Marines e Talib, accuse reciproche sugli spari omicidi allo scalo di Kabul

Prima il rimpallo di responsabilità con i talebani sulla falla nella sicurezza dell’aeroporto di Kabul al momento dell’attentato di giovedì. “Gli studenti” convinti che a guardia del “canale” dove un kamikaze Isis si è fatto esplodere dovessero esserci i marines, e gli Stati Uniti sicuri che a guardia dello scalo fossero i talebani. In mezzo 170 vittime. Ieri a mettere in dubbio l’operato dei marines sono arrivate testimonianze dirette: “Ho visto soldati americani e di fianco soldati turchi e il fuoco veniva dai ponti, dalle torri, dai soldati”, ha raccontato alla Bbc un sopravvissuto, fratello di una delle vittime, un taxista che lavora a Londra tornato a Kabul per aiutare la famiglia a fuggire. L’attacco a Kabul è “la conseguenza di due fattori. In primo luogo, è colpa dei soldati americani: hanno fatto venire migliaia di persone all’aeroporto. Era loro responsabilità. Il secondo è che per noi era impossibile garantire pienamente la sicurezza con tutta questa folla”. Ha rincarato la dose a France 24 il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid. “Come si fa a filtrare una per una migliaia di persone in uno spazio così piccolo? C’era chi stava arrivando e chi c’era già. Ecco come è passato il kamikaze”, ha aggiunto. La Difesa Usa non ha commentato.

Ma al Washington Post i funzionari Usa si sono detti convinti che dopo l’esplosione siano stati i combattenti talebani a sparare e che alcuni americani e afghani siano stati uccisi proprio da loro. “C’era così tanta confusione dopo l’esplosione – ha dichiarato il sergente maggiore Hank Taylor – che inizialmente i militari hanno riferito di un secondo attentato suicida al Baron Hotel poi rivelatosi inesistente”. “I marines che giovedì pattugliavano Abbey Gate erano arrivati a Kabul una settimana prima. Erano freschi e si sono coordinati subito con i loro omologhi britannici per far passare quante più persone possibile”, scrive il Wp. “I marines morti stavano aiutando la nostra squadra”, ha detto Cori Shepherd, una regista che aiutava le ragazze afghane. “Coraggiosi oltre misura”. Il contrammiraglio Peter G. Vasely, ex membro dei Navy Seals che gestiscono le operazioni aeroportuali giura di aver chiesto ai talebani di controllare più da vicino l’ingresso verso Abbey Gate, senza grossi risultati. Intanto la tensione è alle stelle: un alto ufficiale dei marines è stato sospeso per avere criticato la leadership militare e politica dopo l’attentato in cui è rimasto ucciso anche un suo collega e amico. Si tratta del tenente colonnello Stuart Scheller, che, come rivela Cbs News, dopo l’attacco ha postato su Facebook un video nel quale chiedeva ai suoi comandanti militari e ai responsabili politici di rendere conto degli errori compiuti durante il ritiro dall’Afghanistan. “Le persone sono arrabbiate perché i loro leader li hanno abbandonati e nessuno sta alzando un dito per assumersi la responsabilità e dire che abbiamo fatto un casino”. Tra i bersagli delle sue critiche il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, e il generale Mark Milley, capo degli Stati Maggiori Riuniti, per aver testimoniato che le Forze nazionali afghane avrebbero resistito e per avere permesso la chiusura della base aerea di Bagram, ex roccaforte Usa in Afghanistan, costringendo i militari Usa e occidentali a compiere l’evacuazione dei civili dall’aeroporto di Kabul.

La denuncia sepolta di Hale: “A distanza si uccidono i civili”

Si chiama Daniel Hale, ha trentatré anni, ed è un ex analista dell’intelligence americana. È in prigione e quindi non può parlare, ma se potesse farlo, l’opinione pubblica potrebbe capire in che misura i droni sono davvero la risposta all’inferno in cui è precipitato l’Afghanistan.

Quarantotto ore dopo l’attentato suicida all’aeroporto di Kabul, gli Stati Uniti hanno subito risposto con un attacco con un drone, che secondo il Pentagono avrebbe ucciso due affiliati all’Isis coinvolti nell’attentato. Le autorità americane hanno escluso che siano stati colpiti civili, ma fonti locali parlano di vittime donne e bambini. Hale arrivò in Afghanistan nel 2012, ad appena ventiquattro anni. Di intelligenza brillante, finì nella cruciale base americana di Bagram, assegnato a individuare gli obiettivi da uccidere con i velivoli a pilotaggio remoto.

