Con l’Afghanistan addio pure all’alleanza Nato

Il nostro “profilo atlantico” è andato a infrangersi dall’altra parte del mondo, sulle aride cime dell’Hindukush. Ora che si è conclusa nel sangue la precipitosa ritirata della Nato dall’Afghanistan, dobbiamo dircelo in tutta franchezza: questa alleanza militare, nata nell’epoca della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, si rivela impotente e obsoleta, fin nella sua stessa costituzione. Della Nato oggi fanno parte, con crescenti tensioni interne, democrazie liberali sempre più fragili e nazioni che hanno imboccato la strada dell’autocrazia. Nei vent’anni seguiti allo spartiacque epocale dell’11 settembre 2001 non si segnalano, nel mondo, cambi di regime significativi dal totalitarismo alla libertà. La Nato, dopo la fine dei regimi comunisti, non è più stata capace di promuoverne alcuno.

Il bilancio è sconfortante: altro che esportazione della democrazia. Semmai, dall’Asia all’Africa all’America Latina assistiamo a involuzioni di segno opposto che ormai contagiano anche le regioni centro-orientali dell’Europa. Paesi islamici come la Turchia (membro Nato) e il Pakistan (formalmente alleato degli Usa) trovano più vantaggioso sganciarsi dalla lealtà atlantica e praticare il doppio gioco. La vittoria dei talebani, cultori della visione più oscurantista dell’islam, d’ora in poi eserciterà un forte richiamo sulle stesse petromonarchie sunnite del Golfo, dai cui regimi semifeudali traggono origine le prescrizioni dell’ideologia wahabita: condanna a morte degli apostati, sottomissione delle donne, divieto della musica e delle arti figurative. L’enorme potenza finanziaria accumulata da questi regimi, Arabia Saudita in testa, lungi dal favorirne una transizione democratica, attira gli speculatori occidentali nel mentre quei despoti accentuano le distanze dalla nostra cultura pluralista.

Di fronte a una tale disfatta, appaiono velleitari i tentativi di resuscitare un blocco politico-militare occidentale, fondato sull’alleanza fra Usa e Unione europea, sostituendo all’originale ispirazione anticomunista i nuovi imperativi della lotta contro il terrorismo islamico e/o le mire espansionistiche cinesi. Che si tratti di un impossibile ritorno al passato, lo dimostra lo stesso comportamento degli Stati Uniti, in Afghanistan così come in Libia, in Siria e altrove: dopo Trump, anche Biden si è guardato bene dal coinvolgere gli alleati nelle sue scelte di ridimensionamento dell’impegno americano nel mondo. Il messaggio implicito trasmesso dalla rovinosa fuga da Kabul è inequivocabile: in futuro nessun paese potrà sentirsi tutelato dalla potenza militare statunitense.

Gli accordi stipulati l’anno scorso fra Israele e i paesi del Golfo sotto l’egida di Trump, enfaticamente chiamati Patto di Abramo, sono stati l’ultima illusione. Descritti come storico avvio di un processo di ricomposizione fra il campo occidentale e l’islam, suggellati da ingenti rifornimenti di armi e apparati di cybersecurity, si fondano sull’obiettivo strategico di provocare con la forza la caduta del nemico comune: l’Iran sciita degli ayatollah. Seppellendo definitivamente la trattativa con Teheran avviata da Obama.

Ora che il ventennale dell’11 settembre (attentati di matrice sunnita) si consuma nel segno del fallimento, sarà bene risalire indietro nel tempo per fare i conti con gli effetti nefasti di quella rivoluzione popolare iraniana da cui, nel 1979, scaturì – sono gli assurdi della storia – una poderosa, inquietante esperienza reazionaria: la prima Repubblica islamica, al tempo stesso teocratica e “antimperialista”. Si tratta di un passaggio fatidico, tuttora irrisolto, a quarantadue anni di distanza. La millenaria potenza imperiale persiana, dopo aver rielaborato nel suo clero sciita le principali argomentazioni integraliste dei Fratelli Musulmani sunniti, si è presentata all’insieme del mondo islamico quale avamposto di una lotta senza quartiere contro il Grande Satana (gli Usa) e il Piccolo Satana (Israele), cioè contro il capitalismo occidentale, i suoi usi e i suoi costumi. Tale sfida, con la retorica del martirio che l’ha contraddistinta, ha ispirato tutte le successive milizie jihadiste, comprese quelle che praticano il terrorismo contro gli sciiti.

Anche l’Iran, oggi, vive come grave minaccia il ritorno al potere dei talebani sunniti in Afghanistan. Ma la ritirata occidentale da quell’area rende ancor più evidente quanto sia pericolosa la tentazione di portare fino alle estreme conseguenze il conflitto col regime degli ayatollah. Israele stesso sarà costretto a pensarsi altro che unico baluardo mediorientale dell’occidente, per garantire la sua sicurezza futura.

Il “profilo atlantico” deve essere completamente ripensato. C’è un prima e un dopo Kabul. La Cina lo ha capito da tempo, e il confronto che ci attende col suo modello sociale autocratico non potrà certo basarsi sui missili della Nato.

