Polizia, giornalisti e quasi zero No pass. L’“assalto al treno” è un flop mediatico

Alla stazione Tiburtina di Roma gruppi di giornalisti con microfoni e telecamere si spostavano da un lato all’altro del piazzale per ascoltare i sermoni no vax di questo o quello, qualche decina di manifestanti in tutto, quasi invisibili nel viavai, altro che blocchi dei treni. Come la signora Maria: “Mi aspettavo di trovare migliaia di manifestanti e invece siamo tre o quattro”. C’è pure chi chiede: “Ho sbagliato giorno?”. Erano molti di più i cronisti, ai quali i viaggiatori chiedevano: “Ma che evento c’è?”. Per non dire i poliziotti, schierati fin dalla mattina a difesa dello scalo di Roma Est come a Termini anche se al Viminale, da giorni, erano tutti piuttosto scettici sulla partecipazione al blocco dei treni promosso dal misterioso amministratore del canale Telegram “Basta dittatura!”. Oltre 40 mila sulla chat di cui da giorni scrivono i giornali e flop assoluto nelle stazioni.

Non solo a Roma. Una ventina a Milano respinti dalla polizia all’ingresso della stazione Garibaldi, qualche decina a Torino Porta Nuova con un manifestante fermato perché ha reagito male ai controlli, 15 a Bologna, cinque a Bergamo, quattro a Bolzano, due a Napoli con il tricolore. Il Green pass per viaggiare sui treni è entrato in vigore senza troppi scossoni. Un cittadino pachistano senza la certificazione obbligatoria è stato costretto dalla Polfer a scendere a Pavia, verso l’ora di pranzo, da un Frecciabianca Roma/Milano. È successo anche ad altri, “pochi – dice Trenitalia – e senza ritardi”. Il controllo si fa a bordo, anche se in diverse stazioni i viaggiatori si presentavano agli ingressi mostrando il Qr. Alcuni capitreno spiegavano che “il primo giorno siamo stati clementi”. Restano i problemi di chi non riesce ad avere il Green pass per le contraddizioni e i malfunzionamenti del sistema.

Il canale Telegram per un po’ ha insistito: “Quando siete nel punto di incontro fatevi notare che siete lì per la protesta con un cartellone, tricolore o altro. Così la gente si aggregherà lì. Se tutti arrivano ma poi dopo 30 secondi se ne vanno perché non vedono altri, allora non si creerà mai una folla!”. Poi ha mollato. Altri scrivono che sono stati loro a dire di non andare: “Era una trappola, la piazza è matura”. Certamente tutti sapevano che le forze dell’ordine non avrebbero consentito blocchi ferroviari e che la polizia postale indaga su “Basta dittatura!” e altri canali Telegram e non solo. A Torino la Procura procede per istigazione a delinquere anche in relazione a reati di terrorismo e per la divulgazione di dati personali come i numeri di telefono di alcuni scienziati, tra cui l’infettivologo genovese Matteo Bassetti, stalkerizzato e minacciato sotto casa. E le tre aggressioni ai giornalisti hanno fatto salire la tensione. Non c’è solo “Basta dittatura!”, peraltro. Sul canale “Io non mi vaccino”, 22 mila iscritti, molti erano contrari ai blocchi ferroviari. Ma le chat ribollono, anche se i toni sono un po’ scesi. Se non esiste un movimento no vax articolato come in Francia, c’è certamente una sensibilità diffusa, per quanto minoritaria, contro vaccini e Green pass. Basta guardare ai milioni di vaccinabili non vaccinati.

La piazza romana ha avuto un impercettibile sussulto quando appena fuori dalla stazione Tiburtina è comparso un drappello di neofascisti di Forza Nuova guidati da Giuliano Castellino, sorvegliato speciale con precedenti e carichi pendenti a non finire, ma organizzatore di diverse manifestazioni contro lockdown e pass. Hanno messo uno striscione e occupato per un po’ le sedie di un bar. Non era un’idea loro il blocco ferroviario, “Basta dittatura!” è un’altra cosa. Anche perché Castellino non sarà nazista ma neppure identificherebbe mai l’odiata “dittatura” con una svastica. “Non so chi siano, magari i Servizi”, dice. Ed è sicuro che “sabato alle 18, in piazza del Popolo, la gente verrà. Ci vogliono i capi-piazza, i gruppi. E ci sono: anche di compagni. Non si organizzano le piazze su Telegram”. Vedremo.

La Lega “strappa” il certificato (e così anche la maggioranza)

Lui, il pasdaran dei No-pass leghisti, era lì solo per sostituire un collega assente. Ma Claudio Borghi non ha perso l’occasione per adempiere al mandato di Matteo Salvini: fare propaganda sull’emergenza Covid, questa volta votando per l’abolizione del Green pass. Succede alla Camera, dove la commissione Affari sociali è riunita per la conversione del decreto che, tra le altre cose, ha istituito l’obbligo di passaporto sanitario per l’accesso a una lunga serie di attività. Tutti i partiti – facendo appello alla responsabilità collettiva e alla necessità di procedere in fretta con i lavori – hanno ritirato gli emendamenti. Non la Lega, che insieme a Fratelli d’Italia – che però è all’opposizione – e agli ex 5 Stelle di Alternativa c’è, ha mantenuto i suoi e votato sì all’emendamento che prevedeva la soppressione dell’articolo 3, quello – appunto – che introduce il Green pass.

