Il sogno della Liguria, il pallino Infrastrutture e l’incubo “spese pazze”

Il suo sogno è la presidenza della Liguria o il ministero delle Infrastrutture. Ma tra Edoardo Rixi e la consacrazione politica c’è sempre stato un ostacolo insormontabile. Due parole: “spese pazze”. Quell’inchiesta a Genova per peculato e falso è sempre stata il suo incubo. Perché per due volte ha messo una pietra sui suoi sogni di gloria. La prima, nel 2016: dopo due anni da vicesegretario della Lega con Riccardo Molinari, arrivò il rinvio a giudizio a Genova per le “spese pazze” da consigliere regionale in Liguria. Salvini non ci pensò un attimo: fuori Rixi e Molinari (anche lui a processo in Piemonte), dentro Giorgetti e Crippa. Ma Rixi fu subito ricompensato con un posto da responsabile Trasporti. Bossiano senza mai amare Bossi, a Genova ricordano le sue battaglie di gioventù: no a moschee, campi nomadi e case popolari agli immigrati. Ma non ha mai avuto i toni celoduristi del Senatùr. Tant’è che appena può sale sul carro di Salvini e oggi è considerato uno dei volti “istituzionali” della Lega, con ottimi rapporti con gli imprenditori del nord: si batte per Tav, ponte sullo Stretto e Terzo Valico. Nel 2019 quel processo tornerà a tarpare le ali a Rixi: condannato in primo grado a 3 anni e 5 mesi, deve dimettersi da viceministro ai Trasporti. I giudici lo condannano perché, come capogruppo in Regione, si sarebbe “appropriato” di 36 mila euro tra il 2010 e il 2012 “non pertinenti all’attività politica” e in prima persona avrebbe speso 19 mila euro tra ristoranti, bar, hotel e anche un viaggio “per versare nella laguna veneta l’acqua del Po”. A marzo, però, la Corte di Appello di Genova ribalta tutto: Rixi e gli altri 18 consiglieri vengono assolti perché il fatto non sussiste. Le “spese pazze” erano lecite in assenza di “parametri predeterminati dalla legge” in grado di stabilire la pertinenza con l’attività politica dei gruppi. A mettere la parola fine sarà la Cassazione. Ma nel frattempo Rixi esulta e oggi chiede un risarcimento. Sul Fatto, il 12 agosto, è stato tra i primi nella Lega a mollare Durigon: “La sua uscita non la condivido ed è incomprensibile”. Ora potrebbe prendere il suo posto.

 

Edoardo Rixi 47 anni, nato a Genova, ex assessore regionale in Liguria e viceministro al Mit nel Conte-1

Riecco lo sceriffo di Padova, tutto ronde e pistole (finito dal notaio)

Appena eletto sindaco di Padova, l’endorsement arrivò dallo “sceriffo” per eccellenza della Lega Nord, Giancarlo Gentilini da Treviso: “In Bitonci rivedo tutto me stesso”. Il perché è presto detto: da sindaco di Cittadella e poi di Padova, Massimo Bitonci è diventato famoso per le sue uscite anti-immigrati e le sue ordinanze creative che hanno ispirato i “decreti Sicurezza” di Matteo Salvini. Gli archivi delle cronache locali sono pieni di “sboronate” bitonciane: nel 2007 emanò l’ordinanza “anti-sbandati” che vietava l’iscrizione all’anagrafe comunale per chi non avesse dimostrato un’entrata minima di 5 mila euro; poi arrivarono le ronde notturne con 50 volontari; niente licenze per i ristoranti di kebab. Ma Bitonci non si fermava agli atti amministrativi: voleva anche dare l’esempio, fisicamente. Nel 2016 si presentò con i cani “anti-droga” nelle cucine delle mense per poveri per verificare se le suore osassero dare da mangiare anche ai “clandestini”. Dopo ogni spacconata, piovevano contro di lui le accuse di razzismo. Ma Bitonci niente, andava avanti come se niente fosse. Fu fotografato anche mentre puntava il dito contro il campanello di una casa dove era stato accolto un profugo e nel 2016 annunciò di aver preso il porto d’armi: andava a sparare al poligono perché “come sindaco sono esposto a rischi”. Gentilini si fermava alla pistola giocattolo.

