Nascita (e storia) di una nazione. Russia: la gloria e l’orrore che sconvolsero il mondo

Ci sono due protagonisti eccezionali nel libro pubblicato da Longanesi Processo alla Russia, di Sergio Romano. Il primo è l’autore, che compone una straordinaria ricerca antologica sulla Russia mentre nasce e attraversa con concitata grandiosità la parte di storia che la maggior parte dei lettori conosce; e che ogni volta si apre con un cambiamento incredibile e inatteso e ogni volta si chiude con una grande vittoria (a volte su se stessi) e con un brutta ferita.

Sergio Romano ha la mano fredda del giornalista senza mandanti che registra sul posto, mentre le cose accadono. Ha il coinvolgimento caldo di un narratore che dà valore a stati d’animo e sentimenti di persone e della folla (e ci tiene a offrire di volta in volta il ritratto del nuovo personaggio che ha cambiato il mondo, da un angolo o da un dettaglio della storia russa). E ha la prontezza dell’analista politico: pesa subito il nuovo evento e lo usa come unità di misura dei fatti seguenti, che incontra e ci racconta.

Nei capitoli e persino nei frammenti e in singoli paragrafi di questo libro, a Romano importa di farci sentire il peso e il senso di ciò che è accaduto o sta accadendo mentre racconta (la storia da quando esiste la Russia la conosciamo). In questo modo, un universo fisico e politico che cambia continuamente in modo radicale, invece di essere una serie di eventi (anche grandiosi, anche spaventosi, anche terribili) diventa “la storia”.

Romano riesce a fare del suo libro (che non è un processo alla Russia ma la straordinaria narrazione di un Paese ogni volta da riconoscere) una grande immagine affollata e stremata, gloriosa e sconfitta, in cui tragedia, vendetta, e successo, spettano di volta in volta a personaggi diversi, regimi diversi, eroi diversi, che il più delle volte incarnano l’orrore e la gloria in un unico momento o episodio o persona.

Ma l’altra rivelazione del volume, che finge di essere solo una straordinaria antologia di storia di quel Paese, è in apparenza una realtà ovvia ma di solito la meno notata e discussa: l’immensa grandezza fisica della Russia. Il testo di Sergio Romano riflette il modo di respirare e di espandersi che mostra, lungo il percorso di alcuni secoli di storia, come si dilati la Russia, a cui noi guardiamo come a una realtà stabile, come quella che siamo abituati a conoscere per ogni altro Paese.

Questi tre elementi, le figure dei personaggi e loro imprese orride o gloriose, il territorio che si espande, il susseguirsi di eventi grandi, terribili e capaci di cambiare il corso della storia di tutti, sono le tre intuizioni che hanno guidato Sergio Romano a comporre un libro profondamente nuovo e diverso come Processo alla Russia.

 

Processo alla Russia Sergio Romano – Pagine: 208 – Prezzo: 18,60 – Editore: Longanesi

Uno spettro si aggira nella cuccia: il grande equivoco delle Cirinnà

 

Bocciati

Evviva il comunismo e la Cirinnà. Com’è noto 48 banconote da 500 euro (24 mila euri) sono state trovate in una vecchia cuccia per cani nella villa di Capalbio del sindaco di Fiumicino Esterino Montino e della di lui moglie, la più nota senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, prima firmataria della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e paladina dei diritti Lgbtq+. In attesa di capire quale sia la provenienza del denaro – indaga la procura di Grosseto – l’affaire ha suscitato molta eco soprattutto per un’intervista rilasciata al Corriere dalla compagna senatrice, di cui i nostri lettori hanno potuto apprezzare la sintesi e il commento di Selvaggia Lucarelli. Che giustamente ha fatto pelo e contropelo alla signora, e non perché ha una villa a Capalbio, ma per il modo in cui ha parlato di sé e della ex colf : “Ero già nei pasticci di mio, nelle ultime settimane. Nei pochi giorni di ferie sto facendo la lavandaia, l’ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all’altro. ‘Me ne vado perché mi annoio a stare da sola col cane’”. “Insomma”, ha scritto Lucarelli, “quei problemi classici della sinistra vicina alla gente: scopri che la cuccia del cane è un caveau e nel frattempo ti si licenzia la donna di servizio”. Cameriera rossa la trionferà (e forse succederà quando questo equivoco del Pd partito di sinistra finirà).

