Da “cazzeggio” a “populismo”: parole nuove che ci raccontano

Non è un caso che nell’uso su “neologia” sia prevalso il dispregiativo “neologismo”: delle parole tendiamo a diffidare. È un atteggiamento sbagliato, perché le parole nuove non sono invasori destabilizzanti, sono semplicemente il segno della vitalità della lingua (e dunque della società). Ce lo spiega un libro che merita due superlativi – interessantissimo e insieme piacevolissimo alla lettura – appena uscito per il Mulino: Storia di parole nuove del professor Ugo Cardinale. È una storia d’Italia degli ultimi sessant’anni attraverso l’introduzione di forme verbali prima sconosciute, che servono a raccontare i mutamenti politici e del costume. Una fotografia che parte dalla lingua parruccona delle tribune politiche, passa per le rivoluzioni del decennio di piombo e il “cazzeggio” desemantizzato degli anni Ottanta fino all’“imbagascimento” (parola che si deve a un genio della sperimentazione linguistica, Carlo Emilio Gadda) nell’era dei social network. Ma chi inventa le parole nuove? Gabriele D’Annunzio fu un coniatore di prima grandezza: inventò il tramezzino, la Rinascente, i vigili del fuoco, il velivolo. E fu il Vate a stabilire il sesso dell’automobile, con parole oggi impronunciabili: “Ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”. Quel che un tempo era appannaggio degli scrittori, oggi è opera di influencer e giornalisti (sic). Qui di seguito un breve assaggio delle parole nuove che hanno attraversato gli ultimi sei decenni di storia italiana.

Politichese. Prima del Sessantotto politici e giornalisti, lontani dalle masse poco alfabetizzate, utilizzavano un parlare “togato”, nel cui profondo si agitava lo spettro del tediosissimo Don Ferrante manzoniano. Poi il mondo studentesco e quello operaio proclamano “l’autogestione, il collettivo, la comune, l’autonomia, l’autonomia operaia, che scavalca le mediazioni sindacali e transita verso la lotta armata, il partito armato”, lo “stragismo”. Ma accade anche qualcosa di più profondo, la distanza tra l’alto e il basso comincia ad attenuarsi. La parola scritta inizia il percorso di accoglienza del lessico familiare parlato, di usi linguistici più informali come scafato, mazzo, pallista.

Cazzeggio. Gli anni Ottanta – quelli del reflusso, dell’edonismo reaganiano, del cazzeggio, dell’insostenibile leggerezza di Milan Kundera – si distinguono per un florilegio di nuove parole (yuppies e paninari ne coniano parecchie). “È il momento del rampantismo, dell’arrembante, del griffato, del rambismo, del sorpasso (parola ‘mutante’), effetto della conquista del duopolio televisivo da parte di Sua Emittenza Berlusconi, della vittoria del Pci alle europee nel 1984 dopo la morte di Berlinguer, del presunto superamento dell’economia italiana su quella britannica nell’era dei governi Craxi”. I governi “balneari”, i governi “ponte” o “fotocopia” fanno spazio a un desiderio di stabilità, che si esprime con la passiva “governabilità” (che ci trasciniamo, tristemente, fino ai nostri giorni). La tv diventa fenomeno di massa (le “tele-risse”, il “baudismo”, il “funarismo”, il “celentanismo”) così come il calcio, che introduce termini destinati a essere esportati in altri àmbiti: “dribblare”, “pressing”, “catenaccio”.

Berluscones. “Tangentopoli” provoca la “discesa in campo” di Berlusconi, la conseguente genesi dei suoi discepoli, i “berluscones”, e del movimento avverso: “l’antiberlusconismo”. I Novanta però sono anche gli anni dell’inciucio con la sinistra, il “patto della crostata” a casa di Letta (l’altro, il conte zio). Inciucio è una parola del dialetto napoletano: “Ha il significato principale di ‘pettegolezzo’. Il verbo ‘inciuciare’ ha un’origine onomatopeica. Non se ne distinguono le parole, nemmeno le sillabe, ma solo le leggere affricazioni di un ciù-ciù: ‘nciuciare”. Inciucio diventa l’accordicchio sottobanco tra destra e sinistra (dove spopolano le metafore botaniche in cerca di un’identità smarrita dopo il terremoto di “Mani pulite”: “margherita”, “quercia”, “ulivo”).

