Le domande dei bimbi sulla scuola-caserma

“Maestro, ma la mascherina dobbiamo portarla sempre? Dobbiamo stare ancora con i banchi divisi? Almeno all’intervallo possiamo giocare insieme? Ma tu ce l’hai il Green pass?”. Tra meno di 15 giorni, maestri e professori, il primo giorno di scuola, si ritroveranno a rispondere a queste domande.

Dopo un’estate trascorsa a giocare tutti insieme al parco comunale, all’oratorio, sulla spiaggia, a Gardaland in Italia o a Legoland in Danimarca, si torna nella scuola modello caserma.

Per tre mesi ci siamo tutti dimenticati del metro di distanza: gli adesivi a terra che ricordano di stare lontani gli uni dagli altri, negli aeroporti, nelle stazioni, sui mezzi pubblici, ai musei, nei parchi a tema, li abbiamo bellamente calpestati senza rispettarli e senza che vi fosse qualcuno a controllare, ma ora a scuola si torna a marciare solo sulla destra nei corridoi e a entrare e uscire dalle aule in maniera separata.

Non sarà nemmeno facile rispondere ai quesiti dei nostri alunni. Il primo “pressing” sul maestro sarà quello già registrato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico: “Maestro, ti prego, possiamo unire i banchi?”.

In teoria no, ma il Comitato tecnico scientifico e il ministero hanno detto ai presidi: fate come è possibile. Se si possono tenere le distanze è bene rispettare la regola; laddove l’aula fosse troppo stretta si può stare vicini. Toccherà a noi spiegare ai bambini perché in seconda A stanno tutti affettuosamente (per usare una parola cara al ministro Patrizio Bianchi) insieme e in seconda B si sta a un metro di distanza. E l’intervallo? I dieci minuti tanto agognati da ogni allievo per giocare tutti insieme come saranno quest’anno? Altra domanda difficile visto che nelle carte (il cosiddetto “Piano Scuola”) non è menzionato. Dobbiamo solo sperare nella bontà del preside (se deciderà lui qualcosa) o in quella dell’insegnante. Se qualcuno deciderà per la distanza anche a ricreazione si aspetti la domanda: “Scusa maestro, ma perché alle quattro, alla fine della scuola, possiamo giocare insieme e qui no?”.

Altra questione: la mascherina. C’era lo scorso anno. Ci sarà quest’anno. Probabilmente le stesse malviste dai bambini e dalle loro famiglie. “Maestro, scusa, io sono stato in Islanda e lì a giugno non si portavano le mascherine nemmeno nei locali perché qui, nonostante siamo tutti vaccinati, le dobbiamo indossare?”. Nessuno di noi è Massimo Galli, ma l’unica risposta credibile da dare d un bambino potrà essere: “L’hanno deciso gli scienziati. Sono le regole, dobbiamo rispettarle”. L’accoglienza, il primo giorno di scuola, sarà un’altra volta dettata dalle norme: finestra aperta sempre anche d’inverno; disinfettare e lavare le mani spesso nonostante quest’estate sia potuto accadere che in un aeroporto internazionale come quello di Bergamo non vi fosse il sapone in bagno. Ancora più difficile alle medie dove chi frequenta la prima non avrà ancora il vaccino perché non ancora è possibile farlo mentre chi è in seconda o terza può aver già avuto la somministrazione. Nel primo caso i professori dovranno, se possono, rispettare le regole del distanziamento; nel secondo, se i ragazzi saranno tutti vaccinati i banchi si potranno anche unire. Piccolo problema: l’insegnante, in teoria, non dovrebbe sapere chi ha fatto o meno l’iniezione.

Infine inevitabile la domanda: “Ma lei prof. ce l’ha il Green pass?”. L’interrogativo arriverà dai più grandi nei confronti dell’antipatico docente di Latino nella speranza che stia presto a casa oppure sarà fatta dagli innocenti bambini della primaria che, meglio dei presidi (lo scrivo con sarcasmo), vigileranno sui loro maestri.

A tutti bisognerà spiegare una questione “burocratica” che gli alunni vivranno sulla loro pelle: il maestro senza “lasciapassare” per quattro giorni starà a casa e al suo posto arriverà un supplente che starà in quella classe finché il primo non si sarà vaccinato o avrà fatto il tampone. L’anno scolastico 2020-2021 ricomincia come quello dello scorso anno. Ai nostri alunni più piccoli potremo dire che i bambini si ammalano molto meno degli adulti (“La mortalità tra 0 e 20 anni per Covid-19 corrisponde a 0,17 per 100.000 abitanti, pari a un duecentesimo della mortalità totale stimata per tutte le cause in un anno normale”, secondo alcuni esperti), che il 90% dei loro insegnanti e bidelli sono vaccinati, che la scuola è sempre più sicura ma non si può ancora giocare insieme, abbracciarsi, dare una mano al compagno in difficoltà; avvicinarsi al maestro. Alla faccia dell’accoglienza e della didattica. Lo slogan di Bianchi da mesi è “stiamo lavorando a una scuola affettuosa in cui si impari ad avere affetto per gli altri”. Prima o poi il professore ferrarese ci dovrà spiegare il suo concetto di “affetto”. Per ora, a noi maestri, in questa scuola caserma ci sfugge un po’.

