Cara scuola, guardaci bene!

#WeThe15, la campagna promossa dall’International Paralympic Committee (Ipc) e dall’International Disability Alliance (Ida) pone l’attenzione sui diritti delle persone con disabilità. Siamo circa 1,2 miliardi di cittadini, pari al 15% della popolazione mondiale. In scala, in un istituto con 500 ragazzi, circa 75 hanno una qualche difficoltà fisica, sensoriale o cognitiva.

Intendiamoci, questo dato non racchiude solamente ciechi, amputati, carrozzati o ragazzi con disabilità intellettivo-relazionali. In ogni caso il numero di potenziali atleti paralimpici che frequentano le scuole resta significativo. In quanti casi si è in grado di garantire loro una reale inclusione e delle lezioni di educazione fisica come Dio comanda?

Le Paralimpiadi ci offrono un’ottima occasione per aprire gli occhi. Spesso si tende a tracciare una linea di confine tra l’eroe che vediamo alla tv in maglia azzurra e il nostro alunno, con analoga disabilità. Uno vince il bronzo nell’equitazione (l’ha fatto ieri la nostra Sara Morganti a cui facciamo i complimenti) o l’argento nei 400 stile libero (Carlotta Gilli, terza medaglia per lei), l’altro viene spesso parcheggiato in un angolo della palestra mentre i compagni giocano, oppure viene allontanato sistematicamente perché deve recuperare qualcos’altro o fare terapia.

Rendiamo concreto l’insegnamento che arriva forte da Tokyo e portiamolo in classe; la scuola è il primo vivaio di un Paese ed è il miglior laboratorio d’inclusione possibile. È allenante per chi ha una disabilità, è super allenante per chi è sano come un pesce e impara argomenti che nei libri non può trovare: la sensibilità e l’empatia.

La gravità di una condizione deriva da fattori biologici tanto quanto da quelli ambientali. Sta a noi adulti rendere la scuola un contesto potenziante e, usando una metafora sportiva, trasformarla nel dodicesimo uomo in campo.

*Pluricampione mondiale ed europeo di sci nautico, presidente ad honorem di Piramis Onlus e operativo di Real Eyes Sport

Lavoce.info: Si scrive stagista, si legge…

Lavoce.info cerca uno stagista: che fortuna! Il sito fondato da Tito Boeri e che si occupa di temi economici anche con l’evidente missione di farsi controllore proprio dell’economica correttezza applicata alla cosa pubblica e privata, cerca per 4 mesi uno stagista curriculare che “svolga attività di research assistant”, che “sarà coinvolto nella gestione del sito e dei social”, in “ricerca e scrittura di articoli” e nella “produzione del podcast e della rubrica di data visualization”. I requisiti: “Spiccato interesse per l’attualità e una conoscenza dei temi trattati. Il candidato ideale frequenta un corso di laurea magistrale o l’ultimo anno di laurea triennale in materie economiche” e “costituisce un asset preferenziale esperienza nella gestione dei social e nella creazione di video o audio”. Ovviamente, “trattandosi di un tirocinio per studenti, non è previsto un compenso, ma verranno garantiti al termine dello stage 750 euro lordi” (per 4 mesi). Generosi! Peccato che ci sia un dettaglio: “La redazione – aggiungono – si riserva la possibilità di selezionare candidati non iscritti al momento della domanda ad alcun corso di laurea”. Quindi non più stage curriculare, ma stesso compenso (187 euro lordi al mese) con quel popò di competenze richieste. Ma vuoi mettere l’onore?

Ma dove vai se Malagò non ce l’hai?

Giovanni Malagò capo di Forza Italia? Lo ha scritto ieri Repubblica, lo ha smentito Silvio Berlusconi uscendo dal San Raffaele dove ha dovuto fare degli accertamenti. Un po’ ci dispiace. La modalità “piaciona” del presidente del Coni si sarebbe adattata bene a un partito come Forza Italia che senza l’ex Cavaliere sembra un sacco vuoto costretto a stare in piedi per forza. E ha un bel dire l’esuberante Micaela Biancofiore che se vuole un “papa straniero” Berlusconi può rivolgersi al sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro.

