Ci stavamo preoccupando. Nel senso che avevamo quasi smesso di preoccuparci per il Covid e ci eravamo molto preoccupati per lui, Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, che per un po’ era stato silenziato dopo una sovraesposizione mediatica che non aveva fatto bene né a lui né al governo di cui era consulente (chissà quanto ascoltato). A ogni modo, rieccolo. Ricciardi è tornato con le più nefaste profezie: “La variante Delta sta uccidendo anche i bambini piccoli”; “Bisogna inasprire le misure sul Green Pass“, “Il tampone non basta, certificazione verde solo per i vaccinati”, “Senza vaccinazione di massa convivere col virus sarà una pia illusione”. Il tutto nel giro di un paio di giorni. Poi si è lamentato: “Non c’è nessun Paese al mondo che abbia seguito completamente le indicazioni della scienza”. E forse è pure vero, ma pure Ricciardi ammetterà che dalla scienza, anche solo limitandoci al caso italiano, di indicazioni ne sono arrivate parecchie e discordanti. Ma per fortuna adesso tutto sembra tornato alla normalità: Ricciardi è tornato. E mo’ ce lo segniamo.
Che carezze sui vaccini tra Sallusti e Belpietro
Dobbiamo confessarlo: amiamo molto gli scazzi nella stampa di destra. L’ultimo, una sorta di resa dei conti, è andato in scena tra Libero e La Verità sullo scivolosissimo terreno di No-Vax e No-Green pass. Già, perché se il primo ha preso una forte posizione Pro Vax e a favore del lasciapassare verde, il secondo avanza mille dubbi che vanno a solleticare la pancia dei complottisti. Così, due giorni fa, Sallusti l’ha messo nero su bianco in un editoriale dal titolo eloquente (“I mandanti sono i cattivi maestri”): “Queste violenze hanno mandanti precisi che lavorano al sicuro nelle redazioni di alcuni giornali a caccia di un pugno di copie in più (…). Chi offre il minimo alibi ai picchiatori no-vax non può fare parte della comunità civile”, con riferimento ai “compagni che sbagliano” degli anni di piombo. “Fanno i talebani del vaccino per coprire bugie ed errori”, gli ha risposto ieri, piccatissimo, Belpietro: “Noi siamo giornalisti che si fanno domande, perché non siamo il megafono di nessuno, neanche del vostro conformismo che v’impedisce di vedere quel che avete sotto gli occhi”. Il Giornale di Minzolini fa un po’ il pesce in barile (ma sta più con Sallusti). Continua…
Oltranzista è il modello di sviluppo che ci uccide
Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, mette in guardia contro un mondo “pieno di ambientalisti radical chic, oltranzisti, ideologici”. Li definisce “peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati […] Spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri”. Ora, che il mondo sia pieno di ambientalisti è difficile affermarlo, visto che stiamo andando dritti verso la catastrofe climatica e abbiamo attivato la sesta estinzione di massa. Che poi il già piccolo insieme degli ambientalisti sia turbato da quelli “radical chic, oltranzisti e ideologici” è ancora più improbabile, poiché, al di là di qualche protesta locale che può anche essere etichettata come ingenua o radicale, essi non hanno mai ottenuto nulla di rilevante di fronte invece allo strapotere di chi ogni giorno distrugge l’ambiente. Sono definizioni peraltro ambigue: cosa significa essere radicali e oltranzisti? Rispetto a cosa? Non è forse l’attuale sistema economico estrattivo e distruttivo a essere stato per più di un secolo oltranzista e radicale al punto da aver causato la crisi dei processi biogeochimici che governano il sistema terrestre?
Proviamo a guardare i “numeri” della scienza ambientale: Antonio Guterres, Segretario generale della Nazioni Unite ha definito il nuovo rapporto IPCC sul riscaldamento globale “un codice rosso per l’umanità”: un codice rosso richiede interventi radicali e oltranzisti, altrimenti il paziente muore. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha appena pubblicato l’Atlante della mortalità e delle perdite economiche da estremi climatici: nei 50 anni 1970-2019 i disastri climatici sono aumentati di cinque volte, causando in media ogni giorno 115 morti e 202 milioni di dollari di danni. Se vogliamo evitare che il bilancio peggiori occorrono scelte intransigenti.
L’Alliance of World Scientists dice da anni che se vogliamo salvarci bisogna applicare misure draconiane alla società, incluso l’arresto della crescita economica fine a se stesso e dell’aumento di popolazione. Decisioni ancora più oltranziste dell’ambientalista più oltranzista.