 

La Meloni, i bambini, i giochi e le medaglie d’oro al valor militare

Giorgia Meloni chiede di fermare la “pericolosa deriva” rappresentata dalla nomina di un antifascista dichiarato a rettore universitario (Gad Lerner, Fq, 30 agosto 2021)

La Meloni è stata pure baby sitter della figlia di Fiorello (T. Rodano, Fq, 23 maggio 2020)

 

Siete una donna? Siete una madre? Siete cristiana? Siete tornata dalle vacanze e a corto di idee per le domeniche pomeriggio in famiglia? Niente paura. La baby sitter Giorgia Meloni ha selezionato per voi alcuni giochi divertenti da fare con i vostri bambini. Non serve nessuna attrezzatura particolare. Basta re-inventare oggetti di uso comune, trasformare quello che avete sotto gli occhi. Giorgia: “Il gioco è competizione, cioè una gara di sopravvivenza dove vince il più forte e il debole giustamente soccombe. Innanzitutto, dovete creare i premi: medaglie al valor militare e croci di guerra fatte con il pongo. Per i perdenti, invece, dovete costruire un lager di sterminio giocattolo con piatti di carta, nastri colorati, scatole da scarpe, forno a microonde, qualsiasi cosa si presti. Allestite quindi un percorso di guerra in salotto con sedie rovesciate e poltrone, per rifare a cuscinate le forze dell’Asse che invadono l’Europa, oppure la guerra civile spagnola”.

Altre idee?

“Me ne restano mille. Un piccolo erbario seminato in modo che l’erba, crescendo, formi una svastica o la scritta DVX. Origami del profilo del Duce con il cartoncino nero. Karaoke con Faccetta nera e Giovinezza. Biscottini a forma di fascio littorio, da mangiare guardando un cinegiornale Luce sull’anniversario della marcia su Roma. Una capanna in salotto con coperte e sedie, dove sedersi al buio per raccontare storie paurose dell’OVRA. Nascondino in casa, come Anna Frank. Riconosci l’ebreo: mostrate sull’i-Pad ai vostri figli foto di vip internazionali assortiti, fra cui però metterete Kirk Douglas, Tony Curtis, Dustin Hoffman, Woody Allen, Scarlett Johansson e Natalie Portman. Un-due-tre-stella: chi perde deve mettersi una stella gialla sul petto, ed entrare nel lager di sterminio finché i giochi non sono finiti. Giocate all’hotel di lusso delle mogli dei gerarchi fascisti con massaggi, bagni profumati, smalti e creme. Create un forno crematorio giocattolo con il polistirolo dentro una bacinella di alluminio, internateci dei pupazzetti Playmobil non ariani e dategli fuoco. Leggete ai vostri bambini il Mein Kampf interpretando tutti i personaggi con le voci dei Simpson. Giocate con travestimenti e trucchi facciali alla fuga di Adolf Eichmann, Klaus Barbie, Erich Priebke, Joseph Mengele, Alois Brunner ecc. in Sudamerica attraverso la Ratline (Austria-Genova-Bolivia), usando verdure tagliate come timbro colorato per i passaporti falsi. Create col Das la testa di quell’adorabile rompiscatole di Tomaso Montanari, riempitela di caramelle e giocateci alla pentolaccia con un manganello. Non c’è limite alla fantasia!”.

Perché è importante far giocare i nostri bambini?

“Perché, come diceva Maria Montessori, il gioco è il lavoro del bambino. E il lavoro rende liberi”.

Ultim’ora. Completato il monumento che commemora la caduta del Muro di Berlino. Il monumento è un muro alto 3 metri e lungo 30 km che taglia in due Berlino.

 

Da CasaPound a Salvini: le “visioni” di Emiliano

Non si sa mai bene cosa aspettarsi da Michele Emiliano. Ieri il presidente pugliese ha detto di apprezzare Matteo Salvini: “Sta facendo un grande sforzo per delineare una visione di Paese, ed è uno sforzo che ha dei costi politici. È un politico che ha una sua onestà intellettuale”. Non è chiaro con quale parte della “visione” salviniana Emiliano si trovi d’accordo: lassismo fiscale? Cancellazione del Reddito di cittadinanza? Frontiere chiuse? Il punto è che forse è arrivato il momento di smettere di chiedersi cosa Emiliano pensi veramente.