 

Programmi in televisione: Indiana Jones, il tempio e l’arca dell’alleanza

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Sky Cinema Family, 23.35: Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, film avventura. Perù, 1936. Un professore di archeologia, Indiana Jones, scopre nel tempio Inca di Nazca un antico idolo di pietra che raffigura il dio della pioggia. Jones vorrebbe portarlo a Princeton per studiarlo, ma un suo rivale, l’archeologo mercenario René Belloq, riesce a trafugarlo. Mentre Belloq è in viaggio verso Lima, a Nazca piomba una siccità così grave che la popolazione allarmata gli intima di riportare subito indietro l’idolo della pioggia. Poiché i fanatici possono essere pericolosi, l’imbelle Belloq restituisce la statuetta. Un attimo dopo, a Nazca si scatena un uragano che scoperchia i tetti, fa straripare il fiume, distrugge i raccolti, sconvolge le strade. La popolazione allora ingiunge a Belloq di riportarsi via l’idolo della pioggia. Altra siccità. Insomma: per un anno, Belloq fa avanti e indietro con la statuetta almeno due volte alla settimana, a causa di quel dio permalosissimo. Intanto Indiana Jones viene contattato dai servizi segreti per una missione: i nazisti sono sulle tracce dell’Arca dell’Alleanza, con dentro i resti della dentiera di Mosè, che pare conferisca poteri enormi, tipo l’eiaculazione precoce. L’Arca è in Egitto, in una città sepolta; un amuleto è la chiave che indica il luogo esatto, ma il custode dell’amuleto, il prof. Ravenwood, è sparito a Las Vegas mentre faceva ricerche su un antico rito tribale, il blackjack. Jones ne convince la figlia Leila, scopandola, a dargli l’amuleto. Arrivano i nazisti e vogliono da Leila quello che voleva Jones. LEILA: “La mia figa?” SS: “No, l’amuleto. Noi SS disprezziamo la figa.” LEILA: “Non l’avrei mai detto, a giudicare dai vostri cappotti attillati in pelle nera Hugo Boss.” Le incendiano la locanda, lei scappa con Jones in Egitto, dove scoprono che Belloq adesso lavora per i nazisti agli scavi dell’antica città sepolta, Gabicce. I nazisti rapiscono Leila e la regalano a Belloq come ricompensa per i suoi servigi. Jones s’intrufola negli scavi e, mentre i nazisti festeggiano l’Oktoberfest tracannando birra e cantando “La mazurka di periferia”, va a recuperare l’Arca dentro un pozzo: è pieno di serpenti, che si stanno nascondendo dai cuochi nazisti. Le SS gli fregano l’Arca e buttano Leila nel pozzo: ma è un pozzo dei desideri, e i due ne escono con una bici volante ed ET nel cestello. Jones riprende l’Arca con un colpo di frusta e fugge con Leila sullo yacht di un suo amico, Steven Spielberg, che però viene fermato da un U-Boot. “Jones l’ho ucciso”, mente Spielberg per salvarlo. Mentre i nazisti palpeggiano l’Arca, e Belloq Leila, Jones si aggrappa alla torretta dell’U-Boot: sa che non si inabisserà uccidendolo perché manca ancora mezz’ora di film. L’U-Boot parte verso Creta, dove Belloq vuole compiere un antico rito ebraico per verificare che l’Arca non sia Made in China. Sull’isola, Jones cerca di liberare Leila, ma i nazisti lo catturano adescandolo con il Sacro Graal e due biglietti omaggio per le Olimpiadi di Berlino. Legati a un U2, Jones e Leila guardano l’apertura dell’Arca: dentro c’è solo polvere, e la borsa Valextra di Calvi con un assegno per Solidarnosc e i documenti per ricattare lo Ior. D’un tratto, un’energia sovrannaturale esce dall’Arca e trasforma Belloq e i nazisti in ottimo kebab. Jones libera Leila, lei gli si inginocchia davanti, e lui chiude gli occhi. A Washington, l’esercito nega a Jones il permesso di studiare l’Arca poiché se ne stanno occupando “studiosi qualificati”. In realtà, l’hanno messa in una cassa, in un magazzino gigantesco, tra centinaia di casse identiche, tutte con dentro un’Arca dell’Alleanza e una borsa Valextra di Calvi.