Ma Malagò era una bella idea. E devono essersi dispiaciuti molto i tanti amici che il sornione frequentatore del Circolo Aniene ha nei vari partiti. Sembra già di sentirli quelli del Pd – che infatti a Roma candidano capolista la “compagna” Beatrice Lorenzin – reclamare stizziti: “Ma come, Malagò non è dei nostri?”. E il buon Matteo Renzi, dove lo metti? Malagò non è un iscritto perfetto per la malferma Italia Viva? E se ci fosse un centro da ricostruire, una cosa à la Casini, non sarebbe Malagò il testimonial perfetto? Anche Carlo Calenda avrebbe di che dire. Specialmente dopo le Olimpiadi con il “maggior numero di medaglie di sempre” – anche se una volta si svolgevano meno giochi e meno specialità, ma questo è per gli addetti ai lavori – con i “nostri ragazzi” che ci hanno riempito di orgoglio e Malagò mai a perdersi un’intervista, una foto di gruppo, la torta e lo spumante che sembrava le medaglie le avesse vinte tutte lui, dopo che tutti uscivano per strada a gridare “Forza Italia” la mossa di Malagò successore di Berlusconi sarebbe stata perfetta. Peccato.

Test salivari, soluzione per la scuola

A circa venti giorni dall’apertura dell’anno scolastico, ecco riemergere tutti i problemi. La Dad, oltre che un disastro culturale, è stato anche un disastro sociale. Fortemente penalizzante per il mondo femminile, ha provocato disagi anche nell’organizzazione del loro lavoro. Occupate per seguire i figli durante le lezioni a distanza, molte donne hanno chiesto, ove possibile, lo smart working, che in questi casi si è rivelato uno stress insostenibile. Lavoro in contemporanea all’assistenza della Dad, spesso in spazi non sempre ampi o con più di un figlio da seguire. Le donne con lavori che prevedono la turnistica notturna, come nell’ambito sanitario, hanno chiesto di “fare le notti”. Il risultato è stato un impegno h 24. Cosa è stato fatto per programmare il rientro a scuola? Soprattutto parole e continui litigi politici. Guardiamo i fatti. L’Italia, a parità di severità della pandemia, è stato l’unico Paese europeo che ha tenuto chiuse le scuole per quasi due anni. Dati raccolti in Francia dimostrano chiaramente che la diffusione del virus in classe ha una probabilità molto bassa. Il vero pericolo è l’affollamento dei mezzi di trasporto. Cosa è stato fatto per risolvere il problema? Si è parlato di programmare ingressi a turni differenti, di aumentare i mezzi di trasporto. Non è accaduto nulla. Ci troviamo nelle stesse condizioni dello scorso anno. L’unica proposta è il green pass per i docenti. Siamo trasparenti. Non serve per proteggere i nostri alunni, ma è utile agli insegnanti che, se vaccinati, nel caso di contagio, saranno protetti dalla malattia severa. Nulla da vedere con la limitazione del contagio. Eppure una valida soluzione potrebbe esserci. A parte il potenziamento dei mezzi pubblici, esistono i tamponi salivari. Quasi tutte le regioni li ignorano. La Francia ne ha prenotati 600.000 a settimana per tutto l’anno scolastico. Esempio da seguire, noi stiamo a guardare. E se un bambino risultasse positivo? A casa, in quarantena tutta la classe. Mamma (solo raramente vale la genitorialità in questo Paese) a casa in ferie!

