Tradurre Woody Allen? Sembravo un fisico atomico

Lei era atea e io agnostico. Non sapevamo in quale religione non educare i nostri figli.

(Woody Allen)

 

LA TRADUZIONE INTERLINGUISTICA DELLE GAG

Ciò che viene tradotto di una gag linguistica, da una lingua a un’altra, non è tanto la stringa di parole, ma uno specifico effetto divertente, che il traduttore deve saper ricreare: tradurre a senso non basta, poiché l’efficacia dell’effetto divertente dipende dalla tecnica della gag. La traduzione della comicità è resa difficile dalla diversità dei fonemi e dei ritmi, così importanti per far scattare la risata; e dalla diversità dei sememi, che non si sovrappongono esattamente fra parole di lingue diverse. Per tradurre la comicità, devi ricrearla. Lo stesso vale per l’effetto poetico. La versione italiana di una lirica di Saffo fatta da Quasimodo non è più la medesima lirica di Saffo: l’effetto poetico in italiano è stato creato da Quasimodo, ed è il prodotto di tutte le scelte linguistiche da lui operate in ogni punto della traduzione. Le due liriche, quella di Saffo e quella di Quasimodo, adesso sono come due pianeti che ruotano attorno allo stesso sole: fanno parte dello stesso sistema poetico. Una traduzione interlinguistica cerca di arrivare all’equivalenza pragmatica rispettando il più possibile i nessi logici e/o psicologici del testo di partenza, ma in una traduzione è impossibile non creare alcun effetto nuovo, non fosse che per la diversità dei contesti; lo dimostrano le traduzioni del 1860 e del 1960 di uno stesso classico. “La traduzione, infatti, cambia tutto, in termini di linguaggio: sostituisce ogni suono, ogni sillaba. Dovrebbe mantenere il senso, certo, ma come ben si capisce, cambiando il sistema linguistico, è altissimo il rischio di dire proprio un’altra cosa quando si voleva dire quasi la stessa.” (Terrinoni, 2020).

Si tratta invece di transcreazione (Caimotto, 2014) quando il traduttore modifica volontariamente nel testo di arrivo i nessi logici e/o psicologici del testo di partenza: vuole dire un’altra cosa (correndo il rischio di dire la stessa), o altre cose oltre a quella.

Le traduzioni anni 70 delle prime tre raccolte di racconti di Woody Allen furono rovinate da un progetto traduttivo infelice, che mirava probabilmente ad avvicinare il lettore italiano medio, ancora fermo a Bramieri, a quella comicità moderna, insolita, fantasiosa e disinibita. Così, i quattro procedimenti metabolici (aggiunzione, sottrazione, sostituzione e permutazione) vennero impiegati per addomesticare Woody Allen fino al ridicolo (Shea Stadium diventa San Siro) e allo scempio (i traduttori sbagliano, modificano, e arrivano a sostituire le gag di Allen con giochi di parole insulsi). Anni fa restaurai tutto. Leggendo l’edizione americana, avevo scoperto che le versioni italiane, oltre a essere zeppe di rimaneggiamenti, invenzioni ed errori, erano lacunose (mancavano due interi racconti, Origine dello slang e Memorie del sovrappeso; e una quarantina di battute dagli altri pezzi). Ristabilii l’ordine originario dei racconti, e cercai di ridare alle battute il loro smalto: reintegrai la punteggiatura, il ritmo, l’ordine delle frasi, e i termini specifici al posto di quelli generici; replicai certi suoni-chiave; corressi gli errori; colmai le lacune (le battute inspiegabilmente omesse, le parole cassate a capocchia, i due racconti esclusi); tolsi le aggiunte e i parti di fantasia.

COMICITÀ: LE QUATTRO LEGGI NASCOSTE

Quel lavoro di traduzione mi mise nella condizione meravigliosa del fisico atomico che, studiando le lastre di collisione fra particelle, dalla catastrofe ricava le leggi che regolano a livello invisibile la struttura e il funzionamento della materia. Dalla catastrofe di quelle traduzioni emergevano le leggi nascoste che regolano la struttura e il funzionamento della materia comica: dovrebbero guidare anche il traduttore di testi comici. Prendiamo a esempio una traduzione che fu completamente sbagliata: “Stava lavorando a un ennesimo libro sull’Olocausto. Questo, con dei tagli.” Questa frase non fa ridere, perché è una frase neutra: la traduzione errata ha eliminato l’allotopia divertente (Qc #56).

Mascheramento, rivelazione

Freud (1905) contrapponeva l’indovinello (in cui la tecnica è nota, il significato è nascosto) alla battuta di spirito (in cui il significato è noto, nascosta è la tecnica): “La persona spiritosa non fa che percorrere il margine sottile che divide il mascheramento dalla rivelazione.” L’enigma è minaccioso (ainòs = terribile). Edipo, liberando Tebe dall’incubo della Sfinge, sostituisce al nulla minaccioso la familiarità del mondo noto. Si ride per una vittoria di questo tipo: una gag evoca per gioco il caos che turbò la comunità, da cui oggi la comunità si salva uccidendo per gioco, con una risata, il buffone-capro espiatorio (Qc #2). Come ogni simbolo, anche quello della maschera partecipa di una doppia polarità (Qc #66): da una parte, la rivelazione della gag è una maschera ulteriore (ri-velazione: il segreto arcaico resta nascosto); dall’altra, la maschera svela. Fra i clown c’era l’usanza di circondare il nuovo clown che si truccava per la prima volta: celebravano la sua rinascita come Bianco o Augusto, lo svelamento del suo sé.

