innovative.

Nella città in cui più di tutte il confine è stato un trauma, si provò a eliminare il confine sempre incerto tra “normalità” e follia. Ma oggi i confini tornano di moda, diventano muri. E proprio a Trieste è avvenuto un fatto che diventa un segno dei tempi.

Qualche mese fa, viene indetto il concorso per trovare il nuovo direttore del Centro di salute mentale 1 di Trieste, conosciuto come il Csm di Barcola. Al concorso partecipano alcuni medici che da anni continuano il percorso basagliano, sviluppando soprattutto un’assistenza diffusa sul territorio che aiuti il disagio dove e quando insorge. Nella prima fase della gara, quella che valuta i titoli, le pubblicazioni e il curriculum, risulta primo Mario Colucci, docente universitario, da trent’anni al Dipartimento di salute mentale (Dsm) di Trieste, continuatore dell’esperienza di Basaglia. Secondo Fabio Lucchi, che ha lavorato agli Spedali civili di Brescia. Poi c’è il colloquio orale, una chiacchierata a porte chiuse di pochi minuti, che ribalta la graduatoria dei tre candidati finali: il primo diventa l’ultimo e l’ultimo diventa primo. Il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano-isontina (di nomina politica) sceglie Pierfranco Trincas, psichiatra con una specializzazione in ambito criminologico che proviene dai Servizi di salute mentale di Cagliari. Una realtà che gli addetti ai lavori considerano arretrata, dove si pratica la psichiatria in reparti ospedalieri fatiscenti e inospitali, si usa ancora la contenzione fisica e dove non c’è quasi esperienza del fiore all’occhiello dell’eccellenza (finora) triestina: l’assistenza diffusa sul territorio, in centri aperti che sembrano delle case e dove i pazienti sono trattati come fossero a casa.

È un segnale. Che piace tanto al presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga (Lega), e al suo assessore alla Salute, Riccardo Riccardi (Forza Italia). Piace meno agli assistiti e agli operatori friulani e giuliani, che temono un ritorno al passato. L’allarme si diffonde anche all’estero, dove la riforma di Basaglia è conosciuta e imitata. “An unfolding nightmare” (Un incubo che si rivela), scrive il quotidiano britannico The Independent. Se ne occupa anche il British Medical Journal. E l’autorevole Lancet ospita una petizione dal titolo: “Save Trieste’s mental health system” (Salviamo il sistema della salute mentale di Trieste). In Italia, qualche articolo sulla stampa locale, qualche raro commento sui giornali nazionali (Massimo Recalcati sulla Stampa). Poi più niente.

Non è una piccola vicenda amministrativa locale, quella che tenta di liquidare l’esperienza basagliana, sostituendola con il ritorno a un passato di camicie di forza e letti di contenzione. È un ulteriore sintomo di un tentativo di rivincita culturale delle destre italiane, le stesse che vorrebbero cacciare un rettore eletto perché si oppone all’equiparazione Foibe-Shoah, le stesse a cui piace che a dirigere l’Archivio di Stato sia un bibliotecario che ha elogiato un protagonista della stagione delle stragi.

 