Alla base della guerra dei droni c’è la sorveglianza di massa portata avanti dalla Nsa, l’agenzia del governo statunitense i cui segreti sono stati rivelati da Edward Snowden, tanto che Snowden ha raccontato: “Potevo seguire in tempo reale i droni mentre sorvegliavano persone che avrebbero potuto uccidere. Potevo osservare interi villaggi e qualsiasi cosa facessero i loro abitanti”. Presto Daniel Hale si trovò ad affrontare i problemi di coscienza che quel tipo di guerra pone. Da sempre il governo americano presenta gli attacchi con i droni come di precisione chirurgica, ma giorno dopo giorno, Hale si rese conto che non era così. Vide eliminare esseri umani in zone remote dell’Afghanistan di cui non si sapeva nulla e che non ponevano alcun pericolo immediato. Vide uccidere innocenti. Vide i colleghi guardare gli attacchi come uno spettacolo di intrattenimento.

“Continuavo a eseguire gli ordini e a obbedire per paura delle conseguenze”, ha raccontato durante il suo processo, “nel frattempo diventavo sempre più consapevole che la guerra (in Afghanistan, ndr) aveva pochissimo a che fare con la prevenzione di attacchi terroristici negli Stati Uniti e aveva molto più a che fare con i profitti dei costruttori di armi e dei cosiddetti contractors. Le prove erano intorno a me. Nella guerra più lunga e tecnologicamente avanzata della storia degli Stati Uniti, i contractor mercenari superavano due a uno i soldati in uniforme e guadagnavano dieci volte i loro salari”. Nel 2013, Hale decise di ascoltare la sua coscienza: passò 17 documenti segreti al giornale americano online The Intercept, fondato da Glenn Greenwald. Per la prima volta, emersero informazioni fattuali sulla segretissima guerra dei droni: spesso, 9 su 10 di quelli ammazzati erano innocenti. Incriminato con l’Espionage Act – la draconiana legge del 1917 che equipara le fonti che passano documenti segreti alla stampa per rivelare crimini di guerra alle spie che le passano al nemico – Daniel Hale è stato condannato a 45 mesi.

La settimana scorsa ha ricevuto il Sam Adams Award, il premio riservato a chi ha dimostrato integrità nel rivelare gli abusi dell’intelligence.

La foto del killer diffusa tramite un sito Amazon chiuso venerdì

Propagandava contenuti direttamente da Nida-e-Haqq, l’app dello Stato islamico che distribuisce precetti islamisti in lingua urdu il sito che ha utilizzato il cloud computing di Amazon web services fin da aprile scorso e che solo venerdì è stato chiuso dalla società dopo l’inchiesta del Washington Post. La scoperta del quotidiano Usa è avvenuta dopo la pubblicazione, da parte del sito di Isis della foto dell’attentatore dell’aeroporto di Kabul. Ma non si trattava certo del primo post dei terroristi che si affidavano alla tecnologia dell’azienda per promuovere l’estremismo. A scoprire il collegamento tra Nida-e-Haqq e Amazon services è stata Rita Katz, direttore esecutivo di Site intelligence Group, che monitora l’estremismo online: “Alcuni dei contenuti nella lingua parlata in Pakistan e anche in Afghanistan, includevano messaggi proprio della propaggine Khorasan”, ha dichiarato Katz, che ha spiegato come il codice sorgente dell’app mostri che “estrae parole e immagini da un sito web del braccio di propaganda dello Stato islamico, il cui contenuto è protetto da password e quindi non esaminabile”. Il sito, che non rispettava la politica di Amazon che vieta ai clienti di utilizzare il servizio di cloud computing “per minacciare, incitare, promuovere o incoraggiare attivamente la violenza, il terrorismo o altri gravi danni”, secondo Katz dimostra che “l’Isis può ancora trovare il modo per sfruttare una società di hosting come Amazon”. Dal canto suo, la società di Jeff Bezos sembra aver fallito la missione di individuare siti di questo genere. Per non parlare dell’intelligence Usa: l’app Nida-e-Haqq, secondo Katz “non ha tenuto un basso profilo, anzi, è sfacciatamente piena di affermazioni ufficiali dell’Isis e loghi di armi ed è creata per mantenere vivi e online i suoi messaggi”.

Droni e paura di attentati interni. Il “ritorno al futuro” di Joe Biden

Le operazioni di evacuazione dall’aeroporto di Kabul sono agli sgoccioli: per tutta la giornata, ieri sono continuate a “ritmo molto veloce”, dell’ordine di 7/8 mila persone in 24 ore. Obiettivo: consentire “a tutti gli stranieri” che lo vogliano di andarsene, prima della fine del ponte aereo. Poi, si potrà uscire dall’Afghanistan solo via terra: un viaggio disagevole e pericoloso, ovunque si vada. I militari americani cominciano a smobilitare. Oltre 120 mila persone hanno lasciato l’Afghanistan nelle ultime due settimane. Il Dipartimento di Stato sarebbe in contatto con circa 500 cittadini Usa, che attendono ancora assistenza per essere evacuati.