No more nirvana. L’avete vista mille volte: un bambino di pochi mesi in piscina davanti a un biglietto da un dollaro. È la copertina di “Nevermind”, l’album dei Nirvana pubblicato nel 1991. Trent’anni dopo, quel bambino che si chiama Spencer Elden, sta facendo causa alla band per presunto sfruttamento sessuale. Il giovane sostiene che i suoi genitori non hanno mai firmato una liberatoria che autorizzasse l’uso della sua immagine nell’album. E, inoltre, che l’immagine di nudo costituisca pornografia infantile. Secondo la legge statunitense le foto non sessuali di neonati non sono generalmente considerate pedopornografia, ma l’accusa sostiene che l’inclusione della banconota da un dollaro fa sembrare il piccolo “come una prostituta” (ma a chi?). Bisogna sapere anche che Spencer Elden ha ricreato la copertina dell’album diverse volte da adolescente e da adulto (ovviamente con costume da bagno) per celebrare l’anniversario di “Nevermind”, l’ultima volta cinque anni fa. Smells Like Teen Spirit?

 

Non classificati

Dentro e fuori. Zatlan Ibrahimovic fa nascere più di un sospetto su una nuova partecipazione al Festival di Sanremo del prossimo anno, grazie a un video ripostato dall’asso del Milan (il passaggio del motociclista sull’autostrada dei Fiori bloccata dal traffico) e accompagnato da una domanda: “Devo venire a salvarti un’altra volta?”. Così chiede ad Amadeus che condurrà il Festival per la terza volta (se anche Fiorello dirà di sì, avremo davvero una fotocopia dell’ultima edizione). Domani chiude il calcio mercato: Cristiano Ronaldo torna al City, Ibra a Sanremo.

Come on, vogue. Lunga intervista di Dolce e Gabbana al Corriere in occasione della tre giorni di sfilate veneziane della casa di moda. A Teresa Ciabatti i due stilisti hanno raccontato un po’ di tutto, dall’infanzia al primo bacio, dalla Barbie (“Avevo Big Jim, ma ambivo a Barbie, il problema era che i miei non me la compravano. È da femmina, dicevano. A nove anni, coi soldi delle paghette, vado al negozio di giocattoli e compro Barbie, anzi Skipper, perché non c’era Barbie beachwear, quella in costume che era quella che volevo io”); dal rapporto con Madonna (“Irripetibile, unica. Ha sempre curato la sua immagine da sola, dietro non c’è nessuno”) a quello con le rispettive mamme. L’unica cosa che non hanno saputo spiegare è perché la loro moda è così ostinatamente kitsch.

 

Eutanasia: i radicali ostinati contro il muro dell’ufficio complicazioni

Grazie Marco. “Ho firmato perché oggi, senza una legge che la regolamenti l’eutanasia non è un diritto accessibile a tutti. Ho firmato perché sia libero di scegliere anche chi non può permettersi di raggiungere Paesi dove l’eutanasia è legale. Firmare per promuovere questo referendum, comunque la si pensi, è un atto di rispetto per la vita e per il prossimo”: così si è espresso Roberto Saviano dopo aver firmato per il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia legale. Quello che bisogna aggiungere a queste giuste parole è che senza l’ostinazione di Marco Cappato tutto questo non sarebbe mai stato possibile. Esponente radicale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Cappato è uno di quelli che, quando crede in qualcosa, non sopporta i tempi biblici e la prolissità ipocrita della politica. La fibra da attivista gli ha permesso di non indulgere mai ai meccanismi dell’ “Ufficio complicazione Affari semplici” in cui spesso s’incagliano le buoni intenzioni di chi entra in politica. Nell’attesa che il Parlamento trovasse il coraggio di pronunciarsi, Cappato gli ha offerto continui spunti d’ispirazione per riaprire il dibattito in Aula, assistendo malati terminali che sceglievano la morte assistita e affrontando a testa alta le vicende giudiziarie che ne conseguivano. Giacché anche questo non è stato sufficiente, l’ex parlamentare si è armato di pazienza e ha organizzato una raccolta firme estiva per richiedere un referendum d’iniziativa popolare sulla legalizzazione dell’eutanasia legale. Proprio questa settimana, Cappato e l’Associazione Luca Coscioni hanno raggiunto l’insperata soglia delle 750mila firme, evitando così che eventuali errori nella raccolta possano rallentare il processo. La raccolta delle firme continuerà per tutto settembre, ma se già a questo punto non esistono più alibi di sorta è grazie a chi non si rassegna a mollare. Costi quel che costi.

VOTO 10

Buone intenzioni con data di scadenza. Ci sono realtà che appaiono evidenti, ma che assumono un valore diverso se constatate da chi conosce la materia per esperienza diretta. È per questo che le parole di Henry Kissinger inchiodano ancor più gli Stati Uniti alle loro responsabilità: “Ci siamo persuasi che l’unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale”, ma “una tale impresa non poteva prevedere un calendario certo, conciliabile con i processi politici americani”. Se a parlare in questo modo è l’ex Segretario di Stato ed ex consigliere per la sicurezza nazionale che si occupò della risoluzione del conflitto in Vietnam, appare evidente come nessun politico dotato di buonsenso potesse davvero credere di aver sconfitto il terrorismo in una manciata di anni, né soprattutto potesse non sapere che se si sveglia il can che dorme e poi si fa per andarsene, il cane, molto probabilmente, finirà per morderti.

