Biden volta pagina: “Ora una nuova era”. Ma resta da solo

Per gli Stati Uniti, “si apre una nuova era”: per la prima volta da vent’anni, non sono in guerra. L’Afghanistan, invece, è risprofondato nell’era in cui viveva prima della a conti fatti inutile occupazione occidentale. Il presidente Usa Joe Biden ha parlato ieri sera al popolo americano, cercando di mettere in prospettiva gli eventi delle ultime tre settimane. La buona notizia è che la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti è finita: vent’anni meno un mese, centinaia di migliaia di afghani uccisi – insorti, ma pure molti civili, donne, bambini–, oltre 3 mila americani e loro alleati caduti – più delle vittime dell’11 Settembre –, almeno 2.300 miliardi di dollari spesi.

La cattiva notizia è che questo capitolo della storia militare Usa sarà probabilmente ricordato come “un colossale fallimento”, fatto di “promesse non mantenute” e chiuso in modo tragico, una rotta, non una ritirata: lo scrive l’Ap, la più grande agenzia di notizie al mondo, non un sito ‘trumpiano’ o ‘talebano’. Completato il ritiro nel cuore della notte tra lunedì e martedì – ora afghana –, il presidente Biden, rivendica la decisione “di non estendere oltre il 31 agosto la nostra presenza in Afghanistan” e afferma che ora l’impegno Usa contro il terrorismo e per l’Afghanistan assumerà nuove forme.

Per Biden “mettere fine alla missione di evacuazione come pianificato è stata raccomandazione unanime di tutti i comandanti dello Stato Maggiore e di quelli sul terreno”. L’obiettivo: “Proteggere le vite dei nostri soldati e garantire la prospettiva delle partenze dei civili che vogliano lasciare l’Afghanistan nelle prossime settimane e mesi”. Secondo alcuni stime, sarebbero almeno 100 mila gli afghani ‘lasciati indietro’ dalla Caporetto occidentale.

C’è chi vede il bicchiere mezzo pieno: sul Washington Post, che accusa Biden di “disastro morale”, Michael Leiter, già direttore dal 2007 al 2011 del centro nazionale Usa antiterrorismo, sostiene, citando dati a suo dire “inconfutabili”, che il pericolo terroristico è stato ridimensionato dalla ‘lunga guerra’. Sarà vero. Ma non lascia tranquilli la ‘staffetta’ tra il generale Christopher Donahue, comandante la 82a Airborne Division, l’ultimo militare Usa a salire sull’ultimo C-17 al decollo da Kabul, e Amin-ul-Haq, ex responsabile della sicurezza di Osama bin Laden nel suo rifugio di Tora Bora, rientrato quasi contemporaneamente in Afghanistan.

Quanto alla presenza dell’Isis, la sequela di tragici eventi dell’ultima settimana ne è solida prova. Sul terreno ci sarebbero 2.000 “irriducibili” miliziani del Califfato.

Quando l’ultimo stormo di cargo ha superato le vette dell’Hindu Kush, Biden ha potuto affermare d’avere mantenuto la promessa di porre termine alla presenza in Afghanistan, una promessa tradita dai suoi predecessori. Ma la guerra non è stata vinta e le circostanze della fuga americana e occidentale stingono sul mandato del presidente, criticato da più parti.

In un editoriale, il Washington Post parla di “un disastro morale, attribuibile … agli errori, strategici e tattici, di Biden e della sua Amministrazione”. Il giornale è scettico sulle promesse dei talebani di lasciar uscire tutte le persone che lo desiderano, ma chiede al presidente, se possiede le “leve significative” evocate dal segretario di Stato Antony Blinken, di “usarle inesorabilmente, finché ogni afghano che abbia una legittima rivendicazione non abbia trovato rifugio”.

Virulenti gli attacchi dei repubblicani, che ipotizzano iniziativa di impeachment contro il presidente o, in alternativa, contro Blinken e ignorano che la resa ai talebani sia stata firmata, a fine febbraio 2020, dall’allora presidente Trump, senza coinvolgere né il governo di Kabul né gli alleati Nato. Il presidente conta sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che chiede ai talebani di rispettare la libertà di movimento, passata con Russia e Cina astenute.

L’Emirato islamico al via: pallottole, preghiere, terrore e nessun governo

“Adesso l’Afghanistan è sovrano e libero”. Quando l’ultimo soldato americano se ne va è quasi mezzanotte. A Kabul la vittoria si celebra con raffiche di kalashnikov che bucano silenzio e buio, grida di ringraziamento ad Allah takbir, il grande. Le squadre speciali talib alzano le canne dei fucili al cielo e pregano in pista. “È una grande lezione per il mondo l’America sconfitta”, con cui però auspicano di avere “buone relazioni”, dice il portavoce Zabihullah Mujahid ai centinaia di soldati sul posto e a centinaia di migliaia di follower su Twitter. L’ultimo avamposto occidentale appena abbandonato da truppe straniere e cargo diventa subito il podio dei comizi del primo giorno dell’Emirato Islamico.

“Abbiamo portato la pace” ha detto Hanas Haqqani, leader di un clan che ha dato il nome a un’intera rete di terroristi attivi tra Pakistan e Afghanistan. “Col cambio di regime, ci sono delle sfide, come quando si cambia casa”. Dopo la metafora del trasloco, la propaganda talib ripiega sul ritorno della sicurezza per le strade e “ospedali non più pieni di morti”.

