Iraq, Parigi resta. L’Italia raddoppia e punta al greggio

Chiuso almeno per il momento il capitolo Afghanistan, l’attenzione si sta spostando dove l’Isis mantiene alta la sua minaccia: l’Iraq, dove dispone ancora di risorse, uomini e controlla una fetta (piccola) di territorio. Oltre alla capacità dei jihadisti di colpire Baghdad, le agenzie di intelligence occidentali vedono il gruppo riaffermarsi nei governatorati di Diyala, Salah al-Din e Kirkuk. Queste due ultime città insieme ad Al Anbar fanno parte di una zona che in Iraq è soprannominata il “triangolo della morte” e che dal 2020 ha assistito a una crescente escalation terroristica.

In una fase così delicata, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, lo scorso luglio ha annunciato un’altra ritirata, dichiarando che le operazioni di combattimento del suo Paese in Iraq si concluderanno quest’anno, ma che i soldati statunitensi continueranno ad addestrare, consigliare e sostenere i propri militari nella lotta contro l’Isis. Washington ha attualmente 2.500 soldati dispiegati in Iraq. Sono due le missioni militari attive in Iraq e l’Italia partecipa a entrambe: la Coalizione multinazionale (che attualmente annovera 79 Paesi) contro i terroristi dell’Isis operanti in Iraq e Siria e la missione Nato di sostegno e training alle forze irachene.

Baghdad è da anni intrappolata in un delicato equilibrio tra i suoi due principali alleati, Iran e Stati Uniti. L’Iran esercita una grande influenza in Iraq attraverso gruppi armati alleati all’interno dell’Hashd al-Shaabi, una potente rete paramilitare sponsorizzata dallo Stato.

L’Iraq ha dichiarato l’Isis territorialmente sconfitto nel dicembre 2017, ma il gruppo conserva ancora cellule dormienti e continua a rivendicare attacchi sanguinosi. Secondo Colin Clarke, ricercatore del Soufan Center, un centro di ricerca con sede a New York, l’Isis “ha ancora accesso a decine di milioni di dollari e probabilmente continuerà a ricostruire la sua rete in Iraq e Siria”.

In questo delicato quadro sarà l’Italia a guidare dal prossimo maggio il rafforzato impegno della Nato in Iraq con il pieno accordo del governo iracheno come concordato durante la visita dal premier Mustafa Al- Kadhimi, intrattenutosi a lungo nella sua visita a Roma con Mario Draghi. La “Nato mission in Iraq”, o “Nmi”, attiva dal 2018, che l’Alleanza Atlantica ha scelto di potenziare già a febbraio 2020 su richiesta di Baghdad, è una missione di consulenza, addestramento e sviluppo. La decisione di potenziare l’impegno della Nato in Iraq è avvenuta sulla scia delle difficoltà registrate dagli Usa nel Paese, tra gli attacchi alle basi americane e le rimostranze dell’Iraq dopo l’assassinio a Baghdad del leader iraniano Qassem Soleimani, a gennaio dello scorso anno. Ma anche per il crescere delle attività dell’Isis. In questo scenario l’Italia ha scelto di aumentare il proprio impegno in Iraq rispondendo alle richieste di Baghdad ma guardando anche ai propri interessi nazionali. Alla lotta al terrorismo si aggiungono interessi economici.

Nel 2020 l’Iraq è stato il secondo fornitore di greggio del nostro Paese, con oltre il 17% della domanda nazionale. Nel 2020 il nostro Parlamento ha autorizzato un dispiegamento di 1.100 unità per l’operazione “Prima Parthica”, all’interno della Coalizione anti-Isis, e di 46 unità per la “Nato training mission”. Ma con il progressivo potenziamento della missione Nato anche il contributo italiano è destinato a mutare. Il Consiglio dei ministri ha approvato a metà giugno la delibera sulle missioni internazionali – ora al vaglio del Parlamento – dove si nota il parziale spostamento di assetti dalla Coalizione alla missione Nato, con la prima che vede una riduzione a 900 unita (meno 200) e la seconda che sale a circa 280 unità, oltre 200 in più rispetto al 2020. Anche il presidente francese Emmanuel Macron – che ha partecipato a Baghdad a un vertice cui erano presenti tutti i governanti del Golfo, con l’Iran e l’Egitto – ha promesso che la Francia non lascerà l’Iraq, anzi il ruolo dei suoi 900 militari a sostegno del governo iracheno verrà ampliato, a prescindere da cosa deciderà di fare Washington.

 

Strage Isis: gli Usa sapevano. Ora a morire sono i bambini

“Preparatevi per un attacco con molte vittime”. Ventiquattro ore prima della strage dell’aeroporto Karzai, il futuro era già scritto nei report dell’intelligence Usa che contenevano informazioni su un attentato imminente dell’Isis-k, filiale afghana dello Stato islamico. In collegamento video da Washington, Lloyd Austin, Segretario della Difesa, aveva avvertito generali e comandanti dei dipartimenti internazionali un giorno prima che 200 persone perdessero la vita al varco di Abbey Gate. Mark Milley, presidente del Gabinetto del ministero della Difesa, aveva ritenuto “significative” quelle segnalazioni sulle operazioni dei jihadisti e le aveva condivise con una dozzina di comandanti avvertiti della “situazione ad alto rischio” anche da un comandante Navy Seal sul campo. Le divise statunitensi, in quelle ore, dai loro soldati d’alto rango ancora a Kabul, registravano invece “frustrazione” per la mancata cooperazione da parte dei talebani per il controllo dell’aeroporto. La decisione di non chiudere i varchi in tempo, come suggeriva il rapporto, è stata presa per permettere ai britannici di completare le loro evacuazioni dal Baron hotel alle piste di volo, dove poi è detonato il giubbotto esplosivo dell’attentatore e 200 persone sono morte.