 

Diplomatici, mica marines da salotto

Nella tragedia afghana chi non arretra, chi si fa onore è la diplomazia italiana. Con Tommaso Claudi, il giovane console che nella foto che ha commosso il mondo solleva quel bambino spaventato e in lacrime e lo aiuta a superare un muro all’interno dell’aeroporto di Kabul. Con Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, che per conto della Nato coordina le operazioni nello scalo bersaglio dell’orrore kamikaze. Entrambi ci raccontano che anche nell’inferno in terra molto si può fare con l’azione e con la riflessione. Del resto, che altro si può fare? Non sappiamo a quanti bambini, a quante donne e uomini, Claudi abbia teso la mano per aiutarli a superare il confine tra la paura e la speranza, tra la vita e la non vita. Ma fosse stato uno soltanto, quel piccolo, a essersi salvato tra le sue braccia, gliene siamo con tutto il cuore riconoscenti. Noi che nelle nostre case, al sicuro su un pianeta lontano, guardiamo e riguardiamo la disumanità di quelle folle ammassate, disperate e ci chiediamo che cosa si può fare? Ecco che cosa si può fare: fare. Dobbiamo essere grati all’ambasciatore Pontecorvo, perché agisce in prima linea in una situazione di pericolo costante e perché, in una intervista al “Messaggero”, ci aiuta, testimone diretto e consapevole, a capire meglio le cose come stanno. Ci dice che il caos è “in buona parte colpa del presidente Ghani”, quello scappato davanti ai Talebani, “ma che questo signore noi lo abbiamo sostenuto” (qualcuno ne risponderà?). Quei Talebani che egli ha “incontrato spesso” e che “stanno facendo i conti con un Paese che ancora non conoscono bene”. Che governeranno l’Afghanistan e che dunque vanno ascoltati: “bisogna parlare con tutti, così come è giusto calibrare i propri rapporti con il prossimo a seconda di come si comporta”. Se confrontiamo le sue parole con quelle pronunciate, giovedì notte, dal provatissimo presidente americano Joe Biden, il concetto non cambia: i Talebani non sono certo dei “bravi ragazzi” ma in questo momento è nel loro interesse collaborare con il governo degli Stati Uniti e con gli occidentali che lasciano il Paese. Puro buon senso che sicuramente non troverà d’accordo il corpo dei Marines da salotto. Quelli che dal divano deplorano la fine dell’occupazione, e dunque della fondamentale esportazione della democrazia. Quelli che parlano, parlano, parlano.

Ripetizioni forzate per Salvini e “Libero”: a sparare all’aeroporto non erano i talebani

Talebani e Isis per me pari son. Pur di fare propaganda a destra si dice di tutto, dando fiato a quella politica “dei somari” che sembra tanto piacere. Il capo della banda è sempre il solito Matteo Salvini, che a qualche minuto dall’attentato se la prende con Conte e Pd che “esultano per l’arrivo al potere dei terroristi islamici” mentre “i talebani portano morte e violenza a Kabul”. Nemmeno le basi elementari di lettura visto che qualsiasi agenzia di stampa spiegava bene la dinamica dei fatti. Eppure nella Lega ci sarà chi lo sa che l’Isis è un avversario dei talebani, eh Giorgetti?

A Salvini tengono bordone i giornali del centrodestra, Il Giornale e Libero. Augusto Minzolini, direttore del primo, firma l’editoriale per dire che “alla fine i primi attentati a Kabul sono avvenuti con il loro valore simbolico e il loro lugubre messaggio in codice: gli occidentali debbono lasciare il Paese, gli afghani debbono restare. Più o meno le posizioni talebane tradotte in attentati terroristici”. Stesso mischione di Salvini, fatto per confondere le acque. Imbattibile però Pietro Senaldi su Libero (che titola “Altro che trattare, ci sparano”): “Forse il leader grillino Giuseppe Conte la chiamerà ‘strategia della distensione’ (…) sta di fatto che, mentre l’Occidente organizza vertici per disegnare gli scenari futuri dell’Afghanistan, i barbuti fanatici di Allah ci sparano”. Se hai la barba per Senaldi sei un terrorista. Fatela tutte le mattine, mi raccomando.

Casu candidato Pd al seggio Camera di Primavalle

Alla fine, il rischio vero è che quel seggio alla Camera finisca a Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm radiato dalla magistratura per lo scandalo delle nomine. Parliamo del collegio di Roma Primavalle, lasciato vacante dopo la nomina della 5 Stelle Emanuela Del Re a rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel. Lì, proprio nel tentativo di evitare la vittoria dell’ex magistrato o comunque del nome che il centrodestra ancora deve individuare, si era provato a trovare un accordo tra Movimento 5 Stelle e Pd, con la ricerca di un candidato unitario per i giallorosa. Non proprio un’operazione facilissima, visto che a Roma grillini e democratici stanno combattendo su fronti opposti la battaglia per il Campidoglio, i primi nel ruolo di sostenitori del mandato bis di Virginia Raggi, gli altri in corsa con Roberto Gualtieri.

Eppure l’ultimo tentativo di dialogo aveva addirittura coinvolto l’ex ministro, oggi vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano: un nome che avrebbe facilmente consentito la convergenza tra i due partiti, considerata la comune esperienza nel governo giallorosa. Ma alla fine la riserva non si è sciolta: troppo difficile la sfida in quel collegio, considerato praticamente come già perso sia da Conte che da Letta. Ieri è arrivata la candidatura del segretario romano del partito, Andrea Casu, 4oenne di formazione “turborenziana” – insieme al deputato di Iv Luciano Nobili fu l’animatore, nel 2008, della lista under 30 a sostegno di Francesco Rutelli – rimasto al vertice dei democratici della Capitale anche con la fine dell’era breve ma intensa del fu rottamatore.