La notte dell’11 novembre 2016, esausti dal suo modo di governare, 17 consiglieri comunali, di cui due forzisti, si presentano dal notaio per dimettersi e farlo cadere. Lui grida alla “congiura” e si ricandida, ma Padova passa al centrosinistra. Così lui, salviniano della prima ora, prova a sbarcare il lunario a Roma: durante il Conte-1 è stato sottosegretario al Mef. Sarebbe un ritorno, dopo Durigon. Ma a frenare le sue ambizioni sono i suoi pessimi rapporti con Luca Zaia che non ha mai amato le sue uscite al limite del razzismo. Nel 2014 Bitonci in Senato si rivolse così alla ministra Kyenge: “Lei non sa cos’è l’integrazione, vuole favorire la negritudine come in Francia, ma noi possiamo farne a meno”. Tra poche ore potrebbe gestire i conti pubblici italiani.

 

Massimo Bitonci, 56 anni, è stato sindaco di Cittadella e Padova. Nel Conte-1 sottosegretario al Mef

Durigon silurato e promosso. Sarà il vice di Salvini al Sud

Non è stato gratis il sacrificio di Claudio Durigon. Il leghista pontino, costretto alle dimissioni da sottosegretario dopo la proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino, nelle ultime ore ha deciso di cancellare i suoi impegni pubblici e dedicare del tempo alla sua famiglia. Ma appena sarà nominato il suo successore – nelle ultime ore Edoardo Rixi ha superato Massimo Bitonci nelle quotazioni (qui sotto i loro ritratti) – Salvini lo ricompenserà: nelle prossime settimane, passata la tempesta, Durigon sarà nominato vicesegretario della Lega con delega al Centro-Sud. L’ex sindacalista dell’Ugl, ironia della sorte, andrà ad affiancare quel Giancarlo Giorgetti che ha contribuito alle sue dimissioni, il veneto Lorenzo Fontana e il lombardo Andrea Crippa. Durigon sarà il primo esponente del Centro-Sud nominato vicesegretario. Non solo: l’ex sottosegretario manterrà anche il suo ruolo di coordinatore regionale del Lazio e di responsabile Lavoro.

Un fatto non scontato visto che proprio lui, considerato l’ideatore di “Quota 100”, con ogni probabilità tornerà a trattare con il governo quando in autunno sarà affrontata la riforma delle pensioni, del reddito di cittadinanza e quella del fisco. Questo ha chiesto Durigon nella lunga telefonata di giovedì con Salvini e così gli ha promesso il segretario della Lega. Tant’è che ieri proprio Salvini, da Pinzolo, ha alzato i toni dello scontro proprio sui temi economici: “Durigon è stato attaccato perché è il papà di Quota 100, qualcuno vuole tornare alla legge Fornero”. E ancora: “Presenterò un emendamento per cancellare il reddito di cittadinanza: usiamo quei soldi per tagliare le tasse e per finanziare Quota 100”.

Ma la promozione di Durigon a vicesegretario con delega al Centro-Sud non avrà un valore solo simbolico. Con questa mossa Salvini vuole iniziare a porre un argine contro quell’ala del nord rappresentata da Giorgetti e Luca Zaia che, da subito, si è mossa per far dimettere il sottosegretario. Durigon è sempre stato visto dalla fazione nordista come un “alieno” per la sua rapidissima ascesa nel partito e non è un caso che proprio dal Veneto del “doge” Zaia siano piovuti gli attacchi più duri nei confronti del sottosegretario e contro quei parlamentari del nuovo corso salviniano – leggi Claudio Borghi, Alberto Bagnai, Armando Siri – scesi in piazza contro vaccini e green pass. “Con questi qua non andiamo da nessuna parte”, sibila un senatore leghista. Salvini ha capito che, seppur dalle retrovie, l’assalto di Zaia e Giorgetti alla sua segreteria è partito. Per questo vuole puntellarsi con il “soldato” Durigon e circondarsi di altri fedelissimi. Magari, provando a indebolire Giorgetti e Zaia a casa loro: nelle prossime settimane Salvini riabbraccerà Flavio Tosi, storico nemico del governatore veneto.