Mentre a Kabul nelle prime ore di luce ieri i jihadisti del Khorasan lanciavano sei razzi katyusha contro l’aeroporto “con l’aiuto di Allah”, come hanno scritto su Telegram, (nessuna vittima grazie al sistema di difesa C-Ram che ne ha intercettati cinque), a Washington John Kirby, portavoce del Pentagono, si scagliava contro il giornale Politico, che ha diffuso per primo le “informazioni classificate e di natura sensibile” dei report e delle videochiamate del Pentagono, che ha esitato o sbagliato a non agire diversamente. A Kirby è toccato fare anche un’altra dichiarazione sul raid americano di due giorni fa che ha neutralizzato altri attentatori diretti agli scali internazionali: “Non siamo nella posizione di poter smentire vittime civili, approfondiremo”.

Il drone Usa che ha bombardato l’auto con due affiliati dell’Isis-k diretti all’aeroporto dal quartiere Khwaja Burgha, ha anche colpito una casa dove una famiglia allargata di 10 persone scendeva da un’auto nel vialetto. Secondo la Bbc, i bambini morti sono 6, il più giovane era Sumaya, due anni, il più grande Farzad, 12 anni. Quello che è rimasto di loro dopo quella che Bill Urban, portavoce del Comando centrale Usa, ha definito “un’azione di autodifesa” sono “ossa sugli alberi, muri rossi”. Il presidente Joe Biden “ha detto chiaramente ai suoi comandanti che non devono fermarsi di fronte a nulla” nel dare la caccia e uccidere i membri dell’Isis: ha fatto sapere la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki. Gli americani “non hanno più scuse per uccidere” e devono andarsene, hanno ribadito i talebani, che hanno promesso la formazione di un nuovo governo solo dopo la loro dipartita. Contro la Casa Bianca si è espresso anche l’ex vicepresidente afghano Amrullah Saleh, adesso a capo della resistenza nella valle del Panjshir: “I talebani hanno sfruttato l’ingenuità Usa, la scarsa lungimiranza sia di Trump che di Biden”. Mentre continuano le evacuazione Usa che tornano a ripetere di stare velocizzando il ritiro, resta ancora incerto il destino degli studenti afghani iscritti all’Università la Sapienza di Roma bloccati all’aeroporto, insieme agli alunni dell’ateneo americano a Kabul. Se la fuga degli stranieri terminerà a breve, quella dei civili sta per cominciare: mezzo milione di afghani è pronto a lasciare il Paese. Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu, chiede che le frontiere dei Paesi rimangano aperte “per condividere la responsabilità umanitaria con Iran e Pakistan”. Hank Taylor, dello Stato maggiore congiunto, ha promesso altre risposte “rapide e potenti” contro i jihadisti a Kabul. “La storia ci giudicherà da queste ultime immagini”, ha detto Colin Kahl, ufficiale politico del Pentagono. Sono gli ultimi giorni dei generali che hanno combattuto nella guerra infinita, iniziata e finita con un drone.

Affamare gli affamati

Che il Matteo minor, ormai ridotto politicamente all’accattonaggio, si eserciti nella disciplina olimpica dell’estate – affamare gli affamati – per strappare un primato almeno lì, è comprensibile: gli elettori non sono più un suo problema, gliene basta uno a Riyad. Ciò che stupisce è che ad accanirsi sui 3,6 milioni di percettori del Reddito di cittadinanza per levargli pure quei 580 euro medi al mese sia il Matteo maior. Reduce dai trionfi di Durigon e scavalcato dalla Meloni, che alle Amministrative ne farà polpette, Salvini potrebbe rivendicare il voto della Lega al Rdc voluto dai 5Stelle nel 2018, quando anche il Pd lo contrastava. E sperare che qualcuno dei poveri usciti dalla miseria più nera si ricordi di lui nelle urne. Invece si impegna allo spasimo per regalarli tutti a Conte. Parliamo di un esercito di emarginati sociali e politici che hanno cose più serie a cui pensare che votare. Ma che ora, additati ogni giorno dai due Matteo come truffatori e fannulloni da divano, potrebbero trascinarsi alle urne per difendere chi li tratta da esseri umani con la loro dignità e da cittadini con i loro diritti. Il tutto per 7-8 miliardi l’anno: una goccia nel mare della spesa pubblica, quasi tutta riservata ai ricconi. Tipo i signori di Confindustria, seduti su 120 miliardi di sussidi da Covid.

Il Sole 24 Ore scrive, restando serio, che i poveri “imprenditori in crisi di organico” sono ora costretti a “pagare di più il personale”: han dovuto financo rinunciare alla pretesa di far lavorare la gente per meno di 580 euro al mese. Il che, in un Paese decente, sarebbe considerato non una magagna, ma un successo del Rdc. Mai, nemmeno per le leggi vergogna di B., s’era registrato un simile attacco concentrico di fake news e frasi fatte. Tipo che il Rdc non dà lavoro (oh bella: se ci fosse lavoro per tutti, nessuno avrebbe bisogno del Rdc) o che lo prendono finti poveri e lavoratori in nero (che infatti vengono scoperti e denunciati, ma esistono in tutte le misure di Welfare e nessuno pensa di abolire i semafori perché c’è chi passa col rosso); o che frena i disoccupati dal cercare lavoro (bugia smentita da tutti i dati ufficiali). Nessuno dice che le Regioni hanno intascato 1 miliardo per navigtor e centri per l’impiego, salvo poi boicottarli. E che a ottobre 2020, malgrado la pandemia, in meno di un anno e mezzo di Rdc 350mila beneficiari avevano già firmato almeno un contratto: il 32% su 1,1 milioni tenuti al Patto per il lavoro. Gli altri 2,5 sono minorenni o inabili o anziani. Ma forse le nostre Marie Antoniette vogliono mandare a lavorare i minori, gli invalidi e i nonnetti: da loro c’è da aspettarsi questo e altro.