 

Quattro passi nel vuoto (col G20)

Checché ne pensiate della guerra in Afghanistan, dell’imbarazzante (nei modi) ritiro Usa, della più vasta questione della cosiddetta “esportazione della democrazia”, c’è una mancanza che ci accomuna tutti: non aver capito finora quale luogo magico sia il G20. Voi pensavate che lasciando Kabul ai Talebani quelli avrebbero fatto più o meno il comodo loro, compreso far vestire di nuovo le donne da apicoltrici? Non è detto, perché c’è il G20: “Il G20 deve fare tutto il possibile per garantire che le donne afghane mantengano le loro libertà e i loro diritti fondamentali”, ha detto giovedì Mario Draghi nel suo messaggio al cosiddetto “G20 delle donne”.
Anche la ministra Elena Bonetti, all’esito dell’alto consesso, ha rilasciato a La Stampa di ieri parole in cui risuona un certo ottimismo della volontà: “Abbiamo condiviso l’urgenza di una posizione univoca”, a fronte del “rischio a cui sono sottoposte le donne afghane e la popolazione tutta”.
Bene, e cioè? “Il messaggio forte che arriva oggi dal G20 delle donne è che la comunità internazionale non può girare lo sguardo altrove”.
Per carità, e quindi? “Siamo usciti con una voce unica e un invito alla comunità internazionale, in particolare ai Paesi del G20, per riconoscere i diritti delle donne afghane e garantire loro le libertà fondamentali e il livello di non subalternità sociale guadagnato in questi anni”.
Certo, giusto, ma quindi? “Abbiamo bisogno di definire oggi una strategia del dialogo all’interno del G20 che verrà costruito, ogni azione deve avere come precondizione la tutela della popolazione afghana in generale e delle donne in particolare”.
Sì, sì, chiaro, noi si diceva: ma quindi? “Urge far nascere una coscienza nei confronti della popolazione afghana che si traduca in impegno per i diritti. Il messaggio del premier Draghi al G20 è stato chiarissimo: non possiamo deludere noi stessi”.
Ora, fuor di metafora, o questi hanno più fiducia pure di Conte nella “trattativa serrata” coi nuovi Talebani (più una vagonata di soldi, s’intende) oppure non bisogna pagare miliardi come Jeff Bezos per farsi quattro passi in un posto in cui sia assente la forza di gravità. Basta chiedere al G20.

A Calenda piace il confronto (ma solo se poi non succede)

Afine luglio, al primo – e finora unico – confronto pubblico tra i candidati sindaci della Capitale, era stato Enrico Michetti ad andarsene. “No, la rissa no”, aveva detto allargando le braccia mentre Gualtieri – non esattamente uno aduso al tafferuglio – discuteva di rifiuti. Da allora, il tribuno radiofonico in corsa con il centrodestra è sparito dai radar. Niente più confronti. E pure le apparizioni solitarie si fanno rare, onde evitare altre gaffe. Eppure, c’è chi è riuscito a superare il disastro comunicativo dell’uomo di Meloni e Salvini. Il twittarolo Carlo Calenda, per dire, dopo aver di buon grado accettato l’invito alla festa del Fatto

per il confronto che si terrà sabato 4 settembre tra gli aspiranti sindaci di Roma, ha deciso che non viene più: non vuole “sdoganare” il nostro giornale “come sede super partes di un dibattito” (sic). Segue la litania su “ingiurie e falsità” che saremmo soliti mandare in stampa (non ne cita mezza), invita il Pd a “non abboccare” visti gli “insulti” che rivolgiamo a Mario Draghi (quali?). Non spiega cosa sia cambiato da un mese a questa parte, forse un’overdose di autostima (“Regalargli un mare di pubblicità, non è proprio il caso”). Dice che ha altri confronti in agenda, ma nulla è ancora fissato.