Non è di sinistra, non è di destra, non è di centro, non è grillino. L’emilianismo è una corrente schizofrenica, eccentrica, imprevedibile: va un po’ dove ci sono i voti, un po’ dove la porta il vento, seguendo l’ego ipertrofico del governatore. La sua doppia elezione in Puglia è stata resa possibile dall’appoggio di candidati pescati ovunque, dagli ex vendoliani fino ai post fascisti. Il sindaco di Nardò Pippi Mellone (un passato in CasaPound, ma pure alcune iniziative tutt’altro che razziste in aiuto dei braccianti), ha appena ricevuto l’endorsement di Emiliano per farsi rieleggere nella città salentina. Il problema è che se Emiliano continua così, prima o poi sarà Mellone a imbarazzarsi per il suo sostegno.

L’impresa per chiudere la pratica grillina

Da quando il M5S ha iniziato la discesa nei sondaggi si è cercato di fare bottino delle sue spoglie (sulla carta un bel mucchio di voti) sperando che trascorso un decennio di questa calamità politica un giorno non si parlasse più, e tanti saluti. Però, da quando Giuseppe Conte ha preso la guida del M5S, per chi voleva chiudere rapidamente la pratica grillina il problema è diventato Giuseppe Conte. Intendiamoci, un grosso problema lo era già stato come premier, ma quelli di cui sopra avevano pontificato sul Giornale Unico dei Migliori che una volta lasciato Palazzo Chigi di lui si sarebbe perso perfino il ricordo. Non è andata esattamente così (lui, come Vasco Rossi, potrebbe cantare E sono ancora qua), ragion per cui la narrazione ostile si arricchisce ogni giorno di nuove efferate accuse. Sulla più tragicomica, quella di “Conte avvocato dei talebani” (Il Giornale e associati) hanno già risposto personaggetti come Merkel e Macron, favorevoli al dialogo intravisto dall’ex premier. Senza contare quel traditore del capo della Cia che con i tagliagole ha intavolato trattative sull’esodo degli occidentali da Kabul. Quanto alla cospirazione permanente contro il governo Draghi, ordita per vile risentimento contro chi gli ha sottratto la poltrona, il rancoroso avvocato ha risposto ieri al Corriere della Sera che “al governo in carica bisogna assicurare tutto l’appoggio perché possa affrontare le sfide dell’autunno”. Affermazione di cui probabilmente non troveremo traccia nei prossimi editoriali dedicati ai quotidiani complotti contiani. I loro estensori sembrano più interessati a seminare congetture, possibilmente infondate perché, come diceva quel tale con la svastica, qualcosa resterà. Tempo sprecato, dunque, mentre il capo politico dei 5Stelle è alle prese con il problema dei problemi, definire meglio il profilo del Movimento, quello cioè di una forza responsabile di governo che non rinuncia a difendere il patrimonio identitario (vedi la canea dei due Matteo sul Reddito di cittadinanza, di cui essi par di capire non hanno necessità). Se serve a recuperare consensi è un compromesso non facile, ma Conte proverà a metterci la faccia e una popolarità che si mantiene alta. Con quali risultati si vedrà alle prossime elezioni. Come dice quel film: basta che funzioni.

Vaccinare i fragili di qualsiasi età

L’European Centre for Disease Prevention and Control, agenzia europea per il controllo delle malattie, ha pubblicato un interessante documento, Considerazioni provvisorie sulla salute pubblica per la vaccinazione contro il Covid-19 degli adolescenti nell’Ue/SEE”, in cui fornisce una serie di considerazioni (provvisorie) sulla salute pubblica per supportare le autorità sanitarie dell’Ue nel prendere decisioni sulla somministrazione di vaccini Covid-19 agli adolescenti dai 12 ai 18 anni. Il focus è polarizzato sul potenziale impatto complessivo delle campagne vaccinali sulla salute pubblica, piuttosto che sui benefici e sui rischi individuali. Viene proposta una chiara sintesi, articolata in otto punti (key messages). Il primo messaggio è quello che la vaccinazione degli adolescenti ad alto rischio di Covid-19 grave dovrebbe essere considerata una priorità. Sappiamo che purtroppo molti Paesi europei non lo hanno ancora tenuto in considerazione. I dati raccolti dall’Iss relativi ai decessi da Covid sono molto chiari. In tutte le fasce d’età, comprese quella under 20, la comorbilità (presenza di altre patologie) è determinante. I benefici diretti individuali della vaccinazione contro il Covid-19 negli adolescenti sono limitati rispetto ai gruppi di età più avanzata. Dato il ridotto rapporto rischio/beneficio degli adolescenti rispetto ai gruppi di età più avanzata, prima di prendere di mira questo gruppo di età deve essere data un’attenta considerazione della situazione epidemiologica e dell’assunzione del vaccino nei gruppi di età più avanzata. Le questioni di equità relative alla disponibilità e all’accesso ai vaccini devono essere considerate attentamente quando si decide di estendere la vaccinazione Covid-19 a gruppi con un rischio individuale inferiore di malattia grave. Queste importanti precisazioni si aggiungono a quanto già raccomandato da Soumya Swaminathan dell’Oms, durante una recente conferenza stampa. Al momento non bisogna sprecare dosi di vaccino. Non è il caso né di somministrare una terza dose (per la quale peraltro mancano dati scientifici), né vaccinare gli adolescenti che, al momento (escluso i fragili) hanno un rischio quasi nullo di essere colpiti dalla malattia severa.

