La Russia pronta a trattare, la Cina al momento no

Alla fine bisognerà ricorrere a Vladimir Putin. Quello “brutto e cattivo”, amico dei populisti di mezzo mondo, despota del XXI secolo quando ci discutono gli avversari e ora una delle chiavi di accesso per Mario Draghi a un G20 che sia davvero efficace. E proprio per questo la Russia, che è tanto autoritaria quanto abile sul piano diplomatico, alza il prezzo del suo possibile impegno.

Ieri il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Lavrov, lo ha detto chiaramente al presidente del Consiglio nel corso del loro colloquio: “Vogliamo capire quale ruolo l’occidente intende assegnare alla Russia”. Al centro delle preoccupazioni manifestate al premier italiano ovviamente il terrorismo, ossessione evidente dei paesi più vicini all’Afghanistan. Ma Lavrov tiene ancora nascoste le carte che più gli interessano: le sanzioni occidentali, il ruolo dell’Ucraina, un riconoscimento complessivo di Mosca quale potenza essenziale per gli equilibri mondiali.

Lavrov parla a Draghi rivolgendosi ovviamente all’intera Unione europea e bene sapendo che al momento non c’è una grande disponibilità dell’altro grande attore decisivo, la Cina. Pechino al momento è riottosa, non ha sciolto le riserve, se ne parlerà ai primi di settembre quando è previsto il colloquio con Draghi.

Immediatamente disponibile, invece, l’India, per ragioni evidenti di contrasto al Pakistan, storico nemico. Narendra Modi ha twittato che è disponibile a una “risposta coordinata”, ma, appunto, per ora non è chiaro l’approdo.

Le cose sul terreno sono destinate a mutare velocemente. La Turchia, infatti, ha fatto sapere che i talebani hanno chiesto ad Ankara di occuparsi della gestione operativa dell’aeroporto afghano e Recep Erdogan ha detto che ci sta pensando. Una possibilità di azione o anche questo un modo di giocare sui tavoli complessi della diplomazia internazionale. Allo stesso tempo gli Usa hanno fatto sapere che i talebani desiderano la loro permanenza “diplomatica” a Kabul, segno di un dialogo tra i due opposti che sembra paradossale, ma ha una logica politica.

L’asse Stati Uniti-Europa, però, è al momento in una fase di stallo, quasi imbambolato rispetto alle rapide evoluzioni. E chissà se si riprenderà. Il rientro è quasi terminato, ma non è chiaro quanti e quali afghani siano stati lasciati indietro. Joe Biden deve ripetere un messaggio importante in chiave interna: vuole morti i responsabili della strage (e per questo potrebbero essere utili i talebani). L’Europa è invece assorbita dal problema umanitario e dei profughi. Ieri il ministro Luigi Di Maio ha proposto ai 26 colleghi Ue di organizzare la prossima riunione del 2-3 settembre in Slovenia anche con l’Unchr dell’Onu incaricata della gestione dei profughi. Il premier inglese Boris Johnson ha detto che “smuoverò mari e monti” per aiutare chi è rimasto in Afghanistan dopo il 31 agosto, ma non è chiaro come farà. Allo stesso tempo, la bozza di risoluzione della prossima riunione dei ministri degli Interni della Ue, resa nota dall’Ansa, dice che al centro del dibattito che si svolgerà lunedì c’è esattamente la paura di un possibile e non gestibile impatto dei migranti. L’Europa al momento è ripiegata su sé stessa, come gli Usa del resto, e non sembra avere altre carte. Chissà che Putin non sia utile.

Le filiali del Jihad. La presa di Kabul risveglia gruppi e cellule. Allerta 007

Come altri gruppi terroristici, Isis-K – che ha compiuto la strage all’aeroporto di Kabul – ha preso di mira le forze statunitensi, i loro alleati e i civili. Ma a differenza degli altri ha combattuto apertamente con altre organizzazioni islamiche. L’Isis-K è stato l’antagonista principale dei talebani e dal 2017, secondo gli esperti dell’antiterrorismo, è stato responsabile di circa 250 scontri con le forze di sicurezza statunitensi, afghane e pakistane. L’attacco all’aeroporto ha galvanizzato cellule ma anche reparti ancora ben organizzati affiliati all’Isis in giro per il mondo.