La “Meg Ryan” di Silvio tira la volata a Gualtieri

Nuova avventura per Beatrice Lorenzin: sarà la presidente del comitato elettorale di Roberto Gualtieri a Roma. È l’approdo di una carriera turbolenta: per tanti anni fu la “Meg Ryan” di Silvio Berlusconi, poi la vice di Angelino Alfano in Ncd, la ministra della Salute nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, la sfortunata leader di una lista “petalosa”, ora parlamentare di centrosinistra, accolta da Nicola Zingaretti nel Pd nel 2019. Un grande acquisto per un partito progressista: Lorenzin è rigida sui diritti Lgbt, contraria a matrimoni e adozioni omosessuali, proibizionista sulle droghe leggere, reazionaria sull’aborto. “Io sono sempre coerente, non sono cambiata”, dice lei: è il mondo che le è girato intorno e si è spostato a destra. Ecco il meglio del Lorenzin-pensiero, per come si è manifestato nel corso degli anni.

I comunisti romani. “Vedo il pericolo reale di una cultura dispotica. A lei sembra normale che presidenti di Municipi romani guidino le occupazioni di case? (…) Questa intolleranza è il comunismo, di cui parla il Cav. C’è, eccome”. (2006)

Silvio è immenso. “Grande uomo di Stato. Energia incredibile. Geniale. Ha intuizioni che precedono i tempi. Sempre primo in tutto. Abile”. (2006)

Ma quale Rubygate. “Quando si parla della dignità delle donne, dovremmo valutare con attenzione quello che Berlusconi con il suo governo ha fatto e sta facendo a favore di tutte le donne italiane”. (2010)

Ma quale frode fiscale. “Berlusconi è stato una figura di volta della storia democratica di questo paese. Eliminarlo dalla scena per via giudiziaria sarebbe gravissimo, inaudito, significherebbe rinnegare 20 anni di storia d’Italia”. (2013)

L’infatuazione per Stamina. “È indispensabile far capire a tutti che abbiamo seguito le procedure previste dalla legge e scritte da questo Parlamento, e c’è stata una tale buona fede da parte di tutti di voler pensare che avremmo avuto un esito positivo che non è stata prevista una misura di uscita dalla sperimentazione nella norma. Purtroppo il comitato (per la sperimentazione del metodo Stamina) ha dato una valutazione negativa”. (2013)

La svolta. “Il nostro leader è Alfano, il nostro segretario politico”. (2013)

Per quanto, anche Matteo… “Non capisco chi sostiene che dovremmo essere alternativi a Renzi, semmai siamo complementari”. (2015)

Casi psichiatrici. “Tutta la letteratura psichiatrica da Freud in poi riconosce l’importanza per il bambino di avere una figura paterna e una materna per la formazione della propria personalità”. (2014)

“Fertility Day”. “Dopo le critiche suscitate dalla prima versione delle cartoline promozionali (…) il ministro Beatrice Lorenzin aveva dichiarato di voler procedere con una nuova strategia di comunicazione (…). Nell’immagine sono contrapposte buone e cattive abitudini: le prime sono rappresentate da ragazzi biondi e sorridenti, le seconde da giovani di colore con treccine afro”. (Il Fatto Quotidiano, 21-9-2016)

Aborto. “Pillola abortiva in consultorio? La 194 non lo prevede” (2017)

Un nuovo partito! “Il simbolo di ‘Civica popolare’ non è una margherita, è un fiore petaloso”. (2018)

Finalmente nel Pd. “Il mio è un percorso lineare, credo di essere lì dove sono sempre stata e dove ho cominciato la mia esperienza politica, dalla parte di chi vuole difendere la democrazia liberale”. (2019)

“Dividersi è sbagliato: Napoli è il laboratorio per il futuro giallorosa”

Napoli è “mille colori”, come cantava il poeta Pino Daniele, ma abbonda anche di liste. “Quelle che mi appoggeranno saranno 13” dice al Fatto Gaetano Manfredi, candidato sindaco per Pd, M5S e una coalizione con dentro anche Iv (senza simbolo). Tutti per l’ex ministro dell’Università, contiano doc, già tecnico di area dem.

Tredici liste sono troppe a prescindere, non crede?

Sono tante e fanno quasi tutte riferimento a partiti nazionali: quando mi è stato chiesto di candidarmi sul tavolo c’erano 24 componenti politiche, abbiamo già semplificato molto.

Su Repubblica il Pg Riello ha chiesto ai partiti di “coagulare le persone migliori e non compromesse”. Lei sostiene che devono occuparsene innanzitutto le forze politiche. Ma il primo filtro non deve essere il candidato?

I partiti devono selezionare candidati al di sopra di ogni sospetto, poi il candidato deve vigilare. Ho fatto sottoscrivere a tutti un codice etico e istituito un comitato di garanzia, esterno ai partiti, che valuterà i candidati.