Esodati. E alla fine arrivano i tecnici in loden, e tra un “Salva-Italia” e l’altro si perdono per strada un bel po’ di “esodati”. Il linguaggio asettico dell’economia (spesso con parole prese dall’inglese) diventa pervasivo: spending review, default… Poi è l’era del “rottamatore”: breve parentesi, chiusa dopo la sconfitta referendaria (a cui i “professoroni” danno un considerevole aiuto). Intanto a Bologna i “Meetup” di Grillo, avevano dato vita con il primo “V-Day” al Movimento 5 Stelle, che senza i “social-network” non sarebbe nato e prosperato fino ad arrivare in parlamento come prima forza, una rivoluzione “due punto zero”. Sono i populisti contrapposti agli europeisti. Arriva “l’avvocato del popolo” Conte, due governi colorati: “giallo-verde”, “giallo-rosso”. Ma arriva anche la pandemia, e durante il lockdown si capisce che in realtà è una sindemia (“la presenza di due o più patologie concomitanti, che interagiscono negativamente, influenzando sfavorevolmente il corso specifico di ciascuna e aumentano la vulnerabilità”).

Renzi, quella “carriera da fischietto” così bella che su Wikipedia viene cancellata

Ma quanto è bella e curata la biografia di Matteo Renzi su Wikipedia. “Capo di governo più giovane”, “primo sindaco a ricoprire quella carica”, “ terzo presidente del Consiglio non parlamentare”, “leader più giovane del G7” fino al definitivo “Nel gennaio 2021, come caldeggiato dallo stesso Renzi, il ritiro del sostegno parlamentare all’esecutivo da parte di Italia Viva ha svolto un ruolo cruciale nella caduta del governo Conte II, succeduto dal governo Draghi”. Insomma, la biografia è così bella e curata che una utente di Twitter, @conamorechiara, la pubblica alludendo che forse il nostro ex premier se la sia scritta da solo. Tra le tante carezze che il testo riserva al leader di Italia viva si legge, infatti, una frase molto precisa relativa al diploma di maturità: “(Con votazione finale di 60/60, pur rischiando la bocciatura perché, in qualità di rappresentante d’istituto, rifiutò di ritirare le copie del giornalino scolastico contenenti forti critiche alla professoressa di matematica)”. Manca solo l’indicazione del vestito della professoressa e del colore delle sue scarpe.

Si potrebbe dire che si tratta dei soliti populisti da web che vogliono linciare l’anti-populista sull’Arno. Il tweet, nel pomeriggio di ieri, aveva già ricevuto circa 3500 like (e @conamorechiara ha 3700 followers) fino a quando, alle 14.47 (grazie “cronologia” di Wikipedia) quella frase scompare. Un utente, Mannivu, elimina la frase e diverse altre come i giorni di nascita di fratello e sorella di Renzi, il ruolo calcistico, “attaccante”, del figlio, il riferimento al libro della Giungla a proposito del nome Chil dato alla società di marketing di famiglia. Il dato curioso è che, secondo Wikipedia, “Mannivu ha preso una wikipausa e tornerà su Wikipedia il giorno 1º settembre”. Non si capisce se sia tornato in anticipo e soprattutto non si capisce chi sia.

Come non si sa chi siano gli autori di ben 35 modifiche fatte alla biografia di Renzi nel solo mese di agosto. Di cui 11 il 17 agosto soprattutto tra le 13.59 e le 14.41. In quelle stesse ore su Facebook, il senatore di Rignano annuncia, in grisaglia di ordinanza, di essere appena rientrato in Senato per seguire da presso la vicenda afghana (il post è delle ore 15), ma il post successivo, delle 18.30, lo ritrae mentre presenta, scamiciato e senza calzini, il suo libro alla Versiliana.

Non è certo sulla base di questi indizi che si può sostenere che le modifiche siano frutto di Renzi, figuriamoci. Mica può essere lui che tra il 20 e il 26 agosto cancella l’essenziale dettaglio che “fino al 1995 fu iscritto alla sezione arbitrale di Firenze, ma la sua carriera da fischietto non decollò a causa di alcuni limiti atletici”.

Un aiuto a Lagarde nello scontro coi tedeschi in Bce

Sarà piaciuto molto anche a Christine Lagarde, assente a Jackson Hole, il discorso con cui Jerome Powell ha promesso di mantenere “accomodante” la politica monetaria della Fed americana ancora per parecchio tempo e comunque non prima che la crisi pandemica sia davvero finita. Nella Banca centrale europea, infatti, così devota già da Statuto all’ortodossia monetaria, è in corso da settimane uno scontro non tanto silenzioso tra chi vuole tornare presto alla normalità (tedeschi e nordici), nonostante la situazione pre-Covid sia ben lontana dall’essere stata raggiunta, e fautori di una sorta di stabilizzazione del Quantitative easing (mediterranei): se negli Stati Uniti è una scelta che può al massimo causare una nuova recessione, nell’Eurozona potrebbe persino scatenare il parziale default di uno Stato o l’esplosione della moneta unica.

