Pipino, la più bella cortigiana di Francia e il barone di Montville

Dalle novelle apocrife di Charles Didier. A Rouen, la città dai cento campanili, viveva Jean Luc Blanchard, un funzionario municipale che, raggiungendo a stento il metro e quaranta, tutti soprannominavano Pipino. La moglie era una bellezza, negli occhi una fiamma da dominatrice che bruciava all’intorno per un raggio di 200 aune: una settimana dopo il matrimonio, già si diceva che avesse un amante, il barone di Montville. Pipino aveva anche un superiore, il prevosto Toutain, un tipo focoso che, benché abile con le parole, non riusciva a sedurre Madame Blanchard, di cui era perso, poiché lei non era donna da tre uomini; ma, sguinzagliati i suoi sgherri, Toutain scoprì chi era il rivale, e architettò un piano. Inviò Pipino con delle scartoffie a Parigi, certo che la bella moglie, a questo regalo inopinato, sarebbe corsa dal barone di Montville; e a quel punto avrebbe richiamato Pipino, un ingenuo la cui semplicità confinava con la poesia, per spedirlo dal barone a caccia di John Smith, una inesistente spia inglese: l’incontro con la moglie avrebbe posto fine alla tresca col barone; e lui avrebbe avuto campo libero. Avvisato da una domestica dell’arrivo di Madame Blanchard, il barone ordinò che fossero portate in camera da letto una caraffa di sidro, uova di pavoncella, e orchidee; e andò ad accoglierla. Frattanto Pipino, richiamato da Parigi e spedito a Montville in cerca della spia inesistente, faceva circondare il castello dai suoi uomini. Entrato per il sopralluogo, cercò ovunque, mentre il barone gli baciava la moglie dappertutto, indugiando con le labbra negli angoli più nascosti, con estenuante devozione. Pipino bussò alla porta dell’alcova quando ormai vi era in pieno svolgimento la giostra amorosa: “Apri, in nome del re!” Gli amanti restarono di sasso. Era la voce di Pipino! Madame Blanchard, una donna pratica, coordinò i pensieri, e suggerì al barone cosa fare. Quindi il barone, indossata la veste da camera, andò ad aprire: “Cosa vuoi, scudiero?” “Barone, sono un funzionario del re, e ho l’ordine di ispezionare il castello. C’è una spia inglese che si sospetta stia tramando contro il Giglio di Francia!” “Ah!” esclamò il barone di Montville. “Quegli inglesi sarebbero capaci di tutto. Ma in camera mia non c’è nessun furfante: solo una cortigiana che sto intrattenendo. La più bella del regno”, aggiunse in tono confidenziale. “Ciò nonostante, barone, devo procedere. Si faccia da parte!” intimò Pipino. Il barone gli si rivolse come usa fra gentiluomini: “Prima mi lasci coprire il volto di quella donna.” Un minuto dopo, Pipino entrò nella stanza. Guardò su per il camino, dentro una cassapanca, sotto il letto. Quindi ispezionò la persona nuda che, bocconi sulle lenzuola di batista, teneva la testa sotto un cuscino. “Barone, costui potrebbe essere un inglese” disse Pipino. “Hanno la pelle bianca e soffice come le donne. Lo so perché ne ho fatti impiccare parecchi sulla pubblica piazza.” “In questo caso, lasci che la giri”, disse il barone, tenendole il cuscino sulla faccia. “No, non è un inglese” disse Pipino, ammirando quel corpo superbo. Il barone si congratulò della perspicacia, e Pipino tornò dal prevosto a riferire: “Di sicuro non era un inglese.” Il prevosto, furioso del piano fallito, esclamò: “Idiota! Non sai riconoscere neppure tua moglie! Quella nel letto del barone era lei!” A questa notizia, Pipino si congedò con sussiego, e un attimo dopo spronava il cavallo verso casa. Trovò sua moglie a letto, addormentata: aveva fatto prima di lui. Rassicurato, dormì della grossa, e il mattino dopo le raccontò la sua avventura. La moglie lo stuzzicava: “Maritino mio, potrai ancora amarmi, dopo aver visto nuda la più bella cortigiana di Francia?” E Pipino, tronfio: “Vedremo, mia cara. Vedremo.”