“Canto la donna russa, quella che non si rompe”

“Quando ero piccola, nessuno mi diceva che la verità è forza e potere”. È una delle prime frasi che pronuncia, sempre sorridendo sullo schermo, la ragazza scappata dalla guerra civile a Dushanbe, in Tagikistan, dove è nata nel 1991. La cantautrice moscovita Manizha Sangin, che sul palco usa solo il nome con cui ormai tutta la Russia e il blocco ex sovietico la conoscono, ha rappresentato la Federazione all’ultimo Eurovision, una competizione dove Mosca, scrive la Novaya Gazeta, “invia i propri artisti come un soldato in guerra”. La sua canzone, “Russkaya Zhenshina”, in traduzione: “donna russa”, è diventata un inno di libertà per le ragazze di uno Stato patriarcale e tradizionalista, che ha depenalizzato la violenza domestica.

Manizha, la sua canzone l’hanno ascoltata tutti: perfino al Cremlino. Il Comitato investigativo russo ha ricevuto una richiesta per bandirla. Un gruppo di veterani ha suggerito di far finire la canzone in tribunale e l’Unione ortodossa delle donne russe ha firmato una lettera aperta contro di lei perché “mina il senso della famiglia tradizionale”. Perfino il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, si è espresso su “Donna russa”.

Si, ma le critiche che mi hanno ferito di più sono quelle arrivate dalle femministe. Perfino loro hanno diffuso fake news contro di me e la mia famiglia.

Lei è diventata la prima ambasciatrice Onu per i migranti in Russia, supporta i diritti Lgbt e ha sponsorizzato un’app per denunciare la violenza contro le donne. Sul palco non porta solo la musica, ma anche messaggi di resistenza. E un vestito inusuale.

Quell’abito è composto da pezzi di stoffa spediti dalle donne di tutta la Federazione, li ho cuciti insieme per creare un vestito tradizionale russo. Ne esco poi fuori come da un guscio, indossando una tuta della working class, quella che uso anche per la vita di tutti i giorni. È un manifesto: nella vita le donne non devono essere solo sensuali o femminili.

Un abito dentro l’altro, come una matrioska di stereotipi: lei però, in Russia, li ha rotti tutti.

Esco dall’abito e dalla società patriarcale: una metafora della mia liberazione. Rispetto ogni donna, ma non tutte dobbiamo andare in giro con minigonne argentate e inguinali. Sin dalla mia infanzia, questo era l’unico genere di ragazza che vedevo in tv: c’erano Madonna e Britney Spears, ma non vedevo niente che mi assomigliasse, una cosa che può generare complessi. Siamo circondati da stereotipi artificiali.

“Hai 30 anni, dove sono i tuoi figli? Sei grassa, dimagrisci!”. Poi la canzone continua: “Le donne devono sapere che romperanno il muro”. Come ha fatto lei a non andare in pezzi mentre lo buttava giù?

Se dovessi rompermi, le persone che sopportano abusi ogni giorno, che convivono con l’infelicità o la violazione dei loro diritti, diranno “ehi, Manizha si è rotta, mi arrendo anche io”.

C’è un’altra rima della canzone che dice: “Cresciuta senza padre, ma comunque non mi rompo”.

Recentemente ho visitato un internat, una casa di accoglienza. Quelle erano parole che tra gli orfani volevo evitare, invece quando sono arrivata lì, mi hanno circondato e hanno iniziato proprio loro a cantarle. Io non ci sono riuscita, ho iniziato a piangere. Gli adulti sono abituati a ingannare, i bambini no. Amano e odiano senza filtri.

A proposito di odio: gliene riversano tanto sui social, ogni giorno. Qualcuno la chiama ancora “la tagika”.

Ho vissuto mesi duri in cui provavo panico se guardavo il telefono. Durante una delle ultime esibizioni a Mosca un uomo mi ha urlato “scimmia”. Ma era uno solo e ho pensato alle altre migliaia di persone che non lo hanno sostenuto.

Durante i suoi spettacoli vengono proiettate spesso le tele dell’avanguardista Natal’ya Gancharova.

È stata cacciata da un Paese che non l’ha capita, le dicevano che non sapeva dipingere, la sua epoca non l’ha compresa, la sua patria non l’ha onorata. È stata la Freeda Kalo russa. La prima ad andare in giro in pantaloni. Volevo omaggiare una donna che ha avuto una vita difficile e, anche quando è scappata in Francia, ha continuato ad adorare la cultura russa.

Proprio come lei: nonostante non tutta la Federazione tifi per lei, il suo amore per la Russia rimane incondizionato.

Il mio Paese, la Russia, come il resto del mondo, non è ideale, ma non mi unirò al coro di quanti raccontano quanto è cattiva Mosca. Vogliono che tutti vedano la Russia per quel che è: il Paese che con me è stato generoso e mi ha accolto. Io e mia madre siamo arrivate dal Tagikistan senza speranza, senza passaporto e senza soldi, ma la Russia mi ha insegnato a cantare e suonare. Nel mondo contemporaneo, dalla guerre infinite, la cosa più difficile è continuare a rimanere gentili. È un altro modo, per una “donna russa”, di non rompersi.

Privacy violata. Cybersecurity sì, ma da chi? Pure le aziende di sicurezza si vendono i dati

Chi controlla i controllori? Qualcuno dovrebbe. Vale per la politica e la Pubblica amministrazione ma a quanto pare anche nella sicurezza cybernetica, ambito nel quale, se non si è tecnici quanto chi ci lavora, si possono avere grosse difficoltà a vigilare. Non sorprende così la sorpresa di chi, da un giorno all’altro, scopre che esistono scandali che hanno a che fare con dati, privacy e spionaggio digitale.

