La sai l’ultima?

 

Padova Un ubriaco al volante di un’Apecar investe un drogato alla guida di uno scooter

Quando un ubriaco alla guida di un’apetta incontra un drogato alla guida di uno scooter, quello sullo scooter è un drogato morto. Si fa per dire eh: morto no, per fortuna, ma il centauro si è fatto un giro in ospedale. Questo scenario immaginifico di alterati al volante è avvenuto nel lontano 2015, ma per qualche misteriosa alchimia degli algoritimi, di recente è tornato a circolare sulle bacheche social con una certà viralità. Si tratta di una notizia a suo modo meravigliosa, raccontata all’epoca dal Mattino di Padova: “Sembrava che la responsabilità nello scontro tra un’Apecar e uno scooter avvenuto la sera del 14 aprile fosse tutta del 56 enne alla guida dell’Apecar, risultato alticcio all’alcoltest. Il responso delle analisi a medio termine ha invece fornito una realtà diversa: anche il minorenne alla guida dello scooter ha fatto la sua parte perché aveva non solo bevuto ma anche ‘fumato’”. L’incrocio più pericoloso di tutto il Nord Est.

 

Gallura La statua della Madonna ha una forma molto particolare: sembra una vagina. E i social impazziscono
Un’altra notizia virale con scandaloso ritardo. Nel 1999 l’artista sarda Maria Scanu ha donato alla città di Santa Teresa di Gallura una scultura astratta della vergine Maria. La statua ha una forma particolare, non c’è un modo migliore di dirlo: sembra inequivocabilmente una vagina. Questa scultura della Madonna è stata felicemente ignorata fino a una settimana fa, quando la foto dell’opera è stata pubblicata sulla pagina Instagram “Sardegna che passione”. I social sono esplosi: “In molti hanno visto nelle linee della Vergine raffigurata dalla Scanu – scrive Artribune – un chiaro rimando all’organo genitale femminile. I commenti e le condivisioni del post si sono moltiplicati a tal punto da destare l’attenzione persino all’estero”. Molto apprezzato il commento dell’account satirico “Dio”: “Non capisco tutto questo scalpore, la grande madre signora della fertilità e della riproduzione la venerate da qualche millennio. Noi abbiamo solo ridefinito concept e design”.

 

Palazzo Chigi Super Mario Draghi fa l’idraulico: risolto il problema della puzza e degli scarichi otturati
È proprio il caso di chiamarlo Super Mario. L’ultimo successo del premier Draghi è di natura idraulica. Palazzo Chigi – ci fa sapere Il Tempo – è stato avvolto per giorni da un odore nauseabondo, prima che il suo inquilino risolvesse anche questo dossier (costi quel che costi, whatever it takes). “La puzza si era fatta davvero insopportabile, e con il caldo era pure amplificata. In molte stanze della presidenza del Consiglio dei ministri, e perfino nei pressi dell’area presidenziale dove lavora Mario Draghi l’odore da giorni si stava diffondendo. Nelle toilette poi bisognava fare in fretta i propri bisogni e trattenere il fiato perché la puzza pareva davvero tremenda”. Era un’ostruzione fognaria dei servizi igienici di Palazzo Chigi. Problema risolto grazie agli operai del service di Alfredo Romeo (sì, quello di Consip), che si occupano della manutenzione dei palazzi istituzionali. Super Mario si fa rispettare anche dai tombini otturati e “può tirare un sospiro di sollievo: ogni olezzo è svanito”.

 

Lino Banfi La crociata del Movimento Genitori contro il tormentone estivo di Oronzo Canà: “Porca puttena”
Perché, perché nessuno pensa ai bambini? Per fortuna c’è il Moige, il movimento italiano genitori. La battaglia politica di quest’associazione per ripulire i nauseanti, corrottissimi costumi italiani ha trovato il suo nemico: Lino Banfi. E il suo raccapricciante, stantìo tormentone estivo: “Porca puttena”. Lo dicevano i giocatori della nazionale come un portafortuna agli ultimi Europei, lo ripete in heavy rotation l’ultimo spot di Tim Vision con protagonista Oronzo Canà. La tv italiana è tutta un porca puttena a perdita d’occhio. Per fortuna c’è il Moige, che ha presentato una denuncia all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e al Comitato TV Minori: “Sembra che, affinché lo spettatore a casa non si annoi, sia necessario ravvivare l’interesse con qualcosa che possa scandalizzare o almeno catturare il pubblico. Non è possibile derubricare un’esclamazione del genere trasformandola in un motto di spirito o in una forma ironica”. Censurate Nonno Libero.

 

Pescara Un ubriaco s’infila nella vetrina di un negozio di intimo e prova a “consumare” rapporti con i manichini
La lunga estate caldissima porta con sé bollori a volte incontenibili. Ne sa qualcosa il gentiluomo, clamorosamente alticcio, che si è infilato in un negozio di abbigliamento intimo nel centro di Pescara e ha iniziato a tentare di “sedurre” i manichini in vetrina. In modo forse un po’ sgarbato, vista la reazione traumatizzata dei presenti. “I commessi all’interno dell’attività commerciale – scrive Fanpage – hanno subito capito che l’uomo appena arrivato era ubriaco e immediatamente hanno cercato di allontanare gli altri clienti. Quando ha iniziato mimare espliciti atti sessuali con i manichini in vetrina, le persone all’interno del negozio hanno cercato di cacciarlo mentre i membri dello staff chiamavano la polizia. Le due pattuglie locali, una volta arrivate sul posto, hanno tentato di raggiungere l’uomo che però si è dato alla fuga per le vie interne del centro, facendo così perdere le sue tracce”. Il maniaco è stato quindi costretto alla fuga ed è riuscito a fuggire con reciproca soddisfazione, sua e dei manichini.

 

Capalbio Le incredibili fortune del cane della Cirinnà e la clamorosa maleducazione della domestica strapagata
La notizia della settimana è chiaramente il mistero del cane di Monica Cirinnà e del marito Esterino Montino, il tesoro da 24mila euro trovato nella cuccia del quadrupede nella villa di Capalbio. A denunciare il ritrovamento del denaro sono stati proprio i due coniugi, che ora si ritengono vittime di un’immeritata gogna mediatica. Ma più ancora del fortunato cane, ad accendere le passioni dei lettori è stato il prezioso aneddoto concesso dalla senatrice Cirinnà al Corriere della Sera. Un concentrato di boria e distacco dalla realtà, diventato virale in un attimo come ritratto definitivo della sinistra all’ultima spiaggia (capalbiese): “Ero già nei pasticci di mio – si lagna Cirinnà – nelle ultime settimane. Nei pochi giorni di ferie, cinque per la precisione, sto facendo la lavandaia, l’ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all’altro. Un pomeriggio mi ha detto, di punto in bianco: ‘Me ne vado perché mi annoio a stare da sola col cane’”. Solidarietà.