Nello stesso collegio, per ora, oltre a Casu e Palamara, è candidata l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta: ex Cinque Stelle, ha aderito all’Italia dei Valori ed è sostenuta dalla lista “Noi, Nuovi orizzonti per l’Italia”.

“Fermo un giro”, “no: avanza”. Il gioco dell’oca tra i palazzi

Amemoria è la prima volta che l’elezione del presidente della Repubblica è affidata alla volontà di un singolo individuo. L’intero rito sacrale per la scelta dell’inquilino del Colle, vertice delle istituzioni repubblicane e simbolo dell’unità nazionale, dipende dalla decisione di un uomo solo. In buona sostanza Mario Draghi, santo laico della stampa e dei media, feticcio dei poteri internazionali, sostenuto da quasi tutti i partiti in Parlamento, deve scegliere se fare il capo del governo o il capo dello Stato. Tutti gli altri protagonisti della vita pubblica possono forse illudersi di influenzare la sua decisione, ma non possono indirizzarla. Draghi resterà protagonista assoluto della politica italiana, è una certezza, ma sceglierà lui stesso se farlo al Quirinale o ancora a Palazzo Chigi: terze ipotesi non sono date. Può lasciarsi accompagnare al Colle da una maggioranza bulgara – chi oserebbe dire di no a Draghi se il suo nome fosse calato in campo? – e influenzare la politica italiana dall’alto per i prossimi sette anni, oppure restare premier e mantenere un ruolo pienamente politico almeno fino al 2023. Per decidere il destino dei fondi europei fino all’ultimo centesimo e fino all’ultimo giorno della legislatura.

La bolla dell’opinione pubblica liberale-europeista-draghiana osserva la situazione con fede assoluta ma con sfumature dottrinali reciprocamente ostili. Le correnti di pensiero interne al draghismo radicale si possono riassumere con un dibattito, forse poco appassionante per le masse, che ha preso forma sulle intime pagine del Foglio e del sito Linkiesta. Christian Rocca, direttore di quest’ultimo, è un estremista draghiano: per lui deve restare al governo a ogni costo, con la missione più alta, “salvare l’Italia”. Farlo traslocare al Colle è un’idea assurda, da traditori, da “autosabotatori dell’Italia”. Un disastro politico: rimuovere Draghi da Palazzo Chigi – sostiene Rocca – significherebbe consegnare il paese alla destra post fascista.

L’amico Giuliano Ferrara, sul Foglio, gli ha risposto con cruentissima eleganza: gli ha dato del cretino, ma con classe. Per la precisione, “cretino politico”. Draghi è indispensabile anche per Ferrara, ci mancherebbe, ma potrebbe essere persino più utile al Quirinale. Sarebbe la migliore garanzia, per sette lunghi anni, del compimento del suo “piano di rinascita europeo”. Con Draghi capo dello Stato si può stare tranquilli anche a prescindere dal prossimo premier, che in ogni caso sarebbe nominato da Draghi medesimo.

Colle o Chigi: questo è il perimetro di gioco. Mentre sugli spalti si agita la torcida dell’opinione pubblica draghiana, in campo ci sono i partiti, quelli che materialmente dovranno eleggere il prossimo presidente. Gli schieramenti cominciano a definirsi. Enrico Letta ha scoperto le carte pochi giorni fa al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini: “Mi impegno e impegno il mio partito a sostenere Draghi a essere il nostro primo ministro almeno fino alla scadenza naturale del 2023”. In quell’“almeno” c’è tutto un mondo, oppure una disperata mancanza di alternative.

Matteo Salvini gioca la sua partita nell’altra metà del campo. Il capo della Lega vuole le elezioni il prima possibile. Draghi al Colle aprirebbe una possibilità concreta per la destra a Palazzo Chigi. Persino il più draghiano dei leghisti, Giancarlo Giorgetti, ieri ha mandato un messaggio chiaro: “Chiaramente è una delle persone più adeguate a ricoprire la carica di capo dello Stato”. E se Draghi andasse al Quirinale, la soluzione naturale sarebbero le elezioni: “Siamo in democrazia, meglio il voto piuttosto che soluzioni pasticciate”. Il sottotesto è chiaro: non sarà il Pd a decidere il futuro di Draghi.

Giorgetti ha ragione, anche per un banale calcolo dei numeri in Parlamento: il centrodestra, che aveva iniziato la legislatura in minoranza, grazie agli smottamenti delle truppe grilline e ad altri cambi di casacca detiene ora la maggioranza relativa nelle due Camere: 449 parlamentari contro 438. Per eleggere il presidente della Repubblica dalla quarta votazione servirà la maggioranza assoluta. Secondo chi lavora sul dossier Quirinale, al blocco Lega-FdI-Forza Italia basterebbe aggiungere un’altra cinquantina abbondante di parlamentari. Italia Viva con i suoi 45, tra Camera e Senato, rischia di avere di nuovo un ruolo decisivo. Se il centrodestra dovesse incassare l’assenso di Draghi al trasloco al Colle, è difficile immaginare che qualcuno si metta di traverso.