L’emendamento è stato comunque bocciato con i voti del resto della maggioranza, all’interno della quale, però, si apre un discreto problema politico. Quello di una Lega di lotta e di governo, ormai in aperto contrasto. I tre ministri del Carroccio, infatti, avevano dato il loro via libera al provvedimento in Cdm e ieri sono stati smentiti dai loro stessi parlamentari di riferimento. Borghi mette le mani avanti: “Notare – scrive su Twitter – non c’entra niente il governo con conseguenti appelli dentro o fuori, qui ha deciso il Parlamento”.

E in Parlamento, per la prima volta, un partito della maggioranza si mette di traverso sulla questione che “agita” i No-vax, tra l’altro proprio nel giorno in cui minacciavano (invano) di bloccare stazioni e binari per protestare contro il certificato verde. “Intollerabile”, dice il segretario del Pd, Enrico Letta, che dalla festa dell’Unità di Bologna chiede “un chiarimento politico su questo punto” perché “la Lega oggi di fatto si mette contro e fuori dalla maggioranza. Pensate cosa fosse successo se quegli emendamenti fossero passati – aggiunge – . Non sono passati perché c’eravamo noi”. Gli fa eco il capodelegazione 5S Stefano Patuanelli: “È un problema per la Lega, che di fatto si è scissa”. E il ministro Roberto Speranza avverte: “Non c’è spazio per giochini politici”.

Il premier Mario Draghi per ora tace, mentre Salvini si arrampica sugli specchi: “Se lo Stato impone il Green Pass per lavorare, viaggiare, studiare, fare sport, volontariato e cultura, deve anche garantire tamponi, rapidi e gratuiti, per tutti”.

Difficile che l’episodio vada oltre la propaganda e abbia ripercussioni in Aula, tanto più che non è escluso che il governo decida di porre la fiducia anche su questo provvedimento.

L’Europa in ordine sparso. Francia e Finlandia leader

L’Unione europea va in ordine sparso sul telelavoro e il settore pubblico non fa eccezione: alcuni Paesi lo incentivano, altri vogliono far tornare i dipendenti pubblici in ufficio. La maggior parte dei 27 Stati membri ha leggi in materia, ma alcuni Paesi lasciano la regolamentazione alla contrattazione collettiva. Secondo Eurostat, nel 2019 la media europea dei telelavoratori era del 5,4%. I Paesi Bassi e la Finlandia avevano il record continentale con il 14,1%. Nella Ue il 36,5% dei lavoratori ha iniziato a lavorare da casa per la pandemia, rispetto al 15,8% prima del Covid. In un sondaggio di luglio 2020, il 78% dei lavoratori dei 27 Paesi Ue ha dichiarato che, dopo la pandemia, preferirebbe continuare a lavorare da casa almeno occasionalmente.

Germania. Prima della pandemia, quasi il 20% dei circa 3 milioni di dipendenti pubblici tedeschi lavorava da remoto più volte al mese. Le misure contro il Covid hanno accelerato la transizione. Il governo di Berlino vuole incentivare il telelavoro pubblico, ma le amministrazioni comunali scontano i ritardi nella digitalizzazione: dei 14mila dipendenti della città di Francoforte solo poco più della metà potrebbero lavorare da casa. Secondo il Comune, nel primo quadrimestre solo 1.900 impiegati hanno usato lo smart working. Il 10 settembre scatteranno nuove regole per il lavoro in remoto: enti pubblici e aziende private potranno chiedere ai dipendenti di tornare in ufficio con regole di distanziamento, test per i lavoratori (che non sono tenuti a comunicare se sono vaccinati) e mascherine obbligatorie negli spazi comuni.

Francia. Il télétravail non è più obbligatorio da ieri, ma ormai è entrato negli usi e costumi dei francesi. Il 13 luglio scorso governo e sindacati hanno firmato un accordo-quadro, entrato in vigore ieri, che prevede che i dipendenti pubblici possono concordare fino a tre giorni di smart working a settimana. La misura, volontaria, è prevista per tutti i funzionari, sempre che le mansioni lo consentano (sono esclusi per esempio insegnanti e poliziotti). Potrebbe riguardare la metà dei 2,5 milioni di dipendenti pubblici. Lo smart working è diventato la norma in Francia dal primo lockdown del 17 marzo 2020. Nel settore pubblico si è imposto: circa l’80% dei dipendenti pubblici ha lavorato da casa nel primo lockdown. Prima del Covid, il télétravail riguardava saltuariamente meno del 5% dei funzionari.