I giallorosa avanti a Napoli e Bologna. Trieste e Torino probabili alla destra
Una premessa è d’obbligo, anzi due: i sondaggi più affidabili saranno quelli delle prossime settimane quando sarà definito il mercato elettorale e lo scenario competitivo dopo che, con la presentazione delle liste, gli elettori avranno cominciato a metabolizzare le candidature. E i giochi si faranno comunque fino all’ultimo giorno se è vero, come sostiene Antonio Noto dell’Istituto Noto Sondaggi, che il “25 per cento di chi va a votare decide chi nell’ultima settimana e il 15 per cento addirittura negli ultimi 3 giorni”. Ma che dicono sin qui le rilevazioni sulle intenzioni di voto riguardo ai sette big match elettorali previsti per l’inizio di ottobre? Roma, Milano, Napoli ma anche la regione Calabria: da ultimo proprio la sfida per la poltrona che fu di Jole Santelli è stata oggetto del sondaggio WinPoll che accrediterebbe la coalizione di centrodestra guidata da Roberto Occhiuto di un 39,2 per cento contro il 37,1 della candidata Amalia Bruni sostenuta da centrosinistra e M5S: praticamente un testa a testa anche se in precedenza il distacco registrato da altri istituti, come nel caso di Emg, è apparso assai più consistente. Per Occhiuto una percentuale tra il 45 e il 49, per Bruni massimo un 28. “Nel campo di centrosinistra sono in lizza come candidati autonomi anche Luigi De Magistris e di Mario Oliverio: questo avvantaggia senz’altro Occhiuto. Qui il ballottaggio non c’è, si vince con un solo voto in più” spiega Noto al Fatto.
Ma poi ci sono anche le consultazioni le sei grandi città: Roma, Milano, Torino, Trieste, Napoli. E Bologna dove è data praticamente per certa la vittoria al primo turno del candidato sindaco di centrosinistra e 5 Stelle Matteo Lepore che di fronte ai sondaggi che lo accreditano di una percentuale del 63 e rotti per cento fa gli scongiuri. Secondo la rilevazione di BiDiMedia il suo sfidante di centrodestra Fabio Battistini si fermerebbe al 28 percento. Anche a Napoli il candidato unitario dei giallorosa è in testa, anche se una vittoria al primo turno pare esclusa, causa fattore B. come Bassolino, l’ex governatore accreditato di una percentuale a doppia cifra: Gaetano Manfredi secondo Opinio Italia sarebbe comunque al 40 per cento seguito dal candidato di centrodestra Catello Maresca stimato tra il 27 e il 31. Poi ci sono le altre città dove Pd e M5S non hanno trovato l’accordo su candidati unitari. A Trieste potrebbe farcela al primo turno il candidato di centrodestra Roberto Dipiazza che nella rilevazione di Opinio Italia arriva fino al 51 per cento, contro il 34-38 per cento del Pd Francesco Russo. Anche a Torino la sfida è a due: il candidato di centrodestra Paolo Damilano, secondo l’ultima rilevazione di Lab2101, è tra il 41 e il 45 per cento contro il candidato di centrosinistra Stefano Lo Russo (tra il 37 e il 41 per cento). Per BiDiMedia a vedersela a Milano saranno il sindaco uscente Beppe Sala (accreditato del 47 per cento) e il candidato di centrodestra Luca Bernardo (che sfiora il 40 per cento). E poi c’è la Capitale. “A Roma – spiega il patron di Noto Sondaggi –, lo scenario è addirittura caotico con tre candidati Michetti (centrodestra), Gualtieri (Pd) e Raggi (M5S) non molto lontani tra loro. Abbiamo registrato che il candidato di centrodestra è leggermente in testa anche se sta perdendo progressivamente voti a favore di Carlo Calenda: al ballottaggio potrebbe perdere sia con Gualtieri sia con Raggi che si contendono la seconda posizione”.
Pd, Zingaretti avvisa Letta: “No al partito subalterno”
Il Pd è un partito, ma anche un paradosso, una forza spesso instabile cui spesso si chiede e in parte si deve la stabilità dei governi. Non è poi così strano allora che l’ex segretario, quel Nicola Zingaretti dimessosi sei mesi fa lasciandosi dietro un anatema – “Tra i dem si parla solo di poltrone, mi vergogno” – ora rialzi la voce con una lettera al Foglio. “Contro un Pd subalterno” è il titolo e il senso del testo. Una via per far capire che vuole (ri)giocare in chiave nazionale, “visto che con le prossime Politiche arriverà in Parlamento da capo-area” ricorda un maggiorente dem. Mentre fonti vicine a Zingaretti assicurano che il testo è nato per contestare la narrazione diffusa dai media, che equiparano i dem alla Lega, dove di responsabilità istituzionale ne hanno mostrata molto meno.
Però la lettera sembra soprattutto altro: una mano tesa, ma anche una piccola scossa al suo successore, all’Enrico Letta strattonato da sinistra e da destra, dall’area più rossa come quella degli ex-ma-non-troppo renziani di Base Riformista. Ed è molto chiaro dove stia il governatore del Lazio, ex Pci, che infatti esorta a non confondere “il riformismo giusto con il fighettismo” e a “non contrapporre impresa e lavoro”, fino a rivendicare che “siamo stati noi l’architrave della Repubblica”.