Insomma, l’ultima parola spetterà a lui, al Migliore dei migliori. L’uomo che non deve chiedere mai. Secondo Gianfranco Pasquino, che accredita un’antica amicizia con il premier, “Draghi non muoverà un dito per fare il capo dello Stato, non l’ha mai mosso in vita sua. È stato nominato a sua insaputa anche in Banca d’Italia”. È il potere che va da lui, non il contrario. E anche stavolta dovranno essere i partiti ad andare in processione, indicandogli il Colle: “Può continuare a dare le carte anche dal Quirinale. Di certo non nominerebbe un premier sgradito”, riflette Pasquino. “Se gli faranno un’offerta decente, l’accetterà”.

La paladina anti-stalker difende il testo salva-stalker

Èla madrina delle due leggi che, dal 2009 in poi, sono state approvate per tutelare le donne dallo stalking. E da anni, da avvocato e fondatrice della onlus Doppia Difesa, si batte per i loro diritti in tribunale di fronte ai soprusi e alle violenze degli uomini. Ora, però, la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno rischia di vedere rinnegati anni di battaglie. L’avvocato, infatti, ha contribuito a scrivere e promuovere in giro per l’Italia un quesito referendario con i Radicali che rischia di svuotare proprio quel reato di stalking per cui lei si è battuta a lungo. L’allarme è stato lanciato sul Fatto dal Telefono Rosa, una delle più importanti associazioni italiane che si occupa di assistere donne e minori vittime di violenza, che ha denunciato gli effetti potenzialmente devastanti del 5° quesito referendario proposto da Lega e Radicali: il suo obiettivo dichiarato è quello di “limitare gli abusi della custodia cautelare” ma l’effetto, se il quesito passasse la prova delle urne, è che il carcere preventivo finirebbe per essere quasi abolito. Anche per i reati di stalking.

Il quesito si propone di abolire la reiterazione del reato come motivo per disporre il carcere nei confronti di indagati per reati che non prevedono “uso di armi o altri mezzi di violenza personale”. Ma, come ha spiegato al nostro giornale l’avvocato e vicepresidente di Telefono Rosa Antonella Faieta, lo stalking non è solo “minaccia concreta di violenza” ma anche “messaggi, appostamenti e pedinamenti”. Anche la ministra del Sud Mara Carfagna giovedì ha condiviso l’allarme dell’associazione spiegando che, se il quesito passasse al referendum, uno stalker minaccioso finirebbe in carcere “solo se il magistrato ravvisa un concreto e attuale pericolo che aggredisca fisicamente o uccida”. Criticità condivise anche da Maria Monteleone, a lungo coordinatrice del pool anti-violenze della Procura di Roma: “Visto che la quasi totalità delle misure cautelari sono fondate proprio sul pericolo della reiterazione del reato commesso, ove il quesito referendario venisse accolto, la quasi totalità delle misure cautelari oggi richieste, e anche degli arresti in flagranza, non sarebbero più possibili – spiega il magistrato, oggi in pensione –. E questo non soltanto per lo stalking ma anche per i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale su adulti e minori, nonché per la stragrande maggioranza di altri gravi delitti, tra cui anche favoreggiamento della prostituzione, droga. Ciò avverrebbe in quanto l’adozione delle misure cautelari sarebbe paradossalmente limitata ai casi in cui detti delitti siano commessi con uso di armi o di altri mezzi equiparabili: ipotesi senz’altro minoritaria”. “Peraltro non sarebbero applicabili neppure misure cautelari più gradate rispetto al carcere – aggiunge Monteleone –. Il rischio che il carcere non possa più essere disposto è più che concreto”.

Il cortocircuito rischia di essere un boomerang per Bongiorno, che è stata l’autrice della legge 38 del 2009 che ha introdotto proprio il reato di stalking e poi, nel 2019, della norma sul “codice rosso”, uno degli ultimi atti del governo gialloverde all’epoca celebrato dalla stessa Bongiorno e anche da Matteo Salvini. All’epoca l’allora ministra della Pubblica Amministrazione esultò parlando di “svolta” e di “un’importantissima novità con la quale vogliamo scongiurare che le donne stiano mesi o anni senza ricevere aiuto”. Oggi, se il referendum passasse, il rischio è che parte di quella norma venga svuotata. Contattata dal Fatto, Bongiorno ha preferito non rilasciare un’intervista ma ha mandato una breve dichiarazione. “Proprio il tragico femminicidio di Vanessa (Zappalà, la 26enne uccisa a colpi di pistola dall’ex fidanzato, con quest’ultimo che doveva rispettare un ordine restrittivo su denuncia della giovane, ndr) dimostra che le critiche al referendum sono disancorate dalla realtà. Infatti allo stato le norme sono quelle di sempre e la povera Vanessa non è più qui”, si legge nella nota, che però sposta l’argomento su una questione che nulla ha a che fare col quesito. Poi Bongiorno è entrata nel merito: “Il referendum vuole evitare abusi, ma non riduce le tutele. Sarà sufficiente per il giudice ravvisare nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità proclive al compimento di atti di violenza per applicare le misure cautelari”.