Tra piste e scali che il segretario generale Nato, Jens Stoltenberg, ha chiesto di lasciare aperti per permettere l’entrata degli aiuti umanitari, rimarranno divise di Turchia e Qatar, la petromonarchia che accoglierà d’ora in poi tutte le ambasciate straniere che non riapriranno a Kabul. In una guerra senza vincitori a trionfare è Doha, d’ora in poi canale unico per parlare con gli islamisti che invece richiedono la riapertura delle sedi diplomatiche. Fondi, oltre che alleanza e rapporti con la comunità internazionale, è quello che serve a un movimento finora militare che compie i primi passi politici con le casse vuote e servizi primari da garantire.

“Il mondo deve riconoscerci, cooperare con noi e fare investimenti per la ricostruzione” ha detto Ahmadullah Wasiq, della commissione culturale talib.

Non a Kabul, ma a Khandahar, città natale del leader supremo Hibatullah Akhunzada, riemerso dalla clandestinità iniziata nel 2016, si è riunita ieri la prima shura, consultazione per un nuovo governo islamico. Nonostante le promesse di immediata formazione dell’esecutivo, le prime rivalità tra correnti in un movimento tutt’altro che omogeneo emergono e ritardano il riavvio del sistema governativo da cui gli impiegati sono scappati.

Se per i talib è “un momento storico”, per Mosca è critico: “La gente rischia la vita pur di scappare”, ha detto ieri il ministro della Difesa Serghey Shoigu al Cremlino. Il Pakistan dice no a Stati Uniti ed Europa che chiedono di accogliere i rifugiati e anche gli uzbeki chiudono i confini. Su quasi 100mila bambini senza casa, 33 mila negli ultimi 20 anni sono stati mutilati, denuncia Save the children. Che i loro diritti vadano rispettati lo ha detto l’Onu che si è rivolta direttamente ai nuovi padroni di un Paese dove quasi la metà della popolazione ha meno di 15 anni. Di altri bambini parla Amnesty, che chiede ufficialmente agli Usa di assumersi la responsabilità delle sei piccole vittime uccise dall’attacco del suo drone il 29 agosto.

Da Londra arriva la smentita all’alibi di Washington, avvertita dall’intelligence un giorno prima dell’attacco dell’Isis-k: i varchi non sono stati lasciati aperti per i britannici, dice il ministro degli Esteri Domenic Raab. Uccidono otto talib e ne feriscono altrettanti in uno scontro a fuoco a ovest della valle del Panjshir i ribelli dell’Alleanza del Nord. Masoud Andarabi, ex ministro dell’Interno, che ha denunciato tre giorni fa l’uccisione di un cantante folk, ribadisce che le violazioni dei diritti delle donne sono sistematiche. I talib “non sono quella decina di volti che hanno visto gli occidentali durante i negoziati di Doha”, ma incontrollabili criminali impuniti delle province.

Dalle ceneri di un simbolo, l’aeroporto, nasce l’icona di un ritiro che l’aviazione americana vuole ricordare come una gloriosa sconfitta. Immortalato fuori fuoco da un mirino notturno di un fucile, la foto mostra l’ultimo soldato che sale a bordo dell’ultimo cargo: è la fine dell’operazione Enduring freedom, la pace duratura che adesso assicurano di mantenere nell’Emirato rinato dalla guerra dei vent’anni.

Mail Box

 

A favore del Rdc: è conquista sociale

Lega, FdI, FI e Iv, non fanno altro, attraverso i quotidiani compiacenti e dibattiti televisivi, che criticare il Reddito di cittadinanza. Secondo loro spinge le persone a starsene in poltrona senza cercare lavoro, perché tanto gli arrivano i soldini e questo lo reputano estremamente diseducativo. Quindi seguendo il loro ragionamento, l’indennità di malattia non dovrebbe essere pagata perché ci sono persone che non sono veramente malate ma stanno a casa egualmente; e non dovrebbero esistere le pensioni d’invalidità, perché in mezzo a tanti c’è qualcuno che non ha diritto, ma la prende lo stesso. Da tanto tempo non ricordavamo una politica di sostegno ai più poveri, ma sempre pronta ad aiutare quelli che non hanno affatto bisogno. Viva il Reddito di cittadinanza! Tanto per essere chiari: io fortunatamente lavoro e non lo percepisco.

Francesco Magnetti

 

Referendum Giustizia: quesiti e paradossi

Se viene approvato il quinto quesito dei referendum sulla giustizia, si potrà ricorrere al carcere preventivo solo se si dimostri il “concreto e attuale pericolo” che il soggetto reiteri “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”. È un po’ come dire che si può fermare un piromane solo se imbraccia un lanciafiamme. Infatti, per i maltrattamenti in famiglia, difficile che un marito violento usi un bazooka; bastano i pugni con cui pestare moglie e figli. I truffatori di anziani non si fanno aprire la porta col mitra spianato, ma con gentili inganni. Ecco, per questi motivi, io sono contrario a questo quesito, perché sto dalla parte delle vittime. Che si vedrebbero esposte ai loro oppressori in libertà, dopo la denuncia, in attesa di giudizio.