Gli imbarchi si sono svolti in un clima febbrile, per l’allarme venuto da Washington. L’ambasciata Usa raccomandava: “Non andate all’aeroporto. Chi si trova agli ingressi dello scalo deve lasciarli immediatamente”. La “massima allerta” ha contagiato gli Stati Uniti: c’è timore di attentati, dopo la prima ritorsione Usa contro l’Isis-K, condotta la notte tra venerdì e sabato per vendicare, in particolare, l’uccisione dei 13 militari americani caduti giovedì. L’intelligence valuta “tre minacce principali” sul territorio statunitense, compresa l’infiltrazione di elementi dell’Isis, o anche di al-Qaeda, fra i profughi afghani, che passano un approfondito screening.

Con un drone Reaper, in un ritorno al futuro della guerra, gli Stati Uniti hanno colpito un ‘pianificatore’ dell’Isis-K, che si trovava nella zona di Jalalabad, nella provincia di Nangarhar, nell’Est. L’individuo, il cui nome non è stato reso noto, era noto all’intelligence statunitense: per Bloomberg, non sarebbe stato direttamente coinvolto negli attacchi di Kabul, ma ne stava preparando altri. L’azione ha fatto un’altra vittima e un ferito.

Secondo la Cnn, il compound dove si trovava era sotto sorveglianza e l’ordine di colpire è stato dato solo dopo che la moglie e i figli ne erano usciti. Secondo la Fox, l’uomo era in auto. Non è chiaro se il raid sia destinato a restare un episodio isolato o se sia il primo di una serie d’azioni in risposta all’attacco a Kabul. La cosa certa è che il drone proveniva da una base nell’area del Medio Oriente, cioè da fuori dall’Afghanistan. Il raid è almeno la terza operazione di alto profilo di un Reaper: nel novembre 2015 un drone di questo tipo sparò dei missili Hellfires nell’attacco in Siria in cui fu ucciso Mohamed Emwazi, conosciuto come Jihadi John; e nel gennaio 2020, un Reaper uccise il generale iraniano Qassem Soleimani, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad.

Il presidente Biden ha personalmente approvato il raid contro l’Isis-K, ma l’ordine di colpire è stato impartito dal segretario alla Difesa Lloyd Austin. La Psaki ha detto: Biden vuole “morti” i responsabili dell’attentato di giovedì, “non vuole che vivano più su questa terra”, e il suo impegno a eliminarli “continuerà finché non avrà successo”. L’incursione col drone è considerata dai talebani “un chiaro attacco al territorio dell’Afghanistan”, ha fatto sapere il portavoce degli integralisti, Zabihullah Mujahid alla Reuters.

Quanto alla richiesta dei talebani che gli Usa tengano diplomatici a Kabul, il Dipartimento di Stato la sta vagliando. Per ora, la presenza diplomatica sarà drasticamente ridotta. Ieri, primo giorno lavorativo di una nuova settimana, in Afghanistan, i talebani hanno esortato tutte le dipendenti del ministero della Salute a riprendere il lavoro, “nelle province e nella capitale”: “L’Emirato islamico non ha problemi in merito”, ha fatto sapere il portavoce Mujahid. Centinaia di afghani hanno protestato invece davanti alla New Kabul Bank, riaperta da tre giorni, perché non possono prelevare più di 200 dollari al giorno. Dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio da mesi. Ma per i talebani “la priorità è la sicurezza”, ha detto Mujahid, che ha fatto sapere che controllano il 93-94% di Kabul.

Pupetto colpisce ancora

È tornato. Pupetto Montmartre di Champs Elysées, al secolo Bernard-Henri Lévy, per gli amici BHL, è tornato con un nuovo vibrante appello ai panciafichisti americani e ai mollaccioni francesi perché riempiano di armi il suo amico Massud jr. che a suo dire (di Pupetto, non di Massud) non vede l’ora di scatenare l’ennesima guerra per procura al posto nostro in Afghanistan e metterci l’ennesimo fantoccio dell’Occidente, vista l’ottima riuscita degli ultimi due. Un tempo Pupetto faceva danni contemporaneamente su Le Monde, L’Express e La Stampa, in stereo. Ora deve accontentarsi di Repubblica, perché in Francia ormai lo conoscono. E non solo lì. Avendo sponsorizzato tutte le guerre dell’Occidente (regolarmente perse), la sua fama lo precede ovunque. Infatti non può metter piede fuori dalla Francia senza essere inseguito da folle inferocite. Nel 2011 fu tra gli spingitori di Sarkozy nella geniale Operazione Gheddafi, di cui i libici e noi paghiamo ancora le conseguenze (a ogni esportazione di democrazia segue importazione di profughi). Appena ucciso il tiranno, BHL rivendicò profetico la missione: “La caduta di un dittatore, l’entrata nella democrazia, pur piena di insidie, con passi avanti e indietro, è sempre un evento straordinario. Sono orgoglioso e fiero di esservi associato con il mio Paese”. Nel 2020, dopo nove anni di radiosa “democrazia”, si recò in Libia per ritirare il meritato premio. E la popolazione glielo tributò volentieri, come raccontò lui in uno straziante reportage su Rep: “Libia, sputi e spari. Così mi han dato la caccia nel deserto”. Un trionfo.