Serve un comitato per decidere che è meglio non ricandidare i due consiglieri uscenti dem Madonna ed Esposito, già condannati per violazione della legge elettorale, in relazione a firme false per la lista Valente? Tentenna perché portano tanti voti?

Non è quello il punto, in una città così grande uno o due candidati non fanno la differenza. Il Pd ha sollevato un tema politico: il segretario cittadino Sarracino ha detto che i due consiglieri furono indotti a fare questa cosa, e che il suo partito si assume ogni responsabilità per quanto accadde. La valutazione finale è in capo al Pd locale e nazionale.

Il candidato di centrodestra Maresca punge: “Candidano i Bobò (Esposito, ndr)”.

Il giudizio principale lo danno gli elettori. Nella responsabilità diretta del sindaco ci saranno le scelte su giunta e ruoli apicali, e sarò molto netto su questo. Dopodiché il processo di selezione sulle liste è stato trasparente.

Lei ha posto ai giallorosa il tema dei disastrati conti di Napoli, e sostiene che le servono mille assunti in Comune entro l’anno.

Dieci anni di austerità hanno provocato grandi problemi alla nostra città, come ad altre. Ora il Comune ha solo 4 mila dipendenti: 10 anni fa erano 12 mila. Così non puoi erogare servizi come anagrafe e verde, ma neppure spendere le risorse, penso al Pnrr. Serve personale giovane e qualificato. E serve l’autorizzazione per spendere, visto che Napoli è in pre-dissesto.

C’entrerà anche la gestione di De Magistris, no?

Il punto ora è il presente e il futuro dei cittadini napoletani. C’è anche il tema del debito pregresso: è necessario lo scorporo del debito con una compartecipazione dello Stato per coprire quello vecchio.

I partiti cosa le dicono? Queste misure andrebbero in legge di Stabilità.

Sì, almeno per ciò che riguarda i primi atti. Sto avendo buoni segnali: sono fiducioso.

Per vincere deve superare anche Antonio Bassolino.

Bassolino ha governato per 20 anni tra Napoli e Regione, e noi dobbiamo guardare al futuro.

Se andrete al ballottaggio dovrete trattare con lui…

C’è stima reciproca, ma ora siamo in competizione. Peccato perché la divisione, che certo non è imputabile a me, favorisce il candidato di Salvini.

Il governatore De Luca per lei è un alleato o un uomo che le terrà il fiato sul collo? Perfino i 5 Stelle gli lanciano segnali…

Lo considero un alleato: ha interesse a governare bene la Campania e ad avere Napoli ben governata. I rapporti con i 5S stanno migliorando proprio perché si inizia a lavorare assieme.

Lei è l’unico candidato di sintesi dei giallorosa. E per Conte e Letta la sfida di Napoli è decisiva.

Noi siamo il laboratorio da cui questo progetto può svilupparsi, perché a Napoli si combinano i temi dello sviluppo e dell’inclusione sociale: tra M5S, il Pd e un’area moderata si può costruire un progetto per il Paese.

Conte: “Ora Salvini attacca Lamorgese? Ma lui ha fatto peggio”

“Conte, togliti la mascherina!”. L’avvocato ovviamente in blu esegue, la platea con diverse e rumorose presenze femminili applaude volentieri. Giuseppe Conte sul palco della festa di Affari Italiani a Ceglie Messapica, 20 mila anime in provincia di Brindisi, è innanzitutto questo, un uomo politico che gioca assolutamente in casa, nella sua Puglia. Appena si manifesta in piazza parte l’inevitabile coro: “Conte, Conte!”. Un discreto nugolo di telecamere a circondarlo, un paio di selfie al volo, mentre la sua compagna si siede in prima fila. Poi l’ex premier si accomoda nel finto salotto di velluto che fa da scenografia. Collegato c’è anche Stefano Fassina, e assieme difendono a voce alta il reddito di cittadinanza.

