Forse divento luddista. Dubbi da Intelligenza Artificiale

Cronaca vera. La macchina – intesa come automobile – mi ha corretto una curva. Ok, forse andavo forte, forse l’ho presa larga, ma sta di fatto: il volante ha dato una piccola sterzata, da solo, e mi ha rimesso in corsia. Non è uscita sul display la scritta “Coglione, stai più attento”, ma mi sono offeso lo stesso. Come si permette un ammasso di lamiera di…?

E quindi, eccomi alle prese con la Grande Sfida del Futuro, cioè, dovrei essere una specie di neoluddista contrario al “progresso”, oppure farmi dirigere da alcune decine di sensori, algoritmi, formule e chip che decidono per me?

Ah, fosse solo la curva sbagliata!

Prevengo le critiche, e anzi già mi dichiaro d’accordo: basta digitare su un motore di ricerca (che già di suo è un’intelligenza artificiale) le parole “intelligenza artificiale”, per capire che non solo non potremo farne a meno, ma che sarà una forma di intelligenza molto pervasiva. La medicina, la prevenzione, le diagnosi e tutto quello che richiede calcoli lunghi e complessi, sarà svolto dalle macchine. Per esempio, è grazie a un’applicazione dell’AI di AlphaFold (sviluppata dalla DeepMind, un’azienda di Google) che possiamo conoscere la struttura delle proteine, sapere come si posizionano gli amminoacidi, mappare i genomi delle specie viventi: con l’intelligenza nostra, quella naturale, ci metteremmo secoli.

Molto bene: non è una cosa che serve solo a giocare a scacchi con computer.

Le macchine impareranno dalle macchine, si faranno un’esperienza, insomma, in modo da evitare errori già fatti (sì, sì, ho letto Asimov, grazie). Lo dico subito, quindi, niente luddismo, semmai un po’ di prudenza, ecco, questo sì. E anche certe domande da perditempo militante: quando abbiamo scoperto il fuoco sono stati più numerosi i grandi ustionati o quelli che sono sopravvissuti alle tigri dai denti a sciabola piazzando un falò davanti alla grotta?

Ah, saperlo.

Sì, certo, dà un po’ fastidio la retorica.

Quando un politico vuole sembrare à la page, parla di Intelligenza Artificiale (si direbbe che escluda la sua) e c’è il rischio che si finisca a spiegare tutto senza spiegare niente. Eppure ci sono anche politici preoccupati, per esempio quelli della Commissione Ue per la regolamentazione delle tecnologie digitali, che parla di rischi “inaccettabili” e di situazioni ad “alto rischio”.

Per dirne una, il social scoring, cioè un sistema che può monitorare i cittadini e il loro grado di affidabilità, così come le indagini predittive in tema di criminalità (Dubai si vanta di sperimentazioni avanzate): cioè la polizia non arriva dopo il reato, ma sa già prima che potresti compierlo. L’algoritmo garantista, invece, non esiste ancora.

Non vorrei passare per antiquato, ecco, però l’Intelligenza Artificiale che entra nel campo delle emozioni umane fa un po’ paura, diciamolo. C’è quella della Canon Information Technology di Pechino, per dire, che individua il grado di felicità (ehm…) dei dipendenti: telecamere che attraverso la lettura e l’elaborazione di gesti, espressioni, sorrisi, capisce se sei contento di lavorare oppure no. L’algoritmo Cogito (sistema americano) riconosce il grado di stress nei lavoratori (dal tono di voce, dai gesti e dalle espressioni facciali), e un altro sistema (Compass) suggerisce a quali detenuti si possono dare benefici, tipo la semilibertà, e a quali no.

Insomma, il controllo delle emozioni è il prossimo passo, dopo quello (già compiuto) del riconoscimento facciale di massa (la Cina è accusata di usarlo per riconoscere gli uiguri, minoranza oppressa).

Tranquilli, non ci verrà chiesto se fidarci o no, anche se la Ue lavora a limitazioni e controllo dei rischi (la proposta di regolamento europeo è dell’aprile 2021, qualche mese fa), sapete come vanno queste cose: se una porcata è tecnicamente possibile, la si farà, è più forte di noi. E anzi già si fa in abbondanza, basta pensare ai fattorini impiegati, pagati (e licenziati) con un’app.

Dunque, uno dei limiti dell’Intelligenza Artificiale è che spesso riflette i pregiudizi di chi la progetta, e questo è un piccolo problemino. I ricercatori del Georgia Institute of Technology, per esempio, si sono concentrati sulle capacità degli algoritmi che governano le automobili a guida autonoma. Risultato: in caso di pedoni con la pelle scura l’accuratezza è stata minore del cinque per cento. Bisogna stare molto attenti, o si produrranno auto che piaceranno a Salvini e al Ku Klux Klan.