Siria. Le fazioni jihadiste in Siria hanno calorosamente salutato la vittoria dei talebani. Hayat Tahrir al-Sham (Hts), che controlla la provincia di Idlib in Siria, si è congratulato con i talebani per la loro “conquista”. Molte altre fazioni jihadiste ostili a Hts hanno seguito l’esempio, elogiando la “vittoria” dei talebani. Un gruppo noto come Coordinamento Al-Jihad, il battaglione Firqat al-Ghuraba e Jund al-Sham hanno rilasciato dichiarazioni separate congratulandosi con il movimento talebano per “la rapida e schiacciante vittoria”. Le dichiarazioni di congratulazioni provengono da gruppi che molti osservatori antiterrorismo ritenevano eliminati. Invece hanno evitato silenziosamente la persecuzione di Hts, che ha represso i gruppi che sposano ideologie simili a quelle di al-Qaeda. La presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan ha sollevato l’umore dei jihadisti in Siria e ha dato loro un senso di vittoria morale. Questo li ha rassicurati: i gruppi jihadisti in armi stanno meglio di coloro che hanno seguito il percorso politico e hanno fallito, come i Fratelli Musulmani in Egitto e Tunisia.

Iraq. Un recentissimo rapporto Onu, avverte che nonostante le battute d’arresto, l’Isis in Iraq è destinato a diventare un serio problema per gli anni a venire: “Il gruppo si è evoluto in un’insurrezione radicata, sfruttando le debolezze della sicurezza locale per trovare rifugi sicuri e prendendo di mira le forze governative irachene. Gli attacchi a Baghdad – gennaio e aprile 2021 – sottolineano la resilienza del gruppo nonostante le forti pressioni antiterrorismo delle autorità irachene”. È probabile che l’Isis “continuerà ad attaccare i civili e altri obiettivi deboli nella capitale ogni volta che sarà possibile”. Oltre alla capacità dell’Isis di lanciare attacchi a Baghdad, le agenzie di intelligence occidentali vedono il gruppo riaffermarsi nei governatorati di Diyala, Salah al-Din e Kirkuk. Queste due ultime città insieme ad Al Anbar fanno parte di una zona che in Iraq è stata soprannominata il “triangolo della morte” e che dal 2020 ha assistito a una crescente escalation terroristica. Sebbene il 9 dicembre 2017 il governo di Baghdad abbia annunciato la sconfitta dello Stato Islamico, da allora attacchi “mordi e fuggi”, insurrezioni e guerriglie non sono mai cessati. Nel rapporto si sottolinea che il successore di Abu Bakr Al Baghadi, il califfo Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi rimane riluttante a comunicare direttamente con i sostenitori e lascia ampio spazio di manovra ai suoi luogotenenti.

Maghreb. Precedentemente noto come Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) è un gruppo estremista islamico sunnita con basi nel deserto algerino. Il gruppo opera principalmente in Algeria e nel Sahel. Dalle sue basi nel nord del Mali, Aqim conduce anche attacchi regolari in Mauritania con alcune incursioni in Niger. Aqim in questa fase aspira a espandere la sua influenza in tutto il Nord Africa e nella regione del Sahel/Sahara e a condurre attacchi in Europa.

Egitto. Il Cairo combatte la presenza qaedista nel Sinai dal 2013. La branca del Sinai di Aqim ha proclamato la sua adesione all’Isis durante il Califfato. I suoi santuari sono nel deserto Sinai, oltre 2.000 militari sono già morti negli scontri con le bande qaediste, che contano qualche migliaio di combattenti. Incapace di riconquistare la Penisola, il presidente Al Sisi l’ha fatta isolare e dichiarare zona militare chiusa.

Sud-est asiatico. L’Isis ha già proclamato due wilayat (province) nelle Filippine meridionali, una sotto Isnon Hapilon, nota come Wilayat Filipines, e un’altra sotto Abu Abdillah, la Wilayat dell’Asia orientale. I gruppi armati sono arrivati a controllare Marawi City per quasi 2 mesi prima di cedere ai governativi. Operativi Isis anche in Indonesia, Thailandia e Myanmar. La maggior parte dei combattenti del sud-est asiatico durante il Califfato proveniva da Indonesia e Malesia. Si stima che più di 1.000 asiatici (combattenti e loro familiari) abbiano sostenuto e vissuto nello Stato Islamico. Per accogliere questi combattenti, l’Isis ha persino istituito la Katibah Nusantara, un’unità di combattimento dedicata al mondo di lingua malese del sud-est asiatico.