Pandemia è il coinvolgimento di un’infezione di tutti i Paesi al mondo e si risolve solo con una “pan-soluzione. Cosa fanno gli altri Paesi? Ordine sparso, come sempre. Francia apripista, Germania contraria sotto i 17 anni, altri titubanti.

 

“Sono in aspettativa, da lì non prenderò la doppia pensione”

Giorgia Meloni ha accettato di rispondere alle nostre domande sulle due questioni della sua posizione di giornalista in aspettativa e dei contributi pubblici presi negli ultimi anni dalla società a responsabilità limitata della quale è formalmente dipendente ancorché non retribuita.

Onorevole Meloni, lei è ancora una dipendente del Secolo d’Italia Srl in aspettativa come giornalista, ex legge 300 per mandato parlamentare, giusto?

Sì, esatto.

Mi conferma (come già dichiarò al Fatto 5 anni fa) che non sta versando i contributi per ottenere – come per legge è previsto – il diritto alla pensione maturata in questi anni, cioè dalla sua prima elezione nel 2006 al 2021? E conferma che non intende avvalersi del diritto a farlo in futuro, come dichiarò sempre al Fatto in quella circostanza 5 anni fa?

Confermo che ho deciso di non avvalermi della generosa opportunità di versare i contributi volontari per poi avere diritto anche alla pensione da giornalista. E non lo farò neppure in futuro. Come sicuramente il Fatto Quotidiano sa, l’attuale meccanismo di Camera e Senato consente privilegi anche maggiori ad altre categorie. Un parlamentare che è anche magistrato o docente universitario, ad esempio, versando solo un terzo dei contributi previdenziali si ritrova i restanti due terzi versati da Camera e Senato, ottenendo così una doppia pensione pagata in larga misura dai contribuenti. Stupisce che il Fatto non abbia mai detto una parola su questo.

(Non è vero, basta leggere la collezione del Fatto o fare una ricerca sul web su fattoquotidiano.it per accorgersi che i nostri pezzi sulle doppie pensioni dei parlamentari sono numerosi, ndr)

Onorevole Meloni, lei ritiene che – data la legge vigente e la situazione di fatto reale – sia giusto che Il Secolo d’Italia prenda il contributo dalla Presidenza del Consiglio come giornale appartenente alla Fondazione AN, ancorché sia vietato dare soldi pubblici agli organi di movimento politico? In particolare, non pensa che non sia coerente con la volontà del legislatore che (anche dopo la legge del maggio 2017 entrata in vigore per il contributo 2018) Il Secolo d’Italia abbia preso il contributo anche se solo a maggio 2019 l’assemblea della società Secolo d’Italia Srl ha tolto dallo statuto la dicitura che Il Secolo d’Italia è un organo di movimento politico?

Sono questioni di cui non sono a conoscenza. Sul Secolo d’Italia – che sicuramente non è un organo di Fratelli d’Italia – l’unica posizione che conosco è la mia: sono una giornalista professionista in aspettativa non retribuita e che ha rinunciato ai contributi anni fa.

In generale, comunque, sono favorevole che lo Stato sostenga l’editoria per garantire e difendere il pluralismo dell’informazione, che è un caposaldo della democrazia. E che lo faccia soprattutto nel tempo della crescita dei social media.

Soldi pubblici, ecco la furbata del “Secolo”

Una legge del 2017 approvata ai tempi di Renzi e Gentiloni, vieta allo Stato di dare soldi ai giornali dei movimenti politici. Il Secolo d’Italia, che ha nel suo organico come giornalista in aspettativa parlamentare Giorgia Meloni, ha continuato a incassare il contributo anche se è edito da una società che nel suo statuto fino al maggio 2019 proclamava di pubblicare ‘un organo di movimento politico’. La società editrice Secolo d’Italia Srl è di proprietà al 100% della Fondazione Alleanza Nazionale, erede del patrimonio immobiliare e del giornale dell’omonimo partito. An non si presenta da tempo alle elezioni quando nel suo statuto la Srl dichiara che Il Secolo d’Italia è “organo del movimento politico Alleanza Nazionale”. Questo fino al maggio 2019 quando la clausola dell’organo sparisce.