La poltrona vuota e un’altra lettera: Claudione dà forfait

Il palco riempito con una sorta di divano, sotto un campanile; i vecchi sulle panchine a guardare i forestieri con le telecamere; gli sguardi di turisti anche stranieri venuti ad ammirare questo delizioso grumo di case bianche e chiese. Nella sera di Ceglie Messapica, paese vicino Brindisi noto anche per aver dato i natali a Rocco Casalino e a Teresa Bellanova, tutto è dove deve stare; tranne l’ospite più atteso, quel Claudio Durigon che doveva apparire alla festa del sito Affaritaliani.it, “La piazza”, proprio il giorno dopo il passo di lato. E invece no.

Dopo ore di assicurazioni incrociate – “Ma certo che verrà” – con il sito ufficiale che fino al tardo pomeriggio lo dava presente, il salviniano di Latina diserta il confronto con il forzista Antonio Tajani e risolve tutto, di nuovo, con una lettera. Certo, questa volta non è l’epistola con cui giovedì sera aveva annunciato le dimissioni da sottosegretario. Non è quel diluvio di parole in cui attaccava “quei media che vogliono infangarmi rovistando nella spazzatura”, insomma “i professionisti della disinformazione”, per poi riconoscere solo “alcuni errori di comunicazione”.

Nella sera in cui lascia vuota la poltrona da tinello, Durigon se la cava con poche righe al direttore del sito, in cui spiega “con sincero rammarico” di non poterci essere e di “ritenere doveroso in queste ore dedicare un po’ di tempo alla famiglia”. E comunque non tutte le dimissioni vengono per nuocere, butta lì: “Senza l’onore e l’onere di essere sottosegretario al Mef, sono pronto a investire tempo ed energie anche per Latina, per Roma e per altre battaglie importanti. Non solo quella delle pensioni, per evitare il ritorno alla legge Fornero, ma anche per la rottamazione di decine di milioni di cartelle esattoriali o per i referendum sulla giustizia”. Il lettore attento noterà il riferimento alla sua città e alla corsa per il Campidoglio. Sillabe da responsabile regionale della Lega, che rivendica, forse pretende, il risarcimento, cioè la candidatura a governatore nel 2023. Ma del domani non v’è certezza. Soprattutto se nel derby delle urne di ottobre Fratelli d’Italia superasse, e di parecchio, il Carroccio. Nell’attesa la realtà è quella del Durigon che dopo settimane di silenzio in pubblico resta lontano, ancora, dai microfoni. Meglio evitare guai, ovvero polemiche troppo dritte con il governo Draghi, devono aver pensato dentro la Lega. Tanto il suo riferimento polemico alla Lamorgese, la ministra dell’Interno che Salvini e i suoi possono criticare ma non certo abbattere, il fu sottosegretario l’ha già piazzato nella prima delle due lettere. Un abbaiare alla luna che stride con il leghista che a Ceglie Messapica invece c’è, anche se in collegamento. Perché a portare all’evento il Carroccio provvede Giancarlo Giorgetti, ministro che non si è certo lacerato le vesti per le dimissioni di Durigon, tanto vicino a Salvini quanto lontano da Giorgetti e dalla sua Lega, quella della vecchia guardia del Nord che mal tollera i leghisti d’adozione.

D’altronde tre giorni fa, a margine del Meeting di Cl a Rimini, il ministro aveva fatto capire con i suoi consueti toni da felpato carnivoro come la pensasse: “Quando si hanno responsabilità di governo, occorre stare sempre attenti quando si parla…”. Ed è stato il segnale che dalla trincea del sottosegretario – e di Salvini – stavano per alzare bandiera bianca. Nel venerdì di Ceglie, in un collegamento video un po’ avventuroso, il Giorgetti in camicia azzurra è acidulo sul reddito di cittadinanza (“Non deve ostacolare le dinamiche del mondo del lavoro, gli imprenditori non trovano addetti”), difende Quota 100 ed è cautissimo sulle misure anti-delocalizzazioni. Insomma, un bravo leghista, che però stima proprio tanto Draghi: “Prima o poi è destinato al Colle, ma se venisse eletto ora al Quirinale si andrebbe a votare”. E Durigon? Il direttore del sito Perrino nulla gli chiede, e Giorgetti nulla dice. “L’ex sottosegretario è molto provato per questa vicenda” fa sapere Perrino al microfono, che legge ai presenti la missiva e poi chiede “un applauso o quello che volete”. Tutto qui. Tanto la Lega c’era, con Giorgetti. Quello che non è Salvini, e figurarsi Durigon.