1. ESATTEZZA

L’astuzia del creatore di gag consiste nel mascherarne il significato, in modo che si rida allo svelamento, alla soluzione felice dell’indovinello. Vediamo qual era la battuta originaria di Allen: “Infine, ancora un altro libro sull’Olocausto. Questo con figure da ritagliare.” Adesso che l’immagine evocata è a fuoco, l’allotopia funziona: un libro sull’Olocausto con figure da ritagliare. È una gag comica, con una sfumatura cinica: si ride. L’esattezza è la prima legge nascosta della comicità. Spiegava Mack Sennet (produttore delle comiche di Chaplin, Keaton e Langdon): “Quando il pubblico è confuso, non ride.” Forse la confusione non fa ridere? Sì, ma la sua espressione dev’essere esatta, come fanno Stanlio & Ollio nella guerra delle torte in faccia (bit.ly/3jc4WSn), i fratelli Marx nella scena della cabina affollata (bit.ly/3mAgctA), e Billy Wilder nella scena della cuccetta in A qualcuno piace caldo (bit.ly/3yi0aGY): per accumulo di elementi discreti, in crescendo, fino al parossismo finale, con nitida gag di chiusura. Un maestro della confusione esatta era Jacovitti: disse che le sue tavole panoramiche si ispiravano a quelle di Albert Dubout; ma per ottenere effetti tanto prodigiosi, ispirati o no, occorrono doti che bisogna solo ammirare.

(70. Continua)

 

Il Pd e l’ingrato Bonomi: “Critica, ma alle imprese finiti 115 miliardi…”

L’uscita dell-ex tesoriere del Pd, Antonio Misiani, sul mare di soldi pubblici arrivati a Confindustria in questi due anni ricorda un po’ il Francesco Rutelli che Corrado Guzzanti interpretava nella trasmissione L’Ottavo Nano del 2001, proprio durante la campagna elettorale per le Politiche di quell’anno: “Ma che c’hai Berluscò? So’ cinque anni che te portamo l’acqua co l’orecchie: ma che ce volevi la scorza de limone? Quanta ingratitudine…”. Ecco, il senatore dem e il suo partito non hanno più il problema dell’irriconoscenza dell’ex Cavaliere, ma di quella del presidente degli industriali Carlo Bonomi.

Tutto nasce perché, dopo alcune settimane di calma, il numero 1 di Confindustria – che tra i suoi iscritti non è proprio ai vertici del gradimento – ha ripreso a fare il cumenda sui palchi di mezza Italia, prendendosela alternativamente coi fannulloni e la politica, o meglio con quel pezzo di governo che ogni tanto prova a mettere un argine, spesso puramente di facciata, al laissez-faire che è l’unico orizzonte ideologico del nostro. Ora i suoi obiettivi sono il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) e la viceministra dello Sviluppo Alessandra Todde (M5S), promotori di un’innocua legge contro lo spostamento all’estero delle produzioni italiane (aka delocalizzazioni). Il Fatto ha già scritto sia del futuro decreto che delle fatwa di Bonomi, ma venerdì sera Misiani – compagno di corrente dem di Orlando – ha introdotto una decisa novità nel dibattito, spiegando non solo che gli ultimi due governi hanno favorito le imprese, ma che tutti ne sono perfettamente consapevoli: “In due anni i governi Conte-bis e Draghi hanno stanziato per le imprese 115 miliardi tra aiuti diretti, sgravi fiscali e misure di settore. Altri 32 miliardi sono stati destinati agli ammortizzatori sociali e a misure di decontribuzione. Le imprese hanno inoltre usufruito di 216 miliardi di crediti erogati con garanzia dello Stato”. Da Bonomi, “che lamenta una presunta ‘propaganda anti-impresa’, ci piacerebbe ascoltare ogni tanto il riconoscimento del valore e dell’efficacia di queste scelte”. A’ Bonò, t’avemo portato l’acqua co l’orecchie, che ce volevi la scorza de limone?

Primo sciopero anti-Stellantis: “Portano il lavoro in Polonia”

Per il momento si tratta di indizi, ma quegli indizi lasciano intravvedere il rischio che venga delocalizzata in Polonia una parte della produzione di veicoli commerciali Fiat, oggi costruiti alla Sevel di Atessa, in Abruzzo, in cui è stato indetto il primo stato di agitazione da quando la Fca è stata, di fatto, venduta ai francesi di Psa. Varie circostanze preoccupano i sindacati e come al solito quando si parla di Fca – a maggior ragione da quando si chiama Stellantis – i timori restano tali a lungo perché si fa una gran fatica a convincere il governo ad aprire tavoli con la proprietà.

I fatti chiari finora. Nella fabbrica in provincia di Chieti è stato deciso uno stop alla produzione, motivato da un problema di approvvigionamento di componenti. Ci sono però una serie di circostanze che fanno riflettere chi segue da vicino la questione. L’avvio della produzione di veicoli identici nello stabilimento polacco di Gliwice, inizialmente previsto per aprile 2022, è stato anticipato di due mesi, quindi vedrà il via già a febbraio. Nel frattempo, denunciano i sindacati, dall’Italia stanno partendo intere fiancate del furgone alla volta della Polonia.

L’impressione è che, al netto dell’oggettiva difficoltà nelle forniture, si stia iniziando a tirare il freno. Almeno a giudicare dai numeri, non c’è da stare troppo sereni: oggi da Atessa vengono fuori circa 300 mila furgoni all’anno; alle imprese fornitrici, ha fatto notare la Fiom, non è stato chiesto un aumento di componenti sebbene una parte di esse – per poco meno di 50 mila veicoli – viaggi verso la Polonia. Applicando la semplice matematica, all’orizzonte pare poterci essere un taglio, ma naturalmente – in assenza di dichiarazioni ufficiali di Stellantis – bisogna restare nell’ambito delle ipotesi da maneggiare con cautela.