Massimo Marnetto

 

Non aiutare i profughi è contro i nostri valori

Non voler accogliere i profughi afghani non è solo “sconcertante”, come ha detto il presidente della Repubblica Mattarella, è la negazione di tutte le regole, giuridiche e umane, che l’Europa si è data e sulle quali fonda i propri valori. A parole tutti esprimono solidarietà al popolo afghano, ma poi si affrettano ad alzare muri per non farli venire a “disturbare”, a dimostrazione dello stato culturale in cui è precipitato il Paese. Il luogo in cui sono nati e si sono diffusi i più elevati ideali umani, corrotto dal proprio benessere materiale, si sta arroccando in una squallida difesa dei propri privilegi. Eppure dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che l’umanità potrà salvarsi dalla catastrofe solo se lo farà tutta insieme, marcare frontiere ed erigere barriere non serve a niente, anzi, peggiora ulteriormente le cose.

Mauro Chiostri

 

Sul caso Assange la politica tace ancora

Spero che milioni di italiani abbiano seguito la bellissima puntata di Report dedicata alla vicenda Assange. Iacona e il suo staff avrebbero anche potuto mostrare di più: per esempio le atroci immagini miracolosamente trasmesse dalla Rai molti anni fa e mai più riproposte, quelle che mostravano contadini afghani che camminavano nei loro villaggi, sui quali degli americani scatenavano una tempesta di fuoco. Rallegriamoci che una volta tanto il Servizio pubblico abbia svolto la sua missione. Rimane l’amaro in bocca però al pensiero della viltà dei politici italiani (di tutti i partiti), nessuno dei quali ha mai alzato la voce in difesa di Assange torturato da 11 anni (comodo parlare di Zaki), e che hanno assecondato le sciagurate iniziative militari americane. E si capisce perché: chi non si è mostrato servile l’ha pagata cara, da Craxi (che lo meritava per altri motivi) ad Aldo Moro, e forse non solo loro.

Franco Buoncristiani

 

Un rituale quotidiano che fa bene al prossimo

Entro in edicola contenta e con un sorriso allungo il primo coupon dell’abbonamento al vostro quotidiano. Il giornalaio, che mi vede arrivare ogni giorno alle prime ore del mattino, lo prende: “Ha fatto un’ottima scelta anti Covid, niente più passaggio di monete di mano in mano”, mi dice soddisfatto. Io rispondo che sono vari i motivi per cui ho fatto questa scelta, non da ultimo il notevole risparmio di denaro con il quale posso pagare la scuola a una ragazza africana.

Edda Valentini

 

Foibe e coscienze sozze, solidarietà a Montanari

Sono il coordinatore Anpi sezione di un piccolo comune veneto e voglio esprimere la più sincera solidarietà a Montanari per le sue posizioni intellettuali e politiche, sempre espresse con estrema onestà. Senza nulla togliere a quanto successo sul “fronte orientale” dal ’43 al ’47, credo sia fondamentale stabilire con onestà le reali condizioni che hanno causato i fatti. Senza strumentalizzare ambiguità e ipocrisie con accostamenti antistorici al fine di sdoganare il “ventennio”, ormai condannato dalle coscienze democratiche e (si spera) dalla storia. Un sincero grazie a Montanari per la sua opera divulgativa di equità storica.

Guido Moressa

 

Alitalia: il personale di volo privilegiato

In merito alla crisi ormai ventennale di alcune compagnie di volo, Alitalia, Air Italy (ex Eurofly), segnalo che un numero consistente di piloti e assistenti di volo di queste compagnie, hanno percepito e percepiscono da anni trattamenti di cassa integrazione dagli importi esorbitanti (dai 3 ai 7 mila euro mensili), in confronto ai lavoratori di altri settori. Non si applicano a loro, per espressa previsione di legge dell’allora governo Berlusconi, i massimali di importo dell’assegno che vengono applicati dall’Inps agli altri, né i limiti temporali previsti per altri comparti. C’è chi, tra loro, percependo la cassa integrazione da ormai 9 anni, impiega il tempo svolgendo attività promozionali a spese della fiscalità generale, in attesa che gli venga generosamente concesso lo scivolo pensionistico alle prossime periodiche manifestazioni di protesta dei lavoratori interessati. Perché non riconvertirli e farli lavorare in favore della collettività?

Andrea

Covid. “Io 60enne senza vaccino, perché ho rifiutato AstraZeneca”

 

Gentile redazione, scusatemi se vi scrivo questa lettera a mano, ma sono vecchia e non ho il computer. Vorrei solo che fosse dedicata almeno una riga del giornale agli ultrasessantenni che sono stati lasciati senza vaccino, perché non se la sono sentita di ricevere Astrazeneca. È quello che è successo a me e a diverse mie amiche. Anche se non del tutto convinta, io ero andata a vaccinarmi, ma quella caricatura di dottore è stata chiara: “O fai Astrazeneca o stai senza vaccino”. E io sono stata senza vaccino.

