Ponte di Legno, la Luna e tu, Matteo. Ci viene in mente il bel titolo di Dino Risi per decantare l’ormai irrefrenabile passione tra Matteo Renzi e Matteo Salvini, molto più che una triste convergenza politica. Come durante gli amori adolescenziali, ogni giorno i due si inventano una carineria per l’altro: un biglietto da far trovare dentro al diario, una scritta sotto casa, un post romantico sui social. Per fare la sua parte, quest’anno Renzi ha deciso di organizzare la tre giorni della Scuola di formazione politica di Italia Viva a Ponte di Legno, in provincia di Brescia. I ragazzi, che inizieranno oggi i corsi, si ritroveranno così in uno dei templi sacri del leghismo: è a Ponte di Legno che per quasi trent’anni Umberto Bossi e i suoi hanno celebrato i raduni estivi. Poi, nel 2018, Salvini ha preferito annullare la tradizione in nome della svolta nazionale della sua Lega non più “Nord”. Siamo però sicuri che Salvini ne abbia sofferto, lui che della Padania era sempre stato un fiero sostenitore. Ora, finalmente, c’è qualcuno di fidato a raccogliere quell’eredità. E a noi non resta che aspettare che Salvini ricambi: d’altra parte, che ci vuole a trasferire Pontida alla Leopolda?
Linea Salvini: né coi sì vax né coi no vax
Senza offesa, ma il Salvini che bofonchia qualcosa contro la violenza e deplora il “clima da stadio no vax, sì vax” ci ricorda quei personaggi che negli anni di piombo dicevano “né con lo Stato né con le Br”, perché sotto sotto tifavano Br. Quando il volpone Michele Emiliano dice al leghista “apprezzo il tuo sforzo per trovare una visione del Paese”, fissando la svolta della conversione in Salvini prima di Draghi e in Salvini dopo Draghi (come per gli antichi c’era un prima di Cristo e un dopo Cristo) evita, tra i tanti “sforzi” visionari attribuiti al Matteo miracolato, di citare la questione vaccini, perché anche in Puglia c’è un limite a tutto.
Eppure, il fronte sovranista, e salvinista, ci ha costruito una fortuna elettorale sulla sorda (e spesso sordida) campagna a difesa della “libertà” che ciascuno ha di non vaccinarsi, di prendersi il Covid ed eventualmente anche di rimetterci la pelle. Sorvolando sul piccolo particolare che nell’esercitare il sacrosanto diritto a finire dritti in terapia intensiva (magari non a spese della collettività ma pagandosi il ricovero, come chiede l’assessore alla Sanità del Lazio D’Amato) i fuori di testa mettono a rischio anche la salute del prossimo.
Il Salvini di governo e buon padre di famiglia non è certamente un No-Vax, e siamo convinti che sia corso a vaccinarsi perché giustamente teme il contagio e vuole proteggere la salute sua e dei suoi cari (probabilmente vaccinati anch’essi). Altra cosa è il Salvini di lotta leader della Lega a cui non sentiremo mai dire ai fuori di testa se sono matti a non vaccinarsi, perché pure i fuori di testa votano e dunque molto meglio non disturbarli e tenersi le mani libere: né con i Sì-vax, né con i No-vax. Come se fossero la stessa cosa.
Non sappiamo come andrà a finire oggi con i fascisti di Forza Nuova decisi a fomentare i fuori di testa per bloccare i treni nelle stazioni. Il clima è pessimo e se, speriamo di no, dovesse succedere qualcosa di spiacevole, scommettiamo che il convertito dal Draghi farà il consueto sermoncino su libertà di manifestare sì, ma la violenza no? E tanti bacioni a chi si ammala.
Papa Francesco testimone come Napolitano: “Perché no?”