Powell, come detto, dà un assist a Lagarde, la governatrice francese della Bce che al momento ha fatto asse con Italia, Spagna & C.. Ma la posizione americana non sarà comunque risolutiva. I conservatori tedeschi, e non solo i conservatori, guardano con orrore alla fiammata inflattiva (in larga parte temporanea) nel loro Paese e vogliono finirla col programma di acquisti pandemici (Pepp) della Bce assai prima della scadenza di marzo 2022: ritengono in sostanza che, se non ne è la causa, gli dà una spinta (impostazione rigettata dalla Fed: vedi il pezzo accanto). E così il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, giusto una settimana fa ha dichiarato all’edizione domenicale di Die Welt che la Banca centrale europea non sarà in grado di proteggere i governi da costi di finanziamento più elevati sul debito se l’inflazione aumenta: “La Bce non è chiamata a prendersi cura della sicurezza della solvibilità degli Stati” e “sarà importante guardare anche ai rischi di un’inflazione troppo alta e non solo a quelli di un’inflazione troppo bassa”.

La risposta a questa uscita, non certo la prima, è arrivata dall’uomo che potremmo considerare il numero 2 della Bce, il capo economista Philip Lane: intervistato da Reuters, ha prima chiarito che settembre è troppo presto per parlare della fine del Pepp e poi sganciato una sorta di bomba. Gli acquisti di asset da parte di Francoforte, ha sostenuto, continueranno in ogni caso “perché avremo il nostro normale programma di acquisti ancora in funzione dato che le condizioni per terminare il cosiddetto App (il Quantitative easing 2 per così dire, ndr) non ci sono ancora”. Insomma, Weidmann perde tempo: “Se fossimo in una situazione di tapering puro, in cui si passa da una fase di supporto al mercato a una fase in cui si mette fine agli acquisti netti, allora preparare il mercato sarebbe un problema da affrontare. Ma non è così. Indipendentemente da quando il Pepp potrebbe finire – sostiene Lane – questo non sarà la fine del ruolo della Bce in termini di Qe”. Come si vede, anche se non è un membro del board, il principale collaboratore di Lagarde parla proprio di una sorta di Quantitative easing che non finisce mai e con quelle caratteristiche di discrezionalità in capo alla banca centrale che già per due volte sono finite davanti alla Corte costituzionale tedesca. Ovviamente, tra queste due impostazioni un compromesso non è possibile: a un certo punto qualcuno dovrà vincere.

Alla Fed non volano i falchi: per ora avanti con gli aiuti

Il segnale ai mercati è stato netto: certo che stiamo pensando di ridurre il nostro programma di acquisti di titoli, ma “entro l’anno” perché l’inflazione non è un problema, la ripresa va confermata nei prossimi mesi e comunque dobbiamo ancora capire come andrà con la variante Delta. Risultato: le Borse (specie le europee) virano subito in positivo, l’orgia di liquidità non accennerà a diminuire ancora per molto tempo, come pure fanno i beni rifugio tipo l’oro. Il governatore della banca centrale Usa (la Fed), Jerome Powell, era arrivato ieri mattina all’annuale convegno di Jackson Hole sull’onda dell’indiscrezione riportata da Bloomberg di una sua probabile conferma a capo della banca centrale (il suo primo mandato scade a febbraio) e ha fatto quel che doveva: dato un colpo al cerchio delle colombe e uno alla botte dei falchi, ma alla fine s’è schierato nettamente con le prime.

Nel suo discorso non usa mai la parola “tapering”, l’uscita graduale dai programmi di forte espansione monetaria (120 miliardi al mese) lanciati per rispondere alla recessione da pandemia, “la più breve e più profonda della storia”, ma solo “riduzione”, “ridurre” e simili e non prima di averle inumidite con molti condizionali. Secondo Powell, comunque, “potrebbe essere appropriato” cominciare a ridurre entro l’anno gli acquisti di asset sui mercati (in realtà ha già iniziato da mesi, perché la liquidità è più che sufficiente): “Nella riunione di luglio del Fomc (il braccio di politica monetaria della Fed, ndr) sono stato dell’idea, come la maggior parte dei partecipanti, che se l’economia fosse cresciuta in modo sostenuto come avevamo anticipato, sarebbe stato appropriato iniziare a ridurre il ritmo degli acquisti già quest’anno. Effettivamente il mese seguente ha confermato i progressi compiuti, come ha dimostrato il report sull’occupazione di luglio”.