Al timore di delocalizzazione che ormai si respira nel paese abruzzese si aggiunge la situazione dei lavoratori precari, quelli che Fca “affitta” dalle agenzie di somministrazione. Qui i calcoli sono della Fim Cisl: oggi abbiamo 700 interinali a fronte di 5.670 a tempo indeterminato; nel 2016, a parità di produzione, i permanenti erano 6.059. Con il tempo, il personale stabile si è assottigliato e oggi Stellantis non dà risposte sulla richiesta di stabilizzazione dei precari. Il sospetto, dunque, è che la sforbiciata parta proprio da questa operazione, cioè dal non rinnovo dei tempi determinati. La Fim e la Uilm – firmatarie del contratto aziendale – hanno annunciato uno sciopero. La Fiom si augura di poterlo fare in modo unitario, cercando prima un’interlocuzione con Stellantis sui piani per il sito abruzzese.

Il paradosso è che tutto questo avviene in uno dei migliori stabilimenti del gruppo, quello che – a differenza dei vari Grugliasco, Cassino e Pomigliano – non ha conosciuto cassa integrazione negli ultimi anni se non per le fermate dettate dal Covid: “Mentre altre fabbriche erano in ammortizzatori sociali – ricorda Michele De Palma, responsabile automotive della Fiom Cgil – qui si facevano straordinari. Il veicolo commerciale leggero è la pietra miliare dell’azienda, su quella è leader in Europa. Lo stabilimento di Atessa non è a rischio, ma la nascita di un polo in Polonia mette in discussione le possibilità di crescita che ci sarebbero”.

Insomma, se già dove le cose vanno bene si presenta quantomeno il pericolo di una delocalizzazione, figuriamoci che timori potranno sorgere quando si discuterà dei siti che finora si sono retti sulla cassa integrazione: “Ma che può pensare una proprietà straniera se vede che un governo non ti convoca, se vede che a un governo non importa di salvaguardare l’automotive in Italia? – si chiede De Palma – La Confindustria, poi, anziché prendersela con il decreto anti-delocalizzazioni, dovrebbe muoversi per evitarle”.

Anche sulla Sevel, quindi, ci si aspetta un chiarimento sui piani futuri di Stellantis. “Il furgone attualmente prodotto ha già 17 anni di vita – ricorda Alfredo Fegatelli della Fiom di Chieti – e subisce restyling volta per volta. Ora ci chiediamo dove verrà realizzato il nuovo furgone che avrà un pianale diverso e comporterà la modifica di tutti gli impianti. A Gliwice hanno la Zona economica speciale e le aziende beneficiano di agevolazioni fiscali. Sta nascendo un polo come il nostro, con la grande azienda che fa i veicoli e l’indotto intorno che produce componenti”.

In generale, gli effetti della fusione tra Psa e Fca sono sempre più un’incognita: l’unica certezza è che andranno a favore dei francesi. L’amministratore delegato Carlos Tavares, che proviene appunto da Psa, ha detto a marzo ai sindacati che in Italia c’è un problema di alti costi di produzione. A Melfi è previsto il passaggio da due a una linea di produzione, con impatto indefinito sull’occupazione (gli esuberi dovrebbero essere 700, da capire come gestirli). Di tutti gli altri stabilimenti – dallo storico polo torinese a Pomigliano passando per la sede dell’Alfa Romeo di Cassino – finora non si è neanche iniziato a parlare.

Harakiri: dall’estate alle ombre nere

Con la Seconda guerra mondiale il mondo si trasformò da industriale a postindustriale, l’Italia da monarchica a repubblicana. Postindustriale significa servizi, informazioni, tempo libero, simboli, valori, estetica.

Perciò Roma, per sua natura, è una città postindustriale da sempre. Possiamo anzi dire che la Roma imperiale di venti secoli fa, quella rinascimentale del Cinquecento e quella barocca del Settecento erano più “postindustriali” della Roma attuale: più globali nell’economia, più cosmopolite nelle lingue parlate e nei valori coltivati, più creative nella politica e nell’arte, più capaci di organizzare il tempo libero, più esperte nel combinare lavoro, studio e gioco facendone uno stile di vita che potremmo definire post-moderno.

Ma oggi Roma è dominata da quattro forze economiche – l’Amministrazione pubblica, la Chiesa, l’industria edilizia e quella turistica – di cui solo quest’ultima potrebbe giocare a favore di una modernizzazione socio-economica. Ciò spiega perché mai la capitale, che aveva perso il treno della modernità industriale, stia perdendo anche quello della società postindustriale.

I sindaci che hanno governato la capitale dopo il fascismo sono stati 21, cui vanno aggiunti 10 commissari. I primi, tra il 1946 e il 1976, sono stati tutti democristiani: Rebecchini, Tupini, Cioccetti, Della Porta, Petrucci, Santini e Darida. In quegli anni Roma è passata da 1,5 a 2,8 milioni di abitanti realizzando quello che Aldo Natoli chiamerà il “sacco di Roma”: prima l’abusivismo edilizio spicciolo di migliaia di immigrati; poi quello capitalistico dei costruttori che hanno edificato milioni di metri cubi senza vincoli urbanistici. Tra il 1962 e il 1975 le stanze costruite abusivamente arrivarono a 830.000; nel solo 1970 furono costruiti 4.000 appartamenti abusivi; nel 1974 il numero salì a 18.600. Oggi le aree costruite abusivamente sono pari a 100 chilometri quadrati, cioè al 20% dell’intera superficie di Roma.