Spagna. Madrid spinge il telelavoro e lo ha inserito nell’Agenda 2039. Il 14 marzo 2020 oltre 2 milioni di dipendenti pubblici hanno iniziato in massa lo smart working per via della pandemia. A settembre 2020 il governo lo ha regolato per decreto e il 12 aprile scorso lo smart working è stato introdotto nell’accordo nazionale di lavoro: 230.395 dipendenti pubblici, salvo quelli delle forze dell’ordine e gli insegnanti, possono scegliere il telelavoro tre giorni a settimana. Dai prossimi concorsi vi saranno assunzioni dedicate a chi vuole farlo in modo continuo.

Finlandia. Con la pandemia, un’indagine di maggio 2020 ha mostrato che circa il 97% dei dipendenti pubblici aveva iniziato o aumentato la frequenza del lavoro a distanza.

Irlanda. La Strategia nazionale per il lavoro a distanza punta a fare in modo che il telelavoro divenga la norma per il 20% dei dipendenti pubblici.

Romania. È uno degli Stati Ue con i livelli più bassi di telelavoro sia prima (0,4% dei lavoratori nel 2018 e 0,8% nel 2019) sia durante la pandemia, ma con il Covid la diffusione è raddoppiata. Dall’inizio della pandemia oltre il 50% del personale dirigente e dirigenziale pubblico ha comunque utilizzato qualche forma di telelavoro.

E Cingolani scopre i nemici del clima: “Verdi radical chic”

Nonostante sia un accademico, quasi nessuno ormai – renziani a parte e si spiega da sé – pensa che Roberto Cingolani sia un intellettuale: forse perché, da quando lo scienziato prestato a Leonardo si è prestato al ruolo di ministro della Transizione ecologica parla spesso e si sente cosa dice. Ieri, ad esempio, alla scuola politica (sic) di Italia Viva nella ridente Ponte di Legno, Cingolani, volendo forse épater le bourgeois, ha finito per sovvertire la logica. Il nostro ha infatti tracciato un quadro a tinte fosche del futuro: “I mari si innalzano di 20 centimetri rispetto al secolo scorso. Di questo passo fra 60 anni non avremo più città costiere in Italia, saranno tutte sott’acqua, fra 60-70 anni i bambini che oggi sono a scuola probabilmente non potranno vivere a Genova, Napoli, Pisa, Livorno, Palermo”. Bene, e a fronte di questa tragedia? “La transizione ecologica deve essere sostenibile sennò non si muore di inquinamento, ma di fame. Non si può ridurre la CO2 chiudendo da domani le fabbriche di auto”. Il problema, per il ministro, è che “il mondo è pieno di ambientalisti radical chic e di ambientalisti oltranzisti, ideologici: sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati”.

Ora, a parte che ognuno si sceglie i nemici che crede (gli ambientalisti radical chic?), evidentemente la transizione energetica deve essere sostenibile economicamente e socialmente, ma questo presuppone – come ha recentemente scritto Tariq Fancy, capo degli “investimenti sostenibili” di BlackRock fino al 2020 – un ruolo attivo dello Stato nella regolazione e diretto nell’economia. E che Piano di ripresa ha scritto invece il buon Cingolani, al cui ministero pertiene circa il 40% dei fondi del Recovery? A leggerlo una non libera rielaborazione di progetti già presentati da grandi imprese, le uniche considerate in grado di spendere in tempo utile i soldi in arrivo dall’Ue, a cui dunque viene assegnata una corsia velocissima per le autorizzazioni: la rinconversione delle raffinerie per produrre carburanti (waste to fuel dell’Eni); lo stoccaggio di CO2 (sempre Eni a Ravenna); mega-impianti per rinnovabili in aree industriali (Enel); gasdotti per ogni dove, ivi compresi i due per la Sardegna bocciati dall’Autorità per l’energia, per cui è stato preso in giro persino da John Kerry (Snam); i poteri sull’end of waste, cioè quali rifiuti smaltire e come, attribuiti alle Regioni (Confindustria Ambiente).

Si potrebbe continuare, ma il punto è che Cingolani (o chi per lui) ritiene che la transizione energetica sia far pagare allo Stato gli investimenti in gas – che resta un fossile, anche travestito da idrogeno – di grandi aziende e affidarsi al laissez-faire paesaggistico e industriale, altrettanto sussidiato, quanto alle rinnovabili. Se avanza tempo si può scrivere, come nel dl Semplificazioni, che gli inceneritori di rifiuti sono opere strategiche per la transizione, si possono autorizzare un po’ di trivellazioni in mare o buttare lì che sul nucleare bisogna essere pragmatici, guardare ai numeri: “Si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura”. La previsione ottimistica (tipo Il Sole 24 Ore) è 40 anni almeno, quando i bambini di Genova o Napoli avranno – secondo Cingolani – l’acqua alle caviglie. Pare che il pragmatismo dalle parti di Ponte di Legno sia fare copia e incolla delle proposte delle imprese: ma d’altronde non fece lo stesso col Jobs Act il dante causa del prezioso convegno?