Sembrerebbe un discorso da “il tapering meglio prima che dopo” per usare le parole della presidente della Fed di Kansas City, Ester George. Niente di più lontano dalle intenzioni del banchiere centrale Usa, che invece mantiene e forse accentua la sua linea “wait and see”, aspettiamo e vediamo (che succede): intanto anche a luglio, ha detto, “c’è stata una maggiore diffusione della variante Delta” del Covid di cui vanno capiti gli effetti sull’economia e quindi “monitoreremo attentamente i dati in arrivo e l’evolversi dei rischi”. In ogni caso, “anche dopo la fine dei nostri acquisti di asset, i nostri investimenti in strumenti finanziari di più lungo termine continueranno a supportare condizioni finanziarie accomodanti”. Non solo: “La tempistica e il ritmo dell’imminente riduzione degli acquisti di asset non rappresenteranno alcuna indicazione diretta della tempistica con cui i tassi di interesse saranno alzati”. Insomma, l’espansione monetaria – che non è solo acquisti mensili di asset – resterà ancora a lungo: “In questo contesto di incertezza una mossa inopportuna e intempestiva della politica monetaria potrebbe rallentare l’attività economica”.

L’inflazione, che negli Usa è assai più sostenuta che in Europa, è il vero spauracchio (e il vero manganello) di chi chiede il ritorno alla “normalità monetaria” (Jim Bullard della Fed di Saint Louis), ma non è un problema per Powell: di fatto il governatore della Fed ritiene – con buone ragioni e il parere di molti analisti – che i picchi nella dinamica dei prezzi, in specie quelli dei beni durevoli, siano un fenomeno transitorio e che “le aspettative di inflazione rimarranno ancorate al 2%”, dunque “la nostra politica può e deve guardare oltre le oscillazioni temporanee”.

C’è tempo per cambiare idea: “L’influenza della politica monetaria sull’inflazione può arrivare dopo un anno o più”, quindi basta preoccuparsi di una cosa che non c’è e continuiamo a “garantire i nostri obiettivi: la massima occupazione e la stabilità dei prezzi”. Per i più disattenti andrà ricordato che, a differenza della stabilità dei prezzi, la “massima (o piena) occupazione” è tra i compiti della Fed, ma non della Banca centrale europea. E in passato, peraltro, s’è visto.

I fondi per le periferie dati per rifare il campo da golf

Tagliaerba, rulli e rastrelli, tutto ciò che serve per rifare a nuovo il vecchio campo da golf. Soldi pubblici per il club privato, un binomio politicamente un po’ imbarazzante, ma di sicuro affidamento per i poveri-ricchi soci dell’Olgiata, prestigioso circolo della Roma bene, già costretti ad aprire il portafoglio per ripagare i buchi delle gestioni allegre del passato.

L’arrivo di due quintuple da fairways, il top per garantire un taglio di alta qualità, altrettanti rastrelli da bunker e rulli da green, per la modica cifra di 175 mila euro, sarà l’ultimo capolavoro di “Sport e periferie”, il programma renziano per gli impianti sportivi che tra alterne fortune ha attraversato cinque governi, continuando ad accumulare finanziamenti (a fine mese l’esito dell’ultimo bando).

Come un elitario circolo di golf, 600 soci a 4 mila euro di quota annuale a persona, abbia potuto beccarsi mezzo milione pubblico destinato alle aree disagiate (campetti, playground, robe così) è uno di quei misteri tipicamente italiani, svelato nell’estate del 2019 dal Fatto Quotidiano, poi rilanciato da Le Iene. Il bando, senza troppa convinzione, ricorda che il campo si trova “vicino ad aree popolari come La Storta e Formello”. Ufficialmente è merito della quota di cofinanziamento garantita dal circolo, ma non c’è da stupirsi in un Paese così appassionato di golf, che ha già regalato 60 milioni di euro di fondi pubblici alla Ryder Cup.

Sul piano “Sport e periferie” c’è il bollino della premiata coppia Lotti-Malagò (Renzi lo aveva affidato al Coni), anche se il finanziamento all’Olgiata rientrava in un secondo bando già gestito da Palazzo Chigi: il Coni aveva selezionato i progetti, l’allora sottosegretario Giancarlo Giorgetti ci aveva messo la firma. Da allora il piano è passato di mano in mano e per ironia della sorte la stazione appaltante di quel progetto è diventata “Sport e salute”, la partecipata governativa creata proprio per ridimensionare il Comitato olimpico.

Immaginate la perplessità di Rocco Sabelli, spigoloso manager scelto dal leghista Giorgetti per riportare la trasparenza nello sport, quando si ritrovò sul tavolo il progetto: a luglio 2019 fu firmato l’accordo col circolo, ma poi Sabelli se n’è andato e la terza tranche del finanziamento (la più corposa) è rimasta in sospeso. Fino all’arrivo del successore, l’avvocato Vito Cozzoli. I tempi sembravano maturi per procedere, se non fosse stato per una sfortunata coincidenza: proprio Cozzoli era (ed è ancora) socio storico dell’Olgiata.