Prime scene di quello che è un quasi simbolico passaggio del testimone, l’avvocato si siede sulla poltrona lasciata vuota la sera prima da Claudio Durigon, l’ormai ex sottosegretario leghista di cui anche lui, Conte, aveva invocato le dimissioni. Una staffetta involontaria che va in scena in un paese di calce bianca e angoli da cartolina, quello del suo portavoce Rocco Casalino. In un aggrapparsi disperato all’avversario, sia Durigon che Salvini nelle scorse ore avevano invocato le dimissioni della ministra dell’Interno Lamorgese e proprio del leader dei Cinque Stelle, di Conte. “Ma non si capisce da cosa dovrei dimettermi” dice l’ex premier al Fatto in serata, mentre si prepara per salire sul palco. Prima di discutere di reddito di cittadinanza, lavoro e Afghanistan ha molto da dire sul caso dell’ex sottosegretario: “Abbiamo dovuto aspettare 22 giorni prima che Durigon facesse un passo di lato. E va ricordato che quelle dichiarazioni le aveva pronunciate alla presenza del leader del suo partito, Salvini, che non aveva trovato nulla da obiettare”. Il capo del Carroccio, il suo ex vice ai tempi in cui sedeva a palazzo Chigi, continua a bombardare l’avvocato e la ministra che lo ha sostituito al Viminale. Ma Conte respinge l’assalto alla Lamorgese, bocciando, ancora una volta, il Salvini che fu ministro: “Quando era lui all’Interno gli chiesi di rafforzare il sistema dei rimpatri, e non lo ha fatto. Non ha saputo gestire i flussi migratori. E con le sue assenze ai vertici europei non ha certo potuto indirizzare il lavoro degli altri ministri della Ue”. Chiaro il messaggio: il leghista non può chiedere le dimissioni dell’attuale ministra, non con la sua storia al Viminale. Ma ora, che scorie politiche lascerà il caso Durigon? “C’è un tema di etica pubblica, della politica, e su questo il M5S rimarrà un cane da guardia”. Le lancette corrono, l’avvocato deve salire in auto per andare alla manifestazione. Però è naturale chiedere del silenzio di Mario Draghi sul caso Durigon. Conte riflette per qualche attimo, e risponde: “Io prendo atto della soluzione, e immagino che Draghi abbia contribuito in modo discreto all’esito, quello delle dimissioni”. Intanto le agenzie raccontano di ricorsi in arrivo contro l’elezione a presidente del Movimento di Conte. Strascichi in fondo prevedibili dello scontro, durissimo, con l’associazione Rousseau su regole e rotta politica. Ma il nuovo capo ostenta tranquillità: “Se ci sono ricorsi l’autorità giudiziaria li valuterà, noi andremo avanti tranquilli con la nostra forza e il nostro progetto”. Saluti, Conte deve proprio andare. In platea lo aspettano senatori pugliesi del M5S. E arriva pure il plenipotenziario del Pd in Puglia, Francesco Boccia, che deve guardare positivo: “Siamo alleati con i Cinque Stelle in due grandi capoluoghi su sei, è già un grande risultato. Ma per fare un’alleanza ci vuole coraggio, e quello chiedo al Movimento”. Sul palco sovrastato da un angosciante rosone di plastica, manufatto tipico delle feste di paese, salirà anche l’ex ministro. A pochi metri, l’insegna scolorita della sede del Pd. Sul maxischermo, rotolano le cifre dei sondaggi sul voto nelle città. Ma poi arriva Conte, quello che rivendica il reddito di cittadinanza: “È una misura di elementare civiltà, casomai ora il tema è il salario minimo”. Vuole marcare la differenza con il centrodestra, perché è in campagna elettorale. “Sul reddito fanno demagogia sulla pelle della povera gente” quasi urla. Poi inizia l’intervista con Lucia Annunziata. E alla fine si parla del governo Draghi. Che giudizio dà dei primi sei mesi? “Sono state fatte cose positive, ma su alcuni aspetti ho opinioni differenti. Ad esempio io non avrei sospeso il cashback, una misure che rilancia i consumi e che combatte l’evasione”. E sono applausi, dal suo pubblico.

Usa, scarcerazione killer di Bob: il clan Kennedy spaccato

Camelot bisticciaanche sul proprio passato e i propri morti. Il clan dei Kennedy si spacca sulla libertà condizionale all’uomo condannato per l’assassinio di Rfk: sei dei figli di Bobby ed Ethel hanno contestato la raccomandazione di due membri del Parole Board di far uscire Sirhan Sirhan dal carcere di San Diego, dove ha già scontato 52 anni di reclusione.