Ora pretende il bis in Afghanistan, che peraltro bombardiamo da vent’anni con oltre 240 mila morti. La qual cosa non lo indigna: a sconvolgerlo è che abbiamo smesso, “abbandonando un altro Paese amico” che mai ci aveva chiesto di bombardarlo. Idem per il Vietnam: non fu orrenda la guerra, ma l’“infamia” del ritiro Usa nel ‘75. Di qui il grido di dolore perché “l’Occidente venga in soccorso” di Massud e “la Francia ascolti il suo appello” per una nuova guerra civile, non essendo bastate le altre, per tenere alta “la fiaccola” e “l’immagine delle democrazie liberali”, “offuscata ovunque” non dalle guerre, ma dalla loro fine. Purtroppo, a parte Sambuca Molinari, nessuno lo sta più a sentire. Il che fa temere che presto decolli dalla sua terrazza parigina a bordo dei colletti aerospaziali della sua camicia bianca e si paracaduti sul Panshir per unirsi alla resistenza. Seguirà, immancabile, un reportage sulla festosa accoglienza ricevuta: “Afghanistan, sputi e spari. Così mi han dato la caccia nel deserto”. Come diceva Totò nei panni di Pupetto Montmartre di Champs Elysées, “il talento va premiato”.

Yacht, che ossessione! Mai dire a un ricco: “È piccolo”

La gara a “chi ce l’ha più lungo” è intramontabile. I ricchi tengono il metro sempre a portata di mano e guai ad accorgersi che il vicino è più prestante. Scatta la corsa al ritocchino, che negli anni diventa ritoccone e così via in una frenetica rincorsa al centimetro che fa la differenza. È questo il motivo per cui si è passati dai 60 metri di un paio di decenni fa ai 140 attuali. Si parla chiaramente di yacht. Il lusso richiede come conditio sine qua non la lunghezza, che non vuol dire rinunciare ai dettagli. Un’antologia delle imbarcazioni più chic, appartenute a magnati, principi e star internazionali, è stata redatta dalla casa editrice newyorchese, anch’essa di libri di lusso, Assouline e si intitola Yachts: The Impossible Collection. La rassegna parte dal 1851 e arriva ai megayacht high-tech dei giorni nostri. Il libro – che in realtà è un’opera d’arte – è rilegato a mano e contenuto in un cofanetto di lino a conchiglia in edizione limitata. Costo: 820 euro, con guanti bianchi e borsa di tela in omaggio. Per parlare dei ricchi ci vuole classe e, infatti, a curare la pubblicazione è la giornalista, “redattrice di lusso”, Miriam Cain. “Dalla leggendaria chiatta di lusso di Cleopatra al ‘Royal Yacht Britannia’ di Sua Maestà, dalle eleganti navi dell’età del jazz come la ‘Nahlin’, un tempo noleggiata da Re Edoardo VIII e Wallis Simpson, alla favolosa famiglia reale di Hollywood degli anni ‘60 invitata a bordo di ‘Christina O’ di Aristotele Onassis, la scena nautica ha ha sempre attratto le celebrità”, si legge nell’antologia. Attualmente a livello globale esistono tremila imbarcazioni, che rientrano nella categoria del top dei top. Spaziano dal design classico con silhouette senza tempo a linee rivoluzionarie. L’imperativo degli ultimi anni che le accomuna è renderle sempre più sostenibili e i paperon de’ paperoni – che facciano sul serio o solo di facciata – sembrerebbero più sensibili del passato alla necessità di solcare gli oceani senza inquinarli. Difficile da farsi dovendo muovere delle creature mastodontiche come le loro, eppure – assicurano – non impossibile. Senza rinunciare, però, a hotel, piscina, spa, bar, palestra, campo da tennis, giochi acquatici e aria condizionata. Restaurare gli yacht è uno dei passatempo preferiti di chi può permetterselo. Il principe Ranieri di Monaco trasformò una nave militare della Seconda guerra mondiale nel regalo di nozze per la sua Grace. E Onassis fece di un’antica nave canadese il ‘Christina O’ di 99 metri.