Ne è nato un lungo tira e molla: il presidente, che non vedeva motivo di sospendersi e rinunciare alle sue buche domenicali, preferiva astenersi e demandare il voto ai suoi consiglieri; quest’ultimi a metterci la firma non ci pensavano neanche. Nessuno voleva prendersi la responsabilità di un contributo che imbarazzava tutti, soci e non. La situazione stava diventando insostenibile. E insostenibile era pure la situazione finanziaria del circolo. L’Olgiata ha perso 600 mila euro nel 2018 e addirittura un milione nel 2019. Il contributo pubblico sembrava una manna dal cielo e la precedente amministrazione del presidente Sernicola aveva pensato bene di contabilizzare quel mezzo milione come “entrata straordinaria”, anche se i soldi servivano per pagare dei lavori e non sarebbero mai entrati nelle casse del club. Quando i revisori se ne sono accorti e l’hanno contestato, nei conti si è aperta una voragine: un passivo da oltre un milione e mezzo da ripianare con una manovra lacrime e sangue, una quota extra da 4 mila euro a socio. Qualcuno ha pensato di scappare, alla fine hanno dovuto pagare praticamente tutti.

Così malmesso, il circolo è tornato a pretendere l’aiutino pubblico. E alla fine il finanziamento è passato quasi per inerzia, in fondo era già stato approvato una volta, e pure un parere richiesto a Palazzo Chigi ha dato il via libera (revocandolo si rischiava la causa). Il bando è stato pubblicato ad aprile e le macchine sono in arrivo. La situazione del circolo resta delicata: il bilancio 2020 si chiuderà con 150 mila euro di utile, a settembre i soci salderanno l’ultima rata del ripianamento ma il percorso intrapreso dalla nuova gestione del presidente Iacobelli è ancora lungo. Fortuna che almeno il campo gliel’ha rifatto lo Stato.

Olbia, il “regalo” del Qatar pagato con soldi pubblici

I costi dell’ospedale (privato) “Mater Olbia” per i prossimi due anni saranno a carico di Regione Sardegna. È l’ultimo regalo che la struttura di proprietà della Qatar Foundation Endowment (cioè dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani) ha ricevuto dal presidente Christian Solinas. Il cadeau è contenuto nella variazione di bilancio votata dalla giunta l’11 agosto, in piena estate. Recita l’art.7: “È consentito alla Regione Sardegna riconoscere per un biennio al predetto ospedale Mater Olbia i costi di funzionamento, al netto dei ricavi ottenuti dalle prestazioni, nelle more della piena operatività della medesima struttura”. Soldi pescati dal bilancio regionale. Così il pubblico manterrà il privato, oltretutto senza che sia stato fissato un tetto di spesa.

Ma quello di agosto è solo uno degli assestamenti di bilancio che hanno fatto piovere sul Mater una cascata di milioni. Con quello di luglio 2019, per esempio, Solinas aveva stanziato per l’ospedale 25 milioni per il 2019, 60,6 milioni per il 2020 e altrettanti per il 2021. Fondi necessari anche allora per “l’avvio della struttura” e regolarmente arrivati. Come dimostra la delibera del 9 luglio 2021 con la quale si ripartivano i 3,7 miliardi della sanità regionale. Alle Ats-Ares sono stati destinati 2,7 milioni, 310 milioni all’ospedale Brotzu di Cagliari (ma 66 servono per ripianare debiti), 426 milioni alle due aziende universitarie di Sassari e Cagliari, 99 alle strutture private e 66,6 milioni al Mater.

Una distribuzione che rispecchia la realtà della sanità sarda, caratterizzata da poche strutture pubbliche e da un universo privato che vive di convenzioni. E che prospera grazie ai tagli ai servizi: nell’isola sono chiuse tutte le guardie mediche turistiche e sono scomparsi i presidi medici locali.

Il 20 agosto 15 sindaci della Comunità montana Sarcidano Barbagia di Seulo, si sono presentati davanti alla sede della giunta regionale e hanno restituito le fasce tricolore al governatore Solinas (che non li ha ricevuti). Protestavano per il depotenziamento dell’ospedale di Isili, le vaccinazioni “a rilento” e lo “smantellamento delle Usca”. Vicende comuni a tutta l’Isola. Non è un caso se la Sardegna ieri contava 487 nuovi casi Covid, se ha superato la soglia critica delle terapie intensive (impegnate all’11%), se ha reparti Covid occupati al 12% e ha evitato di tornare in zona gialla la scorsa settimana solo aumentando i posti letto (ma per molti sarebbero solo sulla carta).