 

Tutti contro gratteri, ma vietato nominarlo

Indovina chi? Di chi staranno parlando le due toghe di Magistratura democratica intervistate ieri sul manifesto? Con chi polemizzano quando si lamentano del gioco “mediatico” di certi “procuratori in vista” o quando alludono al “magistrato individualista che non fa bene alla magistratura”? Sembra proprio che ce l’abbiano con Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro, una toga che per carisma e per storia personale non ha mai avuto remore nel far sentire la sua voce nel dibattito pubblico. Solo che in tutta la pagina a loro dedicata il nome di Gratteri non viene nominato mai. Il pm calabrese è nel mirino delle correnti di centrosinistra dell’Associazione nazionale dei magistrati, le stesse (Area e Unicost) che a marzo avevano presentato in assemblea un documento che conteneva una sostanziale censura nei suoi confronti (“la pubblica accusa eviti esternazioni che possano turbare la serenità del giudizio”). Pure in quel testo – come nelle interviste del manifesto – Gratteri non hanno il coraggio di citarlo mai: bisogna tirare a indovinare?

Le perle geopolitiche dell’agente Betulla

Betulla è tornato. Dopo la breve e ingloriosa parentesi da consulente del ministro Brunetta, Renato Farina ha ricominciato a vergare i suoi articoli su Libero. Ed è tornato a sguazzare nelle acque che preferisce, scrivendo di esteri, geopolitica, terrorismo. Territori minati che attraversava con clamorosa imprudenza anche negli anni in cui alternava la professione di giornalista a quella di spia al servizio di Pio Pompa.

L’agente Betulla racconta le lacrime di Biden sull’Afghanistan e pontifica sui valori traditi dell’Occidente: quale cattedra è più credibile della sua per dare lezioni di politica al presidente degli Stati Uniti? “Quel sommesso e perciò ancora più plateale pianto ha innaffiato la pianta carnivora del jihadismo”, scrive Betulla, “confermando ad Isis-K , ad al Qaeda, ai Talebani e alle masse musulmane silenti ma compiaciute di tutto il mondo che il gigante crociato ha i piedi d’argilla”. E poi ovviamente c’è la questione cinese: “Quel pianto ha convinto il suo formidabile padrone, Xi Jinping, che la contesa globale registra un arretramento clamoroso dell’Occidente”. Per fortuna c’è Super Mario, con il governo del quale – sebbene per pochi giorni – Betulla ha potuto fregiarsi di collaborare: “Mario Draghi, accortosi dell’infarto americano, in dissenso da Biden porterà al G20 Russia e Cina per rimettere in senso il mondo”.

Il presidente degli Stati Uniti dovrebbe farsi da parte, sostiene Farina. “I lucciconi di Biden sono i segni di sprofondamento dell’intero Occidente”. Gli articoli di Betulla, più modestamente, raccontano lo stato di salute del giornalismo italiano.

Paralimpiadi, Bebe Vio da leggenda: 2° oro. Poi le lacrime: “Ad aprile ero quasi morta”

Strepitosa Beatrice “Bebe” Vio: ha conquistato l’oro del fioretto femminile ai Giochi Paralimpici di Tokyo, 5° successo italiano, confermando il titolo conquistato a Rio de Janeiro nel 2016. Ironia del destino, la 24enne di Mogliano Veneto si è ritrovata in finale la cinese Jingjing Zhou, la stessa avversaria di 5 anni fa. Allora la schermitrice di Pechino fu sconfitta 15-7, ieri 15-9. Bebe è stata implacabile, ha vinto tutti gli assalti del suo percorso olimpico e, nel duello cruciale, sul 7-4 è stata costretta a sostituire la protesi del braccio sinistro, senza demoralizzarsi.

Ha trattenuto le emozioni sino all’ultima stoccata. Poi, con la gioia, un pianto dirotto, irrefrenabile, liberatorio: “Lo scorso 4 aprile mi sono dovuta operare e sembrava che a queste Paralimpiadi non dovessi esserci”, spiegherà più tardi, “abbiamo preparato tutto in due mesi, non so come cavolo abbiamo fatto. Non credevo di arrivare fin qui, perché ho avuto una tremenda infezione da stafilococco”. La prima diagnosi, rivela la campionessa olimpica, prefigurava addirittura un’amputazione entro due settimane dell’arto sinistro “e la morte entro poco. Sono felice, avete capito perché ho pianto così tanto?”. Per sdrammatizzare, ha aggiunto: “L’ortopedico ha fatto un miracolo, si chiama anche Accetta, tra l’altro”.