 

Barboni, canne, vino e Manu Chao: questa è Roma. E io sono il Re

Vago da sempre sotto la canicola estiva, è il momento per eccellenza per poter guardare, incontrare e attraversare il mondo del marginale, dell’inutile, i resti dell’umanità in esposizione nelle strade nei parchi sui marciapiedi, che riconquistano una visibilità negata durante l’anno. Ai miei occhi non so perché paiono arrivare in certi giorni d’estate solo vite estreme, che vagano e nuotano nell’aria lattiginosa dei quaranta gradi centigradi. Il caldo disperante mi rallenta e occupa l’aria intorno ai miei sensi, il mio corpo diventa un motore surriscaldato che urla e rischia di fondersi e finire la sua vita. In questi giorni uscire di casa è già un avvicinamento al suicidio assistito. Comincio al mattino il tour in via Merulana, a Roma, con Fiorino che ha il materasso per terra per dormire sotto la frescura dei rami che sporgono dal giardinetto del tempio di Mecenate. Tempo fa gli hanno rubato la sedia a rotelle su cui viaggiava in quei venti metri che occupa da un anno mentre chiede l’elemosina, fuma le sue sigarette che a turno io e altri abitanti del quartieri gli regaliamo, svuota il bicchiere di plastica colmo di vino. ĖGioviale, educato. Intorno alla sua simpatia prolifica un gruppo di suoi compaesani rumeni, gli stessi che gli hanno rubato la sedia a rotelle e che ora vivono come parassiti della sua elemosina. Lui è contento di mantenere questo piccolo universo di mascalzoni e sfaccendati. Cerca di coinvolgerti con il suo sorriso sdentato alla sua allegria. Fiorino alla sera è spossato, impegnato com’è a farcela ad affrontare un’altra notte e poter il giorno dopo ritornare a bocca larga a vivere.

Poi arrivano gli altri. Lionel in perenne ricerca della sua medicina contro l’asma, costosa e recuperabile solo attraverso medici amici che se la fanno regalare dai fornitori delle ditte di farmaci, giura tutti i giorni che morirà se non gliela procuri, così da dieci anni, ma è ancora lì a piagnucolare sulla sua triste condizione di cercatore di respiri. Filmmakers senza più lavoro obbligati a richiedere il reddito di cittadinanza mi incontrano e chiedono di dargli una mano a fare qualunque lavoro. Scrittori e musicisti, operatori di ripresa alle prime armi, registi precari, hanno perso lavoro e opportunità in questi anni di Covid. Chissà quando ne usciremo penso, e mi incazzo contro chi questo reddito di cittadinanza lo vuole abolire, magari mentre è al mare e ingrassa con lo stipendio di Stato e parla davanti a una telecamera che gli spetta di diritto e se ne fotte delle famiglie che non hanno i soldi per far mangiare i loro figli. Nella strada folli di ogni genere si esibiscono e si trascinano l’un l’altro abbracciati in una danza sgangherata, consapevoli che il palcoscenico ora è tutto per loro. Il cast felliniano a Roma è sempre attivo. Dottó sono capace a fare il cameriere e il borgataro, mi dice Mario con una faccia da antico romano, per strada tutti recitano nel dialetto più scurrile del mondo, e parlano la lingua dei romanzi di Moravia, prima di essere inghiottiti dalla notte: stranieri mendicanti e perdigiorno, nobili e plebei turisti e radical chic che amano fare i ferragosto in città. Roma a quel punto affiora dalle tenebre e diventa protagonista e bellissima, un corpo abbondante e generoso. Piazze, fontane, ruderi, il Colosseo si dipingono nel nero e acquistano la loro dimensione lirica. Manu Chao silenzioso non lo è per niente, combatte urlando le sue strofe nel microfono con il coraggio impertinente di chi vent’anni fa a Genova prima di un concerto che mai poté fare vide morire un ragazzo no global che urlava la sua rabbia contro il G8. Così comincia il concerto quest’uomo francese, argentino, spagnolo, algerino, dal fisico magro e resistente come il fil di ferro. Sono in tre sul palco e sembrano cento. Questa notte è perfetta per ricominciare su un prato, muniti di Green Pass, a riassaporare la musica dal vivo. Sono contento di avere deciso di venire qui per sfuggire alle parole e alle lamentele di chi non ce la fa più. Mi sono messo la maglietta dei Negazione per portare con me il mio amico Marco che fin qua ad Anzio sul litorale romano proprio non può venire e che tanti anni fa scrisse un libro su un tour di Manu Chao. Intorno tanta gente distanziata e tranquilla, guardo in basso e sull’erba dello stadio di baseball dove sta per cominciare il concerto una giovane donna e una sua amica rollano una canna, le guardo così senza troppa attenzione e lei mi poggia addosso uno sguardo di una strana intensità, per uscire dall’imbarazzo dico Che c’è. Lei con un sorriso largo e splendente risponde Sono felice e tu? Un po’, rispondo. Lei si alza, mi abbraccia, mi sussurra Quando vedo quelli come te non riesco a trattenermi. Io non so che dire, penso solo speriamo che non mi attacchi il Covid. Me gusta el viento, me gustas tu, me gusta la mar me gustas tu. Me gusta marijuana me gustas tu, me gusta la noche me gustas tu. Parole semplici, ritmo incalzante. Africano clandestino marijuana ilegal. Manifesto ideologico e racconto dal vero senza possibilità di replica. Torno in città e vado a bere una birra nell’unico posto rimasto illuminato in questa notte senza ponentino a rinfrescare le vite di chi sta in giro a rappresentare l’estate dei vinti dei senza dimora e senza speranza. Corpi buttati nell’ultima battaglia per sopravvivere all’anonimato dei social. Corpi sudati, tatuati, deformati, intriganti e modellati da ore di palestra, corpi sociali e mistici. La gay street ė l’avamposto del giorno che verrà, l’ultima possibilità di un contatto fisico, e d’incontro di umanità senza regole . Intorno a me si baciano tutti, donne uomini giovani vecchi. Mentre bevo la mia birra si avvicina un uomo dalla faccia tirata e segnata con dei lunghi capelli neri unti. Mi fai accendere. Non fumo. Ma tu fai i film, i film di nicchia quelli importanti, bravo, sono contento di conoscerti. Mi ritraggo, cerco di dire qualcosa che mi faccia fuggire da quella situazione.