Quando questo accade, giustamente si invoca la cybersicurezza, si corre ai ripari, si chiamano i tecnici più tecnici di tutti, molto spesso società private più o meno famose, si chiede di intervenire sugli hacker, di capire chi è stato il cattivone di turno che ha bucato i server e fatto quel che gli pareva nei sistemi. I buoni, però, sono davvero così buoni? Secondo Joseph Cox di Vice, non sempre.

“C’è una sorta di segreto di Pulcinella nel mondo della sicurezza informatica: – ha scritto qualche giorno fa – i fornitori di servizi Internet passano silenziosamente informazioni dettagliate su quale computer sta comunicando con un altro ad aziende private, che poi vendono l’accesso a tali dati a una serie di terze parti”. L’inchiesta parte da alcune fonti nel settore dell’intelligence sulle minacce e si riferisce a informazioni che gli investigatori digitali usano per identificare i server utilizzati dagli hacker o per seguire i dati mentre vengono rubati. Finita l’operazione, però, queste società si ritrovano in mano un bottino di informazioni che possono facilmente rivendere sul mercato. Si tratta di flussi, in pratica, che possono far ricostruire quale server ha comunicato con un altro, quale pc con un altro. “Informazioni che normalmente possono essere disponibili solo al proprietario del server o all’ISP che trasporta il traffico”, dice Cox.

Inoltre, questi dati possono essere utilizzati pure per tracciare il traffico attraverso le cosiddette Vpn, reti private virtuali utilizzate per mascherare da dove qualcuno si sta connettendo a un server e, per estensione, la loro posizione fisica approssimativa. Tradotto: se un governo totalitario volesse risalire all’origine della connessione di un cittadino, potrebbe riuscirci anche se questi dovesse ricorrere a una Vpn per camuffare la sua posizione. Lo stesso potrebbe valere per i cittadini normali e anche per le aziende. Forse una visione estrema del diritto alla privacy, certo non una possibilità così tanto remota: tanto più che questo genere di violazioni avvengono ovviamente all’insaputa degli utenti e senza il loro consenso.

È un po’ quello che accade con buona parte delle “app” che vengono installate sul telefono: non si capisce che dati raccolgano e cosa ne facciano. Solitamente, giri immensi e imperscrutabili. L’anno scorso, Motherboard aveva riferito di un’azienda chiamata HYAS che sie era procurata i dati sulla posizione degli smartphone per rintracciare le persone fino alla loro “porta di casa”. Un’azienda che si occupa di sicurezza. Verrebbe da dire: ma la sicurezza di chi?

 

Il futuro dei trasporti terrestri tra elettrico e guida autonoma

Nell’opinione pubblica (e nel mondo scientifico in generale) il problema ambientale giustamente domina, anche per i trasporti. Ma la tecnologia nel frattempo non sta ferma e ha anche spazi autonomi di evoluzione (cioè non connessi con il tema ambientale). Cerchiamo qui brevemente di dare, in due puntate, una panoramica del settore, che tenga in evidenza entrambi gli aspetti.

Iniziamo dall’ambito dominante per i movimenti sia delle merci che delle persone: i trasporti terrestri e, in particolare, quelli di breve distanza (che per le persone riguardano lavoro, studio e tempo libero e, per le merci, la gran parte del commercio). I veicoli stradali sono oggi il modo dominante e tali sono destinati a rimanere a causa dei rapidi progressi tecnici in corso, solo in parte motivati dal problema ambientale. Le automobili ibride prima ed elettriche poi stanno già invadendo i mercati, anche grazie ad una vivace concorrenza: questa tecnologia non avrà certo problemi, una volta ammortizzata, ad “emigrare” ai veicoli merci di ogni dimensione (la Tesla e la Mercedes hanno già iniziato). Per la propulsione si batteranno, in questa battaglia, le batterie tradizionali, quelle allo stato solido di imminente avvento, e l’idrogeno. Le altissime tasse sulla benzina e gli standard europei (E1,2,3 ecc.) accelerano il fenomeno.

Le città attuali tuttavia non sono in grado di assorbire una popolazione e una motorizzazione crescente, la congestione le paralizzerebbe. Due fenomeni tuttavia la attenueranno. Il primo è emerso a causa della pandemia: il lavoro “in remoto” è destinato a rimanere, almeno in parte, anche perché residenze decentrate costano meno (oltre l’ovvio risparmio di tempi e costi di viaggio). Il secondo fenomeno è la guida automatica.

La congestione riguarda le città dense, che dispongono di ridotti spazi per la circolazione a causa delle auto in sosta, che occupano un terzo delle sedi stradali e rappresentano anche uno spreco (segnalano lo scarso uso di una risorsa costosa: l’auto stessa). Ma l’avvento, anche graduale, della guida autonoma e della propulsione elettrica abbatterà a tal punto il costo dei servizi taxi da rendere minoritaria la quota di automobili “in proprietà”. Le due componenti maggiori del costo di un taxi sono infatti le tasse sui carburanti e la remunerazione del guidatore: se si attenuano entrambe, il suo costo scenderà in proporzione (a non dire della diffusione di tecniche già in uso tipo car-sharing o car-pooling). L’auto in proprietà ha anche il costo dell’acquisto e del parcheggio (si pensi ad un box) e a quel punto il parcheggio in strada potrebbe essere ulteriormente disincentivato.