Evidente come Zingaretti non voglia un Pd schiacciato, deferente nei confronti delle grandi imprese. “A suo tempo si è caduti nell’errore di pensare che difendere le classi meno abbienti e il ceto medio fosse alternativo al concetto di modernità” scrive. Soprattutto, fa capire che la strada era e resta quella di un centrosinistra largo, “perché dobbiamo essere un partito a vocazione maggioritario e non solitaria”. A naso anche con i 5Stelle, che pure non cita. “Non ho mai sopportato una sinistra minoritaria e subalterna, che accetta la scorciatoia identitaria del parlare male degli altri, una deriva” – conclude Zingaretti – “che va lasciata a quei partitini personali che servono solo (poco) a chi ne fa parte”. E qui ovviamente parla di Matteo Renzi, antico avversario. Ma si rivolge pure “al renzismo che nel partito è rimasto, eccome” come sibila un veterano dem, riferendosi a Base riformista, la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Non esattamente in linea con il fu segretario Zingaretti, che batte un colpo proprio mentre un bel pezzo di partito sogna di restare aggrappato a Draghi anche dopo il 2023, con una bella coalizione larga nel nome del Migliore. E salutoni a Giuseppe Conte e ai 5Stelle, con cui Letta prova a costruire una coalizione. Zingaretti con il M5S fece addirittura un governo (senza entrarvi) e giura di non essersi pentito.
Ma in quelle righe c’è anche un ammonimento, forse: non cedere agli ex renziani e alle indicazioni sempre più rumorose di Confindustria, cioè non arrendersi a un clima da pax draghiana. Da sinistra Federico Fornaro, capogruppo alla Camera di Liberi e Uguali, batte le mani: “Il contributo di Zingaretti ha il pregio di sollecitare tutto il centrosinistra a reagire a una narrazione tutta negativa nei confronti delle scelte compiute in questi anni dal riformista di governo”. Come a dire che bisogna ripartire anche dal secondo governo Conte. Ma nel Pd, che ne pensano? Da ambienti del Nazareno assicurano che la lettera “è in assoluta continuità” con la rotta di Letta. E che il segretario ha chiaro come su temi come le delocalizzazioni “sia necessario intervenire”. Come a dire che su lavoro e diritti il Pd non può tentennare. Lo stesso Letta in serata sale sul palco della festa dell’Unità a Bologna e morde Matteo Salvini, il nemico che si è scelto per marcare una differenza che serve anche come carta d’identità: “Votando in Parlamento gli emendamenti contro il Green pass, di fatto la Lega legittima le manifestazioni no-vax. È una scelta che la pone al di fuori della maggioranza, quindi chiedo un chiarimento politico su questo punto”. Ma poi c’è anche il futuro prossimo, quello del centrosinistra: “Vogliamo allargarci ancora di più e vogliamo che questo sia l’inizio di una coalizione che vincerà alle elezioni del 2023”. Tradotto, Draghi deve rimanere a palazzo Chigi fino a fine legislatura, come il segretario dem ha più volte teorizzato: ma poi il centrosinistra dovrà puntare ad andare il governo con un altro presidente del Consiglio. Ed è la vera posta in palio già in queste amministrative, dove Letta si gioca la permanenza al Nazareno, e lo sa benissimo. Anche se ieri sera ha sostenuto che “qualunque sarà il risultato, non ci saranno conseguenze politiche” e che comunque punta a vincere in più di due su cinque grandi città al voto. Dovesse andare male, c’è un pezzo di Pd che le ha già in testa, le alternative. E la prima resta il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Però più d’uno tra i dem fa notare l’attivismo del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che sta ricominciando a girare l’Italia (ieri era a un incontro ad Alessandria). Perché nel Pd tutti si muovono, sempre.
Da Fuortes in giù: i vertici Rai si tengono il doppio incarico
A parte Riccardo Laganà e Alessandro Di Majo (due consiglieri su sette), nel nuovo vertice Rai ognuno ha il suo bel conflitto d’interessi. Piccolo o grande che sia.
Nessuna illegalità o questioni contra legem, sia ben chiaro, ma l’opportunità vorrebbe che chi è chiamato a gestire una grande impresa pubblica come la tv di Stato non abbia altre cariche in ballo. Ma siamo pur sempre in Italia e su questo terreno le cose non vanno quasi mai lisce (Berlusconi docet). Ed è proprio dall’amministratore delegato che bisogna partire. Carlo Fuortes, infatti, nonostante la nomina a guida della tv pubblica, continua a esercitare il ruolo di sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma, incarico che ricopre dal 2013, col merito di aver risollevato il teatro capitolino. La nomina del suo sostituto spetta al Campidoglio, ma la sindaca Virginia Raggi preferirebbe soprassedere fino a dopo il voto amministrativo di ottobre. Insomma, Fuortes continuerà anche nelle prossime settimane a fare le veci di se stesso. Un problemuccio non da poco visto che Rai spesso e volentieri acquista prodotti dal Teatro dell’Opera, com’è accaduto di recente con La Traviata diretta da Mario Martone, trasmessa in prima serata su Rai3 lo scorso aprile.
Ma l’ad non è l’unico ad avere conflitti. La nuova consigliera Simona Agnes, nominata dal Parlamento in quota Forza Italia, dal 2012 organizza il Premio Biagio Agnes, onorificenza giornalistica dedicata a suo padre (il grande direttore generale in epoca Dc) che da sempre viene trasmessa dalla Rai. L’edizione del 2021 andrà in onda il prossimo 11 settembre su Rai Uno, condotta da Mara Venier e Alberto Matano. Tra l’altro, presidente onoraria della Fondazione Agnes è Marinella Soldi, attuale presidente della Rai. Ma non basta. Perché nel palinsesto della tv pubblica è previsto il ritorno di Check up, format di medicina di grande successo ideato proprio da Biagio Agnes nel lontano 1977. Dopo diversi tentativi, quest’anno finalmente il programma tornerà in Rai, sul secondo canale, il sabato mattina, condotto da Luana Ravegnini.