Brunetta già archivia il Covid: “Gli statali tornino tutti in ufficio”

Un po’ come l’insegnante severo che alla fine delle vacanze richiama all’ordine i suoi studenti, il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, è ora pronto a sferrare un nuovo colpo contro lo smart working per i dipendenti statali: con un emendamento al decreto Green Pass, si tenterà di far rientrare gli impiegati negli uffici stabilendo che il lavoro in sede debba tornare a essere la regola e non l’eccezione, da praticare solo se non è possibile operare in modalità agile. Nel pieno delle trattative tra l’Aran e i sindacati, che hanno anche l’obiettivo di inserire nel contratto collettivo del pubblico impiego le regole sul lavoro da remoto, il governo ora è intenzionato a intervenire (di nuovo) per decreto. Riecco insomma tornare sulla scena il Brunetta ossessionato dalla produttività – scarsa secondo lui – della Pubblica amministrazione. Oggi il nemico si chiama smart working, causa di inefficienza.

Bisogna capire a quale Brunetta si deve dar retta, visto che le giravolte da quando è tornato al ministero non sono mancate. Il 10 marzo, infatti, ha esordito firmando un accordo coi sindacati nel quale ci si impegnava a normare nel rinnovo contrattuale il tema del lavoro agile. In quell’occasione, l’esponente di Forza Italia aveva pure fatto i complimenti agli statali per come erano riusciti a mantenere alto il livello dei servizi pur agendo da casa. Poi, però, già a fine aprile è arrivato il primo tentativo di far ripopolare gli uffici: un articolo inserito nel decreto Proroghe ha cancellato le soglie minime del 50% e del 60% che i precedenti provvedimenti avevano imposto negli uffici pubblici per contenere la diffusione del Covid.

Si scese al 15%, in quell’occasione, ma comunque lasciando ampia discrezionalità ai dirigenti. Anche in quel caso, una decisione che ha saltato del tutto il confronto coi sindacati, pur promesso poche settimane prima. Ora lo scopo è invece, di fatto, quello far rientrare quasi tutti in sede. Brunetta, come detto, è convinto che in sede si renda meglio al punto che, dice, la crescita del Pil italiano “potrebbe essere addirittura superiore se si ripristinerà la modalità ordinaria di lavoro in presenza, tanto nel pubblico quanto nel privato”.

Il patto sottoscritto sei mesi fa – firmato con Cgil, Cisl e Uil in presenza del presidente Mario Draghi – ha un’impostazione diversa: tende sì a superare l’ottica emergenziale, ma specifica che questo debba avvenire “mediante la definizione, nei futuri contratti collettivi nazionali, di una disciplina che garantisca condizioni di lavoro trasparenti, che favorisca la produttività e l’orientamento ai risultati”. Lo strumento, quindi, dovrebbe essere il rinnovo, del quale si sta discutendo da aprile: e infatti la mossa dell’emendamento ha innervosito i sindacati.

“Un intervento oggi, mentre è in corso un confronto con l’Aran, sarebbe a gamba tesa e contrario agli impegni assunti il 10 marzo”, ha fatto notare Florindo Oliverio, segretario della Fp Cgil, il quale aggiunge – prudentemente – di voler comunque leggere il testo prima di commentare nel merito. Le indiscrezioni sulla norma in arrivo non sono state smentite: lo staff del ministro, contattato dal Fatto, non ha fornito spiegazioni.

Secondo Sandro Colombi, segretario UilPa, “dire che si produce di più semplicemente perché si è in presenza è un’equazione che non funziona; l’emendamento al decreto Green Pass sarebbe profondamente sbagliato in virtù del fatto che stiamo facendo una contrattazione e questa contiene anche il tema dello smart working”.

È da novembre, cioè da quando era ancora ministra Fabiana Dadone, che il dipartimento della Funzione pubblica non diffonde monitoraggi del lavoro da remoto negli enti statali. Nel 2020, il personale in smart working è passato dal 56% di marzo al 64% di maggio fino al 46% di settembre. Dopo aprile, quando è caduta la soglia minima del 50%, non sembra che le cose siano cambiate più di tanto. “Riduzioni per effetto della norma non ne abbiamo registrate, non come fenomeno”, spiega Oliverio. Lo conferma Colombi: “Non c’è stato un drastico ridimensionamento – dice – le stesse amministrazioni si sono riorganizzate con accordi sindacali”. Probabilmente è questo il motivo per cui ora Brunetta vuole mandare un diktat più perentorio agli enti pubblici: ritornino tutti (o quasi) in ufficio.

Come che sia, lo smart working nelle amministrazioni pubbliche – giova ricordarlo – non è nato con la pandemia: già nel 2015 lo si voleva introdurre per almeno il 10% del personale (nella pratica coprì appena l’1%) per tutta una serie di vantaggi connessi (diradamento del traffico, conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, eccetera). Il Covid, insomma, ha solo accelerato un processo che era nelle intenzioni del legislatore (ma forse non di Brunetta).