Papa Francesco ascoltato come testimone nel processo sui fondi della Segreteria di Stato? “Se nel corso del dibattimento dovesse rendersi indispensabile, non escludiamo di chiedere l’esame del Santo Padre in qualità di teste”, dice l’avvocato Cataldo Intrieri, difensore di Fabrizio Tirabassi, l’alto funzionario del Vaticano indagato insieme ad altre 9 persone, tra cui il cardinale ed ex sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, Angelo Becciu. Gli esperti si dividono sulla possibilità che il Pontefice, nel diritto vaticano, possa essere interrogato e fin qui nessuno si è ancora espresso perché, formalmente, il tema non si è mai posto. Nel caso specifico, i difensori immaginano che l’audizione possa avvenire sulla falsa riga della deposizione resa nel 2014 dall’allora presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, nell’ambito del processo a Palermo sulla trattativa Stato-mafia. In quell’occasione, furono i giudici della Corte d’Assise siciliana a recarsi al Quirinale per raccogliere la testimonianza del capo dello Stato, alla presenza degli avvocati ma con le domande poste soltanto dal presidente della Corte. Secondo il collegio difensivo, la deposizione di Jorge Bergoglio potrebbe essere opportuna in riferimento all’uscita del Vaticano dall’affare del palazzo di Sloane Avenue a Londra e alla presunta estorsione perpetrata dal broker Gianluigi Torzi, cui arrivò il pagamento di 15 milioni di euro come “buonuscita”. Torzi incontrò il Papa due volte, la seconda volta il 26 dicembre (quando venne scattata anche una foto). In quell’occasione, secondo i pm della Procura di Roma – che indagano Torzi per riciclaggio – il broker molisano fu invitato (invano) a far rientrare le proprie pretese, arrivando a chiedere addirittura 20 milioni di euro per “liberare” le azioni della Gutt Sa, società che gestiva l’immobile ex sede dei magazzini Harrods. Poche settimane dopo, la chiusura a 15 milioni.
Condanne a contabili Lega, le motivazioni: “Non piccolo peculato, ma piano costruito”
Cento pagine dense per spiegare affari, politica e la condanna dei commercialisti della Lega. Il giudice di Milano, Guido Salvini, ieri ha motivato la sentenza con cui nel giugno scorso i contabili del Carroccio, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, sono stati condannati a 5 anni e a 4 anni e 4 mesi per concorso in peculato. Il caso riguarda l’acquisto di un capannone da parte della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). I due contabili erano stati arrestati il 9 settembre 2020.
Quello messo in piedi dai fedelissimi di Matteo Salvini, scrive il giudice, è “un modello davvero deteriore (…) perché la loro attività di origine politica è risultata soprattutto finalizzata a ottenere arricchimenti personali”. Alla base di tutta la vicenda vi è il costo di 800mila euro pagato da Lfc. Denaro pubblico “drenato” e intascato dagli imputati. Secondo il giudice Guido Salvini “non si è in presenza di un peculato piccolo piccolo (…) come quello dell’impiegato comunale o del dipendente delle Poste che si appropria di beni custoditi presso il suo ufficio ma, anche al di là dell’ingente profitto personale ottenuto dagli imputati, di un piano costruito nel tempo che si è avvalso per la sua realizzazione delle competenze da un lato di Di Rubba”, che era all’epoca anche presidente di Lfc, “e Manzoni inseriti ad alto livello in enti pubblici e d’altro lato di Scillieri, commercialista esperto e di successo”. Quest’ultimo ha già patteggiato. Per Di Rubba e Manzoni, che erano finiti ai domiciliari, la misura cautelare è stata attenuata nell’obbligo di dimora. Si legge ancora nel documento: insediarsi “in un Ente regionale e sfruttare tale posizione (anche) per dirottare su se stessi denaro pubblico è un pessimo esempio perché aggiunge sfiducia e rifiuto da parte dei cittadini nei confronti delle amministrazioni territoriali e nella attività politica in genere”. Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pubblico ministero Stefano Civardi, come si legge nelle motivazioni, gli imputati con le loro dichiarazioni hanno anche mostrato di essere reticenti. “È immediato notare come quelle di Di Rubba – si legge nel documento del giudice – siano dichiarazioni confuse, incerte, imbarazzate e in parte contraddittorie. Tutto avviene per caso: ogni avvenimento è sfocato, indistinto, come immerso in una nebbia lombarda”. Prosegue il processo con rito ordinario nei confronti dell’imprenditore vicino alla Lega, Francesco Barachetti, imputato per concorso in peculato.
“Bellomo non voleva calunniare Conte”: archiviato
Il gip di Roma, accogliendo la richiesta della Procura, ha archiviato il procedimento a carico di Francesco Bellomo, ex giudice del Consiglio di Stato, accusato di calunnia e minacce ad un corpo politico amministrativo o giudiziari nei confronti dell’ex premier Giuseppe Conte quando questi ricopriva l’incarico di vicepresidente del Consiglio di presidenza amministrativa. Bellomo era accusato di avere calunniato anche Concetta Plantamura, componente della commissione del procedimento disciplinare a cui l’ex giudice fu sottoposto dopo lo scandalo borsiste. Per questa vicenda Bellomo è stato destituito. L’indagine era arrivata a Roma dopo che il gup di Bari si era dichiarato incompetente. La richiesta di archiviazione era stata avanzata dal pm Carlo Villani nel maggio scorso. Il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione di Bellomo in quanto “traspare evidente il convincimento dello stesso che il procedimento disciplinare che ha subito era viziato da plurime illegittimità procedurali”. Tradotto: non c’era la volontà di calunniare.