22 giorni e un “Fatto ”: così si caccia Durigon

Ventidue giorni. Poi, quando tutti lo avevano lasciato solo, anche i suoi compagni di partito, giovedì sera Claudio Durigon ha deciso di dimettersi da sottosegretario all’Economia del governo Draghi. La proposta di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino ormai lo aveva reso incompatibile con il suo ruolo di sottosegretario al Tesoro. Ma la decisione di fare un passo indietro non è arrivata subito o a stretto giro. Quando è scoppiata la polemica, Durigon, appoggiato da Salvini, non aveva nessuna intenzione di fare un passo indietro chiudendosi in uno strategico silenzio. Poi il leader della Lega ha provato a derubricare la questione parlando di “polemica strumentale”, ma alla fine è stato costretto a piegarsi di fronte alla richiesta di Mario Draghi e alla pressione di Pd e M5S che avevano annunciato una mozione di sfiducia per settembre. Il presidente del Consiglio non ha mai commentato pubblicamente la vicenda. Il Fatto Quotidiano, nel quasi totale silenzio degli altri giornali, ha insistito nella richiesta di dimissioni del sottosegretario, chiedendo al premier Draghi di attivarsi: negli ultimi ventidue giorni abbiamo raccolto pareri di storici, vittime di mafia e personaggi dello spettacolo indignati per la proposta del sottosegretario e lanciato una petizione per far dimettere Durigon arrivata a quota 163 mila firme. Ripercorriamoli attraverso interviste, testimonianze e interventi pubblicati sul Fatto.

6 agosto. Il sito di Repubblica racconta che la sera del 4 agosto, durante un evento elettorale della Lega a Latina, Durigon propone di reintitolare il parco comunale ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Falcone e Borsellino. Accanto a lui, sul palco, c’è un imbarazzato Matteo Salvini che non prende le distanze. Dopo un attimo, Durigon presenta il segretario che inizia il suo comizio. Quando esplode la polemica il sottosegretario si difende su Twitter parlando di “polemica sterile” e spiega: “È nostro dovere considerare anche le radici della città”.

7 agosto. Sui giornali nessuno racconta l’accaduto. Repubblica racchiude il tutto in un boxino a pagina 21 mentre Il Fatto dedica una pagina alle dichiarazioni nostalgiche di Durigon.

9 agosto. Il caso Durigon diventa anche politico. Il leader del M5S Giuseppe Conte è il primo a chiedere le dimissioni del leghista: “È aberrante voler cancellare anni di lotta alla mafia e il sacrificio dei nostri uomini migliori”. Anche l’Anpi protesta con il presidente Gianfranco Pagliarulo: “Nomine che minano il nostro sistema democratico”.

10 agosto. Il M5S annuncia una mozione di sfiducia contro Durigon da presentare a settembre. E il segretario del Pd Enrico Letta fa sapere che la sosterrà: “Quelle di Durigon sono affermazioni che in un colpo solo infangano l’antifascismo da cui è nata la nostra Repubblica e la memoria di due eroi civili come Falcone e Borsellino. Deve dimettersi”.

11 agosto. Il Fatto lancia una petizione, firmata da Antonio Padellaro, Peter Gomez e Marco Travaglio, per chiedere a Draghi di allontanare Durigon: in un giorno raggiunge quota 25 mila firme. A chiedere il passo indietro sono anche i ministri Stefano Patuanelli e Luigi Di Maio. Lo storico Mauro Canali, allievo di Renzo De Felice, racconta chi era Arnaldo Mussolini: “corrotto e liberticida” che aiutò Amerigo Dumini a sequestrare e uccidere Giacomo Matteotti nel 1924. Dopo giorni di silenzio, anche gli altri quotidiani si accorgono del caso politico che imbarazza il governo Draghi.

12 agosto. Dopo una settimana Draghi tace ancora. Oltre a Salvini, l’altro leader che non ha ancora detto una parola è Matteo Renzi. Maria Falcone, in un’intervista a Repubblica, attacca: “Salvini dica se la lotta alla mafia è una priorità. Anche il governo ne ha l’occasione”.

13 agosto. In 48 ore la petizione del Fatto arriva a quota 80 mila firme. Salvini commenta per la prima volta dopo una settimana difendendo il suo fedelissimo (“Nella Lega non c’è nessun nostalgico”) ma Draghi tace ancora e rinvia tutto a dopo Ferragosto.

14 agosto. La petizione supera le 100 mila firme. Il leader del Carroccio impone le “ferie forzate” a Durigon ma sale la pressione dall’opinione pubblica: Carlin Petrini, Moni Ovadia e Dario Vergassola chiedono le sue dimissioni.

15 agosto. Matteo Renzi fa sapere che Italia Viva non voterà la mozione di sfiducia. Il regista Marco Bellocchio è durissimo: “Durigon ha detto una cosa orrenda, non si può prescindere dai valori dell’antimafia e dell’antifascismo”.

17 agosto. Paolo Flores D’Arcais dice: “Draghi è complice di Durigon perché tace”.

18 agosto. Salvatore Borsellino, figlio del giudice Paolo, attacca Durigon (“uno sfregio alle vittime di mafia”), Draghi (“allontani il sottosegretario se vuole onorare il sacrificio di Paolo”) e Salvini: “Non si presenti più in via d’Amelio fino a che non lo avrà cacciato”.