Non stanno bene

È ufficiale: qualcuno sta spacciando sostanze psicotrope tagliate male nel mondo dell’informazione. Ieri mattina chi s’è affacciato all’edicola è subito corso a barricarsi in casa alla notizia che il Paese, peggio dell’Afghanistan, è sotto il dominio pieno e incontrollato delle orde No Vax e No Pass, pronte ad assaltare treni e stazioni. “Follia No vax, è caccia all’uomo”, “Allarme per gli assalti in 54 stazioni: ‘Pronti a bloccare il traffico ferroviario’”, “Ci mancavano i clandestini No vax” (Libero); “Pandemia di No Vax. Escalation di violenza” (Giornale); “Tolleranza zero contro i No Vax”, “I cattivi maestri dell’odio: fascisti e influencer” (Repubblica), “Assalti no vax, stazioni blindate” (Corriere), “Legittimo impedire atti violenti. La Costituzione autorizza a manifestare, ma senz’armi…” (Cassese). Poi, nel pomeriggio, mentre ammassavano sacchi di sabbia alle finestre e cavalli di frisia agli usci, si è appreso che l’Isis antivaccinista non s’è vista, lasciando desolatamente soli i poliziotti in assetto antisommossa.

Poi c’è Dagospia, detto ora Dragospia per i droplet che riversa sul premier trasformandolo in macchietta e minacciandone l’incolumità (a quando i test salivari?): ogni giorno, con l’aria di chi la sa lunga, svela gli psichedelici consigli che io darei a Conte. Prima gli ho fatto candidare a Milano una nostra consigliera d’amministrazione perché ci tengo ad avere un consigliere comunale. Poi ho pubblicato la notizia di Draghi che sonda i partiti in vista del Quirinale perché voglio “Draghi sul Colle” e dunque “il voto anticipato, col beneamato Peppiniello che evita di sgualcire le pochette aspettando il 2023”. Infine ho indotto Conte a non candidare nessuno nel decisivo collegio di Primavalle nell’ambito di una geniale “strategia suicida” studiata a tavolino. Tenetevi forte: “La coppia Conte-Travaglio è convinta che una sonora sconfitta alle Amministrative incoraggerà la base grillina, oltre che Di Battista, a rivoltarsi contro il governo”. Quindi Conte, su suggerimento del sagace sottoscritto, punta a perdere ovunque e il più rovinosamente possibile, come quel tale che si tagliò le palle per far dispetto alla moglie. Intanto, sul Sole 24 Ore, il noto alchimista D’Alimonte, dai cui alambicchi dopo l’Italicum può uscire di tutto, lancia l’ideona di “Una maggioranza Draghi dopo il 2023”, un “grande centro Lega-Pd”, senza curarsi di dettagli come gli elettori. Ma solo a patto che “il premier non vada al Quirinale”, sennò non potrebbe fare anche il premier. Però il rag. Cerasa, sul Foglio, supera anche quest’ultimo ostacolo: SuperMario vada al Colle e “governi il Paese dall’alto”. Insomma: “non perdere per strada Draghi nei prossimi sette anni”. E soprattutto non abbandonarlo in autostrada.

Jazz, milonga, blues, ballata e lirica. L’avvocato di Asti incanta ancora

Non solo i Rolling Stones fanno un tour alla soglia degli ottanta anni. C’è un altro musicista enorme – che, tra l’altro, gli ottanta li ha già compiuti da quattro anni – che è in tour con la stessa forza e lo stesso stile di quando era più giovane: si chiama Paolo Conte. L’avvocato di Asti, infatti, domenica sera ha incantato la platea di Palazzo Te a Mantova, come d’altronde continua a fare da sempre in giro per mondo: con la stessa voce, lo stesso charme, la stessa capacità evocativa e allegorica. Paolo Conte è un unicum assoluto, un musicista che fa “genere” per conto suo, impossibile classificarlo con delle etichette: dal jazz alla milonga, dal blues alla ballata passando per la lirica non c’è ambito che la sua musica (almeno) non lambisca. Un inventore di atmosfere, di mondi, di nostalgie lontane. Rodolfo Wilcock nella celebre poesia indirizzata al figlio in un passaggio dice: “Ricorda che c’è una sola cosa affermativa, l’invenzione”. Ecco, l’invenzione, creare un mondo, questa è la cosa che distingue Paolo Conte da tutti gli altri. Un artista capace anche di deformare la realtà, come fosse una grande anamorfosi, un grottesco amabile – tra George Grosz e Francisco Goya, quello dei Caprichos, per dirla nel linguaggio dell’arte. In una vecchia intervista, infatti, Conte disse che ciò che conta è lo stile, “è lui che con le sue gambe attraversa il palco e arriva al pubblico, non altro”.