La legge del 2017, per come è stata scritta (“Non possono accedere al contributo le imprese editrici di organi di informazione dei partiti, dei movimenti politici…”), sembrerebbe tagliare fuori la Secolo d’Italia Srl fino a quella data. Eppure il giornale ha continuato a incassare i contributi: 780 mila euro nel 2018 e 935 mila euro nel 2019 più un anticipo di 467 mila euro per il 2020, poi arriverà il conguaglio.

Solo il 15 maggio 2019 l’assemblea della Srl mette all’ordine del giorno il tema. All’assemblea quel giorno ci sono tre persone, tutte di Fratelli d’Italia: il presidente del consiglio di amministrazione Filippo Milone (membro della commissione di disciplina di FdI); l’amministratore delegato Antonio Giordano (vicesegretario amministrativo di FdI), e il deputato di FdI Tommaso Foti, che interviene come rappresentante dell’unico socio, la Fondazione Alleanza Nazionale.

“Non c’è continuità tra An e FdI”: ma carta canta…

Ovviamente sono tutti d’accordo anche perché la modifica allo Statuto mette le carte a posto, anche se in ritardo di un anno e mezzo. Il presidente della società, Filippo Milone, già sottosegretario alla difesa del governo Monti, ci dice: “Il Secolo d’Italia anche prima della modifica dello Statuto non era organo politico di AN perché quel partito non esisteva più. C’è la Fondazione che è una cosa diversa. Quindi Il Secolo è di una Fondazione e non c’è continuità tra An e Fratelli d’Italia, il primo partito non esiste più e il secondo esiste da pochi anni”.

La tesi di Milone però prova troppo: la scelta di An di confluire nel Pdl nel 2009 non ha impedito al Secolo di prendere i contributi in passato. Inoltre una certa continuità tra An e FdI ci deve essere se il 4 ottobre 2015 l’assemblea della Fondazione An ha approvato questa mozione: “Solo il movimento politico Fratelli d’Italia si richiama esplicitamente alla storia e ai valori della destra politica incarnata da Alleanza Nazionale”. Quel giorno la Fondazione concede l’uso del suo simbolo a FdI anche perché “ha esplicitamente condiviso l’eredità politica di quel partito e che attualmente FdI è l’unico partito presente con un Gruppo Parlamentare che si richiama nei valori e nella stessa denominazione ad Alleanza Nazionale”.

Certo, nella Fondazione AN ci sono esponenti che non fanno parte di FdI come il direttore editoriale del Secolo d’Italia , Italo Bocchino, o come Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, giornalista pensionato del Secolo, ma è innegabile che la componente dominante sia FdI.

La questione Secolo d’Italia riguarda quindi Giorgia Meloni due volte: come presidente di Fratelli d’Italia e come giornalista del Secolo d’Italia.

il ruolo di sorella Giorgia, l’ok del dip. Editoria

Assunta come redattrice nel 2004, Meloni dal 2006 – quando viene eletta deputata – è in aspettativa come prevede lo Statuto dei lavoratori. All’inizio versò i contributi per accedere alla doppia pensione, come è permesso ai giornalisti-parlamentari. Dal 2008 quando è diventata ministro del Pdl fino al novembre 2011, ha smesso rinunciando a un privilegio (vedi intervista) con una scelta non scontata.

Il Secolo contava sette giornalisti in aspettativa parlamentare nel 2012. Nel 2019 erano rimasti solo Gasparri e Meloni. Il senatore di FI è andato in pensione nel 2020 e – avendo pagato i suoi contributi – ha diritto alla doppia pensione da giornalista.

Anche Giorgia Meloni non si è mai dimessa dal Secolo e, pur rinunciando alla contribuzione figurativa per la pensione, in caso di mancata rielezione può contare su un lavoro in un giornale che si è retto in questi anni grazie soprattutto ai fondi della Fondazione AN e ai contributi pubblici. Da quando Giorgia Meloni è stata assunta, cioè dal 2004, Il Secolo d’Italia ha avuto 28,5 milioni di euro di quei contributi pubblici che Fratelli d’Italia è sempre stato in prima fila a difendere.

Il M5S ha provato ad abolirli, ma quando il taglio è stato spostato nel febbraio scorso di 48 mesi, sul Secolo Federico Mollicone, capogruppo in commissione Editoria di FdI, esultava: “È una bella pagina della storia parlamentare”. Poi il termine è stato spostato di altri 12 mesi a luglio scorso sempre grazie anche a FdI.

