Per gli Stati Uniti, “si apre una nuova era”: per la prima volta da vent’anni, non sono in guerra. L’Afghanistan, invece, è risprofondato nell’era in cui viveva prima della a conti fatti inutile occupazione occidentale. Il presidente Usa Joe Biden ha parlato ieri sera al popolo americano, cercando di mettere in prospettiva gli eventi delle ultime tre settimane. La buona notizia è che la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti è finita: vent’anni meno un mese, centinaia di migliaia di afghani uccisi – insorti, ma pure molti civili, donne, bambini–, oltre 3 mila americani e loro alleati caduti – più delle vittime dell’11 Settembre –, almeno 2.300 miliardi di dollari spesi.
La cattiva notizia è che questo capitolo della storia militare Usa sarà probabilmente ricordato come “un colossale fallimento”, fatto di “promesse non mantenute” e chiuso in modo tragico, una rotta, non una ritirata: lo scrive l’Ap, la più grande agenzia di notizie al mondo, non un sito ‘trumpiano’ o ‘talebano’. Completato il ritiro nel cuore della notte tra lunedì e martedì – ora afghana –, il presidente Biden, rivendica la decisione “di non estendere oltre il 31 agosto la nostra presenza in Afghanistan” e afferma che ora l’impegno Usa contro il terrorismo e per l’Afghanistan assumerà nuove forme.
Per Biden “mettere fine alla missione di evacuazione come pianificato è stata raccomandazione unanime di tutti i comandanti dello Stato Maggiore e di quelli sul terreno”. L’obiettivo: “Proteggere le vite dei nostri soldati e garantire la prospettiva delle partenze dei civili che vogliano lasciare l’Afghanistan nelle prossime settimane e mesi”. Secondo alcuni stime, sarebbero almeno 100 mila gli afghani ‘lasciati indietro’ dalla Caporetto occidentale.
C’è chi vede il bicchiere mezzo pieno: sul Washington Post, che accusa Biden di “disastro morale”, Michael Leiter, già direttore dal 2007 al 2011 del centro nazionale Usa antiterrorismo, sostiene, citando dati a suo dire “inconfutabili”, che il pericolo terroristico è stato ridimensionato dalla ‘lunga guerra’. Sarà vero. Ma non lascia tranquilli la ‘staffetta’ tra il generale Christopher Donahue, comandante la 82a Airborne Division, l’ultimo militare Usa a salire sull’ultimo C-17 al decollo da Kabul, e Amin-ul-Haq, ex responsabile della sicurezza di Osama bin Laden nel suo rifugio di Tora Bora, rientrato quasi contemporaneamente in Afghanistan.
Quanto alla presenza dell’Isis, la sequela di tragici eventi dell’ultima settimana ne è solida prova. Sul terreno ci sarebbero 2.000 “irriducibili” miliziani del Califfato.
Quando l’ultimo stormo di cargo ha superato le vette dell’Hindu Kush, Biden ha potuto affermare d’avere mantenuto la promessa di porre termine alla presenza in Afghanistan, una promessa tradita dai suoi predecessori. Ma la guerra non è stata vinta e le circostanze della fuga americana e occidentale stingono sul mandato del presidente, criticato da più parti.
In un editoriale, il Washington Post parla di “un disastro morale, attribuibile … agli errori, strategici e tattici, di Biden e della sua Amministrazione”. Il giornale è scettico sulle promesse dei talebani di lasciar uscire tutte le persone che lo desiderano, ma chiede al presidente, se possiede le “leve significative” evocate dal segretario di Stato Antony Blinken, di “usarle inesorabilmente, finché ogni afghano che abbia una legittima rivendicazione non abbia trovato rifugio”.
Virulenti gli attacchi dei repubblicani, che ipotizzano iniziativa di impeachment contro il presidente o, in alternativa, contro Blinken e ignorano che la resa ai talebani sia stata firmata, a fine febbraio 2020, dall’allora presidente Trump, senza coinvolgere né il governo di Kabul né gli alleati Nato. Il presidente conta sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che chiede ai talebani di rispettare la libertà di movimento, passata con Russia e Cina astenute.