Hai tutto, non sei felice?

Io non so che dire.

Ma chi sei? Veramente.

E allora mi scappa di dire una cosa senza senso per allinearmi con questa umanità senza regole né definizione.

Io sono il re di Roma, rispondo. Sorrido a lui e a me stesso, al Colosseo che ho di fronte e me ne vado a dormire felice.

Addio Kampah, un genio tra Budda e Hemingway

Stanotte sono andato a dormire senza sonno, ma spossato dopo una ultima oretta di vaghe malinconie un po’ storte e di messaggi WhatsApp altrettanto storti. Mi sono svegliato d’improvviso con la voce scanzonata di Flavio nelle orecchie, era ancora buio pesto. Guardo la sveglia mentre ancora mi martella in testa l’inconfondibile ritmo di Parma: “Maestro, ma che fai ancora a letto… ?”. Ommadonna Flavio… ma sono le quattro. Lo penso senza aprire bocca perché mi rendo conto che sono a letto, con Diana che dorme accanto. Eppure non stavo sognando Flavio, sono sicuro… e poi la voce rimbomba ancora, a tutto volume. Mi alzo sveglissimo, al buio, e quando apro la porta per uscire dalla camera quasi quasi mi aspetto… ma dai, non esiste che possa essere qui lo stronzone. Eppure quando sento chiamarmi “Maestro” per forza devo trovarmi davanti questo Budda-Hemingwayano che mi abbraccia a bocca spalancata e che io riabbraccio nel nostro stile touching. Faccio il caffè e sono ormai in pieno trip Kampah: quante settimane sono passate dall’ultima volta che ci siamo parlati? Era luglio? O la fine di giugno… mah. Devi ancora riportarmi il quadro che è rimasto da te dopo che mi organizzasti la mostra a Parma. Ma tu te ne vai a zonzo come al solito per il mondo. Ah, appena esci dal pronto soccorso torni a Ibiza? Niente Roma? Te l’avrò detto centoventi volte di farti il vaccino invece dei selfies, stronzone. E certo che ti penso, ti pensiamo tutti. Da due mesi ci tieni col fiato in gola. Non lo sprechiamo per sentirci più vicini a te. Ho segato via altre pagine pleonastiche da THE POPE OF VENICE BEACH ma te l’ho detto, ci vuole un editing professionale, la tua biografia deve essere scattante, ritmata, avvincente sconclusionata e allegra come la tua vita. Non può avere il sapore dell’elenco telefonico dove trovi tutti i nomi e i numeri ma non c’è traccia della bestiaccia passionale che li ha messi in fila. Ma quante chiacchiere abbiamo fatto sulla passione? E quanto ci siamo risi in faccia guardando come le nostre passioni ci avevano ridotti, spelacchiati panzoni squattrinati (tu più di me, esagerato come al solito). Magari ti faccio una sorpresa e ti raggiungo a Ibiza, così per una volta ti do retta. A Los Angeles ti eri messo in testa di farmi rimanere per un po’, che avresti organizzato tutto te: se ci provi ti mordo, ti risposi. “Ma va’ là Maestro, qui avresti tutto quello che ti meriti eppoi io sono il “Pope of Venice”, ci divertiamo”. Invidio da morire la tua incoscienza bighellona che però non ti ha mai impedito di produrre come un matto, stencils, street art, videoclip, grafica, satire e qualsiasi altra meravigliosa cazzata ti balenasse in testa, in qualsiasi angolo di mondo ti trovassi. Appena ti decidi a tornare a Roma ci facciamo il ritratto che ci siamo minacciati a vicenda. Tu mi chiami Maestro e io solo da te lo sopporto, ma l’artista più sincero, genuino e magistralmente sgangherato tra di noi sei tu, io a volte fatico a mantenere la leggerezza necessaria, la volatilità giusta, la sana distanza dalle materialità offensive del quotidiano. Scivolo troppo spesso sulle bucce del successo e per questo stento a mantenere il passo con le tue allegrie disinteressate, spontanee, energetiche. Le cinque. Adesso: “Maestro, ma che fai ancora a letto?”, mi mette un brivido. Quella che mi ha svegliato non è solo la tua voce, sei proprio te… Accendo il telefono. Trovo una marea di messaggi. Sei morto stanotte.
Riccardo Mannelli