Niente di nuovo: già nel 2018 la Reuters denunciò che l’algoritmo di recruting di alcune aziende era inquinato da un pregiudizio che discriminava le donne (vi lascio immaginare un algoritmo inventato dai talebani). Questa è la grande sfida che ci aspetta (una delle), e quindi conviene stare in campana per i prossimi, diciamo due o trecento anni, ecco.

Comunque vorrei rassicurare tutti, specie i parenti: alla fine mi sono rilassato e ho smesso di essere offeso con la macchina, intesa come automobile (soprattutto pensando a quanto l’ho pagata), ho rallentato un po’ e sono arrivato vivo. Bene, no?

Si apre Venezia, l’attesa è (quasi) solo su Sorrentino

Ciak, si Mostra. Da domani 1° settembre fino all’11, va in scena il 78. Festival di Venezia, diretto da Alberto Barbera su mandato della Biennale presieduta da Roberto Cicutto. Tra omaggi e sfide, stelle planetarie e contromisure pandemiche (su tutte, il Green Pass incorporato nell’accredito), non mancano i motivi di interesse, e la speranza: saprà la Mostra far ripartire un botteghino ancora non esaltante?

Paolo Sorrentino L’italiano più atteso, che torna al Lido a vent’anni dall’esordio L’uomo in più, profezia avverata di quel che sarebbe diventato nel nostro cinema. Voltaggio autobiografico, formato familiare anche nella fattura (le luci sono della cognata Daria D’Antonio), È stata la mano di Dio preferisce dirsi all’inglese, The Hand of God, giacché il suo destino è segnato: correre agli Oscar, dove ha vinto nel 2014 con La grande bellezza. Targato Netflix, uscirà in cinema selezionati il 24 novembre, per approdare sul servizio streaming il 15 dicembre: timing da Academy. La campagna d’America è già partita, l’attrice Jessica Chastain – a Venezia con la serie Scenes from a Marriage – ha visto il film e lodato Paolo, “is the Fellini of our time”, ma È stata la mano di Dio, che pure potrebbe competere senza imprimatur nazionale, sarà il candidato italiano agli Oscar? L’altro papabile è Freaks Out di Gabriele Mainetti.

Lorenzo Mieli vs. Rai Cinema Cinque gli italiani in Concorso, tre quelli prodotti da Rai Cinema, Freaks Out, Qui rido io di Mario Martone e Il buco di Michelangelo Frammartino, due quelli tenuti a battesimo da The Apartment di Lorenzo Mieli, È stata la mano di Dio e America Latina dei Fratelli D’Innocenzo. In giuria siede Saverio Costanzo, già partner di Mieli nella società Wildside, che produce con The Apartment e Fandango la serie L’amica geniale.

Roberto Benigni Domani sera in apertura di festival riceverà il Leone d’Oro alla carriera. Il 14 settembre ricorre il settecentesimo anniversario della morte di Dante, di cui è tra i massimi cantori/divulgatori, levatura artistica e caratura internazionale non si discutono, perplessità desta invece la scelta della Mostra di insignire Benigni quale regista (l’altro Leone alla carriera destinato da regolamento a un interprete va a Jamie Lee Curtis), giacché la sua ultima prova, peraltro non esaltante, risale a sedici anni fa: La tigre e la neve, 2005.

Alice Rohrwacher In un’edizione senza registe italiane in Concorso – Laura Bispuri è in Orizzonti con Il paradiso del pavone, Wilma Labate a Orizzonti Extra con La ragazza ha volato – la più riconosciuta (allori a Cannes per Le meraviglie e Lazzaro felice) internazionalmente, Alice Rohrwacher, riceverà domenica 5 il Premio Bresson di Fondazione Ente dello Spettacolo e Rivista del Cinematografo, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.

Star Le stelle non stanno a guardare, anche se sarà impossibile ricambiare il favore, causa muro anti-assembramenti davanti al red carpet. Attesi Kristen Stewart, Matt Damon, Penelope Cruz, Javier Bardem, Antonio Banderas, Timothée Chalamet, Isabelle Huppert, Oscar Isaac, Jessica Chastain, Zendaya, Jason Momoa, Rebecca Ferguson, Jamie Lee Curtis, Kirsten Dunst, Vincent Lindon, Tim Roth, Adam Driver, Olivia Colman, Dakota Johnson, Anya Taylor-Joy.

Afghanistan Un panel sulla situazione dei registi e degli artisti afghani è in programma il 4 settembre: parteciperà la regista Sahraa Karimi, prima presidente donna dell’Afghan Film Organisation.