Complici di questo “sacco” sono stati il Comune e la grande proprietà immobiliare in mano alle famiglie aristocratiche e alle opere pie. Il Vaticano – la più grande multinazionale al mondo con 421.000 religiosi e 712.000 religiose – a Roma possiede un quarto di tutto il patrimonio immobiliare. La Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli ha 725 immobili mentre l’Amministrazione del patrimonio della sede cattolica ha 5.050 appartamenti. Inoltre la Chiesa possiede un quarto di tutti gli alberghi romani ed esercita attività alberghiera anche nei 297 conventi svuotati per la crisi delle vocazioni.

Al referendum del 12 maggio 1974 il 68% dei romani si dichiarò favorevole al divorzio facendo così un coming out della sua compiuta secolarizzazione. Due anni dopo, il Partito Comunista riuscì a portare in Campidoglio il secondo sindaco laico e di sinistra dopo Ernesto Nathan: Giulio Carlo Argan, che si insediò dichiarando: “La città è cultura, niente altro che cultura”. Iniziò così una sequenza discontinua di tre sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), due democristiani (Signorello e Giubilo), un socialista (Carraro), tre democratici (Rutelli, Veltroni e Marino), un appartenente al “Popolo della Libertà” (Alemanno) e un’appartenente al “Movimento 5 Stelle” (Raggi).

La giunta Argan avviò il restauro filologico di alcune abitazioni del centro storico; lanciò l’idea di liberare i Fori dalle superfetazioni mussoliniane; creò, tramite il suo assessore Renato Nicolini, l’Estate Romana. Proprio intorno a quest’evento, famoso e contagioso in tutto il mondo, s’infittirono le polemiche fratricide nella sinistra. In realtà l’esperimento di Nicolini, proseguito in modi diversi da Rutelli e Veltroni, resta come la visione più avanzata di una Roma postindustriale che punta sulla produzione di nuove ipotesi vitali e nuovi criteri di percezione, sul rinnovamento della politica e della critica, sul convergere della cultura di qualità con un dadà per la massa, sbrecciando le barriere tra centro e periferia, generi e livelli, autoctono e straniero, ironia e riflessione, impegno e leggerezza, riscoprendo il piacere della convivialità e ponendo l’accento sul valore del tempo libero.

Nel 1993 fu eletto sindaco Francesco Rutelli, poi rieletto nel 1997 sicché la sua carica, dopo quella di Rebecchini (1947-1956), è stata la più lunga di tutta la storia dell’amministrazione romana post-unitaria. Segretario nazionale e deputato del Partito Radicale, obiettore di coscienza, promotore della formazione ecologista, leader progressista dei Verdi Arcobaleno, coordinatore nazionale della Federazione dei Verdi, Rutelli si avvalse nelle sue giunte di personalità di spicco come il vice-sindaco Walter Tocci, uno dei massimi conoscitori e valorizzatori della realtà romana. Nell’agenda urbanistica di Rutelli e di Tocci, le opere pubbliche, il sistema dei trasporti e la cultura furono collocate al primo posto, valorizzando anche i fortunati stanziamenti per il Giubileo del 2000 con i quali furono realizzate 800 opere a tempo di record.

Se è vero – come ho ricordato in un precedente articolo – che la gestione di Roma implica “problemi della necessità” e “problemi della grandezza”, occorre riconoscere che nessun sindaco del dopoguerra ha riservato come Rutelli una pari attenzione agli uni e agli altri. Per la “grandezza” di Roma si pensi al nuovo museo dei Mercati di Traiano, al parco archeologico dell’Appia antica, all’Auditorium Città della Musica, al rinnovamento dei Musei Capitolini, all’apertura di oltre 20 spazi espositivi tra i quali le Scuderie del Quirinale e il Museo MAXXI, alla nuova teca-museo dell’Ara Pacis e alla Chiesa Cristo Redentore, entrambi di Richard Meier. Per i “problemi della necessità” si pensi alla costruzione o al restauro di 160 piazze, all’inaugurazione di una nuova linea tramviaria, alla terza corsia del Grande Raccordo Anulare, ai nuovi Mercati Generali sulla Tiburtina, a 200 nuovi giardini e parchi pubblici, al nuovo Piano regolatore, alla Città dello Sport di Tor Vergata, alla progettazione di tre nuove linee metropolitane, alla creazione di nuovi plessi scolastici nei quartieri, alla consistente riduzione dell’inquinamento atmosferico.

Con Veltroni in Campidoglio (maggio 2001-febbraio 2008), mentre a livello nazionale il partito comunista si trasformava in partito socialdemocratico, non senza sfumature neo-liberiste, a livello comunale si consolidò il “modello Roma” centrato sull’economia postindustriale e sulla cultura postmoderna: un modello che Le Monde e Financial Times lodarono come “Nuovo Rinascimento” della capitale italiana. Veltroni lo definirà così: “Un modo di lavorare, di collaborare, di concertare, di procedere insieme: la giunta, il Consiglio comunale, e insieme a loro il mondo dell’impresa, le associazioni di categoria, le forze sociali e i diversi soggetti della società civile. È la volontà, di fare sistema… Roma cresce se cresce tutta Roma”.

In concreto il “modello” comprese un piano regolatore urbanistico e un piano regolatore sociale con nuovi asili, tele-assistenza, osservatorio sui prezzi, “isole della solidarietà”, welfare community, grandi concerti rock, notti bianche, “Festa del cinema”, ecc. Tutto questo, appunto, fu il “veltronismo”: un modello dinamico di sviluppo urbano centrato sulla qualità della vita, che partiva dall’intervento culturale in vista delle soluzioni strutturali.