VOTO 6

 

“Tituli”. Dove vai se la “camiseta” non ce l’hai? Paris Sg e City: i club ricchi non fanno paura

Quando giovedì a Istanbul si è tenuto il sorteggio dei gironi della nuova Champions League al via il 14 settembre, non c’è stato un solo addetto ai lavori, o semplice appassionato, che non abbia considerato il gruppo A, quello che vede assieme Manchester City e Paris SG (con l’aggiunta di Lipsia e Bruges), il gruppo più temibile, dei veri e grandi colossi del calcio europeo. Direte: embè? Con i soldi che hanno cacciato negli ultimi anni i loro sceicchi, non è forse vero che Psg e City sono gli squadroni che tremare il mondo fanno? Risposta: no. Non è di loro che è il caso di avere paura. Non necessariamente. E mi spiego.

Premesso che i ricchi, come direbbe Catalano, partono sempre avvantaggiati e non solo nelle cose del pallone, chi conosce davvero il calcio sa che nei momenti che contano c’è una variabile che arriva ad avere più peso del peso del vil denaro: la “tradizione”, e cioè la forza del passato che nel bene e nel male accompagna ogni club, il peso della camiseta, come dicono in Spagna, l’importanza di indossare una certa “maglia”, come diciamo noi. Sei il più ricco di tutti? Di certo hai messo assieme giocatori bravissimi. Sei meno ricco ma hai alle spalle un passato glorioso che ti ha fatto vivere, respirare, interiorizzare l’abitudine al cimento e all’affermazione nelle grandi e decisive sfide? Di certo hai più probabilità di vincere. Anche al cospetto di club per ricchezza a te superiori.

Sapete qual è, tra gli 8 gironi a 4 squadre della nuova Champions, quello che conta meno Coppe dei Campioni/Champions League vinte di tutto il lotto? Tenetevi forte: il gruppo A di Manchester City, Psg, Lipsia e Bruges con zero trionfi, esattamente come lo scalcagnato gruppo G composto da Lille, Siviglia, Salisburgo e Wolfsburg. Al primo posto, per merito del primatista Real Madrid, c’è il gruppo D (Inter, Real, Shakhtar, Sheriff) con 16 trionfi divisi tra blancos (13) e nerazzurri (3). Al secondo posto troviamo il gruppo B (Atletico, Liverpool, Porto, Milan) con 15 trionfi complessivi divisi tra Milan (7), Liverpool (6) e Porto (2). Ancora seguono il gruppo C (Sporting, Borussia Dortmund, Ajax, Besiktas) con 5 vittorie, 4 degli olandesi, una dei tedeschi; il gruppo H (Chelsea, Juventus, Zenit, Malmoe) con 4 successi, 2 degli inglesi, 2 dei bianconeri; e il gruppo F (Villareal, Manchester United, Atalanta, Young Boys) con 3 coppe conquistate tutte dai Red Devils. Gli squadroni che oggi tutti temono, Psg e City, erano in campo nelle ultime due finali di Champions: ma entrambi sono usciti sconfitti, i francesi nel 2020 al cospetto del Bayern (già 5 volte vincitore), gli inglesi di Guardiola tre mesi fa di fronte ai connazionali del Chelsea (altro club di recente tradizione, ma già una volta trionfatore).

La verità è che quando arrivi a una finale di Champions, la camiseta che porti sulle spalle conta più di ogni altra cosa; e se la tua è più “pesante”, quasi sempre vinci. Solo restando agli ultimi dieci anni, chiedete all’Atletico che nel 2014 e 2016 si è inchinato allo strapotere storico del Real Madrid; al Borussia Dortmund che nel 2013 si è sottomesso al Bayern; alla Juventus che nel 2015 e nel 2017 è stata spazzata via dal Barcellona prima e dal Real Madrid poi, come nel 2003 aveva abbassato la testa al cospetto del ben più glorioso Milan.

E insomma: andiamoci piano a fasciarci la testa davanti ai presunti invincibili Paris SG e City. Perché, parafrasando il titolo di quel simpatico film: dove vai se la camiseta non ce l’hai?

 

Il volontario. L’umanità diversa dei generosi senza potere (nella culla padana della Lega)

La suora colombiana dai lunghi capelli ricci neri si rivolge all’anatra volata sul tetto della casa in pietra e le chiede soave: “Ehi, e tu che ne pensi del mondo?”. Dialogo surreale ma pieno di senso in questa baita della Val Brembana, diventata incrocio di attività del mondo del volontariato cattolico bergamasco. Gran cosa questo mondo, credetemi, solo a metterci il naso. Sospinto dalla curiosità e da antiche amicizie ho deciso di rimettercelo dopo molto tempo per due giorni e ora non mi basta certo questa rubrica per raccontare i luoghi, le storie e le persone in cui mi sono imbattuto.