Casal di Principe, Renato Natale verso le dimissioni
Renato Natale, sindaco di Casal di Principe (Caserta) noto per l’impegno nel contrasto alla camorra, è pronto a dimettersi. Dovrebbe farlo già oggi in seguito alla decisione della Procura di Santa Maria Capua Vetere di non sospendere le operazioni di demolizione, previste per giovedì 2 settembre, di un fabbricato abusivo dove vivono due famiglie con quattro bambini minori. Ad annunciare le imminenti dimissione è un post dell’assessore alla pubblica istruzione, Marisa Diana. Il proposito è scaturito dalla mancata accettazione, da parte della Procura di Santa Maria Capua Vetere, della proroga dell’abbattimento delle due case abusive, previsto per il 2 settembre, richiesta dal sindaco e da tutto il consiglio comunale di Casal di Principe il 25 agosto, per permettere il completamento dei lavori di un bene confiscato in via Baracca dove alloggiare le due famiglie con quattro bambini, dai 3 ai 7 anni. In favore di Natale si è speso anche il senatore del gruppo Misto, Sandro Ruoto, che chiede “una proroga di 100 giorni”.
Milano, “effetto camino” previsto dalla ditta dei pannelli: la stessa dello stadio del Bayern
Pannelli per realizzare “un’intercapedine d’aria” creando “un effetto camino”. Si legge nelle descrizioni tecniche dei prodotti forniti per il rivestimento esterno della Torre dei Moro, grattacielo nella periferia sud di Milano, devastato il 29 agosto da un incendio. A produrli la Saint-Gobain, multinazionale francese da 38 miliardi di fatturato nel 2020 e presente in 70 Paesi, avendo realizzato infrastrutture come l’Allianz Arena di Monaco di Baviera o il National Grand Theatre di Pechino. Li pubblicizza per realizzare le “facciate ventilate” con “intercapedine”. Servono a smaltire l’aria calda prodotta in estate dall’irraggiamento solare, mantenendo fresco l’edificio, mentre in inverno evitano le condense. Gli inquirenti milanesi guidati dalla pm Tiziana Siciliano hanno messo nel mirino proprio “l’effetto camino” creatosi nella parete perimetrale esterna del grattacielo finito nel 2011 dalla ditta Moro Costruzioni. Hanno anche funzione estetica: servono a realizzare “l’effetto vela” del grattacielo che, in realtà, è costruito perpendicolare e non curvo. Contro questa deriva si scaglia l’architetto e ingegnere Gabriele Mariani, tra l’altro candidato sindaco di sinistra. “La forma che brucia la funzione” attacca Mariani proprio perché i pannelli estetico-decorativi (che fanno lievitare i prezzi degli immobili) sono andati in fumo “come una torcia”. Ora a Milano è l’ora delle polemiche. All’inizio le indagini puntavano sul rivestimento in Alucobond prodotto dalla società Sogimi di Pomezia, “scagionata” dopo poche ore dal presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Milano, Bruno Finzi. Sui pannelli la Saint-Gobain dice si tratta di materiale “incombustibile” che “rispetta la circolare dei vigili del fuoco”. E che per l’edificio alto 80 metri con “particolare criticità nei riguardi della protezione da un incendio esterno alla facciata – recita la scheda lavori del 2009 con macabra premonizione – per l’isolamento a cappotto è stato scelto un materiale isolante incombustibile come la lana di vetro al posto del materiale isolante plastico”. Non è chiaro invece cosa sia stato usato per il secondo pannello del “blocco”, fissato su una struttura metallica e che contribuisce a realizzare la facciata ventilata. Al Fatto l’azienda non sa riferire se quei pannelli siano stati utilizzati sulla Torre dei Mori. A posarli nel caso un’altra impresa: la Ats srl, con un portfolio di opere che va dal Villaggio Olimpico del Sestriere fino all’ospedale san Gerardo di Monza.
“L’orrore delle Foibe e i ‘morti speciali’ che lo Stato ricorda”
Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.
Professore, è d’accordo con Montanari?
Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.
Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?
Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.
Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?
Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.
Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?
Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.
La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?
Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.