E il repertorio? Il suo, che è quasi sempre lo stesso, con piccole variazioni sul tema e qualche fuga in avanti, inglese o francese che sia. L’ouverture è stata dedicata a Sotto le stelle del jazz, poi Come di, Verde Milonga, Recitando, Dancing, Gioco d’azzardo, con qualche fuga (appunto) tra brani più recenti come Snob, per poi tornare al repertorio meraviglioso che va dai Mocambo fino alle Madeleine e a pezzi intramontabili come Via con me, Max e Diavolo Rosso, sempre in versione estesa con chitarre e violino che sembravano “ciclisti gregari in fuga”. La conclusione ha regalato un brano meraviglioso che non sempre Paolo Conte propone: Messico e nuvole, pezzo che ha portato alla standing ovation – ma ormai a questa ci siamo abituati, accade da molti anni. Un’ora e mezzo di concerto molto generoso, e alla fine i saluti con quel gesto della mano sulla gola che vuol dire “non ce ne è più” (di voce). Ma ce n’è ancora di stile monsieur Conte. E tanto.

Château de l’Horizon: crocevia dei destini di artisti, dive e playboy

Il penultimo film di Robert Guédiguian (La casa sul mare, 2018) traccia un potente affresco della condizione umana a partire dalle crisi che percorrono la semplice famiglia gravitante attorno a una magione affacciata sul Mediterraneo, in una pittoresca calanque della Costa Azzurra: storie di gente vera e modesta, ambientate nell’inverno ostile dei venti e dei sentimenti.

Anche il libro di Mary Lovell, Côte d’Azur – 1920-1960: gli anni d’oro della Riviera francese (Neri Pozza), romanzato ma solido (e ben tradotto da Maddalena Togliani), è dedicato a una casa sul mare in Costa Azzurra, promossa a luogo-simbolo del guazzabuglio umano: ma il lussuoso Château de l’Horizon tra Cannes e Juan-les-Pins, superba invenzione commissionata nel 1930 dall’attrice americana Maxine Elliott all’architetto Barry Dierks, fu per trent’anni il crocevia estivo dei destini di un mondo ben diverso, fatto di miliardari e teste coronate, di dive e playboy, di artisti e figure del jet-set internazionale. Fiumi di denaro e di tradimenti, promiscuità ed endogamia, scandali e ripicche, capricci e pentimenti: la jeunesse dorée inglese che a partire dal 1925 affolla la Riviera, costituisce un mondo chiuso, eticamente declive, verso il quale è difficile provare moti di simpatia: per una delle habituées di queste stanze, Doris Delevingne (bisnonna della nota modella pansessuale Cara; fu per un breve tratto, prima di Peggy, proprietaria del Palazzo Venier dei Leoni a Venezia), “il vero castello di una donna inglese è il suo letto”. Al di là di squallidi opportunismi e intemperanze erotiche, la rilevanza storica di quel milieu è indubbia, se è vero che all’Horizon transitarono Noel Coward e Cole Porter, Francis Scott Fitzgerald e Somerset Maugham, Cecil Beaton e l’Aga Khan, Lloyd George, Wallis Simpson e l’effimero re Edoardo VIII. E, su tutti, Winston Churchill, intimo amico di Maxine, il quale nell’epoca del suo apparente declino politico vi trascorse ripetuti soggiorni dedicati alla pittura e alla scrittura, riflettendo sulla situazione internazionale e maturando quelle lucide convinzioni che lo portarono nel 1940 a essere chiamato a salvare il Regno Unito e l’Occidente.

La parte migliore e più sorprendente del libro della Lovell è la prima, ovvero il romanzo di Maxine Elliott, nata Jessie Dermot in un paesino del Maine e capace tramite l’intelligenza, le doti di recitazione, una serie di legami fortunati o ben scelti, e un’attenta amministrazione delle proprie finanze (fu aiutata in questo anche dal grande banchiere newyorchese John Pierpont Morgan, suo amante per qualche tempo), di fare fortuna, inserirsi nella haute di oltreoceano, dare le feste più belle della Belle Époque nel suo maniero inglese di Hartsbourne, e avere un flirt con l’incontenibile Edoardo VII. L’ascesa e il declino di questa donna, piegata dalla morte sul fronte occidentale del suo grande amore – il tennista neozelandese Tony Wilding, di 15 anni più giovane di lei –, ma capace di finanziare e organizzare in piena guerra una chiatta di aiuti per gli sfollati del Belgio, e poi di risorgere a nuova vita in Francia negli anni 20 inventandosi per dieci anni (morì nel 1940) la residenza più “in” della Riviera, offrono un taglio particolare su quell’universo che Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald consacrò in forma pienamente drammatica.