La guida interamente automatica non sembra oggi più così imminente, ma soprattutto per problemi normativi: la tecnologia è già sviluppata, i sistemi di frenata automatica hanno tempi di reazione molto più rapidi di quelli umani. Ma soprattutto le sperimentazioni già in corso in molte città e la crescente introduzione di dispositivi automatici su veicoli già in commercio costituiscono di fatto solo la “gradualizzazione” di una tecnologia sicuramente in arrivo.

Passando ora ai trasporti terrestri di lunga distanza si ricorda che l’affermazione dei treni ad alta velocità è “artificiale”, nel senso che è avvenuta grazie al denaro dei contribuenti. Continuerà per un po’ a crescere, ma comunque presenta forti limiti (richiede, con una capacità di oltre 300 treni/giorno, un’utenza numerosissima per trovare una giustificazione anche solo funzionale o ambientale). Considerazioni simili valgono anche per il trasporto merci ferroviario, giustificato solo sulle lunghe distanze: nonostante decenni di sussidi e di tasse sul modo stradale, la quota del trasporto ferroviario merci non supera in quantità il 30% del totale.

Poiché verranno gradatamente meno le giustificazioni ambientali alle tasse sui trasporti stradali (con i camion a batteria), sembra difficile che questo settore possa crescere, anche a causa della natura della domanda, in cui diminuiscono le merci “povere e pesanti”, adatte alla ferrovia, mentre crescono quelle ad alto valore aggiunto, che “soffrono” il cambio modale richiesto dalla ferrovia (inadatta al “porta-a-porta”). Elon Musk, il padre della Tesla, propone da tempo un sistema merci e passeggeri superveloce, “Hyperloop”: 1.000 km/h in un tubo cui è stata tolta parte dell’aria per diminuire la resistenza aerodinamica. Il veicolo non ha ruote e si muove a levitazione magnetica, come il suo predecessore “Maglev”, da 500 km/h, che è stato sviluppato per decenni in Francia e Germania, ma costruito solo tra Shanghai e il suo aeroporto, cioè un sostanziale fallimento. Ma quando c’è di mezzo Elon Musk, l’ultima parola non è mai detta….

1. continua

 

“La finanza verde è pericolosa”: parola di finanziere verde

Nel 2019 i capi di duecento tra le maggiori aziende americane hanno firmato una dichiarazione “rivoluzionaria” nella quale affermavano di non volersi limitare a generare profitto per i propri azionisti (gli shareholders), ma di avere una responsabilità generale verso lavoratori e comunità (gli stakeholders). In un lungo intervento online (Il diario segreto di un investitore sostenibile), che ha generato ampi dibattiti, Tariq Fancy, ex capo degli “investimenti sostenibili” di BlackRock (che gestisce asset per 6 trilioni di dollari) spiega invece che il perseguimento da parte di investitori e imprese di obiettivi ESG (Environment, Social and Governance) contribuisce alla crisi climatica perché impedisce di mettere a fuoco le vere soluzioni (“è un pericoloso placebo”).

Per arrivare ai temi messi sul piatto da Fancy serve una breve premessa. Dopo la Seconda guerra mondiale lo “sviluppo” è diventato un obiettivo strategico delle principali potenze mondiali. Stati Uniti, Unione Sovietica e gli stessi Paesi usciti dalla decolonizzazione hanno adottato strategie che proponevano come modelli in giro per il mondo: quello degli Usa era basato sul New Deal, l’imprenditorialità privata e il libero scambio; l’Urss puntava sull’industria pesante statalizzata; i Paesi in via di sviluppo rivendicavano sovranità sulle risorse naturali e regole commerciali a loro favorevoli.

I modelli di sviluppo tenevano conto delle diversità geografiche e ideologiche, ma erano accomunati dalla centralità dello Stato come promotore di crescita e benessere. A partire dagli anni 80, col ridimensionamento del ruolo dello Stato e l’emergere della questione ambientale, si è affermato con prepotenza il concetto di “sviluppo sostenibile”, che mira alla crescita economica attraverso l’impresa privata e il libero mercato. Per garantire la sostenibilità di questa crescita predispone obiettivi (nel 2015 l’Onu ne ha partoriti 17) che siano sufficientemente generici da valere per tutti, dall’Afghanistan alla Svizzera.

La logica che ha condotto un finanziere atipico come Tariq Fancy a BlackRock era semplice. Gli investitori istituzionali detengono il 75% delle azioni delle aziende quotate a livello globale. BlackRock è il più grande investitore del mondo. Se questi colossi indirizzassero i loro investimenti seguendo i principi della sostenibilità, abbassando così il costo del capitale per le aziende virtuose, il mondo potrebbe incamminarsi lungo il solco tracciato dall’agenda Onu. BlackRock non tradirebbe i suoi clienti perché le aziende sostenibili avrebbero maggiore possibilità di generare profitto per i propri azionisti. Prodotti finanziari come gli ETF sui settori a bassa intensità di carbonio e i “green bonds”, l’armamentario delle finanza verde, potrebbero orientare in senso sostenibile l’economia reale. Questa belle speranze si scontrano con la dura realtà del capitalismo. Milton Friedman, pur riconoscendo l’importanza di un severo sistema di regole statali, dichiarò nel 1970 che “la responsabilità sociale dell’impresa è quella di aumentare i profitti”. Se un investimento non genera profitti, fondi come BlackRock possono investire solo tradendo il rapporto fiduciario coi clienti. Se invece un investimento “sostenibile” ha concrete speranze di profittabilità, gli indicatori di sostenibilità non servono a nulla.