Forte dell’esplicito appoggio di altri due sopravvissuti della numerosa prole della ormai sbiadita “famiglia reale americana”, Sirhan venerdì ha ottenuto quello che ad altri celebri ergastolani (Charles Manson della strage di Bel Air morto in carcere, Mark David Chapman per l’assassinio di John Lennon) è stato negato. “Ha tolto il padre alla nostra famiglia e all’intera America”, hanno invece scritto “devastati dalla decisione” l’ex deputato Joe Kennedy, Courtney, Kerry, Christopher, Max e Rory, nata pochi mesi dopo l’assassinio del papà, assassinato come il fratello, presidente nel ‘63: “Siamo esterrefatti che sia stato raccomandato il rilascio”. Ma altri due figli Kennedy (degli 11, David e Michael sono morti tragicamente) hanno avallato il parere del Board: Douglas, che aveva poco più di un anno quando Sirhan aprì il fuoco all’hotel Ambassador di Los Angeles, è apparso in aula, “grato di vedere un essere umano che merita compassione dopo aver passato la vita nella paura di lui e del suo nome”; mentre Robert, e con lui la sorella Kathleen, è stato convinto da Paul Schrade, uno dei feriti nella sparatoria, secondo cui Sirhan non è il vero assassino.

Rifugiato palestinese oggi 77enne, Sirhan fu condannato nel 1969 alla camera a gas, commutata nell’ergastolo quando nel 1972 la Corte Suprema della California mise brevemente al bando la pena capitale. L’udienza era la 16a davanti al Parole Board e la prima in cui la Procura di Los Angeles non è intervenuta contro il condannato.

“Io, ‘il Mauritano’: da Obama dito medio, Guantanamo è per sempre”

Oggi perdono la guerra gli americani, trent’anni fa in Afghanistan la perdevano i sovietici. Le regole di ingaggio delle truppe straniere che combattono tra quei deserti non sono mai cambiate da allora: bisogna sempre ricordare che tra le montagne pashtun i nemici di ieri possono diventare alleati di domani. All’epoca, per combattere i russi, giovani musulmani arrivavano da ogni latitudine per addestrarsi con un movimento di mujahidin sostenuto dagli Usa: al-Qaeda. Per pochi mesi lo fa anche il ventenne mauritano Mohamedou Ould Slahi, che però nel 1992 torna a casa recidendo ogni legame con i miliziani, tranne che con suo zio, che gli telefona qualche anno dopo. Per farlo usa il satellitare di un uomo di cui pochi conoscevano il nome negli anni 90: Osama Bin Laden. Per questi due motivi, quando cadono le Torri Gemelle, Slahi viene prelevato dalla Cia e viene rinchiuso a Guantanamo, dove rimane 12 anni: da innocente. Adesso che il film The Mauritanian, di Kevin Macdonald, l’hanno visto milioni di persone, “tutti conoscono questa storia”, dice in quell’inglese dalla pesante cadenza americana che ha imparato sentendo parlare le guardie Usa fuori dalla sua cella.

Prelevato dalla Cia in Mauritania nel 2001, trasportato in una prigione in Giordania, trasferito a Bagram, ormai ex base Usa in Afghanistan: lei è arrivato a Guantanamo nel 2002.

Quando sono stato rapito dalla Cia ero da solo a casa con mia madre, l’ho vista diventare sempre più piccola nello specchio retrovisore finché non è scomparsa, per sempre. È morta mentre ero in detenzione. Nel gergo militare Usa si chiama “extraordinary rendition”, un eufemismo per rapimento. Mi hanno violentato tre volte. Per settanta giorni mi hanno impedito di dormire. Mi picchiavano ogni giorno finché non mi hanno rotto le costole. Hanno provato ad affogarmi col waterboarding, poi in mare. Quello che dico è tutto scritto nei documenti della Cia. Sono stato il primo detenuto di Guantanamo a cui volevano dare la pena di morte.

Per 12 anni il dipartimento di Giustizia, la Cia o Washington non hanno mai formalizzato accuse ufficiali contro di lei.

Quando chiedevo la formalizzazione delle mie accuse, rispondevano: devi essere tu a dirci che cosa hai fatto. Nessuna delle guardie che mi ha torturato è stata processata. Ma non gli auguro niente di male, nemmeno all’uomo a capo dei torturatori: Richard Zuley, che adesso è anziano. Senza la supremazia della legge we are screwed, siamo tutti fottuti. Dopo le Torri gemelle, gli americani hanno detto: la legge vale per noi, per il resto del mondo no.

Lei un giorno firma una confessione per gli attacchi di al-Qaeda avvenuti su suolo Usa.