L’anatra che si leva in volo con gran fatica d’ali è in fondo solo una metafora dell’opera faticosa con cui persone generose e senza potere fanno crescere dal basso realtà meravigliose. E l’anomala suora colombiana, di nome Sury, rappresenta (non metaforicamente) l’impegno combinato di laici e religiosi per assicurare protezione a ragazze straniere in cerca di una vita finalmente libera. Tutto, in mezzo al verde delle valli e dei boschi, parla di questo straordinario volontariato.

Ne parlano le placide e tenaci figure di Bebe e Luisa, ossia Emanuele Nessi e Luisa Ghisleni, coppia storica di Torre Boldone, che hanno tirato su “La Peta”, questa baita simbolo e presidio di un turismo “agri” ma anche “socio”; ma che hanno soprattutto presidiato tante vite adolescenti, diverse avendone prese in affido, e ancora salgono qui a dare una mano e a fare manutenzione. E ne parla Marcello, un tipo atletico e ironico, che è stato fino a pochi anni fa manager di una grande azienda, trecento dipendenti, e che dopo la pensione e un grande dolore privato se ne è andato alcuni anni in Bolivia per poi tornare qui umile nelle sue terre, un po’ artigiano un po’ contadino un po’ commercialista, e regalare i suoi soldi a quest’aria speciale.

Un’aria che narra a me di un’umanità diversa. Ne narra nel bosco dove incontri perle di saggezza su cartelli sorprendenti: “La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo”. O seminando tra gli alberi frasi che mescolano natura e letteratura. Oppure offrendo quei bastoni a cui appoggiarsi nei sentieri più impervi, con su scritto “prendi e riporta, grazie”, in favore dei viandanti che verranno. Sono il lascito di un signore, anche lui perfetto volontario, che passò anni a civilizzare il bosco ripulendo e rimuovendo sterpaglie e rifiuti, oggi ricordato su una stele di roccia, dedicata ad “Alessandro Bosatelli” e alla sua “anima nobile”. C’è profumo di cultura e generosità, di dialetto e di mondo senza confini, a partire dal mio anfitrione, Rocco Artifoni, un sessantenne filosofo e matematico che ritrovi un po’ in tutte le associazioni e le imprese umanitarie che sorgono a Bergamo, città in fama di leghismo ma in cui, a conti fatti, la Lega non è mai riuscita a governare.

Su tutto aleggiano storie leggendarie di preti operai, che rinviano agli anni sessanta, o di preti scomodi privati della loro parrocchia, come il “don Emilio” (Brozzoni) di cui si favoleggia e che dovette farsi ospitare per due anni proprio dal Bebe e dalla Luisa, che aveva unito in matrimonio. Ora è a Torre De’ Roveri, 2500 anime, ne parlano tutti con rispettoso affetto e si fatica a credere all’emarginazione sofferta un giorno. Si narra che avesse detto in un’omelia che le prostitute avrebbero preceduto gli astanti nel regno dei cieli. Fondatore di Aeper, la sigla che torna nei discorsi e nei progetti ogni mezz’ora, acronimo per Associazione educativa per la presenza e il reinserimento. Rosella Ferrari sa tutto e tutto racconta con sapienza all’ospite. Ha fatto l’assessore a Torre Boldone: alla pace, alla scuola e alla cultura. “Quando vinse la Lega, per prima cosa tolsero la pace”. Quanta storia si costruisce, in un lembo di provincia…

 

Via da Kabul. “Io, tra le anime buie dei profughi afghani: grazie per il privilegio di averli accolti”

 

“85 bimbi, 200 rifugiati, lacrime copiose e un’infinita dignità”

Cara Selvaggia, questo è il mio diario di una pagina di vita indelebile. Sanremo, 23 agosto 2021. Sveglia alle quattro. Quattro come le ore dormite. Il telefono della compagna di stanza suona e ci allerta che stanno arrivando. L’adrenalina non fa sentire le poche ore di sonno e la tensione dei preparativi della giornata precedente. Nel buio si parte attraversando la città ancora addormentata. La struttura ospitante la base logistica dell’Esercito e quelle di prima accoglienza preparate da Croce Rossa sono pronte. Tutto e tutti ai propri posti. I 5 pullman partiti da Roma sosteranno all’ultimo autogrill autostradale. Poi, uno per volta, entreranno a Sanremo, consegnando il prezioso carico umano: 206 rifugiati afghani di cui 85 minori. Energia alle stelle, non sappiamo cosa aspettarci e se saremo capaci di gestire le emozioni. Fortunatamente, tra di noi, ci sono volontari più esperti che ci infondono sicurezza. Arriva il primo autobus.