Altra new entry è Francesca Bria, consigliera in quota Pd parecchio sponsorizzata da Andrea Orlando. Due giorni fa Bria ha esultato sui social per la partenza delle Agorà democratiche, una sorta di “piattaforma Rousseau” del Pd. Struttura che anche lei avrebbe contribuito a mettere in piedi offrendo consigli alla luce della sua passata esperienza di assessore all’innovazione tecnologica a Barcellona (2016-2019). “Si apre un grande processo di partecipazione democratica. Iscriviti e diventa cittadino delle #agoràdemocratiche”, ha twittato la neo consigliera.
Poteva poi mancare la Lega? Certamente no. Igor De Biasio, già membro del Cda Rai nella scorsa consiliatura, dal 2019 ricopre pure l’importante carica di ad di Arexpo, società proprietaria dell’area di Expo 2015 (partecipata, tra gli altri, da Mef, Regione Lombardia, Comune di Milano, Fondazione Fiera Milano), spazio ora in via di riconversione e boccone molto ambito nella Milano degli affari. Anche qui è tutto legittimo, nel senso che nessuna legge vieta il doppio incarico, ma il problema di opportunità è gigantesco.
Fuortes, intanto, è alle prese con le prime nomine: stanno per scadere il capo della comunicazione Marcello Giannotti e il dg Alberto Matassino. L’ex portavoce di Marcello Foa, Marco Ventura, oltre a continuare il suo lavoro di autore a Unomattina, s’è invece riaccasato a Palazzo Madama: sarà il nuovo consulente per la comunicazione della presidente Elisabetta Casellati. L’ennesimo, visto il numero dei predecessori.
Gli impresentabili nascosti dai partiti
I nomi arrivati in Commissione sono soltanto 459, meno di uno ogni due Comuni al voto. Per intendersi, già solo i candidati delle otto liste a sostegno di Beppe Sala raggiungono un numero simile.
Ma tant’è: il vaglio preventivo sugli impresentabili promosso da Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, spaventa i partiti, che quasi dappertutto preferiscono fare a meno del parere – peraltro riservato – dei parlamentari riguardo a eventuali presenze imbarazzanti nelle liste per le prossime Amministrative. E questo nonostante il controllo dell’Antimafia sia piuttosto parziale, riservandosi di segnalare soltanto i candidati condannati per alcuni reati e quelli rinviati a giudizio. Motivo per cui dal Parlamento ieri è arrivata la bocciatura soltanto per due candidati del centrodestra alle Regionali in Calabria, molto meno di quanto le indiscrezioni sulle liste lasciassero immaginare. Ma d’altra parte il filtro sorvola su chi è “soltanto” indagato e ovviamente su coloro i quali potrebbero essere “impresentabili” per motivi etici e politici, pur non avendo guai con la giustizia. Una volta individuati i casi in questione, compito della Commissione è indicarli ai partiti i quali entro domani, termine ultimo per la chiusura delle candidature, possono depennare dalle liste i nomi cerchiati in rosso.
In fuga Poche adesioni
Il tutto rimarrà però per lo più teoria, visto che nella pratica l’esperimento voluto da Morra e da Wanda Ferro (FdI) non ha vinto lo scetticismo dei leader, pur impegnati in promesse sulle “liste pulite”.
A Roma, per esempio, dei quattro candidati sindaci soltanto Virginia Raggi ha chiesto il via libera al Parlamento sui propri aspiranti consiglieri, ricevendo rassicurazioni sull’ assenza di impresentabili. Il forzista Maurizio Gasparri si è invece persino vantato di non aver inviato le liste alla Commissione: “Le ho inviate al prefetto, non a Morra, che riteniamo non dovrebbe neanche ricoprire l’incarico di presidente”. A Napoli solo FdI (che lì è commissariato) ha spedito i propri nomi, nel silenzio di Catello Maresca e Gaetano Manfredi, mentre a Milano e Torino nessun aspirante sindaco – da Beppe Sala (che fa sapere di essere in contatto con la Prefettura per gestire eventuali guai) a Luca Bernardo, fino a Paolo Damilano e Stefano Lo Russo – si è posto il problema.
Meglio invece è andata in Calabria, dove si voterà per le Regionali: qui il centrodestra e il M5S (non il Pd) hanno chiesto il parere dell’Antimafia, viste anche le recenti inchieste che hanno coinvolto parecchi esponenti di primo piano della politica locale.
I nomi I casi imbarazzanti
A dispetto del disinteresse generale, sono parecchi i nomi che avrebbero meritato una riflessione. Le liste saranno ufficiali tra qualche ora, ma le campagne elettorali sono già piene di potenziali candidati indagati, imputati o pregiudicati. Checché ne dica Gasparri, a Roma l’ultimo ingresso in Forza Italia è quello di Marcello De Vito, ex 5 Stelle che ambisce a rientrare in Consiglio comunale con gli azzurri: già arrestato un paio d’anni fa, tutt’oggi è sotto processo per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma. Nella Capitale c’è poi la nota vicenda di Giovanni Caudo, ex assessore di Ignazio Marino che sostiene Roberto Gualtieri. Il professore è imputato per abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite nell’inchiesta sulle Torri dell’Eur, il cui progetto di ripristino secondo la Procura di Roma sarebbe “una speculazione” per oltre 20 milioni di euro: “Sono passati sei anni e l’inchiesta è ancora ferma lì – si difende oggi Caudo – Sono tranquillo, prima o poi un giudice farà chiarezza”.