Anche col Covid il Mater Olbia ha guadagnato: il 16 marzo 2020 la Regione sigla una convenzione con la struttura per 4 letti di Ti e 16 di sub intensiva. Il valore dei rimborsi (degenza ordinaria 250/die; sub Intensiva 538/die; Intensiva 900/die) li fissa l’ospedale, come dice la stessa delibera: “Vista la straordinarietà della situazione emergenziale (…) si ritiene di considerare eccezionalmente valide le stime proposte dall’operatore privato”. Ma non basta: la convenzione prevede un accordo “vuoto per pieno”, cioè il rimborso non si basa sul numero dei pazienti assistiti, ma sui letti messi a disposizione. Così in meno di un mese, il Mater fattura 373.977,60 euro, a fronte di meno di una decina di pazienti assistiti.

Una classe su dieci è un’aula “pollaio”. Peggio alle superiori

In poco tempo, e perché è una definizione facilmente comprensibile, sono diventate “classi pollaio”. Parliamo delle aule scolastiche particolarmente affollate (anche oltre i limiti previsti dalla legge), ma pure di quelle che in generale potrebbero forse essere ridotte per garantire, in tempi normali, una migliore istruzione e, in tempi di pandemia, una maggiore sicurezza in termini di igiene e contagiosità. Giovedì, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha dato qualche numero cercando di ridimensionare l’allarme sollevato da presidi ed esperti preoccupati per le misure adottate in vista di settembre, con distanziamento solo dove possibile e impossibilità di sdoppiare le classi, non potendo utilizzare neanche il personale aggiuntivo.

Il ministro ha detto che il problema è riferibile a circa il “2,9% delle classi”, per lo più “istituti tecnici delle grandi città” e che, in realtà, il dilemma a cui guardare oggi è un altro: la tenuta demografica. “Quasi il 15 per cento delle classi primarie, le elementari, hanno meno di 15 studenti – ha detto – e c’è un forte problema di tenuta demografica”. Si sposta quindi l’attenzione provando a farle fare una prepotente inversione di marcia e si ricorre a una narrativa ormai diffusa da qualche anno. Molte richieste di finanziamenti e dei fondi alla scuola, a partire da quelli per nuovi concorsi e più personale, vengono da tempo rimbalzati dalla Ragioneria con la motivazione che il progressivo calo della natalità riuscirà, nel tempo, a colmare tutti i gap e a portare la situazione alla normalità. Un concetto che è stato finanche ribadito nel Pnrr, col conteggio del calo degli alunni (-1,1 milioni) e quindi di docenti (-64 mila) e di spesa sull’Istruzione, nei prossimi (indefiniti) anni.

Nell’attesa che tutto si sistemi secondo natura, però, proviamo a verificare quanto detto da Bianchi e diamo uno sguardo ai dati sulla distribuzione delle classi per numero di alunni aggiornata allo scorso anno per tracciare la dimensione di quello che ci si potrebbe trovare di fronte a settembre nelle scuole statali.

A ben guardare, è come dice Bianchi, per lo più nelle scuole primarie: su un monitoraggio di 131mila classi, se ne contavano 28 mila con meno di 15 alunni (più del 20%), quasi 100mila con 16-25 alunni e 4 mila con più di 26 studenti per classe. Circa il 3 per cento, effettivamente, è in soprannumero o quasi (per legge il range è 15-27 alunni per classe). Situazione un po’ diversa già nella scuola dell’infanzia dove (range 18-26), su monitoraggio di 41 mila classi, l’anno scorso 4.900 avevano meno di 15 alunni e circa 4.400 più di 26. Classi vuote e troppo piene, quindi, erano entrambe attorno al 10 per cento. Scuole medie: su 79 mila circa, il 9 per cento aveva meno di 15 alunni, l’8,3 più di 26. La legge permette di arrivare addirittura fino a 30. E le superiori? Il 16 per cento contava meno di 15 alunni, stessa percentuale di quelle con più di 26. Anche qui il limite, eccezionale, è 30: erano almeno 1.400 (1,2%) con più di 31 membri.

I numeri devono essere letti in proporzione e contestualizzati (e tener conto delle deroghe in caso di alunni con disabilità). La distribuzione di scuole dell’infanzia e primarie, infatti, è capillare: sul territorio ci sono, secondo gli ultimi dati disponibili, 22 mila sedi della scuola dell’infanzia e circa 16 mila della primaria, trattandosi di un servizio che deve essere garantito anche nei paesi isolati. Gli istituti secondari, invece, contano circa 8 mila scuole di primo grado e 7 mila per le superiori. La differenza, quindi, è naturale e la tenuta demografica al momento più che un problema appare come una promettente soluzione. Ma solo per i posteri e ammesso che non decidano di fare ulteriori tagli alla scuola. Neanche la pandemia, invece, è riuscita a risolvere i problemi di oggi. Almeno sappiamo che il 90 per cento del personale scolastico sì è vaccinato.