Ma quel che più stupisce è la discrasia tra il Calenda online e quello reale: il primo sempre pronto al confronto, l’altro in fuga alla prima occasione utile. Lo ha fatto anche nei giorni scorsi, in un incontro a porte chiuse organizzato da Astrid, a cui ha dato forfait dieci minuti prima dell’inizio. “Da settimane chiedo un confronto”, si lamentava. “Finalmente un confronto!”, si entusiasmava quando l’Ordine degli architetti li ha chiamati a raccolta a fine luglio. Così come ha “subito proposto un confronto” sulla “riforma” dei musei capitolini. Non ha paura di nulla, Calenda: “Facciamo un confronto solo sulla storia di Roma – sfidava Michetti –. Monarchia, Repubblica, Principato o Impero. Decidi tu”. I rifiuti? “Disponibile ad approfondire quando e dove volete”, insisteva a Ferragosto. Poi le vacanze sono finite, il confronto si poteva fare davvero. Lui è rimasto a twittare.

Mail Box

 

Fini e il tribunale del “politically correct”

Caro Marco, la “battuta” sulle verghe sacre di Massimo Fini vale da sola tutto il prezzo dell’abbonamento annuale al Fatto. Sto ancora ridendo! Per una volta non ho condiviso la tua scelta della precisazione alla fine dell’articolo. Ci saremmo potuti sbellicare ancor più con le reazioni dei cretini del “tribunale supremo del politicamente corretto”. Non si fa così! Scherzo ovviamente. Sempre con grande stima, vi saluto. Siete fortissimi e Massimo Fini un pochino di più.

Angelica

 

Cara Angelica, in realtà i cretini hanno reagito lo stesso, più che mai sdegnati.

M. Trav.

 

Rdc ai poveri, perché? I soldi diamoli ai ricchi

Ci rovinano, i poveri. Sporcano, defecano, non si cambiano le mutande almeno due volte al giorno e sputano, molti non pagano nemmeno le bollette. Ora per colpa dei 5 Stelle prendono anche il reddito di cittadinanza, una vera vergogna. I ricchi, invece, profumano sotto le ascelle e nel solco delle natiche, ma sopratutto tengono tutto pulito. Più soldi ai ricchi che sanno come si usano e come ci si deve comportare! E sempre viva Renzi.

Paolo Sanna

 

Calenda e Michetti, due sedie vuote al “Fatto”

Propongo di lasciare comunque le due sedie vuote sul palco e magari metterci dei cartonati di Calenda e Michetti, che tanto i contenuti espressi sarebbero gli stessi. Alla prossima settimana.

Maurizio

 

Parco di Latina, un’idea che farà contenti tutti

Durigon si è dimesso. Ci vuole un gesto di riconciliazione: intitoliamo il parco di Latina ai “martiri delle idiozie”, cioè ai politici che dicono frasi o compiono azioni indecenti. Come il povero sottosegretario – incompreso dall’opinione pubblica e dal suo partito – che ha provato a dimostrare con accanimento epistolare la convivenza nella stessa persona di antifascismo sincero e volontà di onorare il fratello del duce. Ma l’idiozia è così: quando ne scappa una, poi per recuperare ne arrivano di peggiori. Tali persone innocentemente autolesioniste devono avere un luogo che ne ricordi la sofferenza. Il parco dei “Martiri dell’idiozia” sarebbe l’ideale, magari con un monumento al “politico idiota ignoto”, che li ricordi tutti. Così che, appena un parlamentare sbadato – per dire – riveli di essersi travestito da nazista pensando di passare inosservato, ci sia un luogo dove una persona caritatevole possa depositare un fiore.

Massimo Marnetto

 

Le opinioni distorte sul Medio Oriente

Sull’Afghanistan è stata costruita una post-verità fatta di bugie utili alla “guerra umanitaria”. La post-verità è la costruzione di una visione della realtà in cui i fatti verificabili (quelli sull’Afghanistan) diventano secondari. La verità oggi viene considerata una questione meno importante, e così anche i fatti. “Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali (Accademia della Crusca). Ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, a Biden la chiusura della prigione di Guantanamo, stop. Non bisogna destabilizzare il paese per una sorta di rivincita. Il collasso del Paese significherebbe la crescita del terrorismo dell’Isis. I recenti attentati siano di monito.

Alessandro Marescotti

 

Regioni: serve ancora lo Statuto Speciale?