Pietro Coccia Domani l’omaggio di Antonello Sarno a Pietro Coccia, il fotografo del cinema italiano scomparso tre anni fa: il cortometraggio Pietro il Grande lo ricorda con quattrocento scatti accompagnati da otto colonne sonore.

Scandalo Se gli scandali al cinema sono come i capolavori una specie in via d’estinzione, Venezia ci prova con il francese Les choses humaines, diretto da Yvan Attal. Nel cast la compagna Charlotte Gainsbourg e il figlio Ben, mette al centro un’accusa di stupro che distrugge l’armonia familiare e avvia la macchina mediatico-giudiziaria: “Il potere degli uomini e il suo abuso, la cecità del desiderio maschile e le sue conseguenze devastanti, la cultura dello stupro, l’area grigia del consenso, i social media, la giustizia repubblicana e il tribunale popolare che condanna senza lasciare spazio alla difesa e conduce al linciaggio. La sfida – premette Attal – è nella possibilità di realizzare un film che non sia manicheo, senza che ciò possa essere interpretato come un tradimento della causa delle donne/vittime”. Già, e il #MeToo?

Ecobonus. Bonelli: “Governo miope”

Da sabato l’Italia è l’unico Paese europeo a incentivare l’acquisto di nuove auto a benzina e a diesel a basse emissioni di CO2 e non più delle auto elettriche. I soldi a disposizione per l’ecobonus – che offriva uno sconto sull’acquisto di un’automobile elettrica o ibrida plug-in – sono finiti. E al momento il rifinanziamento non sarebbe previsto: la partita è nelle mani dei ministeri dello Sviluppo economico che gestisce il plafond (e il relativo sito dove i concessionari richiedono i soldi) e dell’Economia che deve trovare nuovi soldi. “Questa storia è il simbolo di come il governo affronta negativamente una questione strategica per l’ambiente e il futuro della nostra economia nonostante gli oltre 200 miliardi messi a disposizione dal Pnrr”, denuncia Angelo Bonelli, coportavoce nazionale di Europa Verde. “Secondo l’agenzia europea per l’ambiente – spiega Bonelli – a causa dello smog nelle città italiane si registrano 56.000 decessi all’anno. Ma nonostante questo si sta rallentando il passaggio verso l’auto elettrica, quando gli altri Paesi Ue sono pronti a vietare l’auto diesel e benzina a partire già dal 2025-2035. La politica del governo è miope non solo sul piano ambientale ma anche dal punto di vista economico industriale”. Il pericolo è che a essere penalizzato possa essere il mercato italiano, con un mancato numero di circa 40mila immatricolazioni di nuove eco-auto di qui alla fine dell’anno.

Il piano è di nuovo in ritardo: un mese e si torna a trivellare

Cronaca di un disastro annunciato: il Pitesai, il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee che dovrebbe individuare tutte le zone da cui sarà esclusa la ricerca e la coltivazione di idrocarburi potrebbe non essere pronto per il 30 settembre, come previsto dall’ultima scadenza concessa. A quel punto, per la gran parte degli iter autorizzativi fermi da oltre due anni proprio in attesa di questa pianificazione potrebbe esserci il via libera, per la gioia dei petrolieri.

L’allarme arriva da fonti parlamentari e da ambientalisti. La proposta di Pitesai è attualmente pubblicata sul sito del ministero della Transizione ecologica (che, ricordiamolo, ha assunto anche le competenze in materia energetica prima in capo al Mise) ed è di fatto una fotografia dello status quo delle concessioni e dei permessi già rilasciati. Entro fine settembre si dovrebbe arrivare tanto alla Vas, la Valutazione ambientale strategica, per le zone in mare quanto all’approvazione “con una forte intesa” in conferenza unificata tra Stato e Regioni per le zone a terra. L’energia, infatti, è materia di legislazione concorrente.

La scadenza per le osservazioni pubbliche sul piano da parte di enti, associazioni, cittadini è invece prevista a metà settembre. A quel punto, bisognerà convocare sul tema la conferenza e sperare che ci sia l’unanimità. Qui si annida il rischio di ritardi, tanto logistico-burocratici quanto legati alle diverse posizioni sul tema all’interno della maggioranza, col M5s contrario a nuove trivellazioni e la Lega che invece preme perché gli iter ripartano al più presto.