In Sicilia è finita l’estate bianca. Via libera al Green pass a 12 mesi

La Sicilia, come annunciato, supera i limiti ed è la prima Regione che finisce in zona gialla da giugno. Lunedì nell’isola, dove già esistono zone gialle e anche arancioni disposte localmente, tornano l’obbligo di mascherina anche all’aperto e la regole delle quattro persone a tavola, non più di 2.500 negli stadi e comunque non più del 25% dei posti occupati nei cinema e nei teatri. Dieci Regioni (meno di quante fossero una settimana fa) sono a rischio moderato, con la sola Sicilia che presenta un’elevata probabilità di progressione a rischio alto. Le altre sono tutte a rischio basso.

“È la conferma che il virus non è ancora sconfitto e che la priorità è continuare a investire sulla campagna di vaccinazione e sui comportamenti prudenti e corretti di ciascuno di noi”, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza annunciando l’ordinanza sulla Sicilia. Oggi quelli che contano sono i dati ospedalieri: la Sicilia ha superato entrambe le soglie (più basse di prima), quella del 10% nelle terapie intensive (è all’11%) e quella del 15% nei reparti ordinari (19%) oltre ad avere un’incidenza di 200 nuovi casi ogni 100 mila abitanti in 7 giorni (al 26 agosto) in aumento e un indice di diffusione del virus Rt a 1,22. Solo Calabria e Sardegna superano, rispettivamente, la soglia dei reparti Covid (16%) e quella delle rianimazioni (11%). A livello nazionale però Rt, che anticipa la tendenza dei contagi, scende per la quarta settimana: la media è 1,01 (0,93-1,12) calcolata (al 17 agosto) sui sintomatici, il dato più alto si registra in Basilicata (1,7) ma anche Puglia (1,11) e Toscana (1,09) superano 1 già nel limite inferiore; l’indice nazionale è a 1,04 (1-1,09) sui soli ricoverati.

Ospedali Altre 4 regioni rischiano di superare i limiti

Nel frattempo l’incidenza sale di poco, dai 69 ai 71 casi ogni 100 mila abitanti nei sette giorni fino al 22 agosto (ma ieri eravamo già a 77); tra il 17 e il 24 agosto i pazienti in rianimazione sono passati da 423 a 504 (+5,4%) e quelli nelle aree mediche da 3.472 a 4.036 (+7,1%). Aumenti non drammatici ma Gianni Rezza, direttore della Prevenzione alla Salute, invita alla “prudenza”. Gli esperti prevedono che Abruzzo, Calabria, Puglia, Toscana possano superare almeno una delle due soglie ospedaliere nei prossimi 30 giorni. I morti dell’ultima settimana sono stati 319, nella precedente 304: da 43,4 a 45,6 in media al giorno (ieri 45).

Si conferma la prevalenza della variante Delta e l’elevata proporzione di giovani asintomatici tra i nuovi contagiati. Oltre alle vaccinazioni il report sottolinea l’importanza di “un capillare tracciamento e contenimento dei casi”. È uno dei limiti del nostro Paese ma i casi individuati con il tracciamento sono passati dal 32 al 34%.

Vaccini Green pass da 12 mesi terza dose: i medici frenano

Il Comitato tecnico scientifico, come già anticipato dal professor Franco Locatelli, ha dato via libera al prolungamento da nove a dodici mesi della durata del green pass per i vaccinati. La misura serve a evitare problemi organizzativi nelle strutture sanitarie dove le vaccinazioni di medici e infermieri sono iniziate alla fine di dicembre 2020 e quindi le certificazioni sono ormai in scadenza. L’avevano chiesto gli Ordini dei medici, infatti, per quanto i dati di Israele e Regno Unito indicano al contrario che l’immunizzazione si riduce anche dopo cinque/sei mesi, pur mantenendosi a livelli elevati per quanto riguarda malattia grave e decesso. Si rende così attuale il dibattito sulla terza dose, che il professor Sergio Abrignani, immunologo del Cts, prevede a partire da fine dell’anno non solo per le persone particolarmente fragili (in particolare immunodepressi) ma anche per gli operatori sanitari e per le fasce d’età più elevate. Una decisione ancora non c’è, anzi Filippo Anelli, presidente della Federazione degli Ordini dei medici, frena. E il dibattito sull’eventuale obbligo vaccinale, anche mediante ampliamento delle attività subordinate al green pass, è rimandato a fine settembre quando si vedrà se l’obiettivo del 90% di immunizzati è stato centrato e come vanno le cose nei vari settori.