Anime scure in lunghi abiti scendono in fila, nella poca luce e nel totale silenzio del vicinato dormiente. Anche nel buio si percepisce la loro preoccupazione e il senso di tranquillità per il pericolo scampato nella terra natìa. Sono raggruppati per nucleo familiare: alcuni formati da tre/quattro persone, altri più numerosi con i nonni al seguito. Rispettosi ed educatissimi, si attengono scrupolosamente alle prescrizioni impartite per evitare assembramenti. Si muovono compatti come se avessero paura di perdersi. Loro stessi sono tutto quello che hanno. Bagagli quasi inesistenti. Ricordi e affetti di vita vissuta chiusi in una valigia e in qualche sacchetto della spesa: il nulla. L’unico valore che possiedono è la famiglia stessa. Iniziamo con le operazioni di verifica di presenza del nucleo familiare, poi la misurazione della temperatura, cambio della mascherina e disinfezione delle mani.

C’è imbarazzo nel comunicare. Loro hanno motivo di essere più spauriti di noi. Noi siamo “apparecchiati” con camici e tute di protezione, guanti e visiera. Chissà che idea si saranno fatti di noi. Ma l’importante è proteggere loro da questo virus immortale. Si accenna qualche parola di inglese. Sono molto timorosi ma conservano nello sguardo e nel portamento un decoro fiero. Le donne, timidissime, sempre un passo indietro, con una parte del volto coperta. Tutti pronunciano i loro difficilissimi nomi con un filo di voce, quasi sussurrato. Alcuni capofamiglia parlano italiano, sono coloro che probabilmente hanno lavorato nel consolato e sono i meno impacciati, forse abituati all’esuberanza degli italiani. Pian pianino ci scambiamo qualche sorriso e anche le donne, pronunciando il loro nome, svelano timidi sorrisi e dolci lineamenti. I bambini poi sciolgono velocemente il ghiaccio della diffidenza, grazie alla naturale e irrefrenabile curiosità. Con le famiglie verso il “check” anche noi diventiamo meno ingessati, riusciamo a comprendere e distinguere meglio questi nomi simili tra loro. Gli uomini sono quasi tutti Mohammad più il 2º nome. Le donne hanno nomi diversi tra loro, più facili da decifrare. Abbiamo meno ansia di “traumatizzarli” con la fredda burocrazia Ma tutto fila liscio. L’Associazione nazionale è “cintura nera” nelle emergenze umanitarie. Ha una organizzazione collaudata alla perfezione: tutto pianificato, pochi margini di errore. Nel frattempo, arriva anche l’alba e con la luce i nostri e i loro occhi si incrociano con più fiducia, anche perché gli ospiti sono confortati dal percorso già compiuto dagli altri compagni di viaggio. Alle 9 tutti sono stati accompagnati nelle camere assegnate, rifocillati con la colazione e muniti di abbigliamenti basico/intimo e prodotti per l’igiene personale.

Quello che non potrò mai dimenticare sono i visi di alcuni uomini, spesso ragazzi, che ostentavano una sicurezza tradita dal tremore delle mani nel ricevere il gel per disinfettarle; gli occhi chiusi, strizzati, e il collo voltato di lato delle donne quando ci si avvicinava al viso con il termoscanner per misurare la temperatura; la gioia dei bambini quando sono arrivati al tendone per la distribuzione dei giochi: sono usciti pieni di giocattoli e peluches. Saranno il loro svago nei 10 giorni di quarantena fiduciaria nelle proprie stanze. Loro sono i più contenti, ignorando il tempo da trascorrere senza poter uscire. Gli adulti sono pazientemente rassegnati, ma sicuramente confortati dal pensiero di essere al sicuro con la famiglia al seguito. Alcuni di loro mostrano sul viso la speranza di una vita migliore. In altri si legge la tristezza, forse la consapevolezza, di dover ripartire da zero (forse da ultimi) in un altro Paese con altri problemi, per riconquistare i propri diritti sociali.

Con alcuni colleghi alla fine di questa prima parte della giornata ci siamo scambiati delle impressioni. Tutti con il ricordo forte dei sorrisi dei bambini, dell’incertezza visibile negli adulti accompagnata da una dignità disarmante. Anche i nostri occhi hanno fatto fatica, le lacrime sono state difficili da trattenere.

Grazie alla Croce Rossa Italiana tutta e ai miei compagni di esperienza per avermi regalato questo privilegio. Una lezione di vita indimenticabile.

C., una volontaria della Croce Rossa Sanremo

 

Cara C., grazie per averci regalato questo piccolo racconto che sa di umanità e accoglienza. Il pensiero va inevitabilmente a chi, rimasto in Afghanistan, non è riuscito neppure a guadagnarsi la paura dell’incertezza, in un altro Paese.