I ritardi hanno comunque origine antica. Nel 2019, il decreto Semplificazioni aveva previsto una moratoria di 24 mesi dei permessi di ricerca e prospezione (non delle concessioni già rilasciate) proprio in virtù della transizione energetica e ambientale che sembrava ormai inevitabile e che avrebbe dovuto modificare i paradigmi di sviluppo del Paese. In sintesi: se si cambia davvero corso, gas e petrolio serviranno sempre meno. Una metamorfosi ovviamente graduale, con una graduale esclusione di pezzi di territorio via Pitesai di cui, però, per un anno non s’è vista traccia.

La moratoria viene quindi prorogata nel decreto Milleproroghe del 2020: si stabilisce la scadenza del 13 febbraio 2021 per la redazione del Pitesai e del 13 agosto 2021 per lo stop ai permessi. A febbraio, tuttavia, ancora una volta nulla era pronto. Con un emendamento (a firma Rossella Muroni – Lorenzo Fioramonti e in accordo con il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani) si arriva all’ultima data: moratoria e piano entro il 30 settembre, altrimenti liberi tutti. A un mese dalla scadenza, non c’è alcuna certezza e, anzi, arrivano per lo più conferme.

Di certo, ad esempio, al ministero ora si corre, non si può negare che si stia cercando di fare più in fretta possibile e lo stesso Cingolani sta premendo perché non si scavalli la data del 30 settembre. La buona volontà potrebbe però davvero non bastare. Ma qual è la posta in gioco? Circa una novantina di permessi e di richieste messe in stand by dal 2019.

Per il mare parliamo di cinque istanze di permesso di prospezione, 24 istanze di permesso di ricerca e una di concessione di coltivazione.

Per la terraferma i numeri sono un po’ diversi. Si legge nello stesso Pitesai: “Al 30 giugno 2021 risultano presentate n. 50 istanze di permesso di ricerca in terra, di cui in corso di valutazione ambientale presso il Ministero della transizione ecologica. A queste vanno conteggiate separatamente anche n. 9 istanze di permesso in Sicilia”. Ci sono poi in attesa cinque istanze di concessione di coltivazione a terra e altre due in Sicilia. L’unico aspetto positivo che si evince dai numeri è il dietrofront delle compagnie su alcune richieste. Dall’inizio della moratoria si contano infatti una istanza di ricerca in mare in meno, quattro in meno sulla terraferma e tre richieste di concessione.

“Per la parte terra il Pitesai difficilmente potrà essere approvato entro fine settembre, per la parte a mare però potrebbero farcela ma ho dubbi sull’effettiva protezione delle zone più sensibili del Paese”, spiega Giovanni Vianello, deputato del M5S. “Per questo nelle scorse settimane avevo presentato un emendamento al dl Semplificazioni per vietare tutte le future autorizzazioni di trivelle e Air Gun. Il Mite ha però dato parere negativo e la maggioranza si è spaccata sulla votazione. L’emendamento non è passato per pochi voti ed è tristemente significativo che dopo la votazione la Lega abbia applaudito: l’ambiente sarà ancora a rischio”.

Nuotare nell’oro tutti insieme

Che spettacolo, siamo a 34! Di queste medaglie ben 23 arrivano dal nuoto… Le gioie in patria giungono da parecchi sport: atletica, equitazione, judo, scherma, tiro a segno, tiro con l’arco, triathlon ai quali speriamo presto di aggiungerne altri ma è evidente che l’Italia impegnata all’acquatic center si conferma tra le migliori realtà al mondo.

Non si tratta dell’acuto del singolo atleta, qui le medaglie arrivano da ogni categoria, in ogni specialità e con un continuo ricambio generazionale. Dimostra che siamo di fronte a una programmazione seria a livello federale, dirigenti sportivi e tecnici capaci di generare un movimento solido e prolifico.

Riccardo Vernole, commissario tecnico di grande esperienza, ha saputo costruirsi un ottimo staff. Allenatori preparati e bravi a programmare, a quel punto gli atleti arrivano crescono e vincono, gratificando il grande impegno promozionale delle società distribuite sull’intero territorio nazionale.

Oltre agli aspetti squisitamente tecnici, la sensazione è di essere di fronte a un gruppo davvero stupendo: pure essendo il nuoto uno sport quasi del tutto individuale, viene fuori una squadra unita e ricca di forti legami al proprio interno. Un altro punto di forza è che gli eventi di nuoto paralimpico sono ben documentati, comunicati e diffusi, uno tra i primi sintomi che la Finp non lascia nulla al caso. A volte si rischia di concentrare gli sforzi quasi esclusivamente sulle paralimpiadi, qui invece l’impegno è costante, sistematico anche in eventi secondari sotto il profilo agonistico, utilissimi però per costruire una narrazione continua e permettere al movimento di ritagliarsi l’attenzione che merita. È quindi un ottimo momento per fare tanti complimenti al presidente Valori e al Ct Vernole per la scelta dello staff e la gestione degli atleti.