A Milano, invece, la Lega punta su Annarosa Racca, presidente di Federfarma, per un pezzo indicata come possibile sfidante di Beppe Sala, indagata per diffamazione con l’accusa di aver creato falsi account social per screditare un rivale alla guida nazionale dell’associazione. A processo c’è poi Antonio Barbato, ex capo della Polizia municipale milanese stregato da Matteo Salvini: quattro anni fa fu rimosso dall’incarico per alcune intercettazioni – per le quali non fu mai indagato – in cui prospettava uno scambio di favori su un appalto e sul pedinamento di un vigile (circostanza poi non accaduta); oggi è rinviato a giudizio per falso ideologico e frode in pubbliche forniture per una campagna sulla guida sicura avviata nel 2015.
Nella stessa lista c’è pure Giuseppe Maiocchi, gioielliere protagonista delle cronache per un fatto del 2004, quando insieme al figlio sparò a un ladro e divenne il simbolo della battaglia leghista in favore della legittima difesa. Alla fine se la cavò con un mese di condanna per lesioni, mentre il figlio, colpevole di omicidio colposo, fu punito con un anno e sei mesi.
Altri motivi rendono invece inopportuna la candidatura leghista a Torino di Eugenio Bravo, per anni protagonista del sindacato di polizia Siulp. Uno che, durante le prime indagini sul massacro della Scuola Diaz, diceva di voler “scendere in piazza” promuovere “qualsiasi forma di protesta democratica per difendere la professionalità dei poliziotti impegnati al G8”.
Anche a Napoli il rischio di impresentabilità è alto. Il Pd deve decidere che fare con Aniello Esposito e Salvatore Madonna: entrambi hanno patteggiato 6 mesi per aver inserito delle false candidature nelle liste a sostegno di Valeria Valente, candidata sindaca dem nel 2016. A sostegno di Gaetano Manfredi c’è pure Raffaele Del Giudice, ex assessore di Luigi de Magistris indagato per omissione d’atti d’ufficio in uno scandalo sui rifiuti. Andrà con Antonio Bassolino invece Salvatore Guerriero, condannato in primo grado per truffa: da vigile urbano si assentò mentre avrebbe dovuto sorvegliare il boss Di Lauro.
Regionali Quanti rischi
Degna di nota è anche la corsa per le Regionali in Calabria. Morra ha individuato due profili nelle liste a sostegno di Occhiuto, due nomi che – a quanto risulta – avrebbero grane giudiziarie per il reato di abuso d’ufficio. Ma la Regione nasconde anche altri candidati ingombranti. A partire da uno degli aspiranti presidenti, l’ex governatore Mario Oliverio, imputato in tre processi: nel primo, su presunte irregolarità sulla costruzione dell’ospedale di Cosenza, è accusato di corruzione, turbativa d’asta, traffico di influenze e abuso d’ufficio; nel secondo, relativo al finanziamento del Festival di Spoleto, risponde di peculato e nel terzo deve giustificare la revoca di una nomina abuso d’ufficio). A destra spera Claudio Parente, imputato per corruzione e peculato, ma nelle ultime ore Roberto Occhiuto gli avrebbe chiesto un passo indietro. All’ultimo ha rinunciato pure il centrista Sergio Costanzo, imputato per uno scandalo sui gettoni di presenza e su alcune assunzioni fittizie. Chance invece per Raffaele Sainato (FI), appena indagato per scambio elettorale politico-mafioso. Escluso in partenza Luca Morrone (FdI), rinviato a giudizio nell’inchiesta “PassePartout”. Ma potrà consolarsi: la moglie Luciana De Francesco è la favorita per sostituirlo in lista.
“L’antimafia si fa a scuola ogni giorno con l’agenda”
Dopo il successo di Io posso il libro Feltrinelli dedicato alle sorelle Pilliu uscito anche con Il Fatto (tornato primo in saggistica anche per la commozione dopo la morte di Maria Rosa Pilliu) il volto di Pif torna in libreria e in edicola sull’Agenda della legalità. Si chiama “IlLegal” (edita da Paper First in collaborazione con l’associazione Sulle nostre gambe) e da domani sarà nelle edicole con Il Fatto e in libreria.
Pif, ci spieghi perché c’è il tuo volto sulla fascetta e nella prefazione di questa Agenda della legalità?
Come sempre nelle nostre interviste, caro Marco, fai le domande e sai già le risposte, visto che la casa editrice è del Fatto e tu sei il direttore editoriale. Però sto al gioco. Come sai bene cercavamo un modo per far entrare i ragazzi in contatto con l’antimafia e con NOma (nomapalermo.it) App dell’associazione di cui faccio parte. E abbiamo pensato che l’agenda fosse lo strumento giusto.
