Il nostro “profilo atlantico” è andato a infrangersi dall’altra parte del mondo, sulle aride cime dell’Hindukush. Ora che si è conclusa nel sangue la precipitosa ritirata della Nato dall’Afghanistan, dobbiamo dircelo in tutta franchezza: questa alleanza militare, nata nell’epoca della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, si rivela impotente e obsoleta, fin nella sua stessa costituzione. Della Nato oggi fanno parte, con crescenti tensioni interne, democrazie liberali sempre più fragili e nazioni che hanno imboccato la strada dell’autocrazia. Nei vent’anni seguiti allo spartiacque epocale dell’11 settembre 2001 non si segnalano, nel mondo, cambi di regime significativi dal totalitarismo alla libertà. La Nato, dopo la fine dei regimi comunisti, non è più stata capace di promuoverne alcuno.
Il bilancio è sconfortante: altro che esportazione della democrazia. Semmai, dall’Asia all’Africa all’America Latina assistiamo a involuzioni di segno opposto che ormai contagiano anche le regioni centro-orientali dell’Europa. Paesi islamici come la Turchia (membro Nato) e il Pakistan (formalmente alleato degli Usa) trovano più vantaggioso sganciarsi dalla lealtà atlantica e praticare il doppio gioco. La vittoria dei talebani, cultori della visione più oscurantista dell’islam, d’ora in poi eserciterà un forte richiamo sulle stesse petromonarchie sunnite del Golfo, dai cui regimi semifeudali traggono origine le prescrizioni dell’ideologia wahabita: condanna a morte degli apostati, sottomissione delle donne, divieto della musica e delle arti figurative. L’enorme potenza finanziaria accumulata da questi regimi, Arabia Saudita in testa, lungi dal favorirne una transizione democratica, attira gli speculatori occidentali nel mentre quei despoti accentuano le distanze dalla nostra cultura pluralista.
Di fronte a una tale disfatta, appaiono velleitari i tentativi di resuscitare un blocco politico-militare occidentale, fondato sull’alleanza fra Usa e Unione europea, sostituendo all’originale ispirazione anticomunista i nuovi imperativi della lotta contro il terrorismo islamico e/o le mire espansionistiche cinesi. Che si tratti di un impossibile ritorno al passato, lo dimostra lo stesso comportamento degli Stati Uniti, in Afghanistan così come in Libia, in Siria e altrove: dopo Trump, anche Biden si è guardato bene dal coinvolgere gli alleati nelle sue scelte di ridimensionamento dell’impegno americano nel mondo. Il messaggio implicito trasmesso dalla rovinosa fuga da Kabul è inequivocabile: in futuro nessun paese potrà sentirsi tutelato dalla potenza militare statunitense.
Gli accordi stipulati l’anno scorso fra Israele e i paesi del Golfo sotto l’egida di Trump, enfaticamente chiamati Patto di Abramo, sono stati l’ultima illusione. Descritti come storico avvio di un processo di ricomposizione fra il campo occidentale e l’islam, suggellati da ingenti rifornimenti di armi e apparati di cybersecurity, si fondano sull’obiettivo strategico di provocare con la forza la caduta del nemico comune: l’Iran sciita degli ayatollah. Seppellendo definitivamente la trattativa con Teheran avviata da Obama.
Ora che il ventennale dell’11 settembre (attentati di matrice sunnita) si consuma nel segno del fallimento, sarà bene risalire indietro nel tempo per fare i conti con gli effetti nefasti di quella rivoluzione popolare iraniana da cui, nel 1979, scaturì – sono gli assurdi della storia – una poderosa, inquietante esperienza reazionaria: la prima Repubblica islamica, al tempo stesso teocratica e “antimperialista”. Si tratta di un passaggio fatidico, tuttora irrisolto, a quarantadue anni di distanza. La millenaria potenza imperiale persiana, dopo aver rielaborato nel suo clero sciita le principali argomentazioni integraliste dei Fratelli Musulmani sunniti, si è presentata all’insieme del mondo islamico quale avamposto di una lotta senza quartiere contro il Grande Satana (gli Usa) e il Piccolo Satana (Israele), cioè contro il capitalismo occidentale, i suoi usi e i suoi costumi. Tale sfida, con la retorica del martirio che l’ha contraddistinta, ha ispirato tutte le successive milizie jihadiste, comprese quelle che praticano il terrorismo contro gli sciiti.
Anche l’Iran, oggi, vive come grave minaccia il ritorno al potere dei talebani sunniti in Afghanistan. Ma la ritirata occidentale da quell’area rende ancor più evidente quanto sia pericolosa la tentazione di portare fino alle estreme conseguenze il conflitto col regime degli ayatollah. Israele stesso sarà costretto a pensarsi altro che unico baluardo mediorientale dell’occidente, per garantire la sua sicurezza futura.
Il “profilo atlantico” deve essere completamente ripensato. C’è un prima e un dopo Kabul. La Cina lo ha capito da tempo, e il confronto che ci attende col suo modello sociale autocratico non potrà certo basarsi sui missili della Nato.