Gli ignoranti e le truppe per battere i terroristi

L’exit dall’Afghanistan è stato un disastro, se non addirittura un “crimine” viste le conseguenze su vita e morte di centinaia di migliaia di persone. Ricostruire le motivazioni della entry in Afghanistan del presidente Bush e dei suoi consiglieri, neo-con e falchi, serve a capire il fallimento. Terribili semplificatori pensarono, da un lato, che era possibile fare la “guerra al terrorismo” con truppe sul territorio, boots on the ground, dell’Afghanistan. Dall’altro, che la loro vittoria avrebbe addirittura portato la democrazia in Iraq, ma anche in Afghanistan. Solo qualche voce isolata si levò negli Usa a mettere in questione entrambe le motivazioni-obiettivi. In Europa, ci furono, da un lato, l’anti-americanismo di maniera, dall’altro, in mancanza della capacità di elaborazione politica e strategica l’accettazione del disegno Usa. Quanto alla guerra al terrorismo, pochi segnalarono che nessuna guerra ha senso contro un nemico evanescente e imprendibile che si annida dappertutto ed è praticamente impossibile da colpire. I nemici sono più propriamente i terroristi in carne, ossa e cintura di esplosivi intorno alla vita, e, naturalmente le loro organizzazioni. Diventano un obiettivo più facile quando si installano in un territorio. La guerra ai terroristi non richiede dispiegamenti di truppe, ma intensa ed estesa attività di intelligence e capacità di mira quando il terrorista viene individuato. Il successo più grande di questa strategia fu l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 in territorio pachistano con un costo molto basso e nessuna perdita Usa. In Afghanistan di successi del genere praticamente non se ne sono avuti, mentre le perdite di soldati Usa, uno stillicidio, sono state numerosissime. L’attività mirata ad eliminare i capi dei terroristi appare oggi l’unica disponibile e praticabile, quella più promettente di risultati. La guerra al terrore può al massimo continuare a essere una frase propagandistica a effetto, ma priva di sostanza e di effetti positivi. Al Dipartimento di Stato e altrove nell’Amministrazione Bush, quasi nessuno era sufficientemente preparato ai compiti di State building e di Nation building. Molti parlavano di esportazione della democrazia senza sufficienti conoscenze in materia. I riferimenti ai successi in Germania post-nazismo e nel Giappone imperiale erano fondamentalmente sbagliati. In Germania c’erano sinceri democratici sopravvissuti in patria o in esilio che avevano la capacità di dare un apporto decisivo sia alla stesura della Costituzione sia ai comportamenti politici che una democrazia richiede. In Giappone ci furono dieci anni, ripeto dieci, di occupazione militare Usa che portarono a un regime democratico alla legittimità della cui instaurazione contribuì significativamente la figura dell’imperatore.

Niente di tutto questo né in Afghanistan né in Iraq. Rotti tutti i rapporti con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato dove aveva lavorato per circa vent’anni, Fukuyama scrisse che era necessario porsi un obiettivo meno ambizioso della costruzione della democrazia. Bisognava costruire l’ossatura di uno Stato e creare sentimenti di appartenenza alla comunità. Invece, i policy-makers Usa preferirono, per ottenere consenso nell’elettorato, definire le loro azioni come democratizzazione che, ovviamente, comincia con le elezioni e si basa su quelle procedure. In verità, qualche attenzione fu indirizzata anche alla costruzione dello Stato: addestramento delle forze di polizia e dei militari, la formazione di una burocrazia, forme di assistenza sanitaria, creazione di scuole. Ma ospedali e scuole spesso erano fatti funzionare da organizzazioni non governative con pochi effetti positivi sulla preparazione di personale afghano all’altezza delle sfide.

Lo “Stato” avrebbe anche potuto consolidarsi se non fosse stato per il massiccio ricorso alla corruzione in primis politica, ma anche sociale. Il fenomeno era riconosciuto dagli americani, ma poco combattuto per non indebolire i politici al governo. Errore gravissimo che rese il consenso popolare fragile e dipendente dai privilegi che parte dei cittadini traevano da clientelismo e corruzione. Quanto alla costruzione della nazione: “Fatto l’Afghanistan bisogna fare gli afghani”, suscitare e valorizzare il sentimento di appartenenza alla stessa comunità e la consapevolezza che stare insieme richiede compromessi e accettazione delle diversità, presenza di gruppi etnici e religiosi in competizione fra loro ha reso questo compito praticamente impossibile. Si sarebbe dovuto pensare fin dall’inizio a modalità di power sharing, di condivisione del potere politico, di governo e di rappresentanza. Il governo della maggioranza richiede un grado di omogeneità sociale impensabile in Afghanistan e in Iraq. I talebani si sono imposti con la violenza. Non è affatto detto che finisca qui.