Il governo talib che verrà: i leader storici con i rivali

C’è la legge della sharia. E ci sono le leggi meno drastiche della politica e della gestione del potere: prevedono di avere alleati per acquisire legittimità, allargare il consenso e garantirsi risorse, con cui mandare avanti un Paese. La priorità in queste ore resta la sicurezza, ma le casse vuote sono un incubo per chi dovrà governare.

I talebani attendono che gli Usa completino il ritiro per annunciare il loro esecutivo. Ma già si può provare a ricavare indicazioni dalle nomine ad interim, anche se dietro i nomi spesso c’è solo un volto o neppure quello – di Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, il mitico leader degli anni 90, non esiste una foto: guida la commissione militare –. Il capo del movimento è Haibatullah Akhundzada, designato dopo che il suo predecessore fu ucciso da un drone nel 2016. Il suo ruolo pare però circoscritto alle questioni della Jihad e ci sono dubbi sullo stato di salute.

Il leader politico, al momento, pare essere Abdul Ghani Baradar, rilasciato nel 2018 da una prigione in Pakistan su richiesta di Washington per partecipare ai negoziati di pace in Qatar e oggi perno delle trattative per la formazione del nuovo governo, che tutti assicurano sarà “inclusivo”. Baradar è appena rientrato in Afghanistan, passando per Kandahar, la roccaforte del movimento, prima d’arrivare a Kabul. La scelta più importante finora fatta è quella del ministro della Difesa: il mullah Abdul Qayyum Zakir, il prigioniero numero 8 del carcere di Guantanamo, catturato nel 2001 e trasferito sei anni dopo in Pakistan, dove nel 2008 venne rilasciato – si ignora perché –. Talebano della prima ora, Zakir, 48 anni, sarebbe stato emarginato per un certo periodo perché ostile alla linea ‘trattativista’, ma da un anno e mezzo era il vice di Yaqoob. Sul fronte finanziario, dove bisogna pagare gli stipendi a funzionari e dipendenti pubblici, oltre che a miliziani e apparati di sicurezza, Mohammad Idris è il nuovo governatore della Banca centrale, dopo la fuga all’estero del suo predecessore Ajmal Ahmady. Ignoto nel mondo della finanza, finora era capo della commissione economica: deve gestire, insieme al ministro delle Finanze designato, Gul Agha, amico d’infanzia del mullah Omar, oggetto di sanzioni dell’Onu, questa fase difficile, zero risorse e inflazione galoppante. Scelte sono state pure fatte per l’Interno, l’Intelligence, l’Istruzione, e per le amministrazioni locali, a partire dalla capitale. A Kabul sono state scelte due figure storiche: Hamdullah Nomani, sindaco – lo fu già dal 1996 al 2001 –, e il mullah Shirin Akhund, governatore.

Sul fronte politico, le novità sono contrastanti. Mentre si lavora ad allargare la base del governo, due figure dell’‘ancien régime’, l’ex presidente Ahmed Karzai e Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, e già vice e rivale del presidente fuggiasco Ashraf Ghani, sarebbero di fatto ai domiciliari, dopo che i talebani – dice la Cnn – hanno disarmato le loro scorte. Sul fronte resistenza, il fratello del leggendario comandante anti-talebani Ahmad Shah Massoud dice che la resistenza cresce nel Panshir, sotto il comando del figlio di Massoud, Ahmad. I talebani, invece, parlano di colloqui “proficui” a Charikar.

La nebulosa Isis-K: 250 attacchi contro i “nemici mortali ”

Non tutti “gli studenti islamici” in tunica, barba e kalashnikov volevano sedersi ai tavoli di Doha quando, nel 2020, i negoziati di pace sono iniziati in Qatar con gli statunitensi. Quei talebani che hanno considerato traditori i membri del loro movimento pronti a fare accordi “con il diavolo americano” sono confluiti nel gruppo che da sempre apre le porte ai dissidenti dei gruppi del terrore più radicali: l’Isis-k, autore di 250 attacchi contro Usa, pakistani e afghani dal 2017 a oggi.