A non dire che predisporre indicatori ESG è affare tutt’altro che trasparente. Fa più danno all’ambiente Exxon o Tesla? Dipende. Se si prende in considerazione il suo impatto sull’industria del cobalto in Congo, Tesla sta all’ambiente come l’invasione delle cavallette all’agricoltura. Se poi la “finanza verde” spinge a disinvestire dalle fossili questo ha un impatto praticamente nullo sulle società petrolifere. Il fatto che un investitore venda azioni sul mercato secondario non impedisce a un altro di prenderne il posto, come puntualmente avviene. Anche i “green bonds” non risolvono il problema, visto che le stesse imprese che ne fanno ricorso su linee specifiche di investimento, operano in modo tradizionale nel loro business principale.

La triste realtà è che dall’emergere del discorso sullo sviluppo sostenibile il mondo segue una traiettoria sempre più ambientalmente insostenibile. Nel 1990 la questione del riscaldamento globale provocato dalle fonti fossili era universalmente nota, eppure a partire da quell’anno abbiamo bruciato fonti fossili per un totale pari a quelle bruciate in tutte le epoche passate!

Fancy è dunque arrivato alla conclusione che la “finanza verde” è un placebo che serve solo a rinviare la soluzione: un brutale intervento statale sull’economia. Mette in bocca a un giovane una frase provocatoria all’indirizzo dei boomers: “Se siete a favore di un intervento dall’alto per qualcosa che è un pericolo maggiore per la vostra generazione (il Covid), perché non favorire lo stesso approccio per qualcosa che è un rischio maggiore per la mia generazione (la crisi climatica)”?

Le soluzioni per il più grande “fallimento di mercato” dall’emergere del capitalismo devono essere sistemiche. Se si vuole ridurre il consumo di fonti fossili, occorre tassare il carbonio, vietare lo shale e ogni nuova esplorazione petrolifera, abbandonare il motore a scoppio. Se non ci sono abbastanza aziende disponibili a investire massicciamente in nuove tecnologie a bassa intensità di carbonio perché i profitti sono incerti, bisogna creare aziende pubbliche per le quali l’imperativo “friedmaniano” del profitto sia meno stringente. Se non ci sono abbastanza risorse pubbliche da investire in tecnologie, infrastrutture, superamento della “povertà energetica”, bisogna tassare i ricchi: in fondo le stesse scelte che li hanno arricchiti sono quelle che hanno condotto alla crisi climatica e sociale.

Ricorda Fancy: “Da quando sono nato nel ’78 la paga dei Ceo è cresciuta del 1.167%, quella dei lavoratori del 13,7%”.

Le banche si sono fatte più furbe: tutti i modi in cui grassano i clienti

Giusto vent’anni fa uscì il mio libro Il risparmio tradito. Il titolo introdusse un’espressione fino ad allora sconosciuta, che però ebbe presto rapida diffusione. Infatti nel settembre 2001 fallì l’Argentina, l’anno dopo la Cirio, nel 2003 Parmalat. Si aggiunsero altri crac minori, nonché trappole come For You e My Way di Mps e Banca 121. Milioni di italiani videro i loro risparmi andare in fumo. Un fenomeno etichettato appunto come risparmio tradito e imputato al sistema bancario, complice anche la carente vigilanza delle istituzioni. In vent’anni le cose sono cambiate? Certo, mediamente in peggio: le banche si sono fatte furbe, per cui ora sottraggono ancora più soldi ai risparmi messi da parte dai loro clienti, ma in modo meno manifesto, grazie anche a leggi e normative di favore.

Risparmio gestito a tappeto. In passato le banche sbolognavano ai risparmiatori titoli con alte probabilità di default. Poi sono venuti al pettine gli effetti indesiderati: il cliente si infuria, arrivano grane giudiziarie e altre spiacevolezze. Meglio rifilargli sempre e solo gestioni, polizze, fondi pensione e simili, scaricando semmai lì l’immondizia. Così si può sottrargli anche lecitamente un 3-4% l’anno, che però difficilmente salta all’occhio per l’opacità di tali prodotti. E se occhio non vede, cuore non duole. Raschiare via anche solo un 2% l’anno sui 2.500 miliardi di euro affidati in gestione dai risparmiatori italiani, significa sottrargli 50 miliardi di euro.

Firmare tutto. Banche e rete di vendita hanno predisposto moduli per mettere gestori e collocatori al riparo da ogni responsabilità o rivalsa. Il cliente deve assumersi ogni rischio e, fidandosi, di regola firma senza leggere pagine e pagine difficilmente comprensibili. Così ogni causa sarà persa in partenza. Sportellisti e altri venditori di fondi, polizze ecc. sono puri e semplici raccoglitori di firme. A voce possono raccontare falsità assortite, tanto nei documenti c’è scritto altro.

Gestioni multimarca. Altra furbizia è proporre fondi comuni non solo della propria, ma anche di altre società di gestione, le quali poi rigirano ai collocatori una bella fetta delle commissioni. Ma così si riesce a far bere ai clienti la storiella: “Scegliamo i fondi migliori e vi diamo modo di sottoscriverli”.

Assicurazioni trappola. L’allegra brigata del risparmio gestito ricorre spessissimo a uno strano marchingegno per incastrare i clienti. Ha infatti riesumato una formula frusta, cioè le polizze a vita intera. Così per cominciare riesce a bloccare per un anno le somme versate, che è già un bel tiro mancino. Poi addebita commissioni, retrocessioni, penalità per i riscatti e simili, a fronte di una normale gestione patrimoniale, ancora più opaca però che coi fondi comuni.

Consulenti finti. Prima i venditori di investimenti dovevano presentarsi come tali, in particolare quali promotori finanziari. Infatti sono agenti di vendita, iscritti alla Camera di Commercio, incassano provvigioni, versano contributi all’ente previdenziale degli agenti e rappresentanti (Enasarco) ecc. Nulla è cambiato nella sostanza, ma ora possono fregiarsi del titolo di “consulenti finanziari”, il che resta un inganno: un consulente è un’altra cosa, dà consigli, non cerca di rifilare il prodotto su cui guadagna di più, di regola il peggiore.