Lui cade sempre in piedi: aspetta che cambi il vento
Se ne sta buono e silenzioso, Dario Franceschini. La corsa per il Quirinale è lunga, ci si brucia facilmente e si sta meglio nascosti. Anche perché la partita per la presidenza della Repubblica al momento è finita su un binario: l’ascesa al Colle di Mario Draghi o la permanenza di Sergio Mattarella. Che sono peraltro le due figure più popolari in campo: Mattarella straborda al 68% di fiducia secondo l’ultimo sondaggio agostano di Demos (con punte bulgare del 92% tra gli elettori del Pd). Draghi poi è Draghi: è stato scelto a furor di palazzi nel ruolo di salvatore della Patria e pare ci sia da stabilire solo se continuerà a esserlo a Palazzo Chigi o se abbraccerà l’ipotesi di un settennato al Quirinale.
Quindi Franceschini se ne sta nascosto. Il tempo non manca, il semestre bianco è iniziato da un soffio, l’inerzia può sempre cambiare. Le sue ambizioni sono ben note: il ministro della Cultura ha iniziato da tempo a muoversi con qualche onorevole collega del centrodestra, con la dovuta discrezione, per cominciare a sondare il campo. La prospettiva e i numeri sono incerti, si vedrà.
C’è stato un momento di grazia in cui Franceschini sembrava davvero il punto di tenuta di un delicato equilibrio politico: è stato tra i registi della nascita del governo Conte e uno dei suoi più convinti sostenitori. Era tra quelli che si dicevano disposti a cadere con il premier giallorosso, a perire sulla linea della trincea parlamentare con la baionetta in mano. Sotto Natale dettava ai giornalisti virgolettati bellicosi, destinati al manipolo di Matteo Renzi: “Se si aprisse la crisi, tanto varrebbe andare a votare. Conte contro Salvini e ce la giochiamo”. Poi è crollato tutto, è arrivato Draghi – ovviamente stimato come una figura di altissimo profilo – e lui non ha fatto fatica a trovare un atterraggio morbido, con la conferma della poltrona da ministro in via del Collegio Romano (è il primo della storia a farlo in due legislature e con quattro governi diversi).
È una costante della sua storia politica e personale: Franceschini guarda sempre avanti. Quando la casa brucia, al principio lo si può vedere con l’estintore in mano, ma al momento decisivo lo si trova al riparo, con l’abito intatto, fuori dal perimetro dell’incendio.
Cresciuto nella Dc ferrarese, allevato sotto l’ala di Benigno Zaccagnini, da grande è stato l’ombra dei leader del centrosinistra fino a un attimo prima che fossero sconfitti o epurati. Un talento straordinario nel seguire la corrente e nell’assecondare le mareggiate: prodiano, poi dalemiano, poi veltroniano, poi bersaniano, poi lettiano, poi renziano, poi zingarettiano. Nel tumultuoso passaggio di consegne con Renzi, Letta era convinto che a parargli le spalle ci fosse lui, Franceschini, all’epoca ministro dei Rapporti col Parlamento: stava sereno. La presa di coscienza con la realtà fu violenta: “Io ti ho creduto, Dario, quando giuravi che quelle riunioni con i dirigenti renziani e con i leader dei partiti le facevi per il mio governo – riporta il Corriere della Sera del 13 febbraio 2014 –. E invece no, scopro che trattavi per il governo Renzi. Mi hai pugnalato alle spalle”. E per giunta per favorire quello stesso rottamatore che l’aveva definito “il vicedisastro” di Walter Veltroni, quando Franceschini raccolse il suo posto di segretario del Pd. Dario sa dimenticare. Inoltre sa leggere il vento e giocare con le parole. La prima qualità potrebbe averla ereditata da una delle passioni giovanili: ancora minorenne, Franceschini è stato sbandieratore del Palio di Ferrara (ma il giovane Dario sbandierava anche in trasferta: risulta tra i fondatori del Gruppo di Sbandieratori e Musici di Borgovelino, in provincia di Rieti, circostanza che gli è valsa la cittadinanza onoraria).
La seconda qualità gli ha spalancato una fiorente carriera letteraria: quattro romanzi e una raccolta di racconti. Più che discreti i riscontri delle giurie letterarie (in Francia ha soffiato il premio Chambéry a Veltroni). Non è mancata invece qualche velenosa critica della stampa italiana: secondo L’Espresso “da ministro è felpato e quasi curiale, da scrittore è imprevedibile e un po’ folle”. Il Foglio, per una volta cattivissimo, gli ha consigliato “la separazione delle carriere”: “Magari il racconto sul migrante siriano Nizar, che ‘aveva nella faccia e nello sguardo secoli di storia’ non era così urgente”).