Ps: immediato un flash di una giornata romana: tu che spezzi quasi i braccini a me e a Disegni mentre cerchiamo di sollevarti sul “seggiolon del papa”. Chiamo Stefano.

 

Se si firma a quattro mani, uno le mani ce le dovrebbe mettere per bene, aggiungendo parole e riflessioni, ma stavolta non riesco a scrivere molto. Non per il torrenziale intervento di Riccardo che comunque racconta molto bene chi fosse il nostro meraviglioso, specialissimo amico, anzi fratello. Il fatto è che sono molto ferito, ma anche molto incazzato. Non riesco a governare la rabbia nei confronti di quanti continuano a seminare dubbi che inducono la gente a non proteggersi e a rischiare la pelle o addirittura giocarsela come nel caso del nostro amatissimo Kampah. Davanti a tanto dolore, non solo il mio, non è più tollerabile. Pertanto meglio chiudere qua, se proseguissi diventerei assai sgarbato e non è questo né il luogo né l’occasione. È solo il tempo di starsene seduti su un divano con gli occhi bassi finché non fa buio.
Stefano Disegni

Adesso mi sono rotto… “Non ci sono più le regole”

Non sopporto questa sensazione da fine del mondo, dove ognuno si fa i cazzi propri.

Si spieghi.

C’è chi fa il concerto di fronte a tremila persone assembrate. E quelli che si mettono due paillettes addosso e si credono artisti. Fanno dichiarazioni paracule sui social, fregandosene di comporre canzoni.

Fabrizio Moro, questo è un j’accuse. Facciamo nomi?

Servono? È evidente che, se parliamo di live, alcuni performer profittino della mancanza di regole chiare da parte delle istituzioni.

Le direttive ci sono, e stringenti.

Però qualcuno gioca a fare come gli pare. Vorrei vedere cosa succederebbe se io annunciassi un concerto a sorpresa con un pubblico non distanziato né contingentato. Mi fermerebbero? Ho appena chiuso un tour con presenze limitate. E non ho strombazzato i miei sold-out, perché queste sono cifre emergenziali.

Mentre gli stadi sono quasi pieni.

Quando l’Italia ha vinto l’Europeo sono rimasto schifato da festeggiamenti così incoscienti. Nessuno che mettesse un freno.

Parliamo di quelli con le paillettes.

Una volta le istanze politiche o sociali erano veicolate nelle canzoni. Erano formidabili strumenti di protesta. Oggi a troppi basta un post su Instagram: parlano di decreti con la stessa disinvoltura con cui pubblicano foto dal cesso. E fanno milioni di visualizzazioni, scatenando cagnare social, innescando risse. Due giorni dopo la bolla evapora e si ricomincia. Ho la nausea di questi girotondi. Ci ho scritto su un nuovo pezzo, Ognuno vuole dire la sua.

Però di recente si è lasciato coinvolgere anche lei. La faccenda di Brumotti respinto al Quarticciolo, zona difficile della Capitale.

Niente di personale contro Brumotti. Ma dopo aver visto il suo servizio su Striscia, mi è venuto il sangue agli occhi e mi sono esposto sui social. Ho girato il mio film in quel quartiere, dove conosco tutti. Le persone oneste che si fanno un mazzo così, e gli spacciatori. Ci vivono i miei cugini. Arriva Brumotti e pianta la telecamera in faccia a chi non c’entra: ‘guardate che casino di posto!’. Ovvio che i padri di famiglia, gli stessi che a me portavano il caffè durante le riprese, si siano fatti girare le palle. Nei quartieri complicati devi saperti muovere. Ed è troppo facile andar lì a far sensazionalismo accusando ragazzetti che non hanno mai visto altre realtà. Vuoi risolvere la piaga della droga? Fai il magistrato o il poliziotto, inchioda i trafficanti.