È auspicabile che quanto fatto dalla Finp sia sempre più stimolante per tante federazioni che desiderano crescere nel tempo.

 

Il rito preferito di Perdibava Oreste, tanto che divenne “Funerale”

L’usanza di segnalare sugli annunci funebri, oltre a nome e cognome del defunto/a, anche il soprannome si va perdendo. Segno dei tempi moderni. E memoria di quelli andati quando tali nomignoli erano in auge e bollavano per generazioni i discendenti di questa o quella famiglia, generati spesso dal lavoro praticato dall’avo o dalla località di nascita. Ma anche un difetto fisico assurgeva a tale funzione.

E i figli dei figli dei figli se lo portavano sul groppone. Utile però quando chiariva chi se n’era andato laddove nome e cognome risultavano misteriosi. Così era perlomeno nei paesi. Su quanto accadeva e accade in città non ho competenze. La premessa è necessaria per narrare come, verso le metà degli anni Cinquanta, buona parte dei miei concittadini riuscì a capire che ad aver spiccato il volo verso l’altro mondo era stato certo Perdibava Oreste, da qualche anno ospite presso la locale casa di riposo. Uomo posato, compito, silenzioso, il Perdibava non usciva dall’ospizio che in occasione di funerali cui partecipava come se l’estinto gli fosse stretto parente o amico. Alla domanda della madre superiora che a un certo punto gli chiese ragione di quella stranezza, l’uomo rispose che finché poteva partecipare voleva dire che il morto non era lui: spiegazione eccentrica, ma non priva di una sua logica che la suora accolse senza ribattere prendendo l’abitudine di avvisarlo quando in paese se ne celebrava uno. Bussando alla porta della sua cameruccia, lo avvisava, funerale! E il Perdibava si vestiva con decenza e partiva. Di funerale in funerale, il nomignolo gli si appiccicò prendendo piede dapprima tra gli altri ospiti della casa. E lì sarebbe rimasto confinato se un bel giorno la perpetua Scudiscia, curiosa di quello sconosciuto che non si perdeva un funerale che fosse uno, ne chiese conto alla superiora. Intende il funerale? indagò la suora che ormai aveva pure lei cominciato a chiamarlo così. Fu il momento in cui il nomignolo guadagnò il diritto alla effe maiuscola e a una sorta di profano, tardivo battesimo grazie alla lingua della Scudiscia che, informando la sua corte, ne garantì la massima diffusione. Tant’è che quando il Perdibava rese l’anima a Dio e fu necessario compilare l’annuncio la stessa superiora si premurò di avvisare l’addetto alle pompe funebri di aggiungere “detto Funerale” al nome e cognome dell’estinto. Ben pochi infatti lo conoscevano come Perdibava Oreste, il rischio di un misero corteo sarebbe stato più che probabile se quel nomignolo non fosse comparso. Senza battere ciglio, il cassadamorto obbedì e così facendo garantì al Perdibava una più che onesta cerimonia funebre cui presero parte molti di coloro cui il Funerale s’era aggregato quand’era in vita, compreso nel triste momento, senza però sapere chi fosse il defunto o la defunta di turno.

MailBox

 

L’ipocrisia del governo su Covid, Pass e Rdc

Draghi parlò di rischio calcolato, mettendo l’Italia in zona bianca. Poi ci ha accusato di essere sprovveduti e assassini, dopo aver autorizzato i festeggiamenti per gli Europei. Intanto la Cartabia piazzava una assurda riforma. Vogliono abolire l’unica cosa che dà dignità a un bel po’ di gente il Rdc: gran cosa con questa pandemia. Ma il massimo è il Green pass, capolavoro di ipocrisia politica, col quale si obbliga a non fare cose in nome di un vaccino non obbligatorio. Come a dire: puoi guidare senza patente, ma non puoi parcheggiare dalle 8 alle 20, non puoi andare oltre i 15 km e neanche andare in autostrada. Questo governo vuole ripristinare le caste credo, noi siamo servi della gleba e, se va bene, sudditi. Aridatece Giuseppi. Please. Basta, davvero BASTA.

Davide Morchio

 

Le destre schierate contro Montanari

L’attacco a Tomaso Montanari da parte delle destre non si giustifica in nessun modo. Denunciare il clima di revisionismo neofascista è un dovere, non una colpa. Reato è l’apologia del fascismo. Mettere sullo stesso piano il Giorno della Memoria con il Giorno del Ricordo significa strumentalizzare gli eventi della storia. a tragedia della Shoah non è la tragedia delle Foibe: si tratta di vicende assai dolorose ma diverse per contesti, quantità di vittime, livello di gravità e responsabilità. Le motivate critiche dello storico dell’arte all’uso politico delle foibe hanno portato le destre a chiederne addirittura le dimissioni. Utilizzare le foibe per svalutare l’antifascismo e la resistenza, a fondamento della Costituzione, è inquietante. Contrastarlo spetta alle istituzioni e a quanti hanno a cuore i valori fondativi della nostra Repubblica.