Diseducazione finanziaria. Un aiuto viene pure da Tesoro e Banca d’Italia con la cosiddetta educazione finanziaria, regolarmente subappaltata a banche, come Intesa, o realtà emanazione del sistema bancario, come Feduf. Ovvia conseguenza, l’educazione finanziaria si è trasformata in propaganda di sistema per portare acqua a risparmio gestito e previdenza integrativa.

Giornalismo allineato. Fino a qualche anno fa anche testate ad amplissima diffusione riportavano stroncature dei fondi comuni. Poi gli spazi per le critiche al sistema si sono progressivamente ridotti al lumicino: oggi gli articoli riecheggiano la pubblicità e i comunicati stampa di banche, assicurazioni, fondi d’investimento e fondi pensione.

Associazioni di consumatori. Pure su questo fronte l’establishment finanziario-assicurativo ha esteso il suo controllo, forte dei propri soldi e delle croniche difficoltà economiche delle controparti. È il caso del recente accordo quadro 2021-2023 fra Intesa Sanpaolo e le associazioni di consumatori. Chi ha i mezzi per finanziare le iniziative e, quindi, dirigerle nella direzione voluta? Solo la banca.

I crediti sanitari e la figuraccia da 80 mln di Banca Generali

D ovevano rendere come i Btp di una volta e senza grandi rischi: il 4% annuo. Come ottenere un simile rendimento “mostruoso” di questi tempi? Puntando sugli alternativi e gli strumenti illiquidi che rendono di più secondo il nuovo mantra delle società del risparmio gestito, banche e reti a caccia di uno storytelling che scucia i soldi dalle tasche di quegli investitori e risparmiatori che credono alla botte piena e la moglie ubriaca. Rendimenti costanti e non irrisori ma senza rischi. Per chi li colloca commissioni da leccarsi i baffi e per un tempo molto più lungo. Tutti contenti? Mica tanto.

Ad esempio Banca Generali, la controllata specializzata nel private banking del Leone di Trieste, nell’ultima trimestrale diffusa a inizio agosto ha deciso di spesare 80 milioni di euro di accantonamenti sugli strumenti illiquidi messi nei portafogli dei clienti. In pratica rileverà le posizioni dei clienti professionali che avevano sottoscritto questi strumenti, cioè cartolarizzazioni con sottostanti crediti sanitari inseriti in alcuni fondi alternativi. Il recupero di questi crediti sta dimostrandosi complesso: quello che era stato venduto come la quadratura del cerchio in realtà è un percorso di guerra.

Tutto era partito con l’idea di cercare nuove fonti di rendimento e in una strategia diversificata si era pensato anche di puntare sui crediti sanitari. La spesa sanitaria della P.A. supera i 100 miliardi di euro annui e le imprese fornitrici della sanità italiana attendono mesi, talvolta anni, per essere pagate: attualmente la media è circa 104 giorni contro i 40 di quella Ue. Una criticità che per qualcuno è un business. Banca Generali decise di entrare in questo mercato per trarne un profitto, usando la propria rete per collocare questi crediti sanitari insalsicciandoli in fondi d’investimento destinati a investitori istituzionali e professionali. In sostanza l’acquisto in blocco in modalità pro-soluto (e ovviamente a sconto) dei crediti di aziende di tutta Italia e soprattutto del Sud, dove i tempi di pagamento sono lunghissimi: bastava poi recuperare i crediti – peraltro nei confronti dello Stato, quindi abbastanza sicuri – ed ecco il guadagno.

A creare il veicolo necessario per vendere i bond (cioè i crediti cartolarizzati) a investitori come Banca Generali è la finanziaria Cfe, sede principale in Lussemburgo, filiali a Ginevra, Londra e Principato di Monaco, il cui team di gestione è composto al 100% da finanzieri italiani ben introdotti nell’alta finanza. I crediti vengono impacchettati in una società veicolo denominata Astrea, organizzata da Cfe, operatore europeo specializzato nel trade-finance con la consulenza di EY Law Italia per la transazione.

Tutto sembra andare alla perfezione, ma lo scorso anno, come in un thriller finanziario, qualcosa cambia il corso della storia. Nel luglio 2020 un articolo del Financial Times rivela che sul mercato internazionale sono finiti dei titoli garantiti connessi ad aziende sospettate dalla magistratura di essere controllate dalla ‘ndrangheta, acquistati anche da Banca Generali. Il totale delle operazioni sui crediti sanitari, spiegò il FT, raggiungerebbe il miliardo di euro, con titoli venduti a investitori internazionali tra il 2015 e il 2019, alcuni di essi collegati ad attività che si sono poi rivelate essere create da società di copertura della mafia. “Eravamo convinti che la transazione avesse i requisiti richiesti”, commentò all’epoca Banca Generali, dichiarando di non essere a conoscenza di eventuali problemi coi sottostanti che garantivano le obbligazioni acquistate per i propri clienti e di essersi affidata ad altri intermediari per condurre i controlli antiriciclaggio. Cfe a sua volta affermò di non aver mai acquistato consapevolmente beni legati ad attività criminali, aggiungendo di aver svolto una significativa due diligence su tutti i beni sanitari che ha gestito in qualità di intermediario finanziario e di aver fatto affidamento anche sui controlli di altri professionisti che hanno gestito le fatture dopo la loro creazione in Calabria; infine si trattava di una percentuale molto ridotta dell’importo totale dei beni gestiti collegati ai sistemi sanitari italiani. Insomma “molto rumore per nulla” anche secondo un analista finanziario di Mediobanca (che è l’azionista di maggior peso di Generali), che intervenne in quei giorni di luglio 2020 per dire con una nota ufficiale ché i cosiddetti “mafia bond” erano pochissima cosa, poche centinaia di migliaia di euro.