Ghiaccio, il suo film, è la storia di un pugile.

Uscirà a inizio 2022. Ho scritto un paio di canzoni inedite e la colonna sonora. Quando giravamo, avevo già in testa i temi. Li facevo sentire agli attori e nascevano idee. Giorni fa ho provato un brivido ricevendo la locandina. Non devo più tormentarmi su un’inquadratura o una scena. È come quando finisci un disco e pensi: se avessi avuto un’altra settimana avrei cambiato il suono del rullante. Ora sono pronto ad accettare il destino del film.

Ci ha preso gusto: da regista ha firmato il videoclip di Sogni di rock’n’roll, di e con Ligabue, il cui backstage è stato presentato ieri al suo live di Forlì per il festival Imaginaction.

Abbiamo girato a Ravenna, anche davanti la tomba di Dante, il primo artista rock. A riprese finite, Luciano venne in regia e mi disse ridendo: stasera per colpa tua non posso vedere la Nazionale, sarà meglio per te se avrai fatto un buon lavoro… I primi dischi di Liga mi cambiarono la vita, gli devo la spinta decisiva per essere diventato un cantautore. E vederlo così disponibile, umile e partecipe sul set, mi ha confermato che quelli come lui continuano a fare la differenza, in un ambiente musicale svuotato di concretezza.

Ora che farà?

Lunedì sarò all’Aquila, con la direzione del maestro De Amicis, insieme a Cocciante, Ermal Meta e Renato Zero. Ho archiviato il mio primo tour unplugged, dove ho sofferto un po’ senza la protezione della band rock. Ma quelle canzoni nude sembrano aver emozionato la gente. Ho anche un album già pronto. E due figli da non esporre a rischi, in questi tempi infetti.

Ronaldo se ne va come Lukaku e Hakimi: la Serie A è sempre più un campionato da “B”

Siamo il campionato dei campioni d’Europa, e questo è un onore. Ma non siamo più, da ieri, il campionato di Cristiano Ronaldo, in fuga dalla Juventus. E dal momento che già ci avevano lasciato Romelu Lukaku, dall’Inter al Chelsea, e Achraf Hakimi, dall’Inter al Paris Saint-Qatar; Gigio Donnarumma, perso dal Milan a parametro zero e anch’egli “Ici c’est Paris”, e Rodrigo De Paul, fior di trequartista, girato dall’Udinese all’Atletico Madrid del Cholo Simeone, poveri noi. Per la cronaca, e per la storia, dovremo fare a meno pure dei tesori di Franck Ribéry, 38 anni, mollato dalla Fiorentina. E di una miniera come Gigi Buffon, sceso in B, a Parma, a 43 anni.

Cierre ne farà 37 il 5 febbraio. La Juve lo aveva preso dal Real nell’estate del 2018, a 33 suonati, un dettaglio che sfuggì a molti: persino ad Andrea Agnelli, temo. “I campioni passano, la Juventus resta”, ha chiosato Massimiliano Allegri. E così sia. Fu un’operazione da 430 milioni di euro, fra stipendio, cartellino e provvigioni. Non ha portato la Champions per la quale era stato scritturato, ma credo che, sul campo, abbia dato più di quanto non abbia ricevuto. Se è vero che, senza di lui, Madama ha vinto pur sempre 34 scudetti su 36, è vero altresì che, con lui, partiva da uno a zero. Il Covid ha complicato i piani e zavorrato i bilanci. Cristiano ha un ego smisurato, era stato preso anche per moltiplicare il merchandising e allargare, nel mondo, il marchio aziendale. Torna a Manchester, sponda United. Niente City, dunque. Ciao Pep.

Lukaku, da parte sua, aveva firmato lo scudetto dell’Inter. Riabbraccia il Chelsea, la squadra del cuore. Una volta i re erano gli Agnelli, i Berlusconi, i Moratti. Oggi sono gli sceicchi del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, i russi come Roman Abramovich, padrone del Chelsea. E noi? Polvere di stelle, briciole di campioni. Olivier Giroud, classe 1986, “mondiale” con la Francia, dal Chelsea (e dai) al Milan, per supportare Zlatan Ibrahimovic, 40 anni il 3 ottobre. Tammy Abraham, centravanti ventitreenne che il Chelsea (uffa) ha smistato alla Roma di José Mourinho: se non altro, un’idea frizzante e alternativa al piattume. Abbiamo recuperato Allegri, Maurizio Sarri e Luciano Spalletti, se n’è andato, offeso con Suning, Antonio Conte. Non ci resta che far tesoro della lezione dell’Atalanta di Gian Piero Gasperini e della nazionale di Roberto Mancini: cercare nel gioco l’alternativa ai campioni. Poveri, ma almeno belli.