 

Processioni. Dalla Val Seriana fino all’Amazzonia: il festival cinematografico sulla devozione popolare

In Italia c’è un “giacimento” immenso di devozione popolare, lo abbiamo scritto più volte. Oltre che religioso, è un patrimonio culturale e antropologico cui hanno dedicato le loro ricerche accademici del calibro di Ernesto de Martino (1908-1965), Alfonso Maria Di Nola (1926-1997), Luigi Lombardi Satriani, per citare gli studiosi più importanti.

Eppure, ancora oggi, questa ricchezza di processioni e riti è ravvivata e custodita solo dalle comunità locali, tra l’indifferenza del ministero dei Beni culturali (dedito principalmente alla mera gestione del potere e delle risorse) e il fastidio delle gerarchie ecclesiastiche, per tradizione allergiche a queste manifestazioni, talvolta sinonimo di guai, come gli “inchini” dei santi al Sud alle abitazioni dei boss. Al contrario, censire e valorizzare questo patrimonio in tutte le regioni italiane rappresenterebbe un investimento finanche turistico, sull’esempio della Spagna dove in primavera la Semana Santa degli incappucciati viene promossa a livello continentale.

Premesso tutto questo, e facendo ovviamente riferimento alle iniziative delle comunità locali, ieri si è conclusa ad Ardesio la seconda edizione di Sacrae Scenae (www.sacraescenae.it), festival cinematografico dedicato alle devozioni popolari. Dice Roberto Gualdi, il direttore artistico: “La devozione popolare costituisce la saggezza di un popolo. Qui ad Ardesio ne abbiamo conferma con i pellegrinaggi al Santuario della Madonna delle Grazie: quest’idea nasce proprio per valorizzare il nostro patrimonio di religiosità popolare”. Paesino di 3.500 abitanti circa nella Val Seriana, in provincia di Bergamo, Ardesio festeggia ogni anno l’apparizione della Madonna avvenuta il 23 giugno 1607. Il festival è organizzato da Vivi Ardesio, la Pro loco cittadina, l’associazione Cinema e Arte e sono coinvolti pure comune e parrocchia.

Quest’anno sono state selezionate 22 opere tra sessanta. Lo sguardo è internazionale: film italiani ma anche provenienti da Stati Uniti, Croazia e Belgio. La durata delle pellicole è variabile e non ci sono solo le tradizioni del nostro Paese, cioè le processioni della Settimana Santa e del Corpus Domini, le quarantore, i cammini di arcangeli e pellegrini, feste notissime come quelle di Santa Rosa a Viterbo e dei Ceri a Gubbio. Un film italiano, Amazonia, la loma santa, racconta le processioni di San Ignacio de Moxos, in Bolivia, dove i miti locali incrociano l’evangelizzazione del fondatore della città, Ignazio di Loyola. Non solo. La selezione va oltre la fede cattolica: Brothers in Buddha è un film su un ragazzo canadese che diventa buddista.

Sabato è stato proiettato anche Dio è donna e si chiama Petrunya della nord-macedone Teona Mitevska e che due anni fa ha vinto il premio Lux dell’Europarlamento. È la storia di una donna che partecipa a una gara riservata a soli uomini nel giorno dell’Epifania ortodossa, che cade il 19 gennaio: la corsa per recuperare la “santa croce” che un prete getta in un lago o in fiume. Chi prende la croce dovrebbe avere fortuna per un anno.

 

Meloni: peggio di Durigon quel dire e non dire su Montanari

Fra gli attacchi concentrici che hanno preso di mira Tomaso Montanari, dopo le sue critiche all’uso strumentale della Giornata del ricordo delle vittime delle foibe, si distingue la lettera inviata al Giornale

da Giorgia Meloni. Non mi riferisco solo al tono minaccioso con cui la presidente di Fdi chiede di fermare la “pericolosa deriva” rappresentata dalla nomina di un antifascista dichiarato a rettore universitario.

Certo, lei è più navigata di un Durigon che pensa di cavarsela dichiarando “non sono e non sono mai stato fascista” dopo aver proposto i giardini Mussolini. Meloni ha appreso l’arte della dissimulazione, ma poi lascia trapelare quale revisione della storia patria ci toccherebbe quando arrivasse alla guida del governo.

Va letta con attenzione. Sia quando aggira lo scoglio del giudizio sul fascismo e sulla Resistenza (“non mi interessa parlare del millennio passato”) con la solita scusa dell’“io sono nata dopo”. Sia quando invece non si trattiene dallo scagliarsi sul “branco di partigiani” responsabili della morte di Norma Cossetto, colpevole solo “di non essere stata ostile al fascismo (come gran parte degli italiani di allora)”. Per insinuare poi che i “valori” di cui si fa portatore Montanari, definiti “sproloqui di un intellettuale vip della sinistra”, sarebbero gli stessi che hanno ispirato gli assassini di Sergio Ramelli e dei fratelli Mattei.