Dopo la Seconda guerra mondiale, diradatisi gli Inglesi (ma non Churchill, che tornerà in Riviera), lo Château de l’Horizon verrà acquistato da Aly Khan, il figlio del grande Aga Khan la cui tomba troneggia ancora oggi sopra Assuan in Egitto: fascinoso e ricchissimo, Aly trasformerà la Riviera nel teatro d’elezione delle sue infinite e compulsive conquiste femminili, e in quello della storia d’amore con Rita Hayworth, culminata in fastose nozze a Vallauris per la gioia dei paparazzi. Il lettore italiano sentirà qui aria di casa: per seguire la Hayworth, Aly Khan lasciò Pamela Digby Churchill (già sposa di Randolph e nuora di Winston), la quale si consolò avviando una duratura relazione con Gianni Agnelli, emerso da uno yacht proprio sotto l’Horizon nell’estate del 1948; quattro anni più tardi, Pamela lo avrebbe trovato a letto con un’altra nella loro nuova villa in Riviera, inducendolo a una fuga precipitosa in auto culminata nello schianto in cui Agnelli rischiò di morire, rimanendo claudicante a vita. Ma per l’Horizon il fallimento del “matrimonio del secolo” fu l’inizio della fine: congedata la Hayworth, anche in seguito alle sue sempre nuove e scandalose avventure Aly fu scartato dal padre come successore nel ruolo di guida spirituale degli Ismailiti, a vantaggio di suo figlio Karim; morì in un incidente d’auto nel 1960. Vent’anni dopo fu proprio Karim a vendere la magione al re saudita Fahd (che peraltro la snobbò): nel frattempo, infatti, aveva scoperto la Costa Smeralda e tradito il fascino fané di Cannes e Antibes per inventarsi la nuova opulenta movida di Porto Cervo e dintorni. Per chi cerchi emozioni vere, suggerisco comunque Guédiguian.

Dall’Italia fino a Hollywood: ai cinema non resta che piangere

Venezia parte con tanti titoli eccellenti da fare impallidire Cannes. Alla Biennale c’è un eccellente presidente, Roberto Cicutto, con una solida esperienza nel cinema. Ha confermato Alberto Barbera, ottimo direttore. Eppure si ha la sensazione che tanta competenza non faccia i conti con una drammatica realtà: il cinema è in agonia. Cresce la produzione di nuovi film, ma le sale chiudono una dietro l’altra. Sono più le città dove non è rimasta nessuna. Basti pensare che a Roma, la capitale dello spettacolo, sono sopravvissute in poche. Cinemonitor, il portale di cinema e media che dirigo alla Sapienza, sta raccogliendo i dati di questo triste declino. Ecco qualche esempio. A Roma il glorioso Metropolitan, all’angolo con piazza del Popolo, è sbarrato da anni. Alle porte dormono i senzatetto. Decimati quasi tutti gli schermi del centro storico, resiste non si sa ancora per quanto la multisala dell’Adriano, messa in liquidazione insieme a una squadra di calcio. Intanto, una recente mappatura registra la scomparsa di 101 sale.

La ragione di tale sterminio è evidente. Al cinema era solito recarsi soprattutto un pubblico maturo. Oggi è invecchiato e preferisce restare a casa di fronte al piccolo schermo. E i giovani? La loro frequenza è limitata a quando esce un blockbuster americano. Se sentono parlare di cinema d’autore puntano l’indice e il pollice come fosse una pistola. Dobbiamo condannarli? Perché dovrebbero sacrificare la paghetta per assistere a pellicole dove l’età media dei protagonisti è quasi sempre più del doppio della loro? Se sulle sponde del Tevere c’è poco da brindare, non è che a Hollywood se la passino meglio. La sfilza di titoli che da oltre un anno attendono di uscire in coda post Covid continua ad aumentare, al pari dei produttori che scelgono di saltare la sala per approdare su qualche piattaforma. Netflix e Amazon la fanno da padroni, giudicando lo schermo cinematografico una reliquia del passato. Un censimento che abbiamo effettuato in Italia dal 2003 al 2017, a fronte di un numero complessivo di 5000 sale, ne registrava la scomparsa di 700. Nel 2019 la situazione è ancora peggiorata: sono rimaste soltanto 1218 sale attive per 3542 schermi. A un anno di distanza, nel 2020, stando ai dati Anica, “i cinema hanno registrato un incasso complessivo di oltre 182.5 milioni di euro per un numero di presenze pari a circa 28 milioni di biglietti venduti. Si tratta, rispetto al 2019, di un decremento di più del 71,3% degli incassi e di più del 71% delle presenze. Se si considerano i dati a partire dall’8 marzo, primo giorno di chiusura nazionale delle sale, il mercato nel 2020 ha registrato invece il 93% circa in meno di incassi e di presenze rispetto al 2019, per una differenza negativa di più di 460 milioni di euro”. Cifre da brivido. Per uno come me, che ha appena finito di girare un film destinato alle sale, c’è poco da stare tranquillo. Né può rassicurarci il fatto che si continua a produrre un gran numero di pellicole, quando per molte la previsione di resa economica è prossima allo zero.