Il modello fu contrastato con accanimento dalla destra e più ancora dalla sinistra. I girotondini pretesero che Veltroni dicesse “qualcosa di sinistra”, il manifesto ne invocò le dimissioni, la gauche-caviar pubblicò un indignato pamphlet dal titolo Modello Roma. L’ambigua modernità. Il grande bluff. Con sottotitolo: Perché la fama di Veltroni sindaco è campata in aria. Il risultato fu che il 28 aprile 2008 divenne sindaco Gianni Alemanno. In Roma capitale malamata Vittorio Emiliani commenterà: “Una pena continua saranno gli anni di questo sindaco […] La città antica diventa un luogo da sfruttare al ribasso, nel modo più volgare e illegale”.

(2. continua)

 

La famiglia, art 4sport e Beatrice

Bebe straccia tutte: campionessa paralimpica per la seconda volta. Ma come hanno fatto? Prima che Beatrice diventasse Bebe intendo. Provate a pensare di avere una figlia che perde, in 4 anni di calvario, braccia e gambe. Chi ce la fa a darsi una spiegazione, a sopravvivere? E quanti di noi, un mese dopo che è uscita dall’ospedale, sarebbero in grado di respirare e avere addirittura le forze per andare a costituire Art4sport, un’associazione che si occupa di avvicinare i ragazzi amputati alla pratica sportiva? Il fenomeno Vio è molto più dei due ori paralimpici, che già da soli sono tantissima roba.

Teresa, mamma di Bebe e presidente dell’associazione, spiega che tutto è nato perché si è scelto di ripartire con la vita attraverso lo sport. Ripartire con la vita attraverso lo sport. Questa frase andrebbe scritta sulle porte degli ospedali, dei centri riabilitativi e su tutti gli istituti dei ciechi. Una seconda famiglia, quella di Art4sport, in cui è cresciuta anche Veronica Plebani, bronzo nel triathlon qualche ora prima dell’exploit di Bebe. Un gruppo di genitori che si è stretto attorno ai problemi per poi risorgere perché, dopo aver visto il proprio figlio perdere un arto o semplicemente nascerci senza, si sono trovati a ri-apprezzare le cose belle della vita. Un’ora di allenamento ribalta la percezione della disabilità. Nel percorso dell’atleta paralimpica più famosa del pianeta è fondamentale raccontare di Teresa e Franco, capitani di un’associazione che ha facilitato il cambiamento radicale di tante famiglie. Da sentirsi persi ad aggrapparsi a un appiglio. Dall’esistere soli al trovarsi insieme, dall’essere morti al sentirsi vivi, senza nemmeno sapere il perché. Un pallone mette d’accordo popoli che litigano da anni, una protesi ti restituisce la voglia di correre, un amico che guarda per te ti fa tornare il desiderio di metterti ai piedi un paio di sci.

Si può ripartire con la vita attraverso lo sport, non solo per chi ha una disabilità.

 

MailBox

 

Caso Durigon: Draghi dovrebbe dimettersi

Il caso Durigon mi ha fatto riflettere non tanto per la vicenda in sé che si commenta da sola per le nefandezze dette, quanto per la mancata presa di posizione pubblica del presidente del Consiglio dei ministri. Quale rappresentante dello Stato italiano che si fonda sulla Costituzione democratica e antifascista, non può tacere contro gli attacchi alla Carta costituzionale che gli assegna i poteri con cui governare. Come cittadino italiano non mi sento assolutamente rappresentato da una figura che non è in grado o non vuole prendere una posizione netta in tema di fascismo ed è per questo che invito il presidente del Consiglio dei ministri a rassegnare le dimissioni.

Vincenzo Capasso

 

Mattarella dica no alla riforma Cartabia

Spero proprio, e con me tanti altri suoi lettori, che Mattarella dica a Draghi (almeno in via informale), che non firmerebbe mai quella schifezza di riforma della Giustizia ardentemente attesa dal rignanese e dal suo ex giglio magico.

Aurelio D’Amore

 

Non credo proprio, ma non poniamo limiti alla provvidenza.

M. Trav.

 

Primi alle Paralimpiadi, ultimi nel nostro Paese

Una pioggia di medaglie per i nostri atleti alle Paralimpiadi. Purtroppo, non è tutto oro ciò che luccica. Il Codacons ha denunciato l’arretratezza del nostro Paese, che non sa prendersi cura delle persone con disabilità. In effetti, in diversi posti, le barriere architettoniche sono ancora insormontabili. Senza dimenticare che le pensioni delle cittadine e dei cittadini invalidi al 100%, in Italia, ammontano a 650 euro mensili. In compenso però i vitalizi dei parlamentari, nonostante i tagli voluti dal Movimento, rimangono esorbitanti.

Marcello Buttazzo

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo “I fondi per le periferie dati per rifare il campo da golf”, pubblicato ieri, come era stato riferito nei dettagli all’autore, progetto e stanziamento sono stati presentati, studiati e approvati quando sia Sport e Salute SpA, nata nel 2019, sia il suo presidente Vito Cozzoli, nominato nel marzo 2020, non potevano avere alcun ruolo.

1. La decisione di concedere contributi pubblici all’Olgiata Golf Club asd, come ad altri destinatari beneficiari, non è stata di Sport e Salute ma della Presidenza del Consiglio dei ministri, su proposta del Coni, e risale al 2018 (Dpcm 22 ottobre 2018), nell’ambito del progetto “Sport e Periferie”, in particolare Secondo piano pluriennale;

2. Tale decisione è stata confermata, pur non essendo necessario in quanto pienamente legittima, con ulteriore parere richiesto da Sport e Salute all’Autorità di governo competente in materia di sport nel corso del 2020;

3. Il presidente di Sport e Salute, conformemente alla normativa applicabile, ha effettuato pronta disclosure della sua appartenenza da 27 anni al Golf Club Olgiata agli organi societari e alle funzioni di controllo interne al fine di fornire con la massima trasparenza l’informativa necessaria. Non è stata ravvisata alcuna ragione ostativa alla prosecuzione dell’attività da parte della Società, laddove invece è stata paventata una potenziale responsabilità risarcitoria in capo a Sport e Salute in caso di ingiustificata interruzione degli impegni già assunti.