Da studente compravi personalmente l’agenda?
Certo! Per la mia generazione era una cosa seria. Ti avrebbe accompagnato tutto l’anno ed era una scelta identitaria. Non potevi sbagliare. Se prendevi l’agenda del calciatore poi non potevi pentirti.
Perché un ragazzo dovrebbe comprare “IlLegal”?
Questa è una speranza. Ti posso dire perché l’abbiamo fatta: la mentalità mafiosa si forma giorno per giorno e l’agenda speriamo possa controbilanciare quei messaggi. Per farlo ci vuole un diario colorato che mostri la bellezza del rispetto delle regole e delle persone che hanno dato la vita per farle rispettare.
Un’agenda basterà?
Da sola no, ovvio. Però ti rispondo con le intercettazioni dell’ultima indagine: c’era un mafioso infuriato perché la figlia di un’amica voleva andare alla commemorazione della morte di Falcone. Vuol dire che queste cose alla fine funzionano.
“IlLegal” è un mix, realizzato da Andrea Delmonte, ex direttore della Comix, insieme al team creativo di NOma. C’è la storia di eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma il linguaggio è quello talvolta dissacrante dei ragazzi. Ci sono quiz e giochi. Non pensi che qualcuno possa considerarlo eccessivo?
Io stesso alla prima lettura mi sono fatto questa domanda. Poi ho pensato che va bene così perché il mondo è cambiato e bisogna adottare altri linguaggi per affrontare questo tema. Il mio film La mafia uccide solo d’estate, per molti era una bestemmia. Ai tempi dissi che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno che avrebbe fatto diventare vecchio anche il mio linguaggio. “IlLegal” non a caso è concepita pensando più allo smartphone che al diario: è come un supporto della App NOma, che sta per NoMafia.
Come è nata NOma?
Sempre per usare linguaggi nuovi, qualche anno fa con Tiziano Di Cara, che ha avuto l’idea, insieme a Emanuela Giuliano e Roberta Iannì, decidemmo di fare una App per parlare delle vittime di mafia. Non solo quelle note come Carmelo Iannì e Boris Giuliano ma anche quelle sconosciute. Volevamo fare un museo antimafia a Palermo e prima o poi lo faremo ma poi abbiamo pensato che comunque Palermo è un museo a cielo aperto. Così insieme a Piergiorgio Di Cara, scrittore di romanzi e autore tv , abbiamo sviluppato le storie della App.
E tutti questi contenuti sono accessibili partendo dall’agenda “IlLegal”?
Si parte da lì e si va a vedere sul telefonino quel che è accaduto in quel posto di Palermo con documenti storici, animazioni digitali, video, foto d’epoca e interviste inedite ai familiari disponibili già su NOma grazie alla collaborazione di RaiTeche e Tim. NOma è totalmente gratuita e autofinanziata senza fondi pubblici. La nostra associazione si chiama non a caso ‘Sulle nostre gambe’. Parte degli introiti dell’agenda andranno a finanziare la realizzazione di altre storie della App. Abbiamo tanti progetti: vogliamo raccontare i bambini vittime di mafia e poi anche i sopravvissuti alle stragi. Ogni anno speriamo di avere, grazie all’agenda, introiti per portare NOma in tutta Italia raccontando storie anche della Calabria e della Campania.
Nell’agenda chiedete ai ragazzi per esempio di fare cento passi nel giorno della morte di Peppino Impastato postando il video. Non state chiedendo troppo? Lo studente non rischia di passare per ‘secchione’ mentre gli altri magari hanno agende che invitano alla trasgressione?
Ovvio che è una sfida però pensiamo sia giusto trattare i ragazzi come soggetti attivi. Anche se sei piccolo, anche se puoi fare solo un piccolo gesto, quella scelta ti rende responsabile e può portare un cambiamento di mentalità. E poi nel mondo di oggi, dove nessuno sembra dare importanza alle regole, per me è più trasgressiva l’agenda “IlLegal” dell’altra.
Calcio, sotto gli Europei niente: 829 milioni persi, club in agonia
L’Inter campione d’Italia smantellata, costretta a vendere Lukaku e Hakimi. La Juve che regala Cristiano Ronaldo pur di liberarsi del suo stipendio. La Serie A in mutande, mai così povera. Ma anche 35mila ragazzini che smettono di giocare, 48mila partite non disputate, oltre 25mila persone, non calciatori, che perdono il lavoro. Così il Covid sta uccidendo il pallone. Non è più solo il grido disperato dei “ricchi scemi” del calcio, che da mesi battono cassa col governo: lo Stato non pagherà per i loro errori, ben precedenti alla pandemia, ma l’effetto del virus è stato devastante, a tutti i livelli. Adesso lo dicono i numeri. Quelli del “Report calcio” della Figc. Ogni anno la Federazione pubblica la nuova versione, ogni anno contiene dati peggiori. Stavolta però c’è una differenza: il Coronavirus. L’edizione 2021 è la fotografia della stagione 2019/2020, la prima colpita dalla pandemia, con il lockdown da marzo a maggio, lo stop dei tornei e poi la ripresa in estate. Il calcio italiano ne è uscito (ammesso che lo sia) stravolto: prima era un movimento decadente, che tra difficoltà e trucchetti tirava a campare. Ora è a un passo dal fallimento.