I giornalisti dovrebbero interessarsi alle Regioni a Statuto Speciale. L’Italia dopo 73 anni ne ha ancora bisogno? Senza una campagna stampa non cambierà niente, perché non hanno interesse a perdere benefici, quali il numero dei consiglieri regionali sproporzionati in confronto al numero degli abitanti. Come se 20 consiglieri non bastassero a garantire le componenti della Regione (1 ogni 6.250 abitanti ai sensi del D.l. 138/2011).

Antonio Fiengo

 

Sul Covid per lo Stato siamo sudditi da punire

Sembra che per il governo il problema principale siano i cittadini. È da quasi due anni che si accanisce contro inermi cittadini, vessati da una burocrazia in vertiginoso aumento, puniti con lockdown e pesanti restrizioni, costretti a vivere in condizioni anormali. Si crede di poter protrarre questa situazione a tempo indeterminato col pretesto dell’emergenza sanitaria, ma prima o poi arriverà il giudizio su quanto si è fatto, e soprattutto su come si è fatto. Ci attende un autunno di scontri e confronti con un governo che continua a trattarci come sudditi da spaventare e punire. Questo atteggiamento è sbagliato e avrà delle gravissime conseguenze.

Cristiano Martorella

Voli nazionali, zero controlli. Speriamo di non infettarci troppo

Gentile redazione, qualche giorno fa quando mi sono recata in aeroporto ho scoperto che, a parte la misurazione della temperatura, non c’è alcun tipo di controllo. Sono partita da Roma Fiumicino e atterrata a Brindisi all’andata e viceversa al ritorno con Ryanair. Ciò che mi ha sorpresa è che in entrambi i casi non mi è stato chiesto di esibire alcun documento inerente al Covid, né il Green Pass né (in assenza) l’esito negativo del tampone. Nei giorni precedenti alla partenza ho ricevuto numerose email in cui la compagnia mi ricordava di informarmi circa i documenti da portare con me o, eventualmente, da allegare nel mio profilo di viaggio. Ho portato con me la copia cartacea del Green Pass assieme al biglietto. Li ho esibiti entrambi, ma mi è stato detto dall’hostess: “Signora, solo il biglietto. Questo non serve”. Ma come? Stessa cosa è accaduta ai passeggeri dietro di me. Ci siamo tutti sorpresi. Niente controlli? Ma allora com’è possibile che si viaggi senza le distanze di sicurezza e senza alcun tipo di tracciamento dei passeggeri? Ho letto che dal 1° settembre sarà obbligatorio esibire il certificato verde o il tampone anche sugli aerei. Era ora! Ma è vero? Prima ci hanno fatto viaggiare senza alcun controllo per tutta l’estate, una sorta di tana libera tutti, e adesso il governo si è deciso a mettere delle regole?

Letizia M.

 

Gentile signora Letizia, dalla fine delle restrizioni abbiamo segnalato l’assenza di controlli delle certificazioni verdi dette Green Pass su molti voli internazionali. Lì infatti sono previsti da tempo ma sono affidati alle compagnie aeree, che a volte si girano dall’altra parte e non sempre vengono sanzionate dalle autorità preposte. Perciò, onestamente, non ci sorprende l’assenza di controlli sui voli nazionali: fino al 31 agosto, come scrive lei, non ci sono obblighi per i viaggiatori, né per le compagnie. Vedremo se funzioneranno dal 1° settembre. Purtroppo siamo il Paese dei mancati controlli, a cominciare dalla sorveglianza, dal tracciamento dei contatti dei positivi e dalle quarantene. Ci hanno raccontato che basta vaccinarsi ma non è così: i vaccini sono necessari, non sufficienti. Speriamo di non pagare un prezzo troppo elevato.

Alessandro Mantovani

Reddito universale o di cittadinanza per salvare la dignità

“Questo in fondo è il segreto di tutto, nella vita: trovare modo di far fare agli altri il lavoro che in teoria tocca a te”.