Mi hanno detto che stavano andando a rapire mia madre. Vedevo le loro labbra muoversi, sentivo solo un ronzio, non c’ero più con la testa.

Poi è arrivata Nancy Hollander, l’avvocatessa che oggi difende la whistleblower Chelsea Manning.

Nel 2005, il giorno in cui l’ho conosciuta mi hanno dato una divisa nuova e mi hanno fatto fare la doccia. Quando l’ho vista l’ho abbracciata e ho pensato che avrei vinto, come in una puntata di Law and Order. Solo nel 2009 un giudice, molto conservatore, ha esaminato il mio caso e ha deciso di liberarmi. Avevo vinto, ma alla sua decisione fece appello l’amministrazione Obama, che mi fece un enorme dito medio. Sono rimasto a Guantanamo per altri sette anni. Sono uscito nel 2016.

Oggi le celle nella baia cubana sono ancora lì.

Nessun presidente americano rischierà il suo capitale politico per chiudere Guantanamo: dentro soffrono arabi, africani, mediorientali. Chiuderla non ti fa eleggere alla Casa Bianca. Ma prima degli arabi e africani che sono lì dentro, la vera vittima è la democrazia.

Della tua guardia Steve Wood hai detto: “Siamo diventati amici quando contava di più, nel momento più buio”. Lui ha detto di te: “Mi ripetevano che era un terrorista di al-Qaeda, ma era impossibile non volergli bene”. È venuto a trovarti in Mauritania, si è convertito all’Islam.

In cella ero sempre spaventato. Poi è arrivato questo ragazzone che ha detto “eeeehi, vuoi un caffè?”, che a me non piace. Accettai, mi insegnò a giocare a carte. Siamo diventati amici sparlando delle altre guardie.

In questa intervista ha sorriso tutto il tempo sullo schermo e citato continuamente il Grande Lebowsky “dove è l’uomo sbagliato a pagare”. Come si fa dopo 12 anni da innocente a Guantanamo a essere così felice?

Nella vita devi decidere quali sono le priorità e io l’ho fatto nel 2002, quando ero a Bagram e mi dissero che sarei tornato a casa. Per un momento ci ho creduto. Non sapevo quanti mesi erano passati, se fuori era giorno o notte. Mi bendarono, mi tagliarono i vestiti con le forbici, ero completamente nudo e cieco. Mi stavano portando a Guantanamo Bay. In quel momento ho cominciato a rimpiangere non di non avere tanti soldi o una bella casa, ma che avevo detto cose cattive a mia madre. Mi promisi che sarei stato da allora in poi un uomo gentile. In arabo le parole “libero” e “perdono” hanno la stessa radice. Io voglio vivere da uomo libero.

La Farnesina ritrova l’orgoglio

Atterratoieri mattina a Fiumicino l’ultimo aereo italiano con i profughi afghani, ma anche con il personale dell’ambasciata presente ancora a Kabul, a partire dal console Tommaso Claudi e dall’ambasciatore Nato Stefano Pontecorvo. Di Maio soddisfatto: “Avete onorato il Paese”.

La vicenda del console Claudi, che console non è essendo ancora Secondo Segretario, durerà ancora a lungo. Perché, come si è visto da immagini molto efficaci, ha dato prova di saper stare sul campo e rendersi utile, dopo il rientro dell’ambasciatore ad agosto motivato da “valutazioni operative”. E perché sarà il simbolo del ritrovato orgoglio della diplomazia italiana, in genere non particolarmente visibile. Luigi Di Maio ieri mattina ha voluto rimarcare che Claudi “ha fatto onore all’Italia”, ma soprattutto che l’organizzazione dei rimpatri, con circa 5000 persone evacuate da Kabul, “è il primo per numero dell’Unione europea”. Meglio dell’Italia, infatti, solo Usa e Gran Bretagna.

Ieri mattina a Fiumicino c’era sicuramente un’aria di festa, oltre che di mestizia per quanto accaduto nei giorni scorsi. Il comandante del contingente Carabinieri presso l’ambasciata, Alberto Del Basso, ha espressamente riconosciuto a Claudi il merito di aver risparmiato vittime ai militari italiani avendo preso sul serio gli avvisi di attentati terroristici e tenuto tutti al sicuro.