19 agosto. Durigon non parla ma nel frattempo sta facendo le liste a Roma. La petizione supera le 155 mila firme.

20 agosto. Il presidente della Commissione antimafia in Sicilia Claudio Fava accusa il premier: “Si tiene Durigon per fare un favore a Salvini: imbarazzante”.

21 agosto. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, attacca: “Intervenga Draghi o il Quirinale. Se Durigon non si dimette scendiamo in piazza”. Gli altri giornali tacciono.

23 agosto. Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, affonda: “Draghi cacci Durigon per fare pulizia nel governo, tenerlo lì è uno schiaffo alle vittime di mafia”. All’ora di pranzo Draghi convoca Salvini a Palazzo Chigi e poi il suo vice Giorgetti. A Salvini chiede di allontanare Durigon mettendolo di fronte a un aut aut: o si dimette o gli toglierà le deleghe. Il premier non vuole arrivare alla sfiducia.

24 agosto. La petizione supera le 160 mila firme ma la svolta arriva dal meeting di Cl a Rimini. Salvini per la prima volta scarica Durigon: “Decideremo insieme cosa è meglio fare per lui, per la Lega e per il governo”. In serata però il leghista pontino fa sapere che lui non si dimetterà.

25 agosto. Anche Giorgetti da Rimini molla il sottosegretario: “Quando si è al governo bisogna stare attenti a quello che si fa”. Durigon sa che dovrà lasciare ma resiste per trattare la sua uscita. Salvini annuncia un incontro a breve.

26 agosto. Il leader della Lega dal Trentino chiama al telefono Durigon: gli chiede di lasciare. Lui si dimette con una lunga lettera che arriva ai siti nel giorno della strage di Kabul e quindi non conquista le ape rture dei giornali. Nella missiva il sottosegretario spiega di non essere fascista e chiede scusa alle vittime di mafia. Poi attacca Pd e M5S e ringrazia solo Salvini: una frecciata all’ala del nord della Lega di Giorgetti e Zaia. Dopo ventidue giorni, Durigon lascia il governo.

“Fa più paura l’Isis perché i talebani si fingono moderati. Bugie dagli Usa”

“Le liste nere dove finiscono i terroristi vengono stilate in base agli interessi multipli degli Stati che le compilano, che sono pragmatici riguardo i loro vantaggi. Molti Paesi sono più preoccupati dallo Stato islamico che dall’Afghanistan e pensano che i talebani potrebbero essere migliori”. Patricia Gossman, direttrice della divisione Asia di Human Rights Watch, dice di non essere rimasta stupita dalla vittoria degli islamisti, che “già un anno fa, quando forse le persone non prestavano attenzione, controllavano mezzo Paese”. Non si aspettava però un collasso così veloce delle forze Usa. Ma già un report pubblicato dall’Ong un anno fa riportava degli abusi nella zona.

Nel 2020, mentre si combatteva contro i talebani sul campo, in Qatar, a Doha, si dialogava con loro.

In tutti i conflitti si combatte e si parla allo stesso tempo, nessuno fa pace all’istante. Dei giochi dei talebani non sono stupita. Quei negoziati servivano in qualche modo a evitare quello che poi è successo. La guerra non stava andando come dicevano i generali americani e quelli degli Stati Nato: sapevano di non poter riuscire, ma hanno mentito a riguardo. E se una guerra non la vinci, vuol dire che la stai perdendo. Militarmente, non è andata come si aspettava l’Ovest.

Islamabad ha già chiesto ai talebani afghani di gestire il gruppo jihadista Tpp, Tehrik-i-Taliban, meglio noto come quello dei “talebani pakistani”.

Lo stesso Pakistan ha commesso, attraverso operazioni di contro-terrorismo per affrontare gli insorgenti, terribili violazioni dei diritti umani. Del Tpp Human Rights Watch invece si occupa da tempo.

Come di Kabul.

In Afghanistan adesso abbiamo segnalazioni di omicidi mirati nelle varie province contro chi lavorava per il governo, chi ha combattuto i talebani in passato o aveva posizioni di potere. A Kabul registriamo perquisizioni e minacce ai giornalisti, monitoriamo la condizione femminile, il diritto all’educazione e al lavoro. Le violazioni dei diritti, con i talebani al potere, aprono un nuovo, nerissimo capitolo nel Paese, dove però i diritti non vengono rispettati da molto più tempo. Noi abbiamo cominciato a documentare le violazioni durante l’invasione sovietica quando non avevamo accesso al Paese, non smetteremo ora. I talebani non saranno aperti a nessun tipo di media, come nei territori che controllavano in precedenza.

La loro nuova propaganda è costante e viaggia veloce anche sui social.

In questo sono diventati bravi. Vogliono farsi riconoscere come un governo, proiettarsi così per cooperare con gli stranieri. Per dire: guardate, ora qui in Afghanistan non ci sono più problemi. È una narrazione che va contrastata con l’altro lato della storia.