Domenico Mattia Testa

 

5 Stelle, l’unica chance di Conte è l’opposizione

Spero che dopo l’elezione del capo dello Stato, Conte faccia uscire il M5S dal governo: non possono stare in quella accozzaglia poco seria. A partire da Franceschini che nomina un ammiratore del fascio, Brunetta che nomina un esperto in spionaggio, Durigon che se gli toglieranno le deleghe, Salvini avrà già piazzato le sue richieste in cambio, la scuola in alto mare a 10 giorni dall’inizio e i fondi innovazione ai soliti furbi.

Claudio Paviani

 

Afghanistan: neanche l’ombra di un mea culpa

In Germania la Merkel in merito alla catastrofe dell’Afghanistan afferma: “Abbiamo sbagliato tutto”. In Italia Berlusconi dice che il ritiro è “un grave errore”. Nessuno di quelli che inneggiavano a favore della “crociata” in Afghanistan è adesso capace di balbettare un mea culpa. Draghi esalta i caduti italiani di questi anni come eroi, ma si è “dimenticato” di proferire una sola sillaba a difesa di altri due eroi caduti, Falcone e Borsellino, dei quali si è cercato di profanare la memoria cambiando il nome di una piazza a loro intitolata, con il nome di Mussolini. Dispiace dirlo, ma come scrive un emerito giornalista, sembra proprio vero che l’Italia sia la “culla del paraculismo”.

Adam Seli

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano il 29 agosto dal titolo “La Meg Ryan di B. tira la volata a Gualtieri”, mi preme innanzitutto ringraziare il suo Tommaso Rodano che mi paragona a Meg Ryan, cosa che certamente mi lusinga, essendo stata l’attrice votata come una delle 50 donne più belle del mondo dalla rivista People.

Quanto però ad alcune mie dichiarazioni riportate fuori contesto, devo far notare ai suoi lettori per correttezza d’informazione che le cronache, comprese quelle del suo quotidiano, riportarono all’epoca, come sia sempre stata contraria al sedicente metodo Stamina, al punto di essere stata oggetto di attenzioni non proprio lusinghiere, da parte dei seguaci di un metodo che per la giustizia italiana grazie all’inchiesta dell’ottimo magistrato Raffaele Guariniello si rivelò una truffa e il frutto di una associazione a delinquere. Il suo stesso quotidiano riportò il 3 ottobre 2014 la mia dichiarazione in cui cito ironicamente il metodo come equivalente alla cura dei maghi. Le ricordo che il comitato scientifico fu da me voluto e insediato allo scopo di verificare l’attendibilità del metodo Stamina di cui gran parte del Parlamento e opinione pubblica si erano convinti in buona fede della efficacia, senza alcuna evidenza scientifica. Quanto invece all’affermazione dell’articolista che mi definisce contraria a matrimoni omosessuali le ricordo che ho votato le unioni civili e la legge Zan ed è facile trovare le mie dichiarazioni di allora in cui mi sono sempre detta favorevole a regolare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, così come ritengo una priorità battersi contro la cultura dell’odio.

Rivendico le mie convinzioni, le mie tante battaglie a favore delle donne, la difesa della legge sull’aborto, ma anche la mia contrarietà all’utero in affitto e alla liberalizzazione della droga. Idee non isolate nel Partito Democratico che è un partito di centrosinistra pluralista e riformista, caratteristiche e valori che mi hanno portata nel 2019 ad accettare la proposta di adesione dell’ex segretario Zingaretti.

Beatrice Lorenzin

Contro Moro. Hanno forzato le sue parole. Il problema concerti è reale

 

Caro Fatto, sul web ho notato un scontro fra un’altra testata e Fabrizio Moro. Tutto nato dall’intervista da voi pubblicata, o sbaglio?