La situazione a Kabul è rimasta “caotica” dice ancora Del Basso, mentre l’ambasciatore Pontecorvo fa sapere che dall’aeroporto non partirà più nessuno, ma che sono calme per il momento le vie di terra. Anche per questo sia l’Italia, con Di Maio e ieri anche con Enrico Letta, sia la Francia con il presidente Emmanuel Macron, insistono sull’organizzazione di vie di transito per garantire il deflusso di rifugiati. “Corridoi umanitari” dice Letta, mentre Macron annuncia “contatti” con i talebani per organizzare gli aiuti umanitari. Dipenderà dagli equilibri che si troveranno a Kabul – ieri si sono svolti colloqui tra l’ex presidente Hamid Kharzai ed emissari talebani – e da come l’occidente deciderà di restare.

Tornando all’Italia, quello che emerge da questa vicenda è un senso di ricompattamento interno alla Farnesina e di spirito di squadra. Si rafforza anche il ruolo di Enrico Sequi, già ambasciatore a Kabul e passato da capo di Gabinetto di Di Maio a segretario generale. Lo stesso Di Maio si presenta molto attivamente e anche ieri ha rilanciato il “piano italiano” per l’Afghanistan, per la verità al momento un po’ generico, ma tutto proiettato all’attività umanitaria.

“Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”

Il rischio, dice in questa intervista Lucio Caracciolo, direttore di Limes, uno dei migliori interpreti italiani della politica internazionale, è ritornare al vecchio circolo della guerra al terrorismo. E questo avverrà con un’America in crisi di identità e un’Europa che non può costituire un’alternativa semplicemente perché non esiste.

Con quello che accade in queste ore, il ritorno degli attacchi con i droni, la guerra al terrorismo, possiamo dire di essere punto e a capo?

Sì, ma non per quello che accade sul terreno, ma per un problema culturale. Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. È però anche una guerra contro noi stessi.

Perché contro noi stessi?

Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.

In questo quadro pieno di ombre che giudizio dare degli Usa? Sono in grado di reggere la scena?

Impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della “guerra fredda” che ha privato gli Usa di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro (ad esempio in Afghanistan c’erano i sovietici) e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.

Le strategia all’insegna dello “scontro di civiltà” o della “fine della storia” non sono state un’alternativa…

Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste.

La crisi è più profonda, si esprime anche negli assurdi dibattiti attorno al conflitto tra “democrazia” e “schiavo-democrazia” che proiettano il passato sul presente facendo perdere il principio di realtà. E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America

Sul fronte afghano, invece, quanto sono diversi i talebani?

Non ho frequentazioni, ovviamente (ride, ndr), ma da quello che si intuisce ci sono differenze e la principale è che ora sono diventati loro il governo. E come accade quando si va al governo questo implica un cambiamento di fondo. L’ultima volta che hanno avuto il potere è finita come è finita. Il rischio, anzi la certezza, è che ci sarà un certo grado di guerra civile, o di guerra tra potentati, e il controllo dei talebani non sarà totale. Anche perché il sistema afghano non garantisce un controllo totale.

Pensa che l’Europa, come scrivono diversi analisti possa ora trovare un suo nuovo spazio?

No, non ci sarà nessun cambiamento, semplicemente perché gli Stati Uniti esistono mentre l’Europa no. Certo, appare evidente che per via della postura assunta dagli Usa nel tempo, la stabilità interna dei paesi europei è in questione e il grado di sicurezza proveniente dagli Usa è ora discutibile. Questo implica delle novità per i paesi che possono surrogare questa carenza.

Si tratta quindi di prospettive che riguardano i singoli paesi?

Nessuno può pensare di agire ed esercitare un ruolo da solo, ma si possono creare delle solidarietà e delle intese. Penso in particolare a Italia, Francia e Germania, sapendo che gli inglesi restano dentro lo spazio europeo con una forza rispettabile.

Che efficacia può avere l’iniziativa di Mario Draghi per un G20 che governi la crisi?

Può avere un fondamento perché coinvolge cinesi, russi, ma anche iraniani e pakistani, cioè le potenze interessate al caso afghano. Ma il nostro problema non è l’Afghanistan, siamo noi nel contesto europeo e occidentale che rischiamo di entrare in un altro ciclo di guerra al terrorismo. Ma siamo ancora in tempo per evitare di ripetere gli errori.

Il caso del console Claudi mostra una nuova diplomazia italiana?

Ci sono, nelle nostre strutture statali non straordinariamente coese, delle eccellenze e intelligenze che andrebbero meglio sfruttate.