La vittoria di mancini & C.? Solo un sogno di mezza estate
Il trionfo della nazionale di Mancini agli Europei è stato solo un sogno di mezza estate, un miracolo, un’illusione. Agosto e il mercato più misero di sempre ci hanno riportato alla dura realtà di un campionato impoverito, quasi fallito. Le cifre pubblicate dalla Figc spiegano da dove viene la crisi e ne chiariscono la proporzione: nel 2019/2020 il sistema calcio italiano ha perso 829 milioni, più del doppio della stagione precedente (-392 milioni); i primi 5 top club (Juventus, Inter, Napoli, Milan e Atalanta) da soli hanno bruciato 370 milioni di euro. Chiaro che ora debbano sbaraccare. Negli ultimi anni costi e ricavi del pallone erano sempre stati due rette parallele, che correvano vicine, con un inesorabile sbilanciamento nei confronti delle uscite che continuava ad accrescere il debito ma anche a lasciare l’illusione di poterlo colmare. Il Covid ha spalancato questa forbice: oggi il pallone nostrano è un’industria che spende 4,2 miliardi l’anno e ne incassa solo 3,5. Così nessuna azienda può stare in piedi.
Pochi impianti e sponsor: la serie a non tira più
Le colpe, ovviamente, non sono solo del Coronavirus. Lo dimostra il fatto che la chiusura degli stadi, per cui i patron si stracciano le vesti e vorrebbero addirittura i ristori dal governo, ha inciso per “soli” 60 milioni di euro (saranno molti di più nel 2021, con una stagione intera a porte chiuse). La Serie A (B e C non stanno meglio) si crogiola da anni nei suoi soliti vizi. Infrastrutture vecchie e fatiscenti, quasi mai di proprietà e quindi per nulla redditizie: da noi gli investimenti sono fermi al palo, nel resto d’Europa si costruisce (non solo nella tanto decantata Inghilterra, in Russia e Polonia negli ultimi 10 anni sono stati inaugurati 39 nuovi impianti). Bilanci squilibrati, appiattiti sui diritti tv (34% del totale, l’unica entrata che i patron riescono a incassare facilmente), mentre latitano i ricavi commerciali da cui si deduce l’appeal di una squadra e di un torneo (solo 17%). Incredibilmente invece le spese continuano ad aumentare, in particolare quelle per gli stipendi, 1,6 miliardi ogni anno solo per pagare i calciatori. Anche per questo il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha appena introdotto il divieto di spendere più dell’anno precedente: una misura che non guarirà il paziente, gli impedirà di suicidarsi più rapidamente. Il Covid è stato la spallata finale a un sistema che era già sull’orlo del baratro. Non bastano più neanche le plusvalenze, maquillage contabile abusato da tutte le società: al giugno 2020 rappresentavano il 24% dei ricavi delle squadre, un totale di 738 milioni di incassi (per lo più) farlocchi, visto che la maggior parte di queste operazioni non hanno vero denaro alla base. Così i debiti dei club avevano sfondato la quota record di 4 miliardi già prima dell’epidemia, ora siamo a 4,7.
“Spariti” 245mila calciatori, soprattutto giovani e al sud
La pandemia ha ridimensionato le big, ma in Serie A si può sempre trovare un padrone pronto a ripianare i buchi, o qualcuno disposto a farti credito (ed è la ragione per cui tanti club tecnicamente falliti, non solo quelli italiani, continuano ad andare avanti, anche se prima o poi i nodi verranno al pettine). In ogni crisi, però, a pagare il prezzo più alto sono sempre i più deboli: i dilettanti, i settori giovanili, chi di calcio sopravvive ogni giorno. Nonostante il lockdown, Serie A, Champions League e i grandi tornei si sono conclusi regolarmente, ma nel 2019/2020 ci sono 47.825 partite ufficiali che non si sono mai disputate. Cancellate. I tesserati, che superavano quota un milione, oggi sono poco più di 800mila: spariti 245mila calciatori, la maggior parte tra i più giovani, soprattutto al sud (-10% Basilicata, -7% Abruzzo e Calabria, -6% Puglia). Ed è questa la base che alimenta il vertice della piramide, fino ad arrivare alla maglia azzurra, e che si sta assottigliando pericolosamente. Significa che a causa del Covid in Italia tanti ragazzi hanno smesso di giocare. E non hanno più ripreso. Così come non è detto che torneranno allo stadio i 4 milioni di tifosi rimasti a casa sul divano nel 2019/2020, anche ora che gli impianti sono stati riaperti (infatti in queste prime due giornate la capienza ridotta non è nemmeno stata riempita). Il settore produceva un indotto complessivo di 10 miliardi (circa lo 0,5% del Pil), oggi si ferma a 8,2; quasi 2 miliardi perduti, e anche l’occupazione attivata è scesa del 22%. Sono circa 24mila posti di lavoro che non ci sono più. È una parte d’Italia, non solo il baraccone della Serie A, ma una grande industria che si è fermata. Adesso il campionato è ripartito, la Nazionale di Mancini è campione d’Europa. Ma il calcio italiano non è mai stato così male.