Poco male. Nonostante qualche diffidenza per il percorso autoriale e qualche antipatia per il non sempre lineare percorso politico, Franceschini continua a godere in fondo di stime trasversali. La breve esperienza da segretario al Nazareno gli ha permesso di far nascere e consolidare una delle correnti più durature e organizzate del partito, Area Dem. Molti dei suoi hanno fatto una bella carriera: Francesca Mogherini (ex “Lady Pesc”), Roberta Pinotti (ex ministra della Difesa), Antonello Giacomelli è finito alla guida dell’Agcom, Francesco Saverio Garofani è uno dei consiglieri di Sergio Mattarella. E proprio lui, il capo dello Stato, con Franceschini ha un rapporto buonissimo sin dai tempi del Partito Popolare: è stato Dario, scaduta nel 2008 l’ultima legislatura di Mattarella in Parlamento, a proporlo prima come presidente della Rai (senza successo) e poi come giudice della Corte Costituzionale nel 2011. Per prendere il suo posto tra sei mesi forse è ancora poco, conviene stare nascosti un altro po’.
“Sarà un boomerang per la Lega. E ci sarà chi accuserà i magistrati”
Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica a Torino e a Palermo, prevede un effetto boomerang, a proposito dei referendum radicali e leghisti sulla giustizia: “Possibili effetti negativi per l’amministrazione della giustizia e per l’interesse generale, ma anche un boomerang per i promotori”.
Dottor Caselli, si riferisce al quesito sulla custodia cautelare?
Non solo a quello. Il quinto quesito prevede che i potenziali autori seriali di gravi reati, se questi non sono commessi con armi o con violenza, non possano più essere assoggettati a misure cautelari in base – come avviene ora – alla previsione della possibile ripetizione dei reati. Si possono riscrivere le norme sulla custodia cautelare riducendone gli spazi: è un’operazione nelle corde dei radicali, assai meno della Lega. Se passa il referendum, ci saranno casi delicati e complessi, in cui sarebbe utile se non necessario ricorrere alla custodia cautelare, che non potrà invece scattare, in forza della nuova normativa. L’opinione pubblica, la piazza, rifiuteranno questa situazione, si genererà sconcerto, ci saranno proteste sul funzionamento della giustizia, che sarà accusata di lassismo. Gli effetti, per la magistratura, già in profondissima crisi dopo lo scandalo Palamara, saranno devastanti. Ancora una volta si darà la colpa di tutto ai giudici. Un boomerang per la giustizia. Ma anche per la Lega che è tra i promotori del referendum e che ha sempre chiesto massima severità per chi compie certi reati, come lo stalking.
In difesa del referendum è intervenuta anche Giulia Bongiorno, in passato sostenitrice di misure dure per chi compie reati contro le donne.
Proprio sul Fatto, la senatrice ha sostenuto che questo referendum vuole evitare gli abusi, ma non riduce le tutele, perché “per applicare le misure cautelari sarà sufficiente che il giudice ravvisi nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità incline al compimento di atti di violenza” e il giudice dovrebbe cercare “i sintomi” di una possibile violenza futura. È una forzatura della legge che genera un cortocircuito. La prognosi astratta di futura effettiva violenza è, se non impossibile, almeno molto difficile, opinabile, sicura rampa di lancio di incertezze, discussioni interminabili e polemiche feroci.
Strana alleanza, quella tra i Radicali e la Lega?
Ognuno in politica si allea con chi vuole, ma in questo caso tra i due ci sono enormi differenze. L’area radicale comprende l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e ha una filosofia opposta a quella della Lega incentrata sul classico “legge e ordine”. Due mondi così diversi, al punto da far temere un’alleanza strumentale: in un momento difficile per la magistratura, sull’orlo del baratro per una crisi terribile, questo per qualcuno potrebbe sembrare il momento giusto per sferrare l’attacco finale, per fare i conti definitivi con i giudici. Ma vorrei segnalare, a questo proposito, un quesito referendario ancor più pericoloso.
Quello sulla separazione delle carriere?
Sì. Si basa sull’affermazione che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli. È una prospettazione sostanzialmente falsa. In tutti i Paesi in cui la separazione c’è, la conseguenza è sempre una sola: il pm prende ordini o direttive dal potere esecutivo. Fine dell’indipendenza della magistratura, fine della speranza che la legge possa essere uguale per tutti. Così torneremmo indietro rispetto a una situazione che in molti Paesi europei viene invidiata: in un articolo di Le Monde del giugno 2020, autorevoli rappresentanti della magistratura francese indicavano di fatto la situazione italiana come traguardo da raggiungere, per liberare i magistrati d’accusa francesi dal peso di dover analizzare gli affari “sensibili” in base ai possibili interventi del potere. E noi invece in Italia vogliamo fare il contrario.