Bebe è una ragazza solare, bella, dal sorriso contagioso. Lo sguardo è risoluto. Il suo volto è il manifesto dello sport praticato dai disabili. È la ribellione ai pregiudizi, è l’inno alla tenacia, è l’iscrizione al club degli inguaribili ottimisti. Era una promettente schermitrice fin da ragazzina. Sino a quando la meningite fulminante le provoca un’infezione devastante che sviluppa necrosi ad avambracci e gambe. Le amputazioni la salvano: invece di soccombere alla disperazione, a 11 anni reagisce in modo formidabile. Riabilitazione, fisioterapia d’avanguardia. Soprattutto, una protesi speciale che l’aiuta a sorreggere il fioretto. Sulla sedia a rotelle domina le competizioni nella categoria B (quella per gli atleti che non muovono le gambe): oltre ai 2 ori olimpici, vanta 4 titoli mondiali e 5 europei. Non solo: diventa una testimonial pop. Conduce nel 2017 su Rai1 La vita è una figata. Quella sua, e di altri 7 campioni disabili, è raccontata nel docufilm Rising Phoenix di Netflix, vincitore di due Emmy Sports: “Da piccola mi dicevano che non si poteva tirar di scherma senza braccia, e che dovevo cambiare sport: ho dimostrato che se hai un sogno, vai e prenditelo”.

Salvini ha lo stesso ghostwriter di Renzi: “Abolire il Rdc, disincentiva il sacrificio”

La corrispondenza d’amorosi sensi tra i due Matteo, Salvini e Renzi s’intende, ormai è conclamata. I due, come a volte capita in amore, hanno iniziato persino a parlare la stessa lingua, a usare le stesse espressioni. Ora, per dire, la loro relazione politica, che sottende a un’alleanza esplicita (dopo il voto), s’è cementata nel comune odio per il reddito di cittadinanza e i sussidi anti-povertà e con accenti che sembrano il frutto della stessa penna. Come il lettore ricorderà, Renzi qualche giorno fa, spiegando il suo referendum per abolire il Rdc, aveva scolpito l’immortale sentenza: “Io voglio mandare a casa il Reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela”. Salvini, intervistato nella ridente Pinzolo da Mario Giordano, ha invece sostenuto che “il reddito di cittadinanza sta disincentivando il sacrificio” e per questo “presenteremo un emendamento a mia prima firma alla prossima legge di Bilancio: dobbiamo assolutamente cancellare il Reddito di cittadinanza”. Coi soldi risparmiati, dice il leader della Lega, vanno tagliate le tasse e rifinanziata Quota 100 per le pensioni.

Ora, boutade a parte, non mancano certo nella storia d’Italia e di nessun Paese leader politici il cui programma politico, spontaneo o meno che sia, è aderire a qualunque richiesta del padronato più retrivo, risulta davvero bizzarro nel nostro caso che a farsi promotori di questa campagna per i sacrifici e il sudore siano due tizi, accomunati dal nome, che con quei due concetti hanno avuto un rapporto, per così dire, di conoscenza, ma non certo di frequentazione.

Tornando alla performance montana del leghista, Salvini non s’è limitato al reddito di cittadinanza e anzi, incalzato dall’intervistatore, ha largheggiato in pensierini (anche in questo similmente al suo omonimo): si va da “Durigon è stato attaccato perché è della Lega e perché è il papà di Quota 100: qualcuno in giro vuole far tornare la legge Fornero” a – cogliendo fior da fiore – “l’applicazione letterale del Corano e dell’Islam è incompatibile con i nostri valori di libertà, democrazia e diritti civili: chi dice il contrario mente” fino a “in politica estera l’Italia con Berlusconi contava di più, è stato un esempio” (e per questo ci farà una federazione che poi potrà allearsi col centro renziano nel nome del sacrificio, altrui).