4. La Società Sport e Salute, nell’ambito dell’intervento in favore dell’Olgiata Golf Club asd, svolge meramente un ruolo esecutivo in qualità di stazione appaltante con affidamento delle opere previste e autorizzate nel Piano, in piena conformità alle procedure, con risorse a valere sul Fondo “Sport e Periferie”;

5. L’Olgiata Golf Club asd non è risultata l’unica associazione sportiva dilettantistica, titolare di manto erboso adibito a campi da golf, beneficiaria dei contributi pubblici del Fondo “Sport e Periferie”;

6. L’affermazione contenuta nel titolo “Sport e salute regala al campo da golf i fondi delle periferie”, come del resto anche il tono e i contenuti dell’articolo nella sua integrità, risultano errati nella descrizione dei fatti, gravemente lesivi dell’immagine della Società e del suo presidente, poiché volti a sottendere un indebito utilizzo di contributi pubblici, e in relazione ad essi la Società si riserva di adire le vie legali per le tutele risarcitorie più opportune.

Goffredo de Marchis, Capo ufficio stampa e comunicazione Sport e Salute

 

Come tiene a precisare Sport e Salute, e come già riportato chiaramente nell’articolo, il finanziamento pubblico al circolo privato Olgiata risale al 2018 e solo la sua ultima parte ha avuto corso sotto l’attuale gestione del presidente Cozzoli, in carica dal 2020, che del circolo è anche socio.

Lorenzo Vendemiale

La solita liturgia della parola vuota

 

“Fu l’anno in cui il contrammiraglio John Stuffebleem, nella sua relazione al Pentagono, disse che era stato ‘un po’ sorpreso’ dalla riluttanza dei talebani ad accettare l’’inevitabilità’ della loro sconfitta”.

Joan Didion – “Idee fisse”

L’anno di cui scrive Joan Didion è il 2001, quello delle Torri Gemelle, dunque non è affatto un caso che il testo (anticipato sul numero in edicola di “7”, settimanale del “Corriere della Sera”) venga pubblicato nel ventennale dell’11 settembre. Con le fiamme che avvolgono l’Afghanistan mentre l’America in fuga subisce una nuova storica sconfitta. Succede che lo sguardo di una delle più grandi scrittrici contemporanee, concentrato sul recente passato, si allarghi come un grandangolo sull’immediato presente. Con una profondità di campo che evoca un futuro prossimo altrettanto assurdo. Ecco quella che, non soltanto a noi, appare la frase chiave: “L’anno in cui diventò difficile capire chi stava trattando chi come un bambino”. È la stessa sensazione che ci afferra, oggi a Kabul come fu allora a New York, quando veniamo sommersi dalla liturgia della parola vuota, dove l’accaduto viene “rielaborato, oscurato, sistematicamente epurato di storia e perciò di significato”. Come se, “da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato reso gestibile, ridotto al sentimentale, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero stati altrettanto distruttivi dell’evento stesso”. Per esempio, e qui Didion è sanamente spietata, “nella ripetizione compulsiva della parola ‘eroe’”. Da qui “la consolidata tendenza a ignorare il significato dell’evento in favore di una celebrazione impenetrabile e livellante delle sue vittime”. Manipolazione dei sentimenti che ritroviamo in queste ore quando il “significato” di un’occupazione inizialmente sbagliata, e finita assai peggio, viene ricoperta da una patina densa e indistinta di espressioni edificanti. Dentro le quali la “lotta al terrorismo” è un amuleto da agitare per zittire qualunque tentativo di comprendere la reale natura dell’accaduto. E poi: “A New York scoprii che era già stata dichiarata ‘la morte dell’ironia’, ripetutamente, e stranamente, dato che l’ironia era stata dichiarata morta nell’esatto istante in cui a quanto pareva ne avremmo avuto più bisogno”. Ironia non certo come gioco frivolo ma come dissimulazione per svelare la natura dell’orrore imposto, e riderne. Lo aveva ben compreso il comico afghano Khasha Zwan che pur nelle mani dei suoi carnefici ha continuato a fare battute sul fondamentalismo, fino alla fine. La morte dell’ironia come terreno comune degli opposti schieramenti non è forse una suprema ironia?

 

L’uragano “Ida” va verso New Orleans, nubifragi più intensi

In Italia – L’estate 2021 ha imboccato la china discendente che un gradino dopo l’altro ci porterà verso l’autunno. Nell’ultima settimana correnti nord-orientali hanno determinato tempo meno caldo, variabile e temporalesco, prima al Settentrione e poi fino al Centro-Sud. Domenica sera, 22 agosto, nuovi temporali hanno causato allagamenti in Alto Adige (Val Pusteria), zona più volte battuta quest’anno, lunedì 23 ha finalmente piovuto sui suoli assetati delle Marche e un violento nubifragio ha inondato i dintorni di Perugia. Giovedì 26, mentre al Nord splendeva il sole, un’alluvione-lampo ha colpito Atrani (Costiera Amalfitana): il Centro funzionale della Campania, nel soprastante Comune di Scala, ha rilevato piogge tra le più intense finora note in Italia, 126 mm in un’ora e 190 mm in due ore. Dapprima ancora assai caldo all’estremo Sud (38 °C mercoledì a Catania), fresco invece sull’Adriatico, e un nuovo impulso d’aria più fredda è giunto dal Baltico nel weekend (ieri pomeriggio ad Ancona appena 17 °C e pioggia).