Abbiamo chiesto al Dipartimento Editoria perché Il Secolo abbia preso il contributo nel 2018 e 2019, anche dopo l’entrata in vigore della legge e prima della modifica dello Statuto. La risposta è questa: “Inizialmente avevamo inviato alla società un preavviso di un possibile diniego del contributo proprio perché – come da voi notato – per Statuto Il Secolo d’Italia era organo di movimento politico. Poi ci hanno prodotto alcuni documenti che ci hanno convinto. C’è una lettera del 22 dicembre 2017 del presidente della Fondazione An Giuseppe Valentino all’amministratore Antonio Giordano e al direttore editoriale Italo Bocchino nella quale chiede di evitare che Il Secolo d’Italia sia percepito come organo di partito o movimento politico. Poi c’è una comunicazione all’Agcom nella quale il quotidiano nel 2018 non si definiva più organo di partito. Infine c’è il verbale del Cda della Fondazione Alleanza Nazionale del 30 ottobre 2018 nel quale il presidente informava che Il Secolo si era allineato alle sue indicazioni e coerentemente era necessario adeguare lo Statuto. Cosa poi avvenuta a maggio 2019”.

Tanto basta al dipartimento Editoria per ritenere che Il Secolo d’Italia non sia più un organo di movimento politico già dal 2018.

Nel cda dei Trasporti, ecco la pittrice “leghista”

Un po’ Gioconda, visto l’indecifrabile sorriso, e un po’ Venere di Botticelli, almeno per la lunga chioma dorata. Così Alessandra Barucchi, di mestiere “artista contemporanea”, ha ritratto la senatrice leghista Stefania Pucciarelli, attuale sottosegretaria alla Difesa. Che sia per questo o per altri meriti, di certo la Barucchi piace, specie nel centrodestra ligure. A tal punto che la Atc Esercizio – società dei trasporti controllata dal Comune di La Spezia – l’ha appena nominata nel suo consiglio d’amministrazione.

Una poltrona che magari non la renderà ricca – il compenso è di 8 mila euro lordi l’anno –, ma che può aiutare la Barucchi a consolidare le proprie amicizie in coalizione, dato che La Spezia è amministrata da un fedelissimo di Giovanni Toti come Pierluigi Peracchini: “È normale pensare che le mie competenze siano poco coerenti col ruolo – ha ammesso lei a La Nazione – Mi aspettavo si sarebbe detto questo di me”. Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto e candidato Pd-M5S alle ultime Regionali, non cambia idea: “La destra in Liguria dimostra cosa intende per cambiamento: occupare ogni poltrona o strapuntino con persone amiche o fedeli. Una volta si chiamava lottizzazione, oggi non ci fa più caso nessuno”. Il riferimento è ad altri episodi controversi, come la riforma con cui Toti ha preteso la creazione dei sotto-assessori o all’emendamento, poi ritirato, grazie al quale il segretario generale della giunta avrebbe guadagnato più del presidente della Repubblica. Ma ora è il turno della Barucchi, pittrice che dipinge “le donne” perché sta “dalla parte delle donne”. Tra le fortunate, appunto, c’è la Monna Lisa Pucciarelli, già nota per un like a un commento che si augurava “un forno” per i meno abbienti e per essersi lamentata di essere “l’unica italiana in un vagone di stranieri senza biglietto”. In premio le fu affidata la presidenza della commissione Diritti Umani, apripista all’ingresso nel Governo dei Migliori. A proposito di nomine azzeccate.

“Stalking: il quesito tifa per l’indagato, non per le vittime”

“Non potremo più fermare gli stalker, ma neanche i pedopornografi, chi truffa gli anziani, chi spaccia droga. E neppure i politici e i pubblici funzionari accusati accusati di corruzione e di concussione”. È l’effetto che potrebbe ottenere il quinto quesito dei referendum voluti da radicali e leghisti, che se approvato ridurrà la possibilità d’impiegare le misure cautelari. Lo denuncia anche Francesco Menditto, procuratore di Tivoli.

È preoccupato, dottor Menditto?

Sono frastornato. Nel 2019 il legislatore ha approvato la legge sul “codice rosso”, che aveva come parola d’ordine quella di incrementare la tutela delle vittime della violenza di genere, aumentando le pene e dunque la durata del carcere preventivo per fermare i reati. Con questo referendum, invece, si dà il segnale opposto, ci si dice di abbassare la guardia.

Che cosa accadrà se il quesito sarà approvato?

Sarà impossibile l’impiego della custodia cautelare nei casi di reiterazione del reato, quando non ci sia violenza alla persona. Per i reati come maltrattamento e stalking, le misure cautelari si applicano quasi soltanto per la reiterazione del reato: non potremo più chiederle, neppure quelle poco invasive come il divieto d’avvicinamento con impiego del braccialetto elettronico. Il maltrattamento e soprattutto lo stalking non sempre sono reati di violenza alla persona. Ma sono reati a “formazione progressiva”: s’inizia con le minacce e poi si arriva alla violenza, che può essere anche letale. Sarebbe dunque necessario, anche nell’interesse dell’indagato, intervenire immediatamente. E poi c’è un ulteriore pericolo.

Quale?