Ginevra Santini

 

Cara Ginevra, a volte rispettabili testate, nelle quali militano colleghi eccellenti, si dedicano al “traino” dell’operato altrui, forzando concetti e titolazioni per produrre il massimo della visibilità con il minimo sforzo. Il polverone è scaturito dall’intervista rilasciata al “Fatto” da Fabrizio Moro (che ha confermato la correttezza del nostro resoconto). Il nucleo delle sue dichiarazioni riguardava la mancanza di regole chiare per la musica dal vivo: in questo momento critico ogni artista potrebbe essere tentato di organizzarsi come meglio crede, con il rischio di assembramenti per concerti anche a sorpresa. La filiera – questo il suo pensiero – è stata messa a dura prova da due anni di restrizioni, mentre in altri casi, vedi gli stadi per il calcio, non sembra esservi altrettanto rigore istituzionale. Nel colloquio con il “Fatto”, Moro non ha citato alcun performer. Su “Leggo” hanno ripreso il nostro articolo titolando invece “Moro contro Salmo”. Da qui la decisa replica via social del cantautore, che ha riprodotto il post incriminato barrato da una croce, sottolineando la strumentalizzazione delle proprie parole. I vertici di “Leggo” hanno a sua volta replicato in maniera risentita al musicista, tirandone in ballo la vita e i presunti insuccessi. Fine del duello? Macché. Michele Anzaldi, segretario della Vigilanza Rai in quota Italia Viva ha invocato l’intervento dell’Ordine dei Giornalisti per tutelare “Leggo” dalla “tempesta di odio” innescata da Moro. Anzaldi ha pure azzardato una mirabile chiosa: “E il Movimento 5 Stelle, di cui Moro è stato pubblico sostenitore anche con una serata organizzata in campagna elettorale, non ha nulla da dire? Di Maio, Di Battista, Conte che pensano degli insulti al lavoro dei cronisti di ‘Leggo’?”. Ecco: visto che si tira in ballo l’Ordine, “il lavoro dei cronisti” dovrebbe consistere in questo: se vedo dichiarazioni interessanti pubblicate altrove chiamo il personaggio invitandolo ad approfondire. Altrimenti è come sedersi da imbucati a una tavola già imbandita e fare gozzoviglie, battendo le posate per farsi notare.

Stefano Mannucci

Calenda, il twittatore che si credeva Winston Churchill

Carlo Calenda, l’uomo che sussurrava ai cigni e dava del tu alla coratella, non verrà alla festa del Fatto Quotidiano. Dopo aver garantito la sua presenza, ha fatto sapere (al Foglio: mica a noi) che non verrà perché non ci ritiene meritevoli. Secondo lui siamo “insinuatori, insultatori e sputacchiatori”. Me cojoni! La notizia ha gettato la redazione tutta nello sconforto. Padellaro ha cominciato a tifare Lazio, Lillo ha ammesso che il caso Consip se l’è inventato, Travaglio si è iscritto a Forza Italia e io adesso faccio il ghostwriter di Nobili. Siamo distrutti, perché avremmo dato tutto per avere ospite Calenda Carlo, il twittatore che si credeva Churchill e in realtà era stocazzo (con rispetto parlando). Già, ma chi è Calenda? Nato nel 1973, per darsi un tono ha sempre voluto dimostrare 80 anni. Riuscendoci. Figlio della regista Cristina e nipote del grande cineasta Luigi, ha recitato per il nonno nello sceneggiato Cuore. Interpretava lo scolaro protagonista, Enrico, ed era doppiato perché già allora parlava come Bombolo. Abbandonato il cinema per squisita mancanza di talento, vera cifra artistica di Calenda al punto da renderlo uno dei più grandi “diversamente vincenti” di sempre, Carletto Water(loo) si fa le ossa vendendo fondi di investimento e polizze porta a porta. Si laurea in Giurisprudenza e si mette a lavorare in società finanziarie. Approda in Ferrari e fa carriera, legando molto con Luca Cordero di Montezemolo, del tutto casualmente amico ed ex compagno di scuola del papà di Carletto Water(loo). Il rapporto con Montezemolo diviene anche politico, giacché il rutilante Calenda è tra i firmatari del manifesto politico di Italia Futura. La sua presenza garantisce l’immediata implosione del progetto, ribadendo il grande dono del Roosevelt dei Parioli: sabotarsi e autodistruggersi come nessuno. La sua spiccata propensione al disastro affascina per osmosi Renzi, che lo vuole ministro dello Sviluppo economico (lo era già con Letta) nel suo governo di post-paninari. Calenda fa di tutto per peggiorare ulteriormente un esecutivo di per sé imbarazzante, e ci riesce. Carletto Water(loo) è inarrestabile, e in un amen contribuisce a sfasciare pure Lista Civica. Ma non gli basta e decide di assurgere a macchietta televisiva. Dopo aver litigato con Renzi nella gara a chi ce l’ha meno corto, si mette a fare lo Sgarbi tascabile. Il risultato è esilarante e gli garantisce ospitate a grappolo. Durante i Conte I e II, di colpo, pare trovare una sua ragion d’essere. Scrive libri (di successo!) ed è l’unico a saper fare opposizione costruttivamente. Certo, sui social resta il solito coattone mangia-cigni, ma nel biennio 2018/19 il mondo assiste sgomento al miglior Carletto Water(loo) di sempre. Ovviamente non può durare, perché (è una metafora) chi nasce facocero non muore mai libellula. Calenda Jekill si magna in un sol boccone mister Hyde e torna quello di prima. Però peggio, che sembrava impossibile. Desideroso di uccidere nella culla un altro infante politico, crea Azione, in via teorica partito e in via pratica condominio bonsai a due piani: al primo c’è lui e al secondo Richetti. Nel frattempo sfancula il Pd, che lo ha portato in carrozza nell’Europarlamento ma che – a suo dire – è reo di prendere decisioni senza obbedire a Giulio Cesare Calenda. Poi, nell’ennesima ricaduta masochistica, si candida a sindaco di Roma. I sondaggi paiono tristissimi, ma questo non intacca minimamente la prosopopea comica di Calenda, sempre lanciato a bomba contro se stesso. Peccato non sia con noi sabato: ci avrebbe fatto sognare. Daje Carle’!