Ma il ministro Speranza e i suoi compagni non starnazzano in continuazione sull’importanza di vaccinarsi? Forse sarebbe meglio che andassero a portare le mucche al pascolo… Non può essere un caso che moltissimi over 60 non si siano vaccinati. Perché non si parla mai di questo? E l’altra sera abbiamo pure sentito “o il vaccino o morte” di Draghi. Ma il brav’uomo lo sa di tutti questi anziani a cui è stata negata la vaccinazione? Perché se lo sa è soltanto un ipocrita irresponsabile, se invece non lo sa allora è il presidente del Consiglio più ingenuo del pianeta. Gran brutto Paese è questo! Ma io, grazie a Dio, sono vecchia.

Gabriella

Super-abilità: record abbattuto

Archiviatoil giorno 7 di Tokyo 2020, c’è già un grande traguardo da festeggiare. La spedizione azzurra è infatti arrivata a 43 medaglie e si avvia a polverizzare il record di 39, risalente a Rio 2016. Il dato è evidente e testimonia la crescita esponenziale del movimento nostrano, in soli 5 anni. Il 1995, anno in cui ho iniziato a fare sci nautico tra i non vedenti, sembra ieri, eppure è preistoria se rapportato all’imponente velocità con cui è cresciuto lo sport paralimpico in Italia.

La mia federazione di appartenenza era affiliata alla Fisd, federazione italiana sport disabili, che pochi anni prima era addirittura Fish (l’H sta per handicappati). Nel corso degli anni si è arrivati al Comitato Italiano Paralimpico, che da “costola” del Coni è diventato ente pubblico a se stante, omologo al Coni, con competenze sullo sport e la disabilità. Questo complesso percorso va ben oltre gli aspetti formali ed è il frutto del grande lavoro del presidente Pancalli, supportato dai risultati degli atleti e dalla volontà di tutto il movimento di emancipare se stesso e comunicarsi al Paese intero.

La disabilità deve molto allo sport: c’è una percezione totalmente differente dell’atleta paralimpico e un rispetto sempre maggiore dei suoi risultati sul campo, facendo da traino per la categoria, restituendo così la dignità alla persona, con e senza disabilità. Il grande risultato spinge i media a parlarne e genera cultura tra le persone, portando al conseguente aumento del numero di praticanti.

Ci godiamo questo stato di grazia consapevoli che il movimento paralimpico italiano è soltanto all’inizio della propria ascesa e grazie a questi traguardi e all’attenzione del Paese, i numeri sono destinati ad aumentare nelle prossime edizioni dei Giochi. Si è innescato un moto la cui inerzia può regalarci molti sorrisi oggi e nel futuro, portando a percepire la disabilità come una condizione e non una condanna.

 

*Pluricampione mondiale ed europeo di sci nautico, presidente ad honorem di Piramis Onlus e fondatore di Real Eyes Sport

L’orda inutile degli avvocati

Fra referendum (inutili o dannosi) e progetti di riforma inidonei a risolvere i difetti dei sistemi giudiziari e processuali italiani, vale la pena di riassumere quali sono i veri problemi della giustizia italiana, alla luce dei dati forniti dal Consiglio d’Europa (Organismo che raggruppa 47 Stati e quindi molto più ampio dell’Unione europea e che esprime la Corte europea del Diritti dell’Uomo).

I dati che seguono sono tratti dal sito dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla base della relazione biennale della Cepej (acronimo che in francese significa Commissione europea per l’efficienza della giustizia). L’ultima relazione pubblicata su tale sito è quella del 2016, ma le variazioni a ogni biennio non sono molte e quelle del rapporto Cepej 2020 (consultabile sul sito del Consiglio d’Europa) forniscono dati similari.

Il primo mito da sfatare è che le risorse destinate all’amministrazione giudiziaria siano scarse. L’Italia spende ogni anno per il sistema giudiziario circa 48 euro per ogni abitante, più del Regno Unito e della Francia. Tuttavia quelle risorse non sono sufficienti a far funzionare una macchina in larga misura obsoleta e che deve fronteggiare carichi di lavoro ben più elevati di quelli di altri Stati. Non è neppure vero che i giudici di professione in Italia siano pochi: 6939 contro i 6935 della Francia (esclusi i magistrati addetti al pubblico ministero) pari a 11 ogni 100.000 abitanti contro i 10 ogni 100.000 abitanti della Francia, Paese per certi versi abbastanza simile all’Italia. I magistrati del pubblico ministero in Italia sono 3,4 ogni 100.000 abitanti contro 2,8 in Francia. Anche il personale amministrativo, contrariamente a quanto si dice è in linea con quello della Francia, anche se con un’età media avanzata a causa del blocco delle assunzioni per 25 anni (con la difficoltà di prepararli all’uso di nuove tecnologie).

Dove sono allora le anomalie italiane? Il dato che più colpisce è il numero di procedimenti. Nel settore civile, ogni anno, vengono avviate (ma anche definite) un numero di cause che è quasi il doppio di quelle avviate in Francia. Sostanzialmente lo stesso dato riguarda il settore penale.

Ritengo che un così elevato numero di procedimenti dipenda dalla sostanziale inefficacia delle pronunzie giudiziarie. Questa, a sua volta, deriva anzitutto dalla durata dei procedimenti (che peraltro dipende soprattutto dal loro numero in un circolo vizioso che si autoalimenta). L’eccessiva durata dei procedimenti danneggia chi ha ragione e favorisce chi ha torto nel civile. Inoltre, anche quando vi è una pronunzia esecutiva, è difficile ottenere il pagamento del proprio credito. Nel settore penale la durata dei procedimenti danneggia le vittime e gli imputati innocenti e favorisce gli imputati colpevoli.