(da Io non ci volevo venire di Roberto Alajmo – Sellerio, 2021 – pag. 209)

 

Mentre un pezzo – o meglio, un pezzettino – della maggioranza extralarge che sostiene il governo Draghi, cioè Forza Italia Viva di Matteo Renzi, attacca il reddito di cittadinanza e lancia addirittura un referendum per abolirlo, nella stessa maggioranza XL Beppe Grillo esorta il Movimento 5 Stelle a impegnarsi per il cosiddetto reddito universale. Basterebbe già questo esempio per dimostrare quanto variegato ed eterogeneo sia lo schieramento parlamentare che supporta o sopporta (per ora) il “Governo dei Migliori”. Ma tant’è. Ci sarà tempo e modo per regolare i rapporti di forza ed eventualmente aggregare una maggioranza di governo più omogenea e coesa. Non so bene se per combattere la disoccupazione crescente – provocata prima dall’automazione e poi dalla digitalizzazione dei processi produttivi e dei servizi – e al contempo per contrastare il precariato o lo sfruttamento, sia più efficace il reddito di cittadinanza o quello universale. Dati alla mano, bisogna riconoscere che il controverso provvedimento imposto dai Cinquestelle già al governo giallo-verde, e adottato da diversi altri Paesi, ha sottratto per ora milioni di persone alla povertà e alla disperazione. Ma, personalmente, ritengo più appropriato ed efficace il cosiddetto reddito di dignità (ReD) – di cui ho già scritto in passato – introdotto dalla Regione Puglia per gli scopi indicati dallo stesso presidente Michele Emiliano. Il reddito di dignità pugliese, come si può leggere nel sito istituzionale, “è la misura che promuove l’inclusione sociale attiva e che integra con un contributo economico regionale i redditi delle persone in difficoltà”. Prevede un’indennità economica di attivazione e un tirocinio di inclusione sociale. Si tratta, quindi, di un sostegno temporaneo (18 mesi), finalizzato alla formazione o all’aggiornamento professionale, per consentire a chi lo riceve di imparare o perfezionare una competenza, di acquisire una capacità di lavoro e quindi di procurarsi un’occupazione e una retribuzione adeguate. “Il problema non è di sussidi, bensì di compensi”, ha avvertito ieri Peter Gomez su questo giornale.

Ma ciò che più che conta è la “dignità”. Oltre ad assicurare la sopravvivenza economica a chi ha i requisiti previsti, assicurando la riscossione di un reddito a fronte di una prestazione, il ReD di Emiliano – seppure fra luci e ombre – punta a un obiettivo per così dire esistenziale. Dare o restituire la dignità che soltanto un’occupazione stabile può garantire, insieme a un ruolo e a un’identità. Chi non lavora non fa l’amore, cantava Adriano Celentano già cinquant’anni fa. E a parte l’amore, chi non lavora non occupa né un posto né uno spazio nella società. Che cosa faranno nella loro vita quotidiana i beneficiari del reddito universale? Giocheranno a carte o a biliardo dalla mattina alla sera al bar? Andranno in palestra o a scuola di ballo? E insomma, con quale dignità – appunto – manterranno le loro relazioni con le mogli, i figli e i vicini di casa? Anche di questo bisogna preoccuparsi, per evitare i rischi della frustrazione o della depressione. Nel suo romanzo intitolato Cambiare l’acqua ai fiori, Valérie Perrin fa dire alla protagonista Violette Toussaint, guardiana del cimitero in una cittadina della Borgogna, una frase su cui conviene meditare: “È un lusso essere proprietari del proprio tempo, lo ritengo uno dei più grandi lussi che l’essere umano possa concedersi”. Ecco, il tempo: il bene più prezioso – perché limitato per legge di natura – di cui ciascuno dispone nel corso della vita. Vale, a maggior ragione, per il tempo di lavoro.