 

Venezia Scivola sul frangiflutti e la testa si incastra tra gli scogli: i vigili del fuoco la liberano dopo due ore
A chi non è mai capitato di restare con la testa incastrata tra gli scogli? Al faro di Bibione (Venezia) una squadra di vigili del fuoco ed altri soccorritori è stata impegnata in un intervento di oltre due ore per liberare una ragazza intrappolata tra due grosse pietre sul frangiflutti. Normale, no? “La giovane donna – scrive Il Dolomiti – ha perso l’equilibrio mentre camminava sugli scogli ed è caduta, rimanendo incastrata a testa in giù in mezzo a due massi. I soccorsi, compresi i sommozzatori, trasportati dall’elicottero sul posto, sono stati allertati poco prima delle 14.30 e, viste le circostanze, è stato chiesto l’intervento dei vigili del fuoco. I pompieri arrivati da Lignano Sabbiadoro e Venezia hanno lavorato a lungo, assistiti anche dal personale sanitario del 118, per liberare la donna senza procurarle ulteriori ferite o traumi. Una volta liberata, la ragazza è stata affidata alle cure del 118 e trasportata al pronto soccorso per accertamenti”.

“Io vittima di camorra, lui figlio ribelle del boss: noi salveremo Napoli”

La figlia di una vittima della camorra, candidata a sindaco di Napoli, chiama a capeggiare la sua lista il figlio obiettore di un boss della Torretta, l’enclave criminale di Mergellina.

“Ci accomuna la violenza che abbiamo patìto. Io ho visto morire mamma, Silvia Ruotolo, una donna senza colpa, lui si è ribellato al destino che vuole un figlio di un gangster divenire, per via ereditaria, un gangster”.

Alessandra Clemente e Antonio Piccirillo, trentaquattro anni lei, venticinque lui, sono i figli bellissimi di Napoli. Lei, assessore delle varie giunte di De Magistris, oggi è impegnata in una corsa solitaria per palazzo San Giacomo, il municipio della città. Lui, dopo aver disonorato il padre disconoscendo l’etica criminale, combatte con l’associazione Antigone contro il destino che vorrebbe pregiudicati i figli di pregiudicati.

Alessandra, per dileggiarti dicono che l’unica nota del tuo curriculum è di essere orfana.

Fino a non troppi anni fa provavo vergogna per quel che mi era capitato, la vergogna è sorella della colpa. E quasi incolpavo mia madre di essere caduta sotto i colpi della camorra senza averne titolo, senza una ragione giusta, senza un motivo comprensibile: non era poliziotta, non era magistrato, non era impegnata nella lotta ai clan. Era morta per uno sbaglio, per un proiettile vagante.

Uno dei trenta colpi sparati dalle gang la raggiunse sotto casa, nel quartiere dell’Arenella, mentre rincasava con il tuo fratellino. Avevi dieci anni ed eri affacciata al balcone.

La colpa di essere figlia e testimone di quello scempio, la colpa di essere inseguita dalle parole di compatimento o anche dalle domande insinuanti o solo banalmente malevoli. Una dimensione che mi travolgeva, come se mamma fosse stata imprevidente a trovarsi in quel posto a quell’ora. E la mia colpa di essere rimasta sola, di vivere immersa in un ricordo perpetuo, marmoreo.

La politica ti ha salvata?

Sì. La chiamata in giunta da parte di De Magistris è stato un momento così tramautico e perdutamente elettrizzante, mi ha dato il piacere di guardare al futuro, di costruire il futuro.

Al punto che ora sei candidata a sindaco con un gruppo di liste di sinistra (Potere al popolo, Partito comunista, liste civiche). Sai che non vincerai?

Per vincere devi mostrare di avere il coraggio di perdere. E poi un momento, prego: in consiglio comunale sono entrata con cinquemila preferenze. Poche decine in meno di quelle di Mara Carfagna. Quindi qualcosa si è mosso.

Chiamare a lottare con te, vittima della camorra, il figlio di un boss della camorra non rischia di teatralizzare la dimensione criminale della città?

Mi stai chiedendo se forse mi accuseranno di essere anch’io una di quelli che definiscono “professionisti dell’antimafia”?

Ci può essere questo rischio.

Finora mi hanno accusata di essere orfana. Sai perché non mi offendo, non me la prendo? Perché il mio volto è pulito, le cose che faccio sono trasparenti. Come quella di aver scelto di farmi accompagnare in queste elezioni dal figlio di un boss che ha combattuto a viso aperto la camorra, che è impegnato in progetti di solidarietà. La politica ti fa fare anche bellissime cose.

Per esempio?

Vedere un asilo o un centro per giovani, anche piccolo, anche provvisorio, che sei riuscita a realizzare ti apre il cuore. Amministrare, anche nel caos di una città come questa, mi dà gioia, mi fa sentire utile, mi concede un’esperienza speciale. Un marciapiede, un albero, una gara d’appalto fatta con limpidezza sono risultati meravigliosi. Mica ci sono solo le “stese” dei camorristi a travolgere il senso del bene comune? La corruzione quanto male fa? E quanto bene fa la trasparenza, la sincerità?

Dillo tu.

Anche la gioia, il sorriso. Io sono felice. Punto.

Marocco e Algeria: è la fine di ogni relazione

Il tumultuoso rapporto tra i vicini Stati del Marocco e dell’Algeria ha toccato ancora una volta il fondo, con Algeri che in settimana ha deciso di interrompere le relazioni con Rabat con cui da decenni i rapporti sono tesi.

Una serie di problemi – sia nuovi che vecchi – ha creato un cuneo tra i due Paesi nordafricani, tra cui la disputa di lunga data sul Sahara Occidentale, il rapporto di normalizzazione del Marocco con Israele e le rivelazioni che i servizi segreti marocchini avrebbero spiato i telefoni dei funzionari algerini con “Pegasus”, uno spyware israeliano venduto in decine di Paesi per combattere il terrorismo e utilizzato invece dai governi autocratici per spiare gli oppositori.

“Il regno marocchino non ha mai interrotto le sue azioni ostili contro l’Algeria”, ha accusato il ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, annunciando l’immediata cessazione dei rapporti. “Decisione ingiustificata”, la reazione del Ministero degli Esteri marocchino.

Le relazioni si sono deteriorate nel 2020, quando la questione del Sahara Occidentale è divampata dopo anni di relativa calma. Il Marocco considera proprio il territorio conteso, l’Algeria sostiene da sempre il movimento indipendentista del Polisario, l’Onu aveva anche tentato di organizzare un referendum per l’autodeterminazione. Il Fronte Polisario – dopo un decennio di tregua unilaterale – aveva annunciato lo scorso novembre la ripresa della lotta armata contro l’occupante marocchino. Pochi giorni dopo gli Usa – ancora con Trump alla Casa Bianca – annunciavano il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale in cambio del miglioramento delle relazioni di Rabat con Israele, chiudendo ogni porta alle speranze del popolo sarawi. “Sulla questione del Sahara Occidentale, ha spiegato il capo della diplomazia Lamamra, “l’Algeria manterrà la sua posizione”, cioè continuerà a sostenere il Polisario. La sfiducia tra i due Paesi non ha permesso nemmeno una collaborazione sul fronte del terrorismo islamico, molto attivo in entrambi gli Stati magrebini.