Eppure secondo gli indicatori di performance stabiliti dalla Cepej, l’“indice di smaltimento” (Cleareance Rate) e il “tempo medio di definizione dei procedimenti” (Disposition Time), i magistrati italiani hanno una elevata capacità di smaltimento dei procedimenti civili e commerciali, superiore al 100% (precisamente del 119%), riuscendo a definite un numero di procedimenti più elevato rispetto a quelli ricevuti,

Nel penale vengono iscritti 2.700.000 procedimenti penali ogni anno ed è un’illusione quella della depenalizzazione. Ciò che si poteva depenalizzare lo è già stato, mentre quello che si può ancora fare non ha rilievo statistico apprezzabile. Occorre quindi percorrere un’altra strada, come ridurre la perseguibilità d’ufficio e soprattutto potenziare i riti alternativi, in particolare l’applicazione di pena (il cosiddetto patteggiamento).

In Italia pochissimi patteggiano perché il farraginoso codice di procedura penale consente in molti casi di arrivare alla prescrizione e nessuna pena è preferibile a una pena ridotta.

Peraltro l’abbattimento del numero dei procedimenti ha quale inevitabile effetto la riduzione del reddito degli avvocati: se si riuscisse a dimezzare il numero di procedimenti, il reddito di quei professionisti si ridurrebbe della metà (salvo l’improbabile ipotesi che costoro riuscissero a farsi pagare il doppio per ogni procedimento). Già oggi, secondo i dati della Cassa Forense, oltre la metà degli avvocati non supera il reddito di 20.000 euro l’anno. Per non determinare la discesa allo stato di povertà di notevole parte degli avvocati è necessario quindi ridurne il numero impressionante: in Italia 223.862 (ma quest’anno sono diventati oltre 250.000) contro i 62.073 della Francia. La media europea è di 147 avvocati ogni 100.000 abitanti, l’Italia ne ha ben 368.

L’imprevidenza della classe dirigente di questo Paese ha lasciato crescere a dismisura il loro numero nonostante gli avvertimenti da molti lanciati, senza imporre a Giurisprudenza il numero chiuso, pur previsto per altri corsi di laurea.

Quindi bisogna avere chiaro che non esistono soluzioni di breve periodo o semplici e lo spaventoso debito pubblico italiano non consente la prospettata immissione di ingenti risorse nel sistema giudiziario.

Ciò che occorre fare è introdurre subito il numero chiuso a Giurisprudenza o, in alternativa, introdurre il numero chiuso degli avvocati (ma, in questa seconda ipotesi, che ne faremo dei numerosissimi laureati in Giurisprudenza?). In secondo luogo occorre semplificare, almeno nel processo penale, le regole processuali e allargare la differenza fra le pene ottenibili con il patteggiamento e quelle prevedibili in caso di condanna in dibattimento (che non può consistere solo nell’abbattere le pene patteggiate, ma anche inasprire quelle per chi sceglie il rito ordinario). Ma per cambiare la mentalità di tutti i soggetti interessati occorreranno comunque molti anni.

Chi promette soluzioni semplici e immediate si illude o mente.

La tagliola dell’improcedibilità nei successivi gradi di giudizio non risolve nessuno di questi problemi, ma vanifica il lavoro fatto e le risorse impiegate.

A meno che non si ritenga che il servizio giustizia debba funzionare quale ammortizzatore sociale, come una sorte di reddito di cittadinanza.

 

Michele Emiliano. Un instancabile globetrotter delle idee (degli altri)

Se la politica è la battaglia delle idee, porca miseria, prima o poi serviranno delle idee, ma siccome chi ha delle idee viene subito bollato come “ideologico”, allora è meglio non averle, le idee, e sedersi su quelle degli altri, che idee non ne hanno nemmeno loro, ma sembra che vincano.

Ed eccoci a Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, instancabile globetrotter delle idee degli altri. Ultima uscita, molto commentata, il suo elogio di Matteo Salvini, una specie di apologia di Socrate, con qualche piccola differenza: che Emiliano non è Platone, che Salvini non è Socrate e che ha mangiato e bevuto di tutto, ma non la cicuta (era mojito).

Mi rendo conto che l’argomento non è entusiasmante e che ci sarebbero mille cose più interessanti di cui parlare, dalla raccolta dei funghi al calciomercato, ma se la politica italiana offre questo, be’, tocca accontentarsi.

Dunque Emiliano.