Le modifiche normative innescheranno le legittime richieste degli avvocati che obbligheranno a rivedere anche tutte le misure cautelari in atto. Saremo dunque sommersi da migliaia di richieste di revoche e io vedo il rischio di un taglio con l’accetta delle misure cautelari. Del resto, con questa misura il legislatore ci dice, né più né meno: io prendo posizione a favore dell’indagato, rispetto alla persona offesa.

E non soltanto nel caso dei reati di genere e contro le donne?

Ho provato a fare un catalogo dei reati indagati dalla mia Procura, che non è distrettuale, dunque non tratta reati di mafia, su cui la riforma non inciderà. Ebbene, non saranno più applicabili misure cautelari per reati come la prostituzione minorile, la pedopornografia, il revenge porn. Niente carcere neppure nel caso dei furti, furti in abitazione, spaccio di droga, truffe agli anziani, resistenza a pubblico ufficiale con minacce, falsi commessi da pubblici ufficiali, corruzione, concussione, reati finanziari ed economici, bancarotta fraudolenta, reati ambientali: in questi reati dov’è la violenza alla persona? Oggi chi li commette può essere fermato con la misura cautelare, domani no. Ho calcolato che almeno il 50 o 60 per cento delle misure cautelari non le potremo più chiedere. L’80 per cento delle misure cautelari della nostra Procura è fondata sulla reiterazione del reato: senza violenza alla persona, non le chiederemo più. Così il truffatore andrà avanti a imbrogliare gli anziani, lo spacciatore a spacciare, il fidanzato lasciato a postare immagini intime per vendicarsi della fidanzata.

Per alcuni dei reati del suo “catalogo” (come lo stalking o lo spaccio di cocaina) l’arresto è obbligatorio.

Sì. Così assisteremo al paradosso che la polizia e i carabinieri saranno obbligati ad arrestare, e i magistrati poche ore dopo saranno obbligati a rilasciare gli arrestati. Noi applichiamo la legge, siamo servitori dello Stato. Abbiamo l’obbligo di tutelare le vittime, le persone offese. Cercheremo di interpretare la violenza alla persona ampliando la sua portata: ma non so neppure se sia giusto, per poi vedere la magistratura accusata di supplenza.

Reddito, così parlavano: Lega (e Pd) hanno cambiato idea

Il vestito era quello delle grandi occasioni, il tono anche. Il 19 gennaio 2019, Matteo Salvini non riusciva a contenere l’entusiasmo per l’approvazione del decreto che introduceva il Reddito di cittadinanza e Quota 100: “Quello di oggi è un passaggio storico. Fra Reddito di cittadinanza, flat tax, Quota 100 e pace fiscale saranno almeno 10 milioni gli italiani che riceveranno un aiuto: Giuseppe e Luigi, io vi dico grazie per i sette mesi entusiasmanti e i prossimi 10 anni lo saranno altrettanto”. Dieci giorni dopo il leader della Lega e ministro dell’Interno ribadiva il concetto senza paura di diventare pomposo: “Sono estremamente felice e orgoglioso”. E sul Reddito cittadinanza voluto dal Movimento 5 Stelle Salvini diceva: “Aiutare 5 milioni di poveri e i 3 milioni di disoccupati è un atto di giustizia sociale”. Dall’altra parte c’era il Pd, all’opposizione del governo gialloverde, che ogni giorno tirava bombe a mano contro il Reddito di cittadinanza, misura chiesta da anni dal Forum sulle Diseguaglianze e dall’Alleanza contro la Povertà: dal segretario reggente Maurizio Martina a Nicola Zingaretti passando per Andrea Orlando e Matteo Renzi, tutti si prodigavano in dichiarazioni, interviste e uscite chiedendo di cambiare, abolire o addirittura abrogare con un referendum il reddito grillino. Due anni, e molta acqua sotto i ponti, più tardi il mondo si è rovesciato: oggi Salvini, sempre al governo ma con Draghi a Palazzo Chigi, sostiene che “il Reddito di cittadinanza disincentiva il sacrificio” e va “cancellato”, mentre il Pd, alleato con il M5S, ha cambiato idea e si esercita nell’arte di difendere l’aiuto ai più poveri, sebbene proponendo qualche piccola modifica. Fatto sta che oggi la modifica del Reddito di cittadinanza sembra essere diventata la priorità della politica italiana. E dunque è utile tornare al 2019 per ricordare come in soli due anni tutto si sia ribaltato.