 

Durigon, chiediamo scusa per aver infastidito i migliori

Chiediamo scusa se abbiamo irritato Draghi, rovinandone l’aplomb internazionale, con la nostra insistenza per la cacciata del sottosegretario Durigon. Il quale dimettendosi ha tenuto a sottolineare di non essere fascista, da cui discende che il desiderio da lui espresso di una intitolazione di un parco di Latina al fratello tangentista di Mussolini era evidentemente l’espressione di una stima per i tangentisti, oppure – vista la concomitante sottrazione del parco alla memoria di Falcone e Borsellino – di un’antipatia per i giudici ammazzati dalla mafia; e capite che se è così è tutta un’altra storia.

Comunque, tutto è bene quel che finisce bene: Draghi non è più “infastidito” dalle proteste degli antifascisti, ormai considerati alla stregua di rompicoglioni, sabotatori dell’ottimo governo per delle piccolezze; Durigon verrà promosso da Salvini nel partito per il bel gesto compiuto e, apprendiamo dai giornali informati, ora nel governo ci sarà un bel repulisti. Di fascisti e/o simpatizzanti dei mafiosi stragisti? No, ma che andate a pensare! Di Lamorgese e Conte, persone sì estranee alla vicenda, ma invise a Salvini.

C’è da dire che Durigon ha potuto galleggiare per 22 giorni sul limo della sua frase abietta perché quest’ultima si situa in una intercapedine che vede i liberali – tra i quali gli ormai caricaturali esponenti di Italia viva, fieri di comunicare alla nazione che non avrebbero votato la sfiducia al sottosegretario voluta da Pd, M5S e LeU – schierati dalla parte della “libertà d’espressione” qualunque essa sia, contro la dittatura del politicamente corretto e della cancel culture che priva la famiglia Mussolini del suo posto nella Storia e nei parchi dell’Agro Pontino. (La maglia stavolta si è allargata troppo, ma vedrete che presto qualcun altro ci infilerà il dito, specie perché di Durigon sono pieni i partiti: complimenti al Pd di Bologna che invita alla Festa dell’Unità un deputato di FdI che nel tempo libero si veste da nazista).

Ma il punto è un altro: “Claudio Durigon certamente non è un fascista”, assicura il Corriere; anzi, ha avuto il merito di portare alla luce il vero problema: “la non definitiva cicatrizzazione delle ferite seguite al Ventennio e alla Guerra Mondiale”. Non è lui che è fascista, siamo noi che non cicatrizziamo bene.

Sul fronte mafia, Durigon ha la bontà di spiegare a chi aveva capito male che “i due magistrati sono non solo due figure eroiche, ma anche dei modelli di etica, di civismo, di senso dello Stato”, perciò la prima cosa da fare per onorarli è togliere il loro nome da targhe, strade, parchi per metterci quelli di gerarchi fascisti. Segue l’immancabile “omaggio alla bonifica dell’Agro Pontino”, un classico del genere “il Duce ha fatto anche cose buone”, messaggio criptato ben noto in certi ambienti che significa “tranquilli, sono lo stesso fesso di prima”. In questa temperie culturale si situa la placida naturalezza con cui i giornali riferiscono che ora, in cambio delle dimissioni di Durigon, si dovrebbe dimettere Lamorgese da ministra dell’Interno o, meglio ancora Conte, che non avendo incarichi di governo si dovrà dimettere da capo dei 5Stelle, da avvocato, da professore o da pugliese. Però il metodo è affascinante: tu infarcisci il governo, che è di fauna composita, di ceffi impresentabili che ti vergogneresti a portare in pizzeria, i quali sparano enormità incostituzionali appena ne hanno l’occasione; se qualcuno protesta, contrariando molto Draghi che è per il quieto vivere, li fai dimettere, chiedendo in cambio la testa di gente che non c’entra niente ma che ti sta sul gozzo. Potenzialmente puoi crearti un governo su misura, di destra purissima, nel caso questo non lo fosse abbastanza (i fascisti dichiarati ancora non sono ammessi, ma la zona grigia è percorribile). Ma cos’è, politica o racket?