Dice che “Salvini sta facendo un grande sforzo per delineare una visione di Paese” e che da quando c’è il governo Draghi non è più omofobo, non è più xenofobo, non è più antieuro, non è più antieuropeo, non sventola più madonne e rosari e insomma, non si sa quel che gli è capitato, ma nel volgere di pochi mesi è diventato quasi una brava persona, e magari non si chiama più nemmeno Salvini. Naturalmente Emiliano sta anche con Draghi, sta anche con Conte, starebbe con gli alieni, se sbarcassero in Puglia (“Sono molto avanti tecnologicamente”), oppure, alla bisogna, si gemellerebbe con qualche tribù antropofaga del Borneo (“Difendono le loro tradizioni”), o, se servisse, con i serpenti a sonagli (“La natura è meravigliosa”). Tra i pregi di Salvini secondo Emiliano ci sarebbe il fatto che ha lasciato la Meloni (eh?, ndr) e che ha fatto dimettere Durigon, che è un po’ come dire che i nazisti lasciarono Stalingrado perché non gli piaceva il clima. Insomma, Emiliano se la canta e se la suona, a volte con un indomito sprezzo del ridicolo, tipo dire che Fratelli d’Italia parla alla parte oscura dell’umanità, ma flirtare con il sindaco di Nardò che è un ex (?) di CasaPound. In confronto a Emiliano, un arabesco è una linea retta. Ora, naturalmente, il problema non è il “governatore” della Puglia, per cui bisognerebbe inventare un “Emilianometro” che ne registri le oscillazioni in tempo reale, ma la cretinissima pervicacia con cui si abbraccia l’ultimo format in circolazione, l’ultima trovata, la più recente cazzata in commercio. Ancora si ride, per esempio, alle grida di giubilo provenienti dai draghisti militanti quando Salvini, nel suo discorso per la fiducia al governo, citò Parri. Urca, cita Parri! È cambiato! E giù battimani per il nuovo Salvini (probabilmente pensava fosse una mezzala del Milan).

Ci perdoni dunque Emiliano se non consideriamo la sua svolta salviniana come una cosa seria in un posto (l’Italia) e in un tempo (gli ultimi vent’anni, più o meno) in cui di serio non c’è niente. In più, delle cose che dice ce n’è una vera, comunque, che lui “ha a cuore l’umanità”, e in effetti non c’è niente di più umano che pararsi le chiappe, tenersi buoni i futuri potenti, dire “io sono stato amico atté” quando sarà il momento. Il resto è vita, orecchiette, olio buonissimo, i tramonti meravigliosi del Salento e un’idea di politica che è stretta parente delle signorie medievali, quando uno stava un po’ col papa, un po’ con l’imperatore, un po’ col primo venuto, o con l’ultimo arrivato, purché ne venisse fuori, come da una spremuta, una qualche goccia di potere.

 

Il pugliese, la sardina e Letta: colpi di sole democratici

Il segretario, la sardina e il governatore: non è un western, ma un dramma o una commedia demenziale (a seconda dei punti di visti dai quali lo si guarda, comunque un brutto film). Dalle parti del Pd succede di tutto, e dire che l’ondata di caldo pareva superata. Andiamo con ordine.

Mattia Santori – volto, portavoce, leader delle Sardine (se non abbiamo avuto tutti un’allucinazione collettiva) – ha deciso di correre alle Amministrative nella sua città, Bologna (e dove sennò?). Il giovane candidato rilascia da giorni interviste pirandelliane, in cui la crisi d’identità della sinistra diventa un preoccupante fenomeno clinico. Tenetevi forte. “C’è stato un grande fraintendimento. Perché tutti vanno in giro a raccontare che a candidarsi è il leader di un movimento politico, che a scendere in campo è ‘quello delle sardine’. Invece devo deludervi, perché a candidarsi sono io. Mattia Santori, anzi Mattia”. In marzo, come ha ricordato Marco Travaglio sul Fatto di ieri, diceva cose un tantino differenti (non su se stesso, sul Pd). “Non m’iscriverò al Pd perché in questo momento il Pd ha un marchio tossico. Nessuno ora farebbe la tessera. Si vede dal fatto che gli iscritti sono in calo. Inoltre le Sardine hanno il vantaggio di restituirmi la fotografia di quei cittadini che seguono la politica ma non sono iscritti a un partito. Ieri abbiamo fatto una assemblea con 170 persone e quel che emerge è questo: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti”. Terminati i necrologi, bisogna dire che a tutt’oggi Mattia non risulta iscritto al partito tossico, ma diciamo che candidarsi (da indipendente, come Stefano Rodotà, dio ci perdoni) non è proprio una presa di distanza.

Poi c’è il governatore della Puglia, che per incoraggiare Salvini ad abbandonare posizioni estremiste ha pensato bene di fargli una dichiarazione d’amore. “Ha preso un partito xenofobo, antieuro, antieuropeista, omofobo, con l’utilizzo disinvolto persino di elementi religiosi”, ha detto Michele Emiliano al Corriere. E poi che è successo? Ma come, non l’avete capito? Salvini è cambiato! E chi l’ha cambiato? Ma come chi? L’unico, il messia, il migliore. Uno che fa davvero miracoli: altro che moltiplicare i pani e pesci, Draghi è riuscito financo a trasformare il devastante debito pubblico italiano in “buono”. Dunque convertire Salvini sulla via di Bruxelles sarà stato un giochetto da ragazzi.