“Lega e FdI sono squallide”: l’Anpi sta con Montanari

L’Associazione nazionale partigiani italiani si schiera al fianco di Tomaso Montanari. “Lega e FdI accusano Montanari di negare il dramma delle Foibe – afferma Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi –. Un film già visto, noioso e stantio: quando si parla di Foibe si falsificano le parole dell’avversario. Montanari ha giustamente attaccato l’uso strumentale di questo dramma da parte di neofascisti e accoliti vari per imporre un revisionismo di Stato che equipara le foibe alla Shoah e nega la libertà di ricerca storica. Lega e FdI in violazione dell’autonomia universitaria ne chiedono le dimissioni da Rettore (dell’Università per Stranieri di Siena, ndr) mentre strizzano continuamente l’occhio a CasaPound: che squallore. Piena solidarietà a Montanari”.

Sul Fatto di lunedì 23 agosto Montanari aveva scritto che “la legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe)” si inserisce in una strategia il cui “obiettivo è sempre lo stesso: riscrivere la storia dalla parte del fascismo. Sapendo benissimo che l’unico modo per farlo, è falsificarla”.

De Pasquale, anche Don Ciotti contro la nomina

Le Associazioni delle vittime delle stragi e del terrorismo scrivono a Mario Draghi per chiedergli di non ratificare la nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio Centrale dello Stato. La lettera, firmata dai rappresentanti dei familiari dei morti delle stragi di Bologna, piazza Fontana, piazza della Loggia, del Rapido 904, dell’Italicus e dalla famiglia Amato, è siglata anche da don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. “Ci appelliamo a lei, signor Presidente – scrivono –, nel rispetto dei nostri cari, vittime della mano stragista del neofascismo, anche perché troppe volte nella nostra esperienza abbiamo incontrato resistenze e occultamenti anche da parte di uomini istituzionali, che hanno agito contro la ricerca della verità”.

Le associazioni puntano il dito contro De Pasquale perché nel novembre 2020 la Biblioteca Nazionale da lui diretta acquisì l’archivio personale di Pino Rauti limitandosi a riproporre il comunicato agiografico della famiglia senza contestualizzare il ruolo del fondatore di Ordine Nuovo all’interno del neofascismo italiano.

Salivari a scuola: la Francia li ordina e noi li bocciamo

Per la Francia, sono la chiave di volta per riaprire scuole e aziende in sicurezza. Per il commissario Francesco Figliuolo sono una risorsa da utilizzare a livello nazionale. Tanto che ne ha ordinati alcune centinaia di migliaia. Per il presidente del Veneto Luca Zaia – come per i colleghi di Lombardia, Attilio Fontana e Marche, Francesco Acquaroli – sono l’antidoto ai timori per la ripresa del prossimo anno scolastico, tanto che il presidente del Veneto ne ha comprati un milione e ha elaborato un programma di “scuole sentinella” nelle quali utilizzarli. Tuttavia, per il Comitato tecnico scientifico nazionale non si devono usare. Anzi, si deve continuare con la politica (fallimentare) dell’anno passato, basata sull’attesa dell’accertamento della positività di un alunno che si ripercuote poi sull’intera classe, che finisce in quarantena e quindi Dad.

Parliamo dei test salivari molecolari messi a punto delle biologhe della Statale di Milano Valentina Massa ed Elisa Borghi e salutati, solo 10 mesi fa, come un grande successo della ricerca italiana, ma poi dimenticati. Battezzato dai media “test lecca-lecca”, quello concepito dalla Massa è un metodo non invasivo (è un tampone da tenere in bocca per un minuto, quindi adatto anche ai più piccoli) pensato proprio per testare i ragazzi delle scuole, in grado di individuare i positivi asintomatici addirittura prima del test molecolare tradizionale (quello fatto attraverso il prelievo di sangue). Facile da usare, il lecca-lecca è soprattutto un test di estrema efficacia, che vanta il 96% di affidabilità. In estrema sintesi si tratta di una metodologia utile per individuare i positivi, meno costosa di un antigenico (il 20% in meno) e in grado di offrire una panoramica in tempo quasi reale della diffusione del virus (i risultati arrivano in meno di 24 ore). Insomma una quadratura del cerchio, che ha convinto governi (oltre alla Francia è usato in Usa e Gb) e istituzioni. Ma allora perché non utilizzarlo in tutta Italia?