Questo metodo del dico e non dico, affinato con una maestria ignota ai fascioleghisti, meriterà una decifrazione più accurata. Ci cascano non pochi opinionisti corrivi, ma non promette niente di buono per la cultura italiana.

Pochi giorni fa sullo stesso giornale un tizio mi ritraeva avido “sefardita” con citazioni a vanvera di Qabbalah, proverbi yiddish, e altre simili amenità. Salvo poi replicare che non si riferiva al fatto che sono ebreo. La Meloni è più furba, ma anche più pericolosa.

Quintino Sella e l’importanza nazionale di scalare montagne

All’indomani dell’unità nazionale, nel 1861, Massimo d’Azeglio auspicò che, dopo avere fatto l’Italia, si facessero gli italiani. Anche il biellese Quintino Sella (1827-1884), futuro ministro delle Finanze del Regno e capo della destra storica, la pensava così. Definito da Antonio Gramsci “uno dei pochi borghesi, tecnicamente industriali, che partecipano in prima fila alla formazione dello Stato moderno in Italia”, l’uomo politico piemontese riteneva che anche con le scalate alpinistiche si potesse forgiare il carattere dei nuovi connazionali.

C’è una data importante per le sue convinzioni. È quella del 12 agosto 1863, quando fu alla guida della comitiva italiana, composta da Paolo e Giacinto Ballada di Saint-Robert e dal deputato calabrese Giovanni Baracco, che salì il Monviso.

Nel resoconto della spedizione, pubblicato sul quotidiano torinese L’Opinione sotto forma di una lunga lettera a Bartolomeo Gastaldi, segretario della Scuola per gli ingegneri, non solo si soffermava sull’idea di dare vita al Club alpino italiano, ma metteva in evidenza l’importanza nazionale della scalata: “Carissimo amico, Siamo riusciti; ed una comitiva d’italiani è finalmente salita sul Monviso!”. E aggiungeva: “Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar di piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia. Col crescere di questo gusto crescerà pure l’amore per lo studio delle scienze naturali, e non ci occorrerà più di veder le cose nostre talvolta studiate più dagli stranieri, che non dagli italiani”.

Odiato dalle classe popolari per la sua tassa sul macinato, ma anche, come annotò Piero Gobetti, “la mente più lucida della politica italiana” con il conte di Cavour e Stefano Jacini, il Sella delle montagne, della tecnica, della scienza, e della parità di bilancio dello Stato, del rigore, dell’onestà, viene restituito ai lettori di oggi grazie a un libro curato da Pietro Crivellaro, storico della montagna e alpinista, a lungo responsabile del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino. Si tratta di Quintino Sella, lo statista con gli scarponi. L’invenzione del Cai, pubblicato dal Club alpino italiano. Un volume, ricco anche di immagini, che attraverso lettere e carte poco note, o dimenticate, intreccia l’amore per la montagna con la sua opera politica e culturale tesa a “fare gli italiani”.

“L’Italia è appena stata unificata”, scrive Crivellaro, ricostruendo l’ascesa al Monviso e la fondazione del CAI, “anche pagando il prezzo della cessione alla Francia della contea di Nizza e di tutta la Savoia, con la Valle di Chamonix e il versante del Monte Bianco più frequentato. Così le guide savoiarde, compatrioti dei piemontesi fino a tre anni prima, ora sono sudditi di Napoleone III, sono diventati stranieri”. Il “fervore del Risorgimento e l’identità nazionale sono questioni nevralgiche ancora molto calde, perciò non c’è da stupirsi che Sella non voglia temporeggiare e preferisca rinunciare alle guide che hanno condotto alla vittoria gli inglesi”. Non è il caso, però, sottolinea Crivellaro, “di tirare in ballo il nazionalismo. Al politico biellese preme soprattutto non lasciarsi sfuggire l’occasione di agire per risollevare la reputazione dell’Italia con un successo eclatante. Solo così si potrà dare il buon esempio ai connazionali e guadagnare credito agli occhi degli stranieri”.

Sella era il politico al quale il grande storico Theodor Mommsen domandò con quale idea l’Italia, nel 1870, facesse di Roma la capitale del Paese. Il ministro gli rispose: “Con l’idea della scienza”. Lo scalatore del Monviso, ricordava Gramsci, “si differenzia in modo notevolissimo dal rimanente personale politico del suo tempo”. Ha “una vasta cultura umanistica, oltre che tecnica; è uomo di forti convinzioni morali”. In occasione di un brindisi al banchetto del VII congresso del Cai, a Torino, il 10 agosto 1874, disse: “Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, il che non vuol dire imprudenti ed imprevidenti. Ha gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele. Stupenda scuola di costanza sono poi le Alpi. I momentanei slanci non vi bastano per riuscire. Vuolsi saper durare, perdurare e soffrire”.