Ma se pensate che le giravolte della Sardina smarrita o la filippica di Emiliano in lode dell’avversario Salvini siano sintomi di un colpo di caldo, aspettate perché il meglio deve ancora venire. Il capolavoro sinistro (ubi maior) è del nipote del conte zio. Il quale è impegnato nella campagna elettorale a Siena per le Suppletive, che si sono rese necessarie perché un altro compagno ex ministro dem (Padoan) si è dimesso in favore di un posto nel consiglio d’amministrazione di una banca (Unicredit) e dove si agita lo spettro di un’altra banca (Mps). Sciolte le riserve sulla sua disponibilità, Enrico Letta in luglio disse di non stare più nella pelle perché non vedeva l’ora di portare il segretario del Pd a Montecitorio. Così facendo veniva incontro anche ai delegati senesi che gli chiedevano di impegnarsi con queste parole: “A livello politico nazionale riteniamo che per rendere incisiva l’azione politica del Partito democratico, il segretario debba essere presente attivamente in Parlamento”. Tutto bene? No, due giorni fa è stato presentato il logo della candidatura e scopriamo che il segretario del Pd, che si candida per far entrare il segretario del Pd in Parlamento, corre senza il simbolo del Pd perché così è più inclusivo. Gesto altamente simbolico: la prossima volta useranno l’impronunciabile schwa.

 

Dàgli a Biden, ma le colpe sono di Bush jr. & Obama

 

“Il combattente che non combatte perde ogni legittimità”

(Mullah Omar)

 

“La disastrosa guerra all’Afghanistan si è conclusa nel più sciagurato ed emblematico dei modi: per colpire una cellula dell’Isis un drone americano ha ucciso 10 persone tra cui 6 bambini. Se le cose stanno così i costi superano i benefici. La cosa migliore sarebbe che l’intelligence Usa segnalasse ai Talebani dove sono le cellule Isis e poi lasciasse a loro il compito di operare sul campo. Quest’ultima drammatica scena è emblematica perché riguarda l’intero modo con cui gli occidentali hanno, o per meglio dire non hanno combattuto la guerra afghana, usando preferibilmente i B52 e i droni. Una cosa che ha compattato la maggioranza della popolazione afghana, talebana, non talebana, anti-talebana, perché nella loro concezione questo è un modo troppo vile di combattere.

Una collaborazione fra Talebani e americani è oggi possibile, perché comune è il nemico: l’Isis. Per la verità, i Talebani combattevano l’Isis già da 5 o 6 anni, da quando gli uomini dello Stato islamico avevano cominciato a penetrare in Afghanistan. Ma dovendo combattere su due fronti, contro gli occupanti occidentali e i terroristi dell’Isis, avevano trovato molte difficoltà a fermare quell’avanzata. Sbarazzatisi degli occupanti, ora avranno le mani molto più libere.

Detto questo, trovo ingenerose e persino vili le feroci critiche con cui alcuni governanti europei e i media internazionali (con qualche eccezione: Paolo Mieli) hanno coperto Joe Biden per aver lasciato l’Afghanistan. Per la verità questa decisione era stata presa da Trump (diamo a The Donald quello che è di The Donald) ed era l’unica possibile, perché era assurdo continuare una guerra ventennale che, come aveva riconosciuto lo stesso Pentagono, “non si poteva vincere” e che, oltre ad avere un costo enorme, causava ogni anno migliaia di vittime civili. Biden non ha fatto che seguire quella strada. In modo maldestro certamente, ma non è lui il responsabile del disastro afghano. Dico che è vile da parte degli europei colpire gli Usa in un momento di indubbia debolezza perché li avevano seguiti fin qui come cani scodinzolanti anche nelle decisioni più sbagliate. Si poteva capire fin da subito che i talebani erano un obiettivo sbagliato e che gli uomini del Mullah Omar nulla avevano a che spartire con Bin Laden, tranne il fatto che se l’erano trovato sul proprio territorio (ce lo aveva portato Massud dal Sudan). Il giorno dopo l’attentato dell’11 settembre, mentre le folle arabe di tutto il mondo manifestavano in piazza la loro gioia, il governo del Mullah Omar inviò un comunicato ufficiale di condoglianze al governo e al popolo americano: “Bismullah ar-Rahman ar-Rahim (nel nome di Allah, della grazia e della compassione, ndr) noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center e al Pentagono. Condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che siano puniti e ci auguriamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni”. Ma gli Usa non furono affatto prudenti, la loro voglia di vendetta era troppa e doveva essere pur scaricata su qualcuno. Non cambiarono atteggiamento nemmeno quando qualche anno dopo fu accertato che la dirigenza talebana dell’epoca era assolutamente all’oscuro dell’attentato. Ormai i talebani dovevano essere bollati come “terroristi internazionali”, anche se non lo sono stati mai. Perché non sono mai usciti dal loro paese, come del resto l’Afghanistan stesso non è mai uscito dai propri confini, non ha mai aggredito ma è sempre stato aggredito, dagli inglesi nell’800, dai sovietici nel 1979-1989 e dagli occidentali a partire dal 2001.

I responsabili della tragedia afghana con i suoi errori e i suoi orrori (le vittime civili, secondo calcoli approssimativi sarebbero 170mila, ma in realtà sono molte di più perché nessun organismo internazionale s’è mai preso la briga di fare calcoli più precisi e queste vittime sono nella maggior parte dei casi opera degli occidentali) vanno quindi ricercati nei presidenti americani George W. Bush e Obama che hanno preceduto Trump. Nessun commentatore europeo ha mai alzato un laio per quelle vittime e anche il Papa, che ogni giorno prega per questo e per quello, si è accorto solo adesso che esiste un paese che si chiama Afghanistan.