Nel mondo – L’Atlantico è entrato nel pieno della stagione degli uragani tropicali, che di solito culmina tra agosto e ottobre, e che quest’anno si annuncia molto attiva. “Henri” ha investito il Nord-Est americano nello scorso week-end con inondazioni e black-out elettrici per 140 mila edifici dal New Jersey al Maine, e a New York si è abbattuta la pioggia più intensa in un’ora (49 mm) in un secolo e mezzo di misure. Adesso preoccupa “Ida”, che, dopo aver toccato Cuba, da stasera minaccerà New Orleans con un impatto definito “potenzialmente catastrofico” dal National Hurricane Center, riportando alla mente il disastro di Katrina esattamente 16 anni fa, mentre sul lato pacifico “Nora” punterà domani alla Bassa California. Nel Tennessee sono stati nubifragi più localizzati a determinare la rovinosa piena-lampo di sabato 21 agosto, con almeno 22 vittime e 50 dispersi (nuovo record nazionale di pioggia giornaliera, 432 mm a McEwen, metà della quantità media annua!). Aspettiamoci che diluvi di questo tipo divengano sempre più ricorrenti in un’atmosfera più calda: secondo il team internazionale di climatologi “World weather attribution” il riscaldamento di 1,2 °C dell’ultimo secolo ha già reso da 1,2 a 9 volte più probabili precipitazioni estreme come quelle del luglio 2021 in Germania. Altrove, in questi giorni spiccano altre gravi alluvioni nel Niger (oltre 60 morti), in Messico, Sudan, Dagestan (Russia) e Corea del Sud (tifone Omais). Parallelamente anche le siccità divengono più severe e miccia d’innesco di crisi agro-alimentari e umanitarie, come sta accadendo nel Madagascar e in una vasta fascia di territorio tra Siria, Iraq e Iran meridionale, dove sono scoppiate rivolte popolari nella provincia del Khuzestan. Mentre i primi segnali d’autunno si affacciano in Europa centrale, un’alta pressione è bloccata sul Nord Atlantico, e un’ondata di caldo straordinario ha invaso l’Islanda portando a un nuovo record nazionale per agosto di 29,4 °C. Dalla regione del Mar Caspio una calura anomala si è spinta a Nord con punte di 33 °C vicino al Circolo Polare Artico in Siberia, e nell’altro emisfero, malgrado sia ancora inverno, le temperature hanno superato i 40 °C per una settimana in Paraguay. Il rapporto State of the Climate in 2020 diffuso dall’American Meteorological Society ribadisce tutti gli indicatori di un pianeta in surriscaldamento: il 2020 – nonostante l’effetto raffreddante della “Niña” – è stato uno dei tre anni più caldi della storia; inoltre, record di concentrazione di gas serra, dei livelli marini, di contenuto di calore negli oceani, degli incendi nell’Artico, e così via. Tutto, purtroppo, in linea con i peggiori scenari climatici che gli scienziati delineano da ormai mezzo secolo.

 

Il messaggio. La “religione del cuore” è l’opposto della “dottrina dei farisei”

Gesù è circondato. A stargli intorno non è la gente che vuole ascoltare la sua parola né sono gli affamati di pane o di miracoli. Si forma attorno a lui un cerchio di farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. L’evangelista Marco ci descrive questa riunione (Mc 7,1-23) di gente che intende interrogare Gesù avendo visto i comportamenti dei suoi discepoli. I discepoli professavano forse teorie strane? No. Farisei e scribi avevano notato che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate. Quell’uomo influiva sui comportamenti di chi lo circondava, e dunque era un maestro pericoloso. Gesù mutava il modo di vivere e agire della gente. E non rispettare le pratiche della tradizione è sovvertire l’ordine costituito. Quale ordine? Quello delle formalità, della banalità che riduce la trascendenza a fenomeno esoterico o esteriore. I farisei, infatti, e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi. Allora per questo si era radicato un cerchio attorno a Gesù: per chiedergli conto e ragione: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”.

Gesù non professa una dottrina strana, che sarebbe sempre contestabile o discutibile: semplicemente dice che certe pie pratiche sono cose esteriori che nulla hanno a che vedere col cuore, col senso, col gusto della vera santità. L’essere umano, infatti, sovrastato dagli obblighi formali, non ha più il tempo di leggere il suo cuore e di fargli esprimere l’amore per Dio. Tutto si riduce a moine. E dietro queste moine c’era una visione falsa del rapporto con Dio, come se l’uomo dovesse porsi in una condizione “pura” per rivolgersi a Dio. No, non abbiamo bisogno di lavaggi disinfettanti per dialogare con Dio. In realtà questi lavaggi finiscono solo per immunizzarci da Dio stesso, a sterilizzarci dalla fede.

Gesù non ama le moine né è uomo a modo. E si adira. Davanti al cerchio di ipocriti, indignato, risponde: Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Gesù distingue nettamente la “religione del cuore vicino” dalla “dottrina dei precetti”. Attenzione, però: Gesù non contrappone banalmente l’interiorità all’esteriorità. Si scaglia invece contro l’agire che non risponde al cuore. Quanta gente anche oggi è legata a pratiche nelle quali la fede è delegata al merletto ben cucito, alla formula incomprensibile o al gesto perfetto!

Gesù spezza fisicamente il cerchio che lo aveva stretto, e chiama la folla, aprendo una breccia. I cerchi che accerchiano vanno spezzati altrimenti la palla rimbalza all’interno. Non è questione di rispondere a un cerchio di ipocriti, ma di far risuonare il messaggio del Vangelo. E così grida alla folla: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene!”. È la premessa a un messaggio fondamentale. Ed è questo il vero Vangelo di salvezza: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Infatti è dal cuore che escono i propositi di male che Gesù elenca: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.

Gesù capovolge la prospettiva: dichiarando puri tutti i cibi, Gesù afferma che il rapporto trascendente con Dio o tocca l’autenticità profonda di una vita oppure è inutile paccottiglia devota, trash.

 

 

Biden si è chiuso da solo in una trappola inedita

Se esistessero le dimissioni del presidente, negli Stati Uniti, Joe Biden si dimetterebbe. Si è chiuso in una trappola che gli impedisce la viltà e il coraggio, l’attesa passiva e il tentativo concitato di aprire le porte chiuse; non può scegliere un percorso perché se li è liquidati tutti con pochi gesti sconsiderati. Del resto non vi colpisce il silenzio di tutti gli altri ex presidenti americani ancora in vita?

Non c’è nulla di politico in quel silenzio. C’è l’aver perduto del tutto il senso di ciò che sta accadendo: l’America sola come se fosse povera, aggredita come se fosse impotente, isolata come se non avesse guidato il mondo fino a un istante prima. Alcune brevi digressioni potrebbero aiutarci.

Un Papa che non poteva dimettersi si è dimesso. Del Papa che regna dopo di lui si dice che è stremato e che potrebbe dimettersi. Sembra lontano il tempo in cui una religione o un regime doveva avere un capo anche come simbolo di fermezza e di forza. Il caso dell’Afghanistan è una specie di riassunto. L’Isis incarica i talebani di essere gli autori di uno squarcio atroce nella popolazione afghana, seguendo una linea di meglio e di peggio, di possibile e impossibile, di conveniente e pazzesco che nessuno sembra in grado di decifrare. Gli eventi si stanno muovendo lungo una linea che non ha una ragione o un inizio. Perché dovrebbe avere una strategia, una evoluzione, una fine?

Direte che ha cominciato Biden. Improvvisamente il presidente degli Stati uniti ha abbandonato la presa. Poi ha pianto, ma ha detto che non intende riprendere in mano nulla. Ha anche, in qualche modo, fatto sapere che l’America e gli americani devono venire prima, parodiando in modo un po’ penoso, certo disorientante, il grido del peggior populismo, da Kaczynski a Orbàn, da Salvini a Meloni. E va a sbattere contro la follia del populismo: prima cosa perché nega la storia. Amati o odiati, gli americani erano già i primi, salvo il tremendo intermezzo guidato verso il baratro da Donald Trump. Ma l’effetto della affermazione di persona allo sbando Biden lo offre quando raccomanda al mondo la primazìa degli Usa, dopo avere privato il suo Paese da un lato della guida, dall’altro della reputazione. È a questo punto che i nemici degli Usa (dell’Occidente, del Mondo libero, della modernità, del futuro come cambiamento continuo verso il meglio) premono il pulsante di un attentato immenso e lasciano chi stava fuggendo a contare nel sangue centinaia di morti, una grande decimazione a caso. È qualcosa che si capisce solo come il gesto di non lasciare in sospeso lo scettro americano. Qualcuno, in un modo orribile, lo ha afferrato mentre cadeva nel vuoto, se ne è impossessato ora che il trono veniva portato via. Qualcuno chi? Qualcuno perché? Siamo rimasti immobili. Nessuno ha provato a tentare d’indicare cosa dovremmo fare. Siamo rimasti al buio. Nessuno finora è stato capace di scorgere un punto di luce, anche solo per un remoto orientamento. Del resto siamo circondati da fatti paurosi ma privi di senso, da progetti che sembrano grandi e paurosi ma ai quali nessuno vuole accostarsi. Siamo entrati in una strana era di non propaganda in cui virtù sembra essere piangere e tacere, in un caso, uccidere e tacere nel caso opposto. Ma opposto a che cosa? Quando pensiamo alla grande strage dell’aeroporto di Kabul, dobbiamo inventarci il nemico, attribuirgli proposito e ideali infernali e adattarci, contro la nostra prevalente formazione giudaico-cristiana e la nostra educazione classica, al fatto di esistere in un mondo in cui c’è solo l’inferno. Ma si tratta di uno strano inferno, senza possibili riferimenti a qualsiasi forma di credo o di autorità mai esistita prima. Chi viene servito dalla folle e totale subordinazione richiesta da una forza non dichiarata che vuole il silenzio (proibita la musica) e la esclusione di metà degli esseri umani? Potrebbe non essere vero, ma allora è difficile spiegare il lago di sangue di Kabul e quello che verrà. Resta e resterà un mistero una simile modalità di ritiro americano. Le truppe del più potente Paese del mondo se ne vanno e basta. Resta un mistero l’immensa folla che nessuno ha avvertito, come se fosse normale che un ambasciatore (quello italiano) parta col primo aereo disponibile senza avvertire nessuno, e la folla dei suoi cittadini seguirà, appena possibile, aiutata solo da un bravo console. Se siete esperti di cinema potreste montare la vera fuga americana, scena contro scena, accanto alle immagini di una clamorosa e inattesa vittoria degli “studenti del Corano” (qualcuno li chiama ancora così, come 30 anni fa). E spiegare la grande sconfitta dell’Occidente. Ma non è andata così. L’Occidente ha perso da solo nella sua solitudine, il presidente americano piange e pensa che la sua Costituzione dovrebbe ammettere le dimissioni.