 

La Cina e le mire in Afghanistan: prudenza e pragmatismo

Colpisce il contrasto: da un lato, i paesi occidentali hanno trasferito le proprie ambasciate all’aeroporto di Kabul per coordinare, nel caos, le evacuazioni dei propri cittadini e collaboratori afghani. Dall’altro, la Cina ha mantenuto la sua rappresentanza diplomatica nella capitale afghana, come hanno fatto anche russi e pakistani. L’ambasciatore cinese, Wang Yu, ha inoltre incontrato il suo omologo pakistano, Mansoor Ahmad Khan, per – come ha scritto in un tweet – discutere “della situazione in Afghanistan e della necessità di una stretta collaborazione tra Afghanistan, Cina, Pakistan e la comunità internazionale per uscire dalla crisi”.

In un comunicato del 21 agosto, l’ambasciata cinese ha però anche raccomandato ai cittadini cinesi, per motivi di sicurezza, “di rispettare rigorosamente gli usi e costumi islamici”: “Poiché l’ordine sociale non è ancora stato ristabilito – è scritto nella nota –, bisogna evitare le zone a rischio e prendere tutte le precauzioni necessarie per proteggersi”.

Dalla caduta del governo appoggiato dagli Stati Uniti, e con il ritiro annunciato delle truppe statunitensi, le priorità della Cina sono due: sicurezza e mantenimento di buoni rapporti con i talebani. Pragmatismo e prudenza sono dunque all’ordine del giorno. “La Cina si stava già preparando a un rapido cambiamento della situazione, a giudicare dai messaggi sempre più espliciti inviati dall’ambasciata di Kabul ai cittadini cinesi e dagli incontri dei dirigenti cinesi con i responsabili talebani”, ha osservato Niva Yau, ricercatrice all’accademia dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), che ha sede a Bishkek, in Kirghizistan. A fine luglio il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, aveva incontrato a Tianjin, nel nord della Cina, il cofondatore e numero due dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar. Due giorni prima, nella stessa città, aveva avuto anche una riunione con il vicesegretario di Stato Usa, Wendy Sherman. Pechino mantiene relazioni con tutti gli attori del conflitto afghano. A giugno ha fornito all’Afghanistan 700.000 dosi di vaccino anti-Covid. Sul breve termine, la priorità di Pechino è dunque la sicurezza.

La Cina intende soprattutto mantenere il controllo della sua provincia dello Xinjiang, nel nord-ovest. Qui, la repressione delle minoranze musulmane, in particolare degli uiguri, viene regolarmente denunciata dalle Ong. Alcuni paesi, come gli Stati Uniti, hanno parlato di genocidio. Pechino sostiene che il vicino Afghanistan ospita dei terroristi uiguri, riuniti nel Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim). Secondo l’agenzia Nuova Cina (Xinhua), durante il suo incontro con il mullah Abdul Ghani Baradar, il ministro Wang Yi ha esortato i talebani a “prendere le distanze dall’Etim e dagli altri gruppi terroristici e di reprimerli in modo efficace al fine di creare le condizioni favorevoli alla pace, alla stabilità e allo sviluppo della regione”. Sempre secondo Nuova Cina, Abdul Ghani Baradar ha risposto che “i talebani non avrebbero permesso a nessuno di nuocere alla Cina sul territorio afghano”.

Baradar spera naturalmente che la Cina partecipi alla ricostruzione del suo Paese. Perché i talebani mantengano la promessa fatta, Pechino “farà ancora più affidamento nei prossimi mesi sull’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Ocs)”, osserva Niva Yau. Fondata nel 2001 da Cina, Russia e quattro stati d’Asia centrale – Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan –, raggiunti nel 2017 da India e Pakistan, la Ocs è stata utilizzata da Pechino per porre la lotta al terrorismo uiguro al centro della cooperazione con i paesi d’Asia centrale. “La Ocs si è specializzata nella lotta al terrorismo.

La Cina ha incrementato gli scambi di informazioni sulla sicurezza alle frontiere e la formazione delle guardie di frontiera. Ciò ha permesso di sradicare la presenza di queste minoranze in Asia centrale”, spiega la ricercatrice. Pechino ne approfitta anche per attaccare il suo grande rivale, gli Stati Uniti, accusato di aver provocato il caos in Afghanistan e invitato a tirare la lezione del suo interventismo militare. Il 16 agosto, Nuova Cina vedeva nella caduta di Kabul “una nuova tappa nel declino dell’egemonia americana”.

Sul quotidiano Global Times “abbiamo visto fiorire articoli secondo cui Taiwan farebbe meglio a diffidare degli Stati Uniti, giudicando, alla luce dell’esempio afghano, che la sua sicurezza non sarebbe stata assicurata. Stiamo assistendo a una strumentalizzazione del ritiro americano”, osserva Thierry Kellner, professore di Scienze politiche all’Université libre de Bruxelles (Ulb). Ma, al di là dei grandi discorsi che lusingano il nazionalismo Han – il gruppo etnico maggioritario – e il partito comunista cinese, Pechino baderà a non impegnarsi militarmente, se non in eventuali missioni di pace, e a non investire in modo massiccio fintanto che la situazione non sarà stabilizzata.

La Cina ha imparato la lezione del fallimento americano. Come spiegato al New York Times da Zhou Bo, un ex colonnello dell’Esercito popolare di Liberazione (Pla), oggi ricercatore, “l’Afghanistan è stato a lungo considerato un cimitero dai suoi conquistatori, Alessandro Magno, l’Impero britannico, l’Unione Sovietica e più di recente gli Stati Uniti.

Ora arriva la Cina, armata non di bombe, ma di progetti di costruzione, con l’opportunità di dimostrare che la maledizione può essere spezzata”. A breve termine, la Cina potrà anche stabilire una cooperazione con gli Stati Uniti e l’Europa, dal momento che, secondo Kellner, “l’Afghanistan può diventare un luogo di incontro degli interessi occidentali e cinesi”. A lungo termine, l’Afghanistan, vicino al Pakistan, dove la Cina sta sviluppando il corridoio sino-pakistano che collega lo Xinjiang al mar Arabico, potrebbe rappresentare una pedina importante nella vasta rete di progetti infrastrutturali delle “nuove vie della seta” di Xi Jinping, il numero uno cinese.

“L’Afghanistan è in buona posizione per collegare l’Asia centrale con l’Asia meridionale”, osserva Niva Yau. Ma come altri esperti cinesi, l’economista Mei Xinyu, che dipende dal ministero del Commercio, avverte: “La Cina non deve lasciarsi andare a fantasticherie”. In un testo del 18 agosto, Mei Xinyu raccomanda a Pechino di tenere bene in mente la storia turbolenta del Paese e “la debolezza della sua coesione sociale”, caratterizzata da identità “tribali”, “religiose” e “settarie”. Per non parlare dei “tradimenti, cospirazioni, colpi di stato, guerre civili” che ne minano la stabilità. L’economista cita inoltre le sfide che il paese, “emarginato dal sistema commerciale internazionale dalla fine del XV secolo”, deve affrontare dopo 40 anni di guerra civile. In primo luogo, deve sfamare la sua popolazione, dal momento che, durante i 20 anni della Repubblica islamica d’Afghanistan, “il crescente divario tra la domanda alimentare e la produzione nazionale è stato in gran parte colmato dagli aiuti internazionali, provenienti per lo più dai Paesi occidentali”. I talebani potranno contare sull’appoggio del Pakistan e di certi Stati del Golfo, ma non sarà sufficiente. Anche se l’Afghanistan possiede la miniera di Aynak, uno dei più grandi giacimenti di rame al mondo, controllata dai cinesi dal 2008, l’economista ritiene che non bisogna riporre troppe speranze nelle risorse minerarie del Paese (litio, rame, ferro, oro, ma anche pietre preziose). “Non sono sufficienti per permettere all’Afghanistan di uscire dalla crisi”, sottolinea. E aggiunge: “Dire che l’Afghanistan è una sorta di “crocevia delle civiltà” e che è importante nella costruzione delle “nuove vie della seta” è solo un’illusione. Nel breve termine – conclude –, a condizione che il pagamento e la sicurezza siano garantiti, possiamo rifornire attivamente e regolarmente il mercato afghano di beni di consumo di base, ma i progetti di investimento in attivi materiali fissi, soprattutto su ampia scala, devono essere contenuti”. Anche in questo caso, prudenza e pragmatismo.