Trascorso un anno si può dire che qualche problema serio evidentemente c’è se Banca Generali ha deciso di accantonare prudenzialmente 80 milioni di euro “al fine di tutelare i propri clienti da una potenziale perdita relativa a investimenti in titoli di cartolarizzazioni di crediti sanitari riservati a clienti professionali”. Così il resoconto intermedio, dal quale si evidenzia che questa cifra si stima possa rappresentare l’impatto massimo dell’offerta di acquisto che Banca Generali lancerà ai propri clienti “nell’ipotesi che tutti aderiscano all’operazione di acquisto per un nozionale di 478 milioni di euro che rappresenta la posizione complessiva in crediti sanitari”. Una decisione, spiega Banca Generali, che è stata presa “alla luce di alcune criticità emerse nelle procedure di recupero dei crediti sanitari (…) e a un’analisi del portafoglio crediti effettuata col supporto di un operatore di mercato specializzato che ha evidenziato una valorizzazione inferiore rispetto a quella attesa. La Banca, che ha agito solamente come Placement Agent delle cartolarizzazioni, ha deciso di assumersi questo impegno per tutelare i suoi clienti”.

Insomma, questi crediti sanitari si stanno dimostrando un vero casino anche al di là delle possibili infiltrazioni mafiose: c’è chi mette in dubbio persino che esistano davvero visto che alcune Asl calabresi (quelle più nel mirino) si sono rifiutate di pagare sostenendo che alcune fatture erano state già pagate o che si tratta di crediti inesistenti o che “non risultano mai pervenute e registrate sul sistema gestionale aziendale”. Nulla di nuovo sotto il sole: lo scorso anno i revisori contabili dell’Azienda Sanitaria Provinciale (Asp) di Cosenza e la Corte dei Conti avevano evidenziato come “l’Azienda non è in grado di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati, questa situazione espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito”. Le società che hanno acquisito i crediti e li hanno cartolarizzati sostengono però che si tratta di crediti veri, esigibili e certi e di aver acquisito i crediti in modo trasparente, ricevendo puntualmente garanzie e documenti che ne attestano l’esistenza.

Come che sia, l’operazione sugli “illiquidi” che doveva essere uno dei pezzi forti della nuova strategia di Banca Generali per intercettare nuove masse come stanno facendo altre reti e banche (Azimut, Fideuram fra le altre) è un flop e ad alcuni azionisti non va giù che si debba pagare un conto pesante senza che si sia parlato di eventuali responsabilità di chi ha ideato e partecipato operativamente come advisor alla costruzione dell’operazione.

In una presentazione del luglio 2017 rivolta agli investitori istituzionali, un top manager di Banca Generali aveva presentato l’operazione sui crediti sanitari come “una nicchia di valore” che, peraltro, tutelava molto l’istituto per come era stata concepita: l’accordo con la società veicolo prevedeva “solo fatture il cui pagamento era stato autorizzato dalle Asl” e inoltre all’arrenger Cfe era stato chiesto di garantire patrimonialmente col proprio capitale l’eventuale perdita per fatture non esistenti, più ulteriori garanzie. L’operazione, evidentemente, non era “blindata” come la si descrisse e questo maxi accantonamento non è piaciuto a molti analisti finanziari. Scrivono quelli di UBS: “La decisione di Banca Generali di rimborsare i propri clienti per le perdite attese sui crediti sanitari può costituire un precedente poco piacevole” ed esporre la banca a “costi potenziali più elevati se dovesse decidere di proteggere i clienti da perdite future”.

 

Feste da incubo. Fuga dal salotto: esibizione a tutti i costi davanti a onorevoli e assessori

Non è bello trovarsi a una festa dove il padrone di casa costringe gli ospiti ,che abbiano a che fare con il mondo dello spettacolo, a esibirsi davanti a una platea improbabile composta da: politici, assessori, relative consorti, la giunta comunale al completo, attori, cantanti, fantasisti e “astri nascenti” dello show business. Qualcuno potrà dire: “Ma è il tuo mondo!”. Forse, però se mi levano il palcoscenico e mi costringono a esibirmi in un salotto, con i mobili spostati e le sedie disposte in ordine d’importanza degli invitati, mi prende il panico! L’altra sera questo incubo l’ho drammaticamente vissuto. E invece gli altri “artisti”, via a scatenarsi con i loro repertori, nell’indifferenza dei più e in particolare dell’ospite d’onore: l’onorevole Pinuccio Scannalepore, seduto troneggiante sulla poltrona più grande al centro della sala. Poi dice che una si chiude in bagno, fingendo un attacco intestinale di proporzioni catastrofiche! E i padroni di casa isterici: “Esci, ti stanno aspettando tutti. Senti gli applausi?”-“Occupato. Occupatissimo! Mi sento male, lasciatemi in pace!” Ma i miracoli esistono. Di colpo, è arrivato il momento più alto della serata, il clou: “Summertime”! Eseguita senza vergogna da Immacolata Capacchione, la più famosa cantante gospel della provincia di Foggia. Indimenticabile! La Capacchione interpretava “Summertime” con lo stesso pathos di una raccoglitrice di cotone della Virginia, prima della abolizione della schiavitù. Il salotto di colpo era diventato una piantagione. Tutti in lacrime. L’onorevole Scannalepore svenuto! Io finalmente libera dal rischio di un’esibizione imposta e temuta come una tortura, ho preferito affrontare un rischio minore: calarmi dalla finestra del bagno, fortunatamente al primo piano, direttamente sui bidoni della spazzatura, maleodoranti, ma sempre meglio di un gospel foggiano.