Pass a scuola, buona la prima: “Ma con le lezioni peggiorerà”
Primo giorno dei docenti a scuola: in tutta Italia ha iniziato a muoversi circa la metà del personale. Si sono messi in fila ai portoni, hanno portato il Green pass, si sono informati sulle modalità richieste dalla scuola e il personale, dalle segreterie ai collaboratori scolastici, hanno dovuto imparare a controllare la certificazione. Qualcuno ha provato a entrare anche senza vaccino, altri si sono collegati per lo più a distanza per le prime riunioni. In attesa di capire che cosa accadrà al rientro di tutti gli 8 milioni di alunni, abbiamo provato a fare una prima ricognizione.
A Roma, all’istituto comprensivo “Fraentzel Celli” i docenti sono arrivati per le prime pratiche : i controlli del Green pass manuali sono all’ingresso, le applicazioni scaricate su tablet o cellulari. Ogni tanto, ci spiegano, il sistema rallentava “forse perché eravamo collegati in molti, chissà”. Secondo l’ultimo rapporto del governo, al 27 agosto sono 138.435 (pari al 9,55%) i docenti e gli altri lavoratori della scuola ancora in attesa della prima dose di vaccino. È il dato residuo dell’annuncio sulll’“oltre 90 per cento del personale scolastico vaccinato” dato la scorsa settimana. In totale, il personale della scuola completamente vaccinato, quindi con due dosi, ammonta a 1.221.536: l’84,29%.
E al Fraentzel Celli, infatti, non tutti gli insegnanti erano muniti di certificazione, nonostante il Lazio vanti il 97% del personale vaccinato. Una scelta? “Non possiamo saperlo – ci spiegano –. Oggi con l’organizzazione ce la siamo cavata, ma non potrà essere sempre così, soprattutto quando arriveranno gli alunni. Speriamo che per il 13 sia pronta la piattaforma del ministero”.
La prossima settimana ci sarà il primo vero banco di prova. All’istituto “Belli” di Villa Gordiani, quattro plessi, tutto è filato liscio. I pochi docenti non vaccinati hanno fatto il tampone. “Si trattava di qualcuno che non aveva la certificazione nonostante la prima dose. Lo hanno richiesto e dovrebbe arrivargli a breve. Siamo tranquilli”. Molte delle riunioni si svolgono comunque da remoto: in questi giorni il rodaggio è lento, è presente circa il 30% del personale. Sulla Tuscolana, in un istituto superiore, il dirigente scolastico ha preteso di controllare il pass esclusivamente su dispositivo (niente cartaceo) e nel primo collegio docenti, circa 150 insegnanti, i posti erano numerati per garantire la distanza.
Non mancano però i prof non ammessi. In Toscana almeno nove, a Torino in due si sono presentati con un’esenzione firmata da un medico che non è stata ammessa dal preside (uno ha anche denunciato il preside per abuso d’ufficio) mentre a Milano due educatrici sono state allontanate da un nido e una scuola per l’infanzia perché prive di certificato.
Milano, appunto, anche qui avvio molto soft. Davanti al Berchet, liceo classico frequentato dai figli della buona borghesia, nessuna agitazione, anche perché gli esami di riparazione inizieranno solo oggi: “Non abbiamo avuto alcun problema – racconta il preside Domenico Guglielmo – anche perché abbiamo ancora numeri molto limitati. Di professori ne sono entrati non più di una quindicina”. E, in effetti, gli ingressi alle ore 8 di ieri, si contavano sulle dita di una mano. Nessun professore è stato rimandato indietro: “Erano tutti a posto con il Green pass –, spiega ancora Guglielmo – e tutti consapevoli delle nuove norme. A noi interessa che almeno per questi giorni si possa tornare all’attività normale. Tutto in regola, quindi, almeno per ora”. Infatti la preoccupazione – anche se il preside non vuole drammatizzare – è tutta per il 13 settembre, primo giorno di scuola: “È chiaro che il controllo del Green pass sarà un lavoro in più – aggiunge – ma dovrebbe arrivare l’applicazione promessa dal ministero a darci una mano. Siamo in attesa”.
Tutto senza intoppi anche all’istituto comprensivo Mari di Salerno, unico grande plesso in un edificio antico del quartiere Torrione, che tra pochi giorni ospiterà circa 850 alunni. È il giorno della presa di servizio. Due collaboratori scolastici con due tablet in dotazione dell’istituto controllano i codici qr degli insegnanti. Sono più di cento. Qualcuno di loro sfodera un foglio di carta, c’è qualche problemino nella lettura ma poi tutto si risolve. “L’app non riconosce bene i qr sul cartaceo”, spiegano, e si suggerisce di salvare il codice sul cellulare per la prossima volta. “Nella mia scuola sono tutti vaccinati – dice la dirigente scolastica Mirella Amato – e devo dirle che, in generale, a Salerno c’è stata un’adesione molto alta alla campagna vaccinale”. Il primo collegio docenti è previsto lunedì. “Si svolgerà da remoto – dice la dirigente – come peraltro suggerito dal piano scuola e dalle norme precedenti non abrogate. Meglio evitare assembramenti, per distanziare cento persone ci vuole molto spazio”.