 

Raid Usa: uccisi kamikaze. “Morti anche 4 bambini”

Di nuovo a fuoco i cieli di Kabul, ma ieri non si è levata una sola colonna di fumo nero. Neutralizzati due attentatori dell’Isis-k, filiale dello Stato islamico in Afghanistan, da un raid americano che ha colpito il loro veicolo nel quartiere di Khuwja Bughra, a nord-ovest dell’aeroporto. Attaccare è stato “un atto di autodifesa”, ha spiegato Bill Urban, del Comando centrale Usa, allertato dal Pentagono riguardo un nuovo attentato alle piste di volo. “Una significativa seconda esplosione”, ha riferito ancora Urban, è stata registrata dopo la deflagrazione per la “sostanziale presenza di materiale esplosivo” nell’auto dei radicali. Anche Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, ha confermato la versione dell’esercito a stelle e strisce. I missili statunitensi sono partiti dopo un allarme lanciato dall’intelligence Usa: nuovi kamikaze miravano alla strage nel luogo dove hanno perso la vita già 190 persone, ma “il pericolo attentati non è cessato, questo è il momento più pericoloso” ha allertato ancora Washington. Secondo quanto riferito da media locali, e poi confermato dal ministero della Sanità afghano, un razzo avrebbe colpito anche un palazzo nell’undicesimo distretto di Kabul. La polizia afghana ha dato notizia di sei vittime civili, tra cui quattro bambini. I due attacchi sembrano essere distinti, ma nella Capitale divorata dal caos e dalla paura, le dinamiche esatte rimangono ancora da chiarire.

Ritardata la data della definitiva dipartita degli stranieri: sarà possibile, dice un documento pubblicato dai talebani e inviato alla comunità internazionale, anche dopo il 31 agosto.

Quandol’evacuazione sarà conclusa, i talebani diventeranno padroni indiscussi del luogo a cui i civili afghani guardavano come ultima speranza di fuga. Se le truppe occidentali diranno addio all’aeroporto, non lo faranno i soldati turchi, unici musulmani tra gli Stati Nato: le divise di Ankara rimarranno per aiutare nell’operatività degli scali.

Mentre si susseguono risse nei pressi delle banche della Capitale dove i civili si accalcano ai bancomat per ritirare contanti, il nuovo regime rende noto che le università riapriranno anche per le donne, che però studieranno in classi separate, come vuole la sharia.

Nell’Emirato afghano la musica è vietata e la pena per chi la produce è la morte. Nella provincia di Baghlan il cantante folk Fawad Andarabi è stato prelevato e brutalmente ucciso dagli islamisti, denuncia con rabbia l’ex ministro dell’Interno Masoud Andarabi su Twitter. Cala il silenzio, ma non la rabbia per l’omicidio di un uomo che con le sue note “portava solo gioia nelle valli dell’Hindukush”. Delle donne, di cui già non si vedono più i corpi sotto i burqa, non si deve sentire nemmeno più la voce in radio, dicono le nuove autorità. Dall’etere non arriveranno più canzoni, ma solo notizie e versi del Corano.

Ieri a Khandahar, a ridosso della dipartita definitiva dei soldati americani, è arrivato il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, e presto apparirà in pubblico, ha detto il portavoce talib Bilal Karimi. Il 60enne alleato di al Qaeda vive in segreto dal 2016, anno in cui è salito al potere quando il suo predecessore, Akhtar Mohammad Mansour, è stato ucciso da un drone Usa.

Tagliata ogni rete di comunicazione alla regione ribelle del Panjshir, nido dell’Alleanza del Nord anti-talebana guidata da Ahmad Massoud. Che presto i talebani attaccheranno la resistenza per conquistarne il territorio è l’ambasciatore russo Dmitry Zhirnov a dirlo da Kabul.

Sono ormai 300 mila i minori afghani senza casa, denuncia l’Unicef, e che sia “sconcertante il no dell’Europa all’accoglienza” lo ha detto ieri il presidente Sergio Mattarella. Gli afghani rimarranno laggiù quando l’ultimo cargo Usa si leverà in volo dall’aeroporto Karzai e si concluderà una delle più grandi evacuazioni della storia: un esodo aereo che ha già permesso a 117mila persone di lasciare il Paese.

Dopo aver combattuto vent’anni a Kabul, Washington ha deciso di non lasciare nemmeno un americano sul terreno: Anthony Blinken, segretario di Stato, ha confermato nuovamente ieri che non verrà mantenuta la presenza diplomatica Usa sul territorio, nonostante l’invito a restare dei talib. Se l’ambasciata a stelle e strisce riaprirà, verrà deciso in base alle azioni e comportamenti degli islamisti “nelle settimane a venire”. Lasciare da soli i talebani non servirà, ha dichiarato l’uomo in missione per il Cremlino che con loro dialoga ormai da otto anni. Zamir Kabulov, rappresentante speciale del presidente russo per l’Afghanistan, ha riferito che “non sono una minaccia per i Paesi vicini”, ovvero gli Stati ex sovietici alleati di Mosca, e che isolarli “vuol dire solo permettergli di diventare ancora più radicali”.

 

“Non solo stalking: addio arresti anche per spaccio e frodi”

“Non riesco a capire come un problema così macroscopico possa essere sfuggito”. Fabio Roia è presidente vicario del Tribunale di Milano, dove è a capo della sezione Misure di prevenzione. Il problema è che Il quinto quesito del referendum sulla giustizia proposto da Lega e Radicali prevede di abolire le misure cautelari, nonostante il pericolo di reiterazione del reato, nei confronti di persone sospettate di aver compiuto reati che non prevedono la violenza fisica con l’uso di armi o simili. Telefono Rosa e il ministro Mara Carfagna, che è statapromotrice e sua prima firmataria nel 2009, dicono che depotenzia la legge sullo stalking.

“Premetto – dice Roia, esperto di reati di genere e Consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio –: se c’è una volontà referendaria che va in questo senso, i magistrati la rispetteranno. Ma credo sia doveroso avvertire delle conseguenze”.

I promotori dicono di voler limitare gli abusi nell’applicazione della custodia cautelare.

Se il quesito dovesse passare, la si potrebbe disporre qualora vi sia un pericolo di violenza alla persona messa in atto o con armi o con mezzi violenti. Quindi c’è un richiamo solo alla violenza fisica. Ma lo stalking non è basato su quest’ultima. Tanto per restare ai reati di genere, resterebbero fuori tutte le attività, forse la maggior parte, che riguardano la violenza psicologica o morale, tipo le minacce o le molestie che sono una delle caratteristiche fondanti del reato, nonché dei maltrattamenti di familiari e conviventi, nonché le violenze sessuali commesse approfittando dell’incoscienza della persona.

Quando si dà alcol o di droga a una ragazzae si abusa di lei.

È un reato in cui se non ci sono le altre due condizioni – il pericolo di fuga o quello di inquinamento delle prove – le misure restrittive non possono essere più applicate. L’onorevole Carfagna ha fatto bene a puntare l’attenzione sullo stalking, ma non è il solo caso. Le parlo di quello che vediamo tutti i giorni nelle aule di giustizia. Il quesito toglie una delle condizioni più frequentiper l’applicazione di misure limitative della libertà, che non sono solo la custodia in carcere ma anche gli arresti domiciliari. Ma questo ciò per tutta una serie di reati che non comprendono un’aggressione fisica o l’uso di mezzi violenti, ma che sono comunque gravi.

Qualche esempio.

Nel caso dello spacciatore, piccolo o grande, non c’è un rischio di inquinamento probatorio o di fuga. Ciò che mi porta ad applicare una misura – i domiciliari per il primo e il carcere per il secondo – è proprio la reiterazione del reato. Che già oggi la legge mi impone di motivare. Una legge che verrebbe spazzata via dal referendum.

È un tipo di reato con cui la gente è a contatto perché magari cel’ha sul marciapiede sotto casa.

Certo, la custodia serve proprio a impedire che si continui a spacciare e lo spaccio non si realizza attraverso atti violenti contro la persona. Un altro esempio è il furto in abitazione. Se passasse il referendum non potrebbe essere applicata nessuna misura cautelare perché non c’è un pericolo di reiterazione del reato basato sulla violenza, in quanto 9 volte su 10 il furto avviene in assenza dei proprietari. E in questo caso non sussistono i pericoli di fuga né di inquinamento delle prove. E poi arriviamo ai reati di frode fiscale o alle gravi bancarotte fraudolente.

Anche quelli?

Se non c’è un rischio di inquinamento o di fuga, ma solo di reiterazione– abbiamo a che fare con soggetti che hanno sviluppato una professionalità nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti o la costruzione di frodi a carosello – io non posso più dare alcun tipo di misura cautelare.

Sembra di capire che la modifica ricadrebbe sulla sicurezza dei cittadini.

L’effetto del quesito sarebbe devastante per la sicurezza pubblica perché finirebbe per depotenziare moltissimo gli strumenti di controllo. E non vorrei che tutto ciò finisse per essere scaricato sui magistrati.

In che senso?

Le misure cautelari vengono sempre date con estrema prudenza. Nel caso dell’omicidio di Vanessa (26 anni, uccisa ad Aci Trezza la notte del 23 agosto, ndr) una delle accuse che vengono mosse al giudice è di non aver dato all’assassino alcuna misura gravosa. Ecco, noi già oggi nel caso di un piccolo spacciatore non possiamo applicare alcuna misura efficace sul piano del contenimento perché magari costui non ha una casa e, invece del carcere, dobbiamo dargli l’obbligo di firma. Se passasse il quesito non potrei fare neanche più questo. E ciò sarebbe frustrante per le forze di polizia, che arrestano una persona, la portano di fronte al giudice e quello la scarcera. Non voglio fare una difesa della categoria, ma è bene che ognuno si assuma le sue responsabilità. Anche perché dell’aspettativa di sicurezza uno dei promotori di questo referendum ha fatto una battaglia politica.

A proposito, Giulia Bongiorno, che firmò la legge del 2009, ora difende il quesito che la depotenzia. Dice che per applicare le misure basterà che il giudice ravvisi nello stalker una “personalità proclive alla violenza”.

Come al solito ci viene chiesto di fare una forzatura interpretativa. Dovrei dire che chi molesta o fa appostamenti a una ragazza è incline alla violenza fisica. Dovrei, cioè, fare un’interpretazione fantasiosa. La strada indicata dall’onorevole Bongiorno, che pure io stimo per le battaglie fatte in favore delle donne, non mi sembra molto corretta. La custodia cautelare è un’extrema ratio, ma dove ci sono le condizioni deve essere applicata. Altrimenti poi altrimenti piangiamo un sacco di donne ammazzate.

 

Draghi tesse la tela del Colle. “Ma gli servono i giallorosa”

Ne parlano tutti i politici di prima e anche seconda fascia, ovunque. Perché siamo entrati nel semestre bianco, certo, cioè in quei sei mesi in cui le Camere non possono essere sciolte. E poi in agosto il Parlamento è chiuso e allora spesso lì si va a parare, alla partita di medio termine. Ma dietro al rincorrersi di dichiarazioni sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica c’è anche il silenzioso muoversi dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi. Zitto in pubblico, ma cautamente attivo dietro le quinte, e questo i sismografi dei partiti lo hanno percepito. Sanno, o almeno pensano di sapere, che Draghi ci pensa, al cambio di Palazzo. Qualche voce anonima quanto di peso, raccolta tra Pd e M5S, arriva a dire che l’ex presidente della Bce “ci crede”, insomma ci punta. E forse è un po’ troppo.

Però qualcosa c’è, dietro il bel tacere di Draghi. E lo racconta un veterano dem, uno di quelli con antenne potenti: “Fino a qualche settimana fa il premier era inaccessabile ai più, parlava solo con i pesi massimi. Da un po’ di tempo invece sente e qualche volta riceve o fa ricevere dalla sua cerchia leader di partiti e gruppi minori, assieme a parlamentari di medio calibro”. Ascolta e quando può incontra, Draghi. Tiene i rapporti, si mostra disponibile. E sono colloqui in cui parla di tutto tranne che di Quirinale, ovvio. Però preziosi per tenere largo il suo campo di rapporti, che magari un domani potrebbe essere quello da cui attingere i voti per il Colle. “È evidente – continua l’osservatore – che il premier smussa su tutto perché non vuole strappi, e non è solo un tema di maggioranza di governo. Anche perché chi può affondare Draghi?”. Il punto “è il consenso, quello largo, quello che ti serve per il Quirinale”. Comunque da costruire, facendo i conti con una verità evidente: se al Colle andrà l’attuale premier, poi saranno elezioni anticipate. Lo hanno detto dallo stesso palco in Puglia il leghista Giancarlo Giorgetti e il leader dei 5Stelle Giuseppe Conte, con l’avvocato che sabato sera ha inasprito il concetto: “Se diciamo ‘vedo bene Draghi al Quirinale’, rischiamo di destabilizzare questo governo”. Lui, Conte, continua a lanciare segnali in favore di un Mattarella bis (“Il presidente è persona di spessore…”). E figurarsi Enrico Letta, chiaro nel dire che questo governo deve arrivare al 2023. Eppure sono proprio loro, i due leader, l’ago della bilancia. Con un big giallorosa che spiega: “Draghi non può certo fidarsi solo del sostegno di Renzi e Salvini, e magari di Berlusconi. Gli servono numeri più ampi e sopratutto garanzie, affidabilità”. Cioè gli servono i giallorosa, o almeno gran parte dei loro voti. Quindi dovrebbe trattare con Conte. E all’avvocato, nonostante le frasi pro-Mattarella, la prospettiva di un voto anticipato nel 2022 potrebbe piacere, anche per costruire un suo M5S anche e innanzitutto in Parlamento, senza dover aspettare un anno e mezzo: un tempo che può essere lunghissimo, nella politica attuale.

Però poi c’è un enigma di nome Letta: segretario del Pd, quindi strutturalmente esposto a tempeste. L’altro uomo che dovrebbe portare voti a Draghi a ottobre si gioca già tutto, non solo nelle amministrative, ma anche nel collegio di Siena e Arezzo per la Camera. Partitaccia, su cui pesa moltissimo il futuro incerto del Monte dei Paschi. E un po’ anche il giocare ovviamente d’ambiguità dei renziani di Iv, che ufficialmente appoggiano Letta, ma nei fatti vai a fidarti. In questo scenario, il Letta che ormai sta quasi sempre a Siena e dintorni ha pensato di presentare un simbolo per le Suppletive dove non c’è traccia dello stemma del Pd. “È per privilegiare l’allargamento e lo spirito della coalizione” ha teorizzato ieri. Niente simboli, solo la scritta Per Enrico Letta su sfondo rosso. E naturalmente lì fuori c’è il primo nemico, Matteo Salvini, che gli cerca il collo: “La sinistra che ha distrutto Mps per la vergogna si presenza senza simbolo”. Di certo dalle urne di Siena passa insomma anche un pezzo della partita per il Colle, perché lo stesso Letta ha ammesso ciò che è innegabile: “Se perdo vado a casa”.

Lo sa bene il capo della Lega, che promette campagna di guerra in Toscana. E lo sa anche Giorgia Meloni, ad oggi la più forte nel centrodestra, che di Colle non parla quasi mai, e che voleva e vorrebbe un candidato unitario di centrodestra. Ma il nome va trovato, e la candidatura di Berlusconi di cui ogni tanto vagheggia Salvini è quel che è, un temporeggiare. Così per ora sul tavolo ci sono solo Draghi e Mattarella, che giura di non voler restare ma che tutti danno comunque per favorito. Però anche qui c’è la postilla, perché se l’attuale inquilino dovesse trattenersi al Quirinale, difficilmente potrebbe essere un bis a tempo. Tradotto meglio, “Mattarella a quel punto dovrebbe restare per altri sette anni” è la lettura diffusa. Un’altra variabile, nella scacchiera.

Ma mi faccia

Foie Gras. “Le foibe e il rettore di lotta e di governo. Il doppio ruolo di Tomaso Montanari” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 29.8). Lui invece è di lecca e di governo.

Esame tossicologico. “Il Pd è un marchio tossico, al quale nessuno si iscriverebbe” (Mattia Santori, leader della Sardine, Repubblica, 8.3). “Mi candido a Bologna nella lista del Pd per dargli la sveglia. Ma tutti vanno in giro a raccontare che a candidarsi è il leader di un movimento politico, che a scendere in campo è ‘quello delle sardine’. Invece devo deludervi, perché a candidarsi sono io” (Mattia Santori, 24.8). Ah beh allora.

Le truppe camelote. “Casaleggio e lo statuto che lancia Camelot: “Una Srl per l’umanità” (Stampa, 24.8). E le altre galassie, niente?

Calenda l’Educanda. “Opterei per la pedata nelle chiappe (metaforica)” (Carlo Calenda su Mattia Santori, 22.8). “Gualtieri? Il consociativismo romano alla Bettini. Con lui sta il Pd peggiore di sempre… La Raggi? Il nulla no-vax… Michetti? La commedia di Alberto Sordi… Calenda? Vinco al primo turno… Pensano che Roma sia un ‘puttanaio’ in cui puoi fare quello che vuoi. Cinismo politico fuori scala… Alla festa del Fatto ho deciso di non andarci nemmeno io. Non voglio in alcun modo legittimare quel giornalismo fondato sugli insulti, le insinuazioni e gli sputacchiamenti” (Calenda, Foglio, 26.8). Gelosone.

Piccoli Giuseppi crescono. “Conte ‘avvocato dei talebani’ mette in imbarazzo Draghi” (Giornale, 26.8). “I nostri ‘Italibani’ vogliono un dialogo serrato’ solo coi terroristi afghani” (Francesco Merlo, Repubblica, 27.8). “Più ‘morbidi’ e pragmatici: con i Talebani si può parlare” (Alessandro Orsini, Messaggero, 23.8). “Bisognerà trattare coi talebani? È ovvio” (Lucio Caracciolo, Riformista, 24.8). “Il capo della Cia va a trattare a Kabul: Burns e Baradar si sono accordati sui tempi” (Corriere della sera, 25.8). “Da Macron a Merkel: ‘Dialogare coi talebani’” (Giornale, 29.8). Ammazza quanti Conte in giro per il mondo.

Trust di cervelli. “Michetti lo conosco da tempo e l’ho rivisto in campagna elettorale. Ci siamo confrontati, con noi c’era anche Vittorio Sgarbi e ho accettato di dare un contributo per las parte di mia competenza, la visione artistica della vita. Io assessore alla Cultura? Vedremo” (Pippo Franco, Corriere della sera, 29.8). Con quel Bagaglino culturale, può fare ciò che vuole.

La Lega ce l’ha Durigon. “Non sono fascista” (Claudio Durigon, Lega, lettera di dimissioni da sottosegretario, 26.8). È che mi dipingono così.

Non è stato SuperMario. “Nel faccia a faccia a Palazzo Chigi fra Draghi e Salvini non si è parlato del caso Durigon” (Repubblica, 24.8). Quindi Durigon s’è dimesso per telepatia.

È stato SuperMario. ”Il sottosegretario, isolato, difficilmente potrà restare al suo posto dopo la richiesta di Draghi” (Repubblica, 26.8). Quindi nel faccia a faccia con Salvini si era parlato del caso Durigon: ora che questo se n’è andato, si può dire.

La factotum. “Sto facendo l’ortolana, la lavandaia e la cuoca” (Monica Cirinnà, Pd, Corriere della sera, 26.8). Almeno non fa danni come senatrice.

Colpa di Virginia. “Città in tilt alla prima (sic, ndr) pioggia. D e destra incolpano la Raggi” (Repubblica, 25.8). Piove, sindaca ladra.

Chi tifa chi. “Avendo tifato, dopo qualche tentennamento, per gli americani vittoriosi a Kabul, Travaglio ha dovuto prendere atto che più o meno da quel momento le cose sono andate come sono andate… Marco il Grande Portasfiga” (Andrea Marcenaro, Foglio, 26.8). Purtroppo Travaglio non ha mai tifato per gli americani vittoriosi a Kabul: Marcenaro lo confonde con Marcenaro e con tutti gli altri del Foglio, noti portafortuna.

Mejo der New York Times. “Nicola Morra dice che abbiamo pochi lettori. Ne abbiamo 150 mila al giorno” (Piero Sansonetti, Riformista, 24.8). Posto che, bilanci alla mano, dalle vendite incassa 585 euro in media al giorno, vuol dire che li paga a uno a uno perchè se lo comprino. Ovviamente in nero.

I titoli della settimana/1. “Da M5S a ‘PdF, il partito del Fatto. Il quotidiano di Travaglio detta la linea a Conte. E a Milano impone pure i candidati” (Giornale, 23.8). Uahahahahah.

I titoli della settimana/2. “Chissà se il M5S direbbe su Lady Fatto (Layla Pavone, manager, ex Cda di Seif, ora candidata M5S, ndr) quel che disse di Cerno e Mulé” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 24.8). Qualcuno informi il ragioniere che Cerno e Mulé sono giornalisti, la Pavone no.

I titoli della settimana/3. “Il ritorno dei kamikaze dello Stato Islamico (Isis)” (Maurizio Molinari, Repubblica, 27.8). “Torna l’incubo Isis” (Giornale, 26.8). Forse gli strateghi Sambuca e Minzolingua non sanno che, prima della “liberazione” americana dell’Afghanistan, l’Isis non esisteva, mentre dopo ha fatto 250 attentati.

I titoli della settimana/4. “Femminicidi, Italia sotto la media europea” (Libero, 29.8). I soliti sfaticati.

Arminio: il paesologo che rivoluziona la poesia

Da maggio fa la spola tra il Nord e il Sud Franco Arminio, il “paesologo” e poeta campano di Bisaccia, in Irpinia d’Oriente. È riuscito a rivoluzionare il mondo della poesia (5 libri pubblicati e 300 mila follower sul web) portandola nelle piazze e assaporando il gusto di vederle gremite e di poterle esibire agli scettici – che continuano a sostenere che i versi non abbiano pubblico – come un gran bel miracolo. Da quando c’è il Covid sono meno affollate del solito, ma sempre frequentate. La sua attitudine a incontrare il popolo ricorda La gran alegría del poeta cileno Pablo Neruda: “Non scrivo perché altri libri mi imprigionino/né per accaniti apprendisti di giglio,/bensì per semplici abitanti che chiedono/acqua e luna, elementi dell’ordine immutabile,/scuole, pane e vino, chitarre e arnesi”. Il suo “grand tour 2021” conta all’attivo più di un centinaio di tappe e andrà avanti fino alla fine di settembre. “La mia fissazione è che la poesia può essere popolare”, racconta. Quelli che realizza non sono dei reading, sono piuttosto – dice – degli happening, che sulla scorta della tradizione avanguardista novecentesca si caratterizzano per l’improvvisazione e per la partecipazione del pubblico. Considera i suoi eventi come “l’incontro con i generosi”, con i quali condivide il suo sapere da “paesologo” – vocabolo da lui stesso coniato – e la passione per il ragionare in versi, che dona ai presenti coinvolgendoli in traduzioni simultanee nei vari dialetti locali. Del resto la “paesologia” per lui è proprio questo: una battaglia titanica per preservare la bellezza culturale e paesaggistica dei borghi a dispetto del costante spopolamento. Ai paesi Arminio ha dedicato anche il suo ultimo libro, edito da Bompiani, Lettera a chi non c’era – Parole dalle terre mosse: “Ora hanno un respiro rassegnato/questi paesi./Non sono più luoghi del sangue,/non ci sono più alberi e angoli segreti,/e non c’è più una morte che sia solenne,/sembrano morire come foglie,/come semplici conseguenze/di un affanno”. “I terremoti come il Covid – spiega – possono insegnarci a fare buon uso della sventura. Sono amareggiato, perché siamo ancora nella sventura ma non stiamo tenendo vivo il discorso etico e politico che c’era quando la pandemia è iniziata. Dobbiamo cambiare il mondo”. Per farlo ha scelto di girare l’Italia, mentre prepara la sua prossima raccolta, in uscita a gennaio per Einaudi, Studi sull’amore.

Amendola. C’era una volta Ferruccio

Basta chiudere gli occhi, a volte non serve neanche vedere la registrazione. Certe frasi, certe intonazioni sono nella storia del cinema, galleggiano nella nostra testa, vivono autonomamente; superano il significato e diventano significante. Il “no” di Al Pacino alla fine del Padrino, la vocina stridula di Hoffman in Tootsie, i tempi di De Niro in C’era una volta in America hanno tutti in comune un “grazie”.

Un grazie a Ferruccio Amendola.

Il 3 settembre di vent’anni fa moriva il più grande tra i doppiatori e c’è un’immagine, questa volta sì, per raccontare come lo stesso De Niro giudicava la sua voce italiana: anno 1991, Telegatti, sul palco sale l’attore statunitense e dopo di lui Ferruccio Amendola. Amendola si posiziona un passo dietro, come a dire non sono io il protagonista. De Niro quel passo lo annulla.

In platea c’era Claudio Amendola e gli occhi estasiati sono quelli di un figlio orgoglioso: “È stato un momento di gratificazione, il riconoscimento che papà ha sempre avuto dal pubblico, dal lavoro, dal successo; ma trovarsi lì, insieme all’attore che preferiva, a sua volta rispettoso con lui, mi ha emozionato. Sapevo cosa voleva dire”.

C’era un rapporto tra De Niro e suo padre?

Pochissime occasioni: credo l’abbia incontrato solo una volta, così come con Stallone; (ci pensa) oggi dal doppiaggio c’è una gratificazione maggiore, anche grazie ai cartoni che danno visibilità alla voce, ma un tempo tutto finiva con la sala. Quella generazione di grandi doppiatori non ha ricevuto indietro quanto ha dato agli attori statunitensi.

Cioè?

Spesso avevano e hanno delle voci stridule, scollate dalla loro fisicità; mentre i nostri doppiatori, i colleghi di papà, i miei zii…

Zii?

Per me erano tutti parenti: il sabato sera si ritrovavano a casa nostra e noi figli stavamo insieme: sei, sette uomini non bellissimi, ma con delle voci meravigliose.

Luca Ward racconta: “Al bar fermavano Ferruccio per fargli dire ‘Sei solo chiacchiere e distintivo’”.

Quando era con me siamo andati oltre, ed era un continuo (sorride); un caro amico, ai tempi del liceo, mi ha rotto le palle per mesi e mesi, solo per farsi mandare a quel paese da papà.

Ci è riuscito?

Una sera, sfinito, gli chiedo il favore: prendo la cornetta, compongo il numero e passo il telefono a mio padre. E a quel punto inizia (voce profonda, tempi perfetti): “Vaffanculo, fanculo, vaffanculo”

L’apoteosi.

Il mio amico impazzito di gioia; (ora ride) aggiungo tutti quelli che gli chiedevano di incidere il messaggio della segreteria telefonica. (pausa) Anche io, poi mi sono vergognato e l’ho cancellato.

Come cancellato?

Non ho un buon rapporto con i cimeli, non amo neanche le foto: sono un attore e mi vedo là e pure papà lo vedo e lo sento là (intende sullo schermo).

Suo padre che attore era?

Bravo e dotato di rigore e abnegazione, quella che oggi definiamo professionalità; per lui il lavoro era l’aspetto più serio della vita, più serio della famiglia e forse perché era parte di quella generazione uscita dalla guerra, che aveva conosciuto la fame e attraverso l’impegno aveva calmato i crampi dello stomaco.

Torniamo a lui attore.

Come dicevo, bravo. Ma con un viso da caratterista in un momento in cui il cinema era per i belli, per i Cary Grant o i Marcello Mastroianni; e poi possedeva una voce considerata sgraziata, quindi i suoi ruoli erano quasi sempre da sfigato e pure nel doppiaggio gli assegnavano le parti da “apri porta”, tipo: “È arrivata la marchesa, l’aspetta di là” o “buongiorno” e “buonasera”. A quel tempo ai protagonisti era richiesta una sonorità pulita con la dizione perfetta.

Mentre Ferruccio Amendola…

Coltivava l’Armageddon della recitazione e del doppiaggio; (pausa) ha divelto la tradizione e le abitudini ed è stato straordinario nel capire il valore del suo strumento. Con lui non si parla di gola, ma di strumento.

È una dote.

È stato un attore bambino, è nato in palcoscenico.

Non è una metafora.

No, è di Torino perché mia nonna era lì per una tournée e lo hanno chiamato Ferruccio perché l’impresario promise un regalo se gli avessero dato il suo nome.

Il regalo è arrivato?

Macché! E di questo in famiglia si è riso molto; però era un predestinato: a casa nostra tutti erano attori, registi, sceneggiatori o teatranti, e questa tradizione risale a generazioni e generazioni, quando ancora si recitava in piedi sulle botti di legno; ogni tanto vedo dei film dove appare mia zia Gina Amendola: è una delle tre suore ne I soliti ignoti.

Quindi suo padre…

A 17 anni è stato costretto a scegliere: o la carriera da calciatore o quella d’attore; era una grandissima mezz’ala sinistra.

Ci ha giocato insieme?

Eccome, fino a 65 anni mi fregava con dei tunnel (passare la palla tra le gambe).

Insomma, la scelta.

Dentro casa gli indicarono la strada: “Ferrù, ma ‘ndo vai, qui c’è la tournée, la famiglia e poi parti con Walter Chiari”.

Le raccontava la sua vita?

Soprattutto i ricordi di guerra, della fame, insomma della sua gioventù.

Come mai?

Era una forma d’insegnamento, e poi per soddisfare la mia curiosità: quel periodo mi è sempre interessato; (silenzio) non parlava volentieri di politica: era certamente di sinistra, ma riservato, anche con me. E non approvava il mio schierarmi.

Anche su quel palco con De Niro, un passo indietro.

Era riservatissimo, al limite del chiuso, con gran senso del pudore. Poi nel suo ambiente diventava maschio alfa.

Il doppiaggio aiuta a celare.

Toglie la parte dell’esposizione, l’obbligo a diventare personaggio, ma con il passare del tempo quella parte aveva imparato a gestirla. Ricordo dei siparietti molto divertenti con Maurizio al Costanzo Show negli ultimi anni, grazie alle serie televisive, il successo di Ferruccio-volto lo ha gratificato.

Suo padre ha rivelato: “La mia voce la devo a 40 sigarette al giorno, al tennis e a non asciugarmi dopo la doccia”.

È vero, e non solo i capelli: non utilizzava proprio l’asciugamano, si vestiva mentre ancora gocciolava; (pausa) le sigarette lo hanno aiutato, poi però l’hanno ucciso; (altra pausa) era un accanito fumatore ed è l’unico aspetto che gli rimprovero, perché lo sono diventato pure io.

Inevitabile…

Sono sempre stato seduto all’angolo del tavolo dove giocava a carte, o nelle salette dei circoli del tennis, o al cinema quando la sigaretta non era proibita. E si fumava, fumava…

Non ha mai smesso.

Sì, nel giorno in cui è morta sua madre: ma aveva 59 anni ed era troppo tardi.

Suo padre lo hanno accusato di doppiare troppi personaggi.

Lo chiamavano, era il più bravo; comunque li differenziava, come un musicista toccava diversi tasti dello strumento e li conoscevo sulla mia pelle.

Tradotto?

A seconda della cazzata che avevo combinato, mi sgridava con la voce di Hoffman o di De Niro; se la cazzata era veramente grossa allora riconoscevo Stallone.

Riusciva a restare serio?

Trattenermi dal ridere era l’aspetto più complicato.

Tomas Milian ha sostenuto che lei e suo padre non lo sopportavate.

(Pausa, è stupito e dispiaciuto) Ma perché? È vero? Non lo sapevo, sono basito. Papà era grato e innamorato di Tomas, si divertiva tantissimo, e poi con lui ha guadagnato infinitamente di più rispetto alle pellicole con gli attori statunitensi.

Lei ha dichiarato che di suo padre ama i western.

Perché dirigeva il doppiaggio di quasi tutti i film con Bud Spencer e Terence Hill, ed erano suoi gli effetti delle risse. Da solo. Quindi li riconosco sempre. E non sono semplici: c’è dietro un difficilissimo lavoro di apnea.

E torniamo al concetto di strumento…

Quando ho girato Soldati di Marco Risi, in una scena scappo dalla caserma e corro sotto la pioggia: quegli attimi andavano doppiati. Così entro in sala, inizio, e poco dopo svengo per iperventilazione. Alla fine è arrivato papà e ci ha pensato lui.

Qual è il film che ama più di suo padre come attore?

La grande guerra, ma solo perché è in assoluto uno dei miei preferiti.

Come doppiatore?

(Silenzio) Porca miseria, è complicatissimo. Credo Il Padrino: lì è stato grande, e per quel “no” finale alla moglie ha ricevuto centinaia di lettere; oppure i monologhi di Al Pacino in Giustizia per tutti, o De Niro quando dice “un colpo solo, un colpo solo” ne Il cacciatore; (riflette) aggiungo Hoffman in Tootsie.

Tootsie con quella vocina…

Ricordo che aveva già chiuso tre turni di doppiaggio, poi una sera torna a casa e lo vedo strano: “Non sono contento, ho sbagliato”. Il giorno dopo ha ricominciato da capo.

Perfezionista.

Era realmente un lavoratore serio e con i colleghi è stato terribile: ho assistito a cazziate e urla solo se uno dei giovani era arrivato con cinque minuti di ritardo, o se tra un turno e l’altro vedeva poca serietà. Poteva cacciarli. Per questo stava sulle palle a tanti: con lui non ne passava mezza. E aveva ragione: non è un mestiere per tutti.

Non ha citato C’era una volta in America.

Alt. È il mio film preferito e papà mette i brividi quando cambia voce e diventa anziano. “Sono andato a letto presto” è una di quelle frasi che gli ho chiesto di ripetere un milione di volte. Magari lo chiamavo al telefono: “Che hai fatto ieri, papà?” “No, basta! Che palle!” “E dai… che hai fatto?” “Sono andato a letto presto” “Grazie, ciao”.

Quando è morto cosa l’ha stupita?

La folla fuori dalla chiesa; lì ho pensato: “Mamma mia Ferruccio, cosa hai combinato”. Eppure lo sapevo, perché già da anni mi fermavano e ogni volta mi ripetevano lo stesso concetto: “Sei bravo, molto bravo, però tu padre…”

E…

Questa frase spero non finisca mai, mi accompagna da sempre e lo dico pure io: perché papà era superbo, un genio del nostro mestiere. E sono tanto orgoglioso di lui.