 

Quintino Sella, lo statista con gli scarponi A cura di Pietro Crivellaro – Pagine: 331 – Prezzo: 26 – Editore: Club alpino italiano

Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre

Le parole che, lunedì scorso, ho dedicato al Giorno del Ricordo hanno scatenato la rabbiosa reazione di tutte le destre italiane: da Italia Viva a CasaPound, passando per Lega e Fratelli d’Italia (col rincalzo di Aldo Grasso e dell’agente Betulla). Con una sola voce hanno chiesto, preteso, minacciato (quelli al governo) le mie dimissioni da rettore (lo sarò peraltro solo da ottobre…): l’effetto è stato quello di un “fascismo polifonico” (per usare un’espressione di Gianfranco Contini). Come se, improvvisamente, fossero scomparsi dalla Costituzione gli articoli 21 (libertà di espressione) e 33 (libertà della scienza e autonomia delle università): in un assaggio di quel ritorno al fascismo che potrebbe comportare l’ascesa al governo di questa compagine nera.

Salvini è arrivato a dire che mi devo fare curare: rinverdendo la tradizione dei dissidenti chiusi in manicomio. La Meloni, in una apologia dei fascisti ormai senza veli, che devo “essere fermato”. L’Ungheria, insomma, non è lontana.

Confermando il senso del mio articolo (il fascismo riesce ad avere ragione solo quando trucca la storia), giornalisti e politici hanno scritto e ripetuto che avrei “negato le Foibe”. Falso, diffamatorio. Avevo scritto tutt’altro: “La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica”. Come ha detto benissimo Eric Gobetti (storico, e autore di E allora le Foibe?, Laterza): “Il dibattito parlamentare sulla legge istitutiva fu molto eloquente. Alla fine, la versione neofascista è diventata la narrazione ufficiale dello Stato italiano”. Questo era il fine: costruire una “festa” nazionale da opporre alla Giornata della Memoria e al 25 aprile, costruire un’antinarrazione fascista che contrasti e smonti l’epopea antifascista su cui si fonda la Repubblica. E ora un disegno di legge giacente in Senato vorrebbe rendere un reato il negazionismo delle Foibe, ancora una volta all’inseguimento della Shoah: “Attraverso la equiparazione delle due parti, si mira alla rivincita degli sconfitti” (Claudio Pavone).

Chi si stupisce che Italia Viva si schieri con Casa Pound dimentica che nell’agosto del 2019 Matteo Renzi visitò le Foibe di Basovizza proprio nel giorno dell’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema: scelta singolare, per un toscano. Come dire: ‘i morti sono tutti uguali, fondiamo la pace su una memoria condivisa’. Cioè il messaggio del famoso discorso di Luciano Violante: un messaggio che, semplicemente, demolisce le fondamenta della Costituzione e della Repubblica antifasciste. E che costruisce il terreno per pelose unità nazionali capaci di saldare, al governo del Paese, il peggio della politica italiana.

Così il patrimonio culturale del Paese (che è fatto, sì, anche di feste, ricorrenze, cerimonie, immaginario…) viene violentato, e piegato all’utilità del mercato politico corrente. Era proprio ciò che la destra voleva con l’istituzione del Giorno del Ricordo (primo firmatario Ignazio La Russa). Motivando, in Senato, il suo meritorio voto contrario, l’attuale presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo vide lucidamente che “in apparenza (il Giorno del Ricordo, ndr) attiene ad un generale ripudio della violenza nelle sue forme più efferate, ma nella sostanza annega le responsabilità del Ventennio e della guerra mondiale con una ‘equa’, e perciò del tutto inaccettabile, distribuzione delle colpe. Sono le equiparazioni che hanno sempre fatto i fascisti in Italia per giustificare gli orrori del Ventennio”.

Nessuno nega le Foibe (che videro, secondo l’opinione oggi prevalente tra gli storici, la morte di circa 5000 persone – fascisti, collaborazionisti ma anche innocenti – per mano dei partigiani di Tito), come nessuno nega l’atrocità dei bombardamenti alleati, o delle due atomiche sganciate sul Giappone: ma questo non significa che americani e nazisti fossero sullo stesso piano. “Ecco perché questa legge è sbagliata e pericolosa – continuava Pagliarulo – perché parla di memoria ma cancella la memoria”. Aveva visto bene Paolo Rumiz, che nel 2009 scrisse: “Senza onestà la memoria resta zoppa, e il Giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole”.

Come ho ricordato nel discorso col quale ho chiesto, e ottenuto, i voti della comunità accademica dell’Università per Stranieri di Siena: “Viviamo tempi in cui non è per nulla superfluo ricordare che l’università italiana è doppiamente antifascista: lo è per la sua natura libera e umana di università, lo è per la sua adesione incondizionata alla Costituzione antifascista della Repubblic”. I nuovi fascisti possono mettersi in pace l’animaccia nera: non mi dimetterò, continuerò a dire la verità.