Nato all’interno della galassia jihadista nel territorio del Khorasan, creato da affiliati a movimenti intrecciati l’uno all’altro, il gruppo viene formato come un distaccamento dell’Isis siriano per accogliere quei talebani che in Afghanistan e Pakistan giuravano fedeltà al Califfato, ma finisce per ammettere anche membri di Al Qaeda e islamisti centroasiatici. L’Isis-k, o Isil-kp o Iskp: molte sigle per una cupola letale, ma minuscola, imprendibile, frammentata in cellule che diventano operative in maniera indipendente dalla provincia del Khorasan fino a Kabul. “Sono nemici mortali dei talebani e loro competitor, anche se sono così piccoli” ha detto Douglas London, ex capo dell’anti-terrorismo della Cia. A gennaio scorso si era vantato dell’arresto di alcuni dei suoi affiliati, che pianificavano l’omicidio del diplomatico Usa Ross Wilson, l’ormai ex presidente afghano, il fuggitivo Ashraf Ghani. L’Isis-k viene fondato nel 2014 da Hafiz Saeed Khan, comandante del gruppo terroristico Tpp (Tehrik-i-Taliban Pakistan), poi ucciso da un drone americano nel 2015 nella provincia di Nangarhar, est di Kabul. Morirà un anno prima, ma nello stesso modo, il suo braccio destro, il talebano afghano Adhul Rauf Aliza, il cui numero di cella a Guantanamo era 108. Due anni dopo, durante un’operazione delle forze speciali afghane, muore il nuovo capo, Abdul Hasib. Il successore, Abu Sayed, rimane in carica solo due mesi prima di incontrare la morte e l’esercito Usa a Kunar.

Nel 2018, quando il Califfato conquistava terreno in Siria e Iraq, la filiale dell’Isis nel Khorasan non preoccupava gli analisti, che tra le sue fila non hanno mai contato più di duemila combattenti. L’attenzione dell’intelligence si è levata quando è comparso nel giugno 2020, dopo la cattura del predecessore Aslam Farooqi, un nuovo capo, “attivo e pericoloso”, ma di cui si sa poco: si chiama Shahab al-Muhajir e secondo alcune fonti non è nato in Asia centrale, ma in Siria. Noto anche come “Sanaullah”, faceva parte della rete Haqqani, una colonna portante dei vertici talebani ora al potere a Kabul, un clan armato che funge da ponte di collegamento con Al Qaeda.

Chi studia da tempo l’Isis-k, come l’esperta Rasha al-Aqeedi, sa che “colpiscono per dimostrare di essere ancora attivi, ma senza obiettivo strategico, solo con l’intenzione di causare carneficine”. Preferiscono attaccare nelle moschee, negli ospedali, nelle piazze, dove a fiumi scorrerà il sangue necessario per la loro propaganda: non dispongono di particolari risorse o armi, se non uomini che trasformano in bombe per gli attentati kamikaze.

Molte date sono cerchiate sul calendario macabro dei loro attentati: nel maggio 2020 l’Isis-k rivendicò il massacro di sedici persone (tra cui due neonati), quando portò terrore e morte nel reparto maternità dell’ospedale gestito da Medici senza frontiere a Kabul. Solo qualche mese dopo, a novembre, fece strage tra i banchi dell’università della capitale: mentre migliaia di studenti scappavano dai due attentatori armati, ventidue giovani persero la vita. Qualche giorno dopo, nell’area residenziale della capitale afghana, nei loro mirini finirono otto persone. Sono state le Nazioni Unite a riferire che hanno compiuto 77 attacchi nei primi quattro mesi dell’anno, ma sono gli stessi analisti a dire che il gruppo rivendica attentati che non ha compiuto per attirare adepti. Nel Paese che un ex funzionario di Kabul ha definito la “Las Vegas dei terroristi”, dove adesso tutti i radicali degli Stati dell’Asia centrale stanno accorrendo, la guerra è finita, ma solo per gli americani.

Kabul, gli alleati Usa se ne vanno. “Alto rischio nuovi kamikaze”

È salito a 170 vittime e almeno 200 feriti il bilancio dell’attentato di giovedì pomeriggio all’aeroporto di Kabul – non due kamikaze ma uno, assicurano gli Usa – dove, nonostante le messe in guardia dei talebani e dei militari occidentali, timorosi di nuovi attacchi, la voglia di partire e di sottrarsi al regime degli ‘studenti’ ha ieri prevalso sulla paura, con migliaia di persone a sperare in un passaggio verso la libertà.

C’è il timore che i terroristi della branca afghana dell’Isis, l’Islamic State Khorasan Province, Isis-K o Iskp, vogliano ancora colpire gli occidentali, ma anche i talebani, di cui denunciano i cedimenti di fronte all’America. L’intelligence statunitense paventa lanci di missili contro gli aerei al decollo o incursioni sull’aeroporto, dove le presenze militari vanno riducendosi: ieri sera, il Consiglio per la Sicurezza nazionale ha lanciato un nuovo allarme, informando direttamente il presidente Joe Biden.