Perché al Cts non piace (infatti l’anno scorso ci aveva messo quasi sei mesi per validarlo). Scrive oggi il Cts nel verbale n. 34 del 12 luglio 2021: “Per quanto riguarda i test, il CTS ritiene che non debbano eseguirsi in ambito scolastico, né screening antigenici o anticorpali per la frequenza scolastica. Nessun test diagnostico preliminare è necessario, mentre può ipotizzarsi la richiesta del green pass per il personale. In caso di sintomi indicativi di infezione acuta delle vie respiratorie di personale o studenti, si attivi immediatamente la specifica procedura: il soggetto interessato deve essere invitato a raggiungere la propria abitazione e si dovrà attivare la procedura di segnalazione e contact tracing da parte della ASL competente”. Un ritorno al passato.

Una tesi dei detrattori dei lecca-lecca è che sarebbe sbagliato lanciare il messaggio che i tamponi salivari possano sostituire il vaccino: “Non si deve far passare l’idea che il tampone salivare sia meglio del vaccino, non sostituiscono l’immunizzazione”, aveva detto l’immunologo (membro del Cts) Sergio Abrignani quattro giorni fa. E aveva anche aggiunto: “I tamponi salivari antigenici hanno una sensibilità limitata e sono utili perché danno un risultato in pochi minuti, ma mitigano il rischio e non l’azzerano. Questi test hanno un senso se usati occasionalmente e non tutti i giorni”. Una risposta che confonde salivari antigenici con salivari molecolari. Se è vero, infatti, che gli antigenici hanno un’affidabilità limitata (circa il 60%, sebbene continuino a essere effettuati in farmacia a prezzi salati e vengano richiesti per qualsiasi attività sportiva dei più giovani), i molecolari sono tutta un’altra storia. Inoltre, sostenere il pericolo di un’ipotetica “sostituzione” dei test al vaccino ha pochissimo senso se si parla di scuole elementari e medie inferiori, frequentate da allievi che il vaccino non possono farlo perché non esiste.

Tra i vaccinati decessi (quasi) solo tra over 80, ma è “normale”

Gli ultimi dati forniti dall’Istituto superiore di Sanità fotografano la casistica dei contagi tra il 16 luglio e il 15 agosto, dei ricoveri in ospedale e in terapia intensiva tra il 9 luglio e il 9 settembre e dei decessi tra il 25 giugno e il 25 luglio. E sono un’ulteriore conferma dell’alta protezione fornita dalla vaccinazione. Prendendo in considerazione solo gli effetti gravi della malattia, risulta che nella fascia 12-39 anni sono state ricoverate in terapia intensiva 51 persone, 49 non vaccinate e 2 in attesa di seconda dose; 4 i morti, tutti senza vaccino.

Nella fascia 40-59 i ricoveri in rianimazione sono stati 136 così ripartiti: 121 tra non vaccinati, 8 tra parzialmente vaccinati, 7 tra completamente vaccinati; 35 i morti (28, 5, 2). Passando alla fascia 60-79, risultano 187 ricoveri in terapia intensiva (140, 11, 36) e 95 morti (80, 9, 6). Infine, la fascia over 80: 43 ricoveri in Ti di cui 24 completamente vaccinati (41,9%) e 110 morti, di cui 40 (36,4%) con doppia dose, 5 (4,55) con una sola. Dato sorprendente? No, è l’ormai noto effetto paradosso: più aumenta la percentuale di popolazione vaccinata più le quote assolute di contagi, ricoveri e decessi tra vaccinati e non vaccinati possono essere simili. Il 36,4% degli ultraottantenni deceduti per Covid tra il 25 luglio e il 25 agosto era completamente vaccinato, ma il riferimento (al 31 luglio) è a una fascia di età totalmente immunizzata al 90,2%. Si tratta di 40 casi su 4.106.201 persone. Il 59,1% dei morti non vaccinati invece, incide su una quota di popolazione over 80 del 7%: 65 casi su 320.296 persone.

Monoclonali: La cura c’è, tutto il resto invece manca

La sola cura per il Covid-19 fino a oggi ufficialmente riconosciuta è finita dentro un imbuto tipicamente italiano da cui esce col contagocce.

A sette mesi dall’autorizzazione all’uso, i pazienti trattati con farmaci a base di anticorpi monoclonali sono infatti stati soltanto 7.500 sparsi tra tutte le regioni d’Italia.