Quale sarà il futuro dell’Afghanistan è difficile prevedere. La cosa migliore è che tutte le potenze e medio potenze si tolgano di mezzo, questa esperienza è già stata fatta. È toccato al comandante delle truppe sovietiche che occuparono l’Afghanistan dire anni fa la cosa più sensata. A un giornalista di Rai1 che gli chiedeva “che cosa possiamo fare per salvare l’Afghanistan?”, rispose: “Bisogna lasciare che gli afghani si salvino da soli”.

Adesso il problema maggiore, Isis a parte, è il rapporto tra pashtun, che rappresentano il 42% della popolazione, e i tagiki che sono il 27%. Quando si parla di un governo “inclusivo” si pensa ad un esecutivo che comprenda anche rappresentanti tagiki pur se son stati proprio i tagiki, con il loro capo Amad Sham Massud, il “Leone del Panjshir”, ad aprire la strada agli americani. È dubbio che in questo governo possa entrare il figlio di Massud. Per due motivi. Perché mentre i suoi coetanei si battevano, versando litri di sangue, contro gli occupanti, lui se ne stava a Londra e a Parigi. E soprattutto perché le sue prime dichiarazioni sono molto bellicose nei confronti dell’attuale governo provvisorio talebano. Si rischierebbe cioè un’altra guerra civile, interetnica, quella che il Mullah Omar aveva stroncato nel 1996 dando sei anni di ordine e di pace a quel Paese.

 

Le Notizie dal Futuro: anche il Vaticano avrà una gara di Formula1

Notizie dal futuro. Con i suoi 0,44 chilometri quadrati di superficie, 932 abitanti e alta densità di popolazione (2118 abitanti per chilometro quadrato), il Vaticano è il più piccolo Stato al mondo. Per rilanciare la sua immagine, appannata dopo gli innumerevoli scandali sessuali e finanziari che hanno minato la credibilità della Chiesa cattolica e fatto precipitare il gettito dell’8 per mille, il Vaticano ha finalmente deciso di ospitare al suo interno una delle corse più longeve e prestigiose nella storia dell’automobilismo sportivo: la Formula 1. Il circuito vaticano rappresenterà una sorta di connessione tra la vecchia, caotica e pericolosa Formula 1 del passato e quella moderna, organizzata e sicura dei nostri giorni. Il tracciato si ispirerà a quello della Triang Scalectrix con curva parabolica, usato nei seminari di tutto il mondo per distogliere le mani dei seminaristi da svaghi più peccaminosi, e già preso come modello per realizzare altri circuiti cittadini, come Singapore, Macao e Baku, che però non presentano le peculiarità del Vaticano, un venusto centro abitato circondato da Roma e dotato di Basilica di San Pietro e Cappella Sistina, sotto la cui volta saranno ubicati i box e i pit stop della gara. Non è la prima volta che una corsa automobilistica si svolge nei confini vaticani. Nel giugno del 1929, su iniziativa di Papa Pio XI, già tra gli organizzatori del Rally di Montecarlo, il Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri e Benito Mussolini celebrarono la firma dei Patti Lateranensi con una gara che fu corsa nell’ovato tondo di piazza San Pietro, intorno all’obelisco: Gasparri al volante di una celeste Bugatti 35B, Mussolini al volante di una Alfa Romeo P2 rossa. La sessione di qualificazione fu a un solo giro secco: Mussolini ottenne la pole position, ma la gara fu vinta da Gasparri, che durante un sorpasso scomunicò gli pneumatici dell’Alfa Romeo sgonfiandoli all’istante, cosa che fece perdere al duce dieci giri per il cambio gomme completo, eseguito con competenza da Margherita Sarfatti. Il nuovo circuito del Vaticano sarà lungo 3 chilometri e verrà percorso per 100 giri. Poiché la larghezza della pista, che attraverserà anche i Musei Vaticani, varia dai 10 metri ai 2 metri e mezzo (l’imbuto è all’altezza della Loggia di Raffaello, 65 metri da percorrere ai 30 km/h in modo che i piloti possano ammirarne il ciclo di affreschi di scuola urbinate riproducenti storie bibliche e grottesche), nel circuito vaticano i sorpassi saranno estremamente rari: le qualifiche e l’ordine delle auto dopo la prima curva successiva al rettilineo di partenza — la stretta alla Torre San Giovanni — saranno determinanti per l’andamento della gara. Il pilota monegasco Charles Leclerc ha detto che “correre in Vaticano sarà come andare in go kart nel bagno di casa”. Gli ha replicato il campione del mondo Lewis Hamilton: “Non sarà emozionante per gli appassionati, data l’impossibilità di sorpasso, ma non è così anche a Montecarlo? I sorpassi e la velocità vengono rimpiazzati dalle capacità tecniche richieste nei piloti: chi non è bravo abbastanza si elimina da solo”. La mancanza di sorpassi non è l’unico aspetto del circuito a essere criticato. Fa discutere anche la scelta delle suore come hostess, che notoriamente, se in gruppo, portano sfiga. Comunque, il divertimento sarà assicurato dal fatto che, rispetto agli altri Gran Premi del Mondiale, le monoposto verranno preparate in modo da essere il più possibile reattive e manovrabili, nonché rialzate più del solito da terra per i numerosi sbalzi che dovranno affrontare. In pratica, sarà una gara fra papamobili truccate.