Berlusconi, altro ricovero stile stop-and-go. L’8 settembre riprende a Milano il Ruby-ter

Èuscito poco prima delle 16 dal settore D dell’ospedale San Raffaele di Milano, dove era ricoverato da giovedì sera per una “valutazione clinica approfondita”, come l’ha definita il suo staff, a causa di un lieve problema cardiaco. I controlli sono andati tutti bene e nel pomeriggio Silvio Berlusconi ha lasciato il nosocomio. Il leader di Forza Italia era già stato in ospedale dal 6 aprile al 1° maggio e poi era tornato ancora l’11 dello stesso mese per ulteriori controlli che l’entourage aveva attribuito agli strascichi lasciati dal Covid-19. A causa dei ricoveri l’ex premier ha saltato le udienze dei processi Ruby Ter in corso a Milano e a Siena. Nel processo toscano, in cui è imputato per corruzione in atti giudiziari, il 13 maggio l’udienza è stata rinviata per l’ottava volta e fissata al 21 ottobre. A Milano, invece, dove B. è imputato con la stessa ipotesi di reato, il 26 maggio la difesa aveva fatto presente che l’imputato non è in grado di “presenziare dignitosamente alle udienze” e il Tribunale aveva deciso di non separare la sua posizione da quella degli altri imputati come chiesto dalla Procura, rinviando all’8 settembre.

“Troppi dubbi, Nicoletta non si è uccisa”

Nicoletta lavorava come broker assicurativo, aveva 38 anni, si era separata, viveva con una coinquilina in un appartamento a Brescia e aveva un compagno. Coinquilina e compagno, coloro che la notte tra il 18 e il 19 giugno 2018 la trovano impiccata dentro un armadio. Con la cintura dell’accappatoio al collo, tra i vestiti appesi in perfetto ordine e i piedi che toccano terra. E con una serie di appuntamenti per il giorno successivo presi quella stessa sera. La ragazza che condivideva l’abitazione con la vittima è la prima che vede il corpo e chiama i soccorsi, mentre il fidanzato della 38enne dorme nella stanza accanto e spiegherà di aver avuto un rapporto sessuale la sera con Nicoletta, poi di essersi addormentato con lei accanto e di non aver sentito nulla. Ora è in ospedale e a causa delle sue condizioni di salute non può essere ascoltato dagli inquirenti.

“Fin da subito è apparso un suicidio strano”, raccontano oggi gli operatori del 118 intervenuti nell’estate di 3 anni fa nell’abitazione di via Fratelli Ugoni, centro città. Quella che arriva da Brescia è la storia di un’indagine nata male, con la casa mai sequestrata, il medico legale mai chiamato la sera del ritrovamento del corpo, il cellulare della vittima recuperato solo 6 mesi dopo, la cintura dell’accappatoio conservata male e fatta ammuffire. Il pm di Brescia Federica Ceschi ha chiesto tre volte l’archiviazione dell’inchiesta contro ignoti. “L’ipotesi che sia stata aiutata o costretta nel compiere l’estremo gesto non è supportata da alcun elemento oggettivo, ma si basa su mere congetture”, scrive il magistrato. Per due volte il gip ha però rigettato la richiesta di archiviazione e ha disposto nuove indagini. Il 16 settembre in tribunale a Brescia sarà discussa l’ultima opposizione all’archiviazione. La famiglia della vittima non ha mai creduto al suicidio e i consulenti nominati dall’avvocato Ennio Buffoli, non hanno dubbi: “La causa della morte non è da attribuire a un’ipotesi da impiccamento e le lesioni riscontrate al collo sono piuttosto originate da un apprendimento successivo alla morte”, scrive il gruppo di lavoro coordinato dal generale Luciano Garofano.

Ci sono molti aspetti che non tornano e lo riconosce anche il pm. “Come mai la donna aveva dichiarato di prendere il Tavor e poi non ve n’è traccia nel sangue? Perché né il compagno né il cane hanno sentito i rumori verosimilmente causati dalla donna? Perché le lenzuola del letto su cui dormiva la coppia erano spostate solo da un lato?”, scrive il magistrato. Un dato su tutti: dall’autopsia è emerso che la 38enne aveva un tasso alcolemico nel sangue pari a 3,45 grammi per litro. “È del tutto improbabile che una donna in queste condizioni possa prima ancorare saldamente la cinta dell’accappatoio alla barra appendiabiti con due nodi e in seguito fissare l’altro capo dello strumento utilizzato per il suicidio e infine ruotare di 180° per lasciarsi andare senza provocare alcun disordine nell’armadio e senza procurarsi alcuna lesione a seguito del contatto”, è il pensiero dei consulenti di parte. La barra dell’armadio è rimasta intatta. E poi Nicoletta aveva dei lividi sul braccio destro. Per la Procura “sono stati prodotti quando il cadavere è stato spostato dall’armadio”, mentre per i consulenti della famiglia “sono stati provocati quando la ragazza era ancora in vita anche perché il corpo senza vita è stato trovato diverse ore dopo il decesso”.