 

Forrester e la Carter in quel di Villa Certosa e Warvick dalla Puglia

Se siete come me, e fossi in voi farei di tutto per esserlo, non ne potete più di leggere sui giornali notizie sulla vita e le opinioni dei politici professionisti. A parte che, dando risalto ai politici, non si fa che incentivarli a continuare così, quelle notizie sono noiose in modo indicibile. Per renderle meno soporifere, in fondo, basterebbe poco. Per esempio, cambiare i nomi dei politici professionisti con quelli dei personaggi di Beautiful, la nota soap opera.

 

All’improvviso, dopo un’estate di piena riabilitazione fisica e politica, Ridge Forrester ha lasciato la Sardegna per l’ospedale San Raffaele di Milano. La notizia, tenuta segreta da giovedì a ieri mattina, ha gettato nel panico parlamentari ed eletti. Si materializza lo spettro di una ricaduta che renderebbe più incerto il futuro. Il coordinatore di Forza Italia, James Warvick, dalla Puglia, twitta il suo “in bocca al lupo” all’ex presidente del Consiglio, prevedendo un ricovero “per qualche giorno”. Ma di lì a poco un’evoluzione anch’essa sorprendente: Ridge, nel pomeriggio, lascia il San Raffaele e va nella sua residenza di Arcore. Le sue condizioni primaverili avevano fatto temere il peggio, ma in estate si è ripreso la scena, ricevendo a Villa Certosa leader alleati, ministri e potenziali candidati per il Quirinale come Jack Finnegan. E oggi rieccolo, il viso levigato dalla base Luminous Silk Foundation n. 11 (una texture fondente grazie all’esclusiva tecnologia Microfil) e sublimato dal fard cremoso Color Retouch n. 2. Il progetto più volte enunciato dal fondatore di FI è quello del partito unico del centrodestra, e al capo della Lega Zende Dominguez ha promesso che una federazione potrebbe nascere entro settembre. Nel frattempo, Ridge ha però rassicurato Donna Logan, che di un abbraccio con Zende Dominguez proprio non vuole sapere. Dentro il partito, intanto, c’è chi predilige la rotta moderata: l’influente pattuglia governativa, dentro la quale spicca la figura di Sheila Carter, anche lei ospite di Villa Certosa qualche sera fa. Ma sono in tanti a spingere per un partito più lontano dai sovranisti e soprattutto più draghiano: in prima fila, fra gli esperti consiglieri del Capo, c’è Clarke Garrison, che ha sponsorizzato un’altra visita illustre nel buen retiro sardo di Ridge: quella del presidente del Coni Connor Davis, cui il leader di Forza Italia ha chiesto di dare una mano a far forte un fronte moderato di centrodestra. Offerta gentilmente declinata, ma la circostanza conferma la capacità del vecchio puttaniere di giocare su più tavoli, mantenendo una centralità anche con l’avanzare degli anni. Crescente, però, il nugolo dei forzisti smarriti dalla mancanza di un approdo sicuro. Politico e soprattutto parlamentare, visto il calo nei sondaggi e i conseguenti addii, che fanno di FI il secondo partito per numero di transfughi dopo i 5Stelle. Ridge è sempre sull’arcione, ma continua a oscillare fra la consolidata deriva leghista e le tentazioni popolari. Con un’inquietudine nuova, fra i suoi fan: legata alla salute, ma anche alle energie che il continuo svicolare dai processi potrà ulteriormente togliergli. Di candidati alla successione ne sono passati molti, dall’ex leader di AN Saul Feinberg, al fuoco di paglia Justin Barber; e senza dimenticare Carter Walton: tutti nomi che non sono riusciti a scalzarlo. Sul fronte avversario, intanto, Whip Jones III, segretario nazionale del Pd, si candida a Siena senza il simbolo Pd. Solo il claim “Con Whip Jones III”, in bianco, dentro un tondo rosso fegato. Certo un modo per allargare il più possibile, tanto a sinistra quanto tra moderati e indecisi, il recinto degli astenuti.