Alcune come Lazio, Veneto e Toscana svettano nella classifica; altre non brillano affatto come l’Umbria, che in una settimana ha registrato 800 nuovi contagi e un solo monoclonale somministrato.

Usa e Germania corrono Noi siamo in ritardo

Nel complesso, la via italiana ai monoclonali – unica cura autorizzata al mondo – procede tra strappi e ritardi. Si era aperta l’8 febbraio 2021 quando, superando molte resistenze, l’Agenzia italiana del farmaco ne aveva infine autorizzato l’uso, anche se soltanto in emergenza. Le aspettative però si sono presto infrante sui numeri: in questo lasso di tempo li abbiamo usati cinque volte meno che gli Stati Uniti, tre volte meno della Germania. E vai a sapere quanti pazienti si sarebbero potuti curare e salvare.

Il sottoutilizzo, va detto, non è dovuto alle risorse, perché già a febbraio il ministero della Salute aveva reperito quelle necessarie agli acquisti a valere su un fondo da 400 milioni: con una media di mille-duemila euro a fiala, a seconda del farmaco, si potevano garantire 200 mila infusioni.

La determina dell’Aifa Si allarga la platea

Perché in sette mesi ne sono state fatte 26 volte meno? Per quell’imbuto fatto di inerzie, burocrazia e disorganizzazione sanitaria che continua a minare l’uscita dal tunnel. Per tentare di rovesciarlo, l’Agenzia del Farmaco prova oggi ad allargare la platea dei soggetti candidabili all’infusione. Il 4 agosto ha emanato una determina che modifica i registri cui accedono i medici per le prescrizioni. I monoclonali valgono ancora per i pazienti non ospedalizzati ad “alto rischio di progressione a Covid19 severo”, ma i vincoli sui fattori di rischio sono diventati meno stringenti.

Più precisamente, la vecchia formulazione recitava: “Si definiscono ad alto rischio i pazienti che soddisfano almeno uno dei seguenti criteri”, e giù l’elenco delle patologie (immunodeficienza, malattie cardiovascolari, diabete mellito e così via).

Nella nuova, la frase lascia il posto a un più generico “alcuni dei possibili fattori di rischio sono…”, rimettendo così al medico il compito di selezionare il paziente idoneo alla cura.

Il Veneto su tutti Ma i numeri sono bassi

Esulta per questo il presidente del Veneto Luca Zaia: “Sarà possibile somministrare gli anticorpi monoclonali a tutti, mentre prima, in base alle indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco erano destinati solo a chi aveva anche altre patologie, ora invece le cure con i monoclonali sono aperte a tutti”.

E per una ragione fondata. Zaia sa che il primato della sua regione, che vanta il 50% di tutte le somministrazioni fatte in Italia, è in realtà ben poca cosa in termini assoluti: solo 72 richieste di prescrizione a fronte di 3.873 nuovi contagi in una settimana. Per questo il leghista tiene a far sapere ai veneti di aver informato tutte le aziende ospedaliere della buona novella.

Assistenza domiciliarePunto debole del sistema

Le somministrazioni a singhiozzo rivelano tutta la debolezza della medicina territoriale, quella che dovrebbe velocemente diagnosticare, valutare l’eleggibilità al trattamento e organizzare l’infusione endovenosa in strutture sanitarie autorizzate.

Su questo fronte, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, non si sono registrati miglioramenti, anche se l’ultimo monitoraggio disponibile attesta un aumento delle prescrizioni (389 contro 302 della settimana precedente). Il punto è che va così coi preparati di prima generazione, quelli che richiedono un’infusione di un’ora in strutture ospedaliere organizzate, figurarsi con quelli di seconda generazione, somministrabili attraverso una semplice iniezione intramuscolo direttamente a casa dei pazienti.

Non c’è un protocolloNuovo ritardo in vista

Diverse multinazionali e centri di ricerca, anche italiani, stanno mettendo a punto questi farmaci che, più semplici da somministrare, potrebbero ridare slancio all’arma spuntata che riduce infezioni e ricoveri e funge anche da barriera temporanea al virus e alle sue multiformi variazioni. I primi dovrebbero arrivare in autunno. A oggi però non c’è ancora alcuna determina Aifa relativa alla formulazione intramuscolo o protocolli nazionali per l’uso allargato in via domiciliare. Il prossimo ritardo, dunque, è già dietro l’angolo.