Cos’è dunque il cinema oggi? Forse somiglia a quelle stelle che brillano, ma di fatto non esistono più. Se Roma piange, Sparta non ride. In America e in Canada nel 2019 in sala sono usciti 792 film. Scesi a soli 329 nel 2020. Per un’industria come quella statunitense, abituata a sfornare film per ogni genere di pubblico, parlare di catastrofe è dire poco. Infatti si guarda ai mesi scorsi come a un annus horribilis. Bisogna andare indietro al 1998 per incassare così poco. Molte sale sono rimaste inattive, un gran numero di rassegne cancellate, parecchi progetti chiusi in un cassetto. Non resta che piangere? Può consolare sapere che anche in Cina l’industria cinematografica è in ginocchio. A marzo 2020 ha chiuso con un deficit di 2 miliardi di dollari. E con lo spegnimento di 70.000 schermi. L’Europa non sta meglio. Vedi la Francia, di solito ai primi posti per numero di biglietti venduti. Lo scorso anno ha dovuto fare i conti con la metà di spettatori. Il guaio è che il 2021 non promette bene. Bisogna avere il coraggio di dirci la verità. Il cinema come l’abbiamo conosciuto temo non tornerà più. E non solo per colpa del Covid. Hanno preso il sopravvento le piattaforme, che crescono in tutto il mondo a livelli esponenziali. Una volta che il pubblico si abitua a saltare avanti e indietro nella visione di un film, a stopparlo per rispondere al telefono o per andare in bagno, è difficile che torni a frequentare il buio delle sale come era solito un tempo. Un amico produttore è solito dire amen, la messa è finita. Speriamo si sbagli e che Venezia possa essere l’occasione per una riflessione collettiva, in vista di una reinvenzione dell’emisfero cinema.

Nel futuro di Kabul il mercato facile delle anfetamine

Fino a pochi giorni prima del caos infernale generato dal disastroso ritiro dei contingenti Nato, a Kabul, sotto il ponte Pule Sukhta, a pochi km dal quartiere dei palazzi governativi, si ritrovavano ogni giorno centinaia di persone per comprare droga pesante.

Un alto funzionario del programma dell’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine in Afghanistan, Anhuba Sold, durante questi ultimi anni aveva più volte denunciato che quello della droga è un flagello che le autorità governative erano sempre meno in grado di debellare. “È una battaglia che si combatte tra un mostro armato di ferro e un cavaliere con un coltello di plastica”, sottolineava. Il “ferro” è infatti diventato nel tempo sempre più pericoloso grazie all’aggiunta di una seconda lama: la metanfetamina. La prima, storica, è l’eroina, sintetizzata dall’oppio tratto dai bulbi del papavero che cresce ovunque nel sud del Paese. Ma una dose di eroina costa molto di più di una di “crystal met”: l’equivalente di 3 euro contro 45 centesimi. La ragione di questa disparità è dovuta al fatto che il processo per creare la metanfetamina è più economico, a partire dai laboratori che non necessitano di strumentazioni costose e complicate da usare.

Ma è stato quando i talebani hanno scoperto di poter estrarre la metanfetamina da una pianta locale e non più da sciroppi per la tosse o farmaci dispendiosi che la produzione è decollata. L’efedra, chiamata localmente bandak o oman, è un’erba perenne che si trova in abbondanza lungo i tanti versanti montuosi del Paese. Un tempo era usata per aiutare la legna ad ardere più a lungo o per curare i disturbi renali, ora invece viene raccolta, imballata ed essiccata, quindi trattata chimicamente per estrarre il principio attivo, ovvero l’efedrina. L’estrazione è un processo relativamente semplice ed economico. “I dati disponibili suggeriscono che l’Afghanistan è diventato in breve tempo produttore e fornitore di quantità ingenti di metanfetamina a basso costo grazie all’efedrina”, hanno avvertito i ricercatori dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt).

Si tratta di un problema che riguarda tutto il mondo, Europa compresa, non solo i tossicodipendenti afghani. Secondo Philip Berry, docente al King’s College e autore di The War on Drugs “se l’industria delle metanfetamine in Afghanistan continua a espandersi, c’è la possibilità che l’Europa diventi la destinazione più importante”. Resta da vedere se i talebani, che finora si sono autofinanziati soprattutto con i proventi del mercato di eroina, ora che sono tornati al potere riterranno opportuno continuare a immettere nelle rotte consuete attraverso l’Iran, Turchia e Balcani, anche la metanfetamina. Che, nel frattempo, tuttavia ha fatto breccia anche negli altri mercati, dall’Africa all’Australia. Reinsediati a Kabul, i talebani si sono affrettati a dichiarare guerra alla droga per accreditarsi a livello internazionale. Ma se l’economia afghana collasserà sarà inevitabile assistere a un aumento della produzione di metanfetamine e di “portatori” tra i profughi. È uno dei dilemmi più difficili da risolvere per gli occidentali ormai lontani. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ieri ha implorato il mondo di continuare a investire in Afghanistan, dopo che la Banca Mondiale, il Fondo Monetario e gli Usa hanno congelato i fondi.