Legada svolta storica a legge per i fannulloni

Il voltafaccia più evidente è quello di chi quella misura la volle, la condivise e la votò nel Consiglio dei ministri del 19 gennaio 2019: cioè la Lega di Matteo Salvini. Una norma contenuta nel cosiddetto “decretone” che conteneva anche Quota 100. Le dichiarazioni di allora del vicepremier Salvini si sprecano: “Una svolta storica” (19.01), “coronamento di anni di battaglie” e “una misura che mette il lavoro al centro” (29.01). Anche i parlamentari e ministri leghisti condividevano la posizione del capo. L’allora sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon si preoccupava addirittura di estenderlo a “invalidi e famiglie numerose” (21.01) mentre il suo omologo all’Economia, Massimo Bitonci, spiegava che “dare soldi alle persone povere va bene, è giusto, perché il povero consuma tutto e questa è una misura di crescita dei consumi” (22.02). Anche la ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno sosteneva in pieno il Reddito: “Condividiamo questa misura – diceva alla vigilia dell’approvazione – l’abbiamo sicuramente migliorata e certamente la voteremo” (18.01). Durante il dibattito in Parlamento il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo addirittura si travestiva da grillino della prima ora: “Se questo meccanismo (il Reddito di cittadinanza, ndr) esiste in molti Paesi europei, evidentemente una ragione ci sarà. Noi consideriamo che sia giusto aiutare i cinque milioni di poveri e tre milioni di disoccupati: per noi è un atto di giustizia sociale”. (27.02). Salvini rispondeva anche a chi, nella Lega, come Giancarlo Giorgetti, si preoccupava per le proteste degli imprenditori del Nord: “È giusto pensare agli imprenditori ma dobbiamo pensare anche a chi non ce la fa. Aiutare gli ultimi, i disoccupati, i dimenticati è un atto di giustizia di cui vado fiero (22.02). E poi, col tono da celerino, rispondeva così ai critici secondo cui il Reddito di cittadinanza avrebbe favorito il lavoro nero: “Faremo l’impossibile per evitare i furbetti, so che qualche fenomeno fa cambi di residenza, divorzia o altro: ‘Amico mio ti arriva la Finanza se pensi di prendermi per scemo’”. (24.01).

Due anni dopo, è tutto cambiato. Oggi nonostante sia stato un aiuto fondamentale in tempi di pandemia, Salvini dice questo del Reddito di cittadinanza: “È un insulto a chi lavora”, “favorisce il lavoro nero”, “disincentiva sacrificio e passione”. E quindi? “Va cancellato” e “deve sparire” a costo di presentare un emendamento a sua firma in legge di Bilancio.

Pd da iniquità a legge giusta

Il Pd invece ha fatto il percorso inverso. Due anni fa, dall’opposizione al governo gialloverde, faceva le barricate contro la misura grillina, ma dopo pochi mesi ha cambiato idea: da quando i dem sono al governo con il M5S hanno sempre difeso il Reddito di cittadinanza come norma fondamentale per il contrasto alla povertà. Anche allora, com’è solito nella storia del partito, il Pd si divideva tra le sue molteplici correnti. I renziani, per bocca di Roberto Giachetti, iniziarono a far balenare l’ipotesi di raccogliere le firme per un referendum abrogativo (oggi proposto proprio da Matteo Renzi) con Maria Elena Boschi che twittava sulla “vita in vacanza” degli italiani col Reddito, mentre la minoranza diceva “no” al referendum ma opponendosi alla misura. Il segretario reggente Maurizio Martina parlava di “errore” e per lui quei 10 miliardi si potevano “spendere meglio” (20.01) mentre Andrea Orlando, leader della sinistra dem e oggi ministro del Lavoro, andava all’attacco: “La finalità è giusta ma il rischio di assistenzialismo c’è perché non è legato a percorsi di reinserimento al lavoro. Il decreto è sbagliato e rischia di screditare lo strumento stesso” (20.01). Al Fatto Orlando ribadiva: “La finalità è giusta, ma produrrà gli effetti contrari”. E giù dichiarazioni durissime: “Un capolavoro di incoerenza e bugie” (Debora Serracchiani), “una misura iniqua e a volte paradossale” (Edoardo Patriarca), “una corsa a dare i soldi prima delle elezioni, lo avrà anche il piccolo camorrista” (Vincenzo De Luca), “Reddito e Quota 100 sono fuffa e truffa” (Andrea Marcucci). L’allora capogruppo Graziano Delrio nella sua dichiarazione di voto alla Camera parlava di “meccanismo di risorse che esclude i più poveri” (21.03). Anche Nicola Zingaretti, che da lì a pochi giorni sarebbe diventato segretario del Pd, criticava il Reddito: “Sono favorevole a sussidi per la povertà, ma lo cambierei radicalmente e farei investimenti per creare posti di lavoro”. Oggi i dem difendono a spada tratta la norma e propongono piccole ma limitate “modifiche”. L’unico coerente è il segretario Enrico Letta. Nel 2019, in esilio da Parigi, criticò l’opposizione del suo partito e abbracciò la misura del M5S: “È nel Dna del centrosinistra”. Oggi può difenderla senza paura di guardarsi allo specchio.