Dal senatùr a Salvini e Durigon: il doppiogiochismo della Lega

C’era una volta la Lega Nord, quella del senatùr Umberto Bossi, che “ce l’aveva duro”. Ora c’è anche la Lega Sud del “capitano” Matteo Salvini che “ce l’ha Durigon”. Ma la verità è che di fatto sono agli antipodi: la Lega prima versione, territoriale e nordista, legata prevalentemente agli interessi padronali degli imprenditori lombardo-veneti, con Salvini che cantava in pubblico “senti che puzza/scappano anche i cani/sono arrivati anche i napoletani”; e la Lega seconda versione, populista e sudista, in cui lo stesso Salvini nomina suo vice per il Sud l’ex sottosegretario accusato di filo-fascismo per aver proposto di intitolare al fratello di Mussolini un parco di Latina già intestato ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia. Una Lega double face, insomma, trasformista e opportunista, buona per tutti i gusti e per tutte le stagioni, anti-meridionale al Nord e filo-meridionale al Sud.

Con la nomina del suo proconsole per il Mezzogiorno, il capo della Lega-bis cerca evidentemente di raccattare un po’ di voti del malcontento nelle regioni meridionali, pescando magari nel vecchio serbatoio della destra nostalgica ed ex o post-fascista. E così tenta anche di frenare l’avanzata della sua alleata-avversaria Giorgia Meloni. Ma allo stesso tempo, oltre a rischiare un conflitto d’interessi con l’altra Lega, fa uno sgarbo al presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha costretto Claudio Durigon a dimettersi; offende lo schieramento dei meridionali democratici e progressisti; e infine, tradisce il fronte anti-mafia che difende la memoria di Falcone e Borsellino. “Rien ne va plus! En plein!”, come al casinò della politica italiana.

Non sappiamo se l’investitura di Durigon sia maturata in un consiglio federale o in una seduta, tra un mojito e l’altro, al Papeete Beach di Milano Marittima. Il cerchiobottismo di Salvini ultima maniera minaccia, però, di fare cadere il “capitano” fra due sedie. Bisogna ricorrere a un gommista per eseguire un intervento tecnico di convergenza: due ruote del Carroccio tendono ad andare da una parte e le altre due in direzione opposta. È una forma di strabismo elettorale che può portare a compiacere una parte e a indispettire l’altra ovvero a scontentare entrambe. Il buon Dio, come si sa, acceca chi vuol perdere.

Ma non è tanto il destino della Lega che qui importa. Piuttosto, interessa il futuro del Mezzogiorno, di quel Sud senza il quale non c’è il Nord: vale a dire non c’è riscatto meridionale e neppure ripresa nazionale. Sarà pur vero che al Sud è stato destinato circa il 40% dei fondi europei, ma è un fatto che – come questo giornale ha già scritto calcoli alla mano – mancano una settantina di miliardi ed è certo che i sindaci meridionali sono in rivolta. Che cosa ne pensa la Lega-bis? E come reagiranno gli elettori sudisti a questo tentativo di “scippo”?

Con la “doppia Lega”, insomma, si rischia di veder rientrare dalla finestra quella “autonomia differenziata” che era uscita dalla porta. Dissimulata magari sotto le insegne del federalismo. Sarebbe un doppio danno: per il Sud, innanzitutto; ma anche per il Nord che proprio dal rilancio del Mezzogiorno può trarre spinta e vigore, in nome dell’unità sancita dalla Costituzione.