Mentre i talebani danno la caccia in città ai complici dei kamikaze fattisi esplodere giovedì, per ora senza esito, inizia il gioco a scaricabarile delle responsabilità: gli ‘studenti’ attribuiscono la colpa della strage agli Usa; il Pentagono replica denunciando falle nei dispositivi di sicurezza locali. Ma secondo alti dirigenti di Washington i talebani avrebbero chiesto agli Usa di conservare una presenza diplomatica in Afghanistan dopo il loro ritiro.

C’è pure un’altra polemica che investe Washington: gli americani avrebbero fornito ai talebani una lista di persone che dovevano raggiungere l’aeroporto, esponendole quindi al rischio di ritorsioni, loro e le loro famiglie. In una Kabul più febbrile che nei giorni scorsi, le operazioni di evacuazione sono riprese all’alba con rinnovata urgenza: per molti Paesi, anzi, fra cui l’Italia, che ha messo in sicurezza oltre 5.000 persone, si sono concluse ieri. In 24 ore, sono partiti 12.500 afghani. Il termine ultimo per l’uscita dal Paese di tutti i militari occidentali resta martedì 31 agosto. Gli americani da evacuare sarebbero ancora un migliaio: “Li porteremo fuori”, assicura Biden. Ma è chiaro, vista la situazione di sicurezza compromessa all’aeroporto e il numero decrescente di voli del ponte aereo, che molti collaboratori afghani degli occidentali non potranno venire via.

Parlando dopo gli attentati di giovedì, il presidente Usa s’è assunto la responsabilità di quanto sta avvenendo e s’è impegnato a scovare e punire i colpevoli dell’uccisione, fra l’altro, di 13 marines, primi caduti americani dopo il ritorno al potere dei talebani, “eroi che si sono impegnati in una pericolosa generosa missione per salvare vite altrui”. Fra le vittime, anche tre cittadini britannici, con un bambino, mentre gli ‘studenti’ hanno smentito di avere subito perdite. Emergency ha curato 62 feriti, mentre 16 persone sono giunte in ospedale già cadaveri. Fonti militari rilevano che azioni ostili contro presunti responsabili saranno condotte solo una volta completata l’evacuazione, per non esporre a ulteriori rischi militari occidentali e profughi afghani. Biden ha però negato che vi siano prove di collusione tra i talebani e i terroristi. I livelli d’allerta restano altissimi: l’Isis, che ha rivendicato la strage, può cercare di colpire ancora. L’intelligence considera improbabile che i miliziani abbiano la capacità di colpire negli Stati Uniti, ma lo stato islamico ha già dimostrato di poterlo fare in Europa.

I talebani chiedono alla Turchia di gestire la sicurezza dell’aeroporto una volta partiti gli americani. Cina e Russia condannano gli attentati: per il Cremlino, “si sono avverate le più fosche previsioni”. La Cina, che non ha organizzato l’evacuazione, chiede ai suoi cittadini a Kabul di restare a casa.

Le mele e le pere

Dal terrificante attentato dell’Isis alle misere vicenduole di casa nostra, è tutto un cianciare a vanvera, violentare la logica, paragonare le mele con le pere. In Afghanistan il fiasco della “lotta al terrorismo” e dell’“esportazione della democrazia” con gli eserciti è sotto gli occhi di tutti: i terroristi sono più forti e motivati, i talebani più potenti e popolari di prima. Ma gli strateghi de noantri non vogliono ammettere di avere detto e fatto fesserie per vent’anni, e fingono di non capire. Non solo Salvini, che non sa neppure dov’è Kabul, ma anche il Giornale e Libero confondono l’Isis (l’aggressore) coi talebani (gli aggrediti, insieme ai profughi e alle truppe occidentali in ritirata): “Kamikaze Isis e talebani”, “I mostri barbuti di Kabul. Altro che trattare, ci bombardano”. Quindi sarebbero i talebani che, accingendosi a governare, hanno avuto la bella idea di organizzarsi una strage di civili in casa propria. Ed è tutta colpa di Conte, che vuole il dialogo coi talebani (proprio in funzione anti-Isis), come Ue, Onu, Nato, Cia, Merkel ecc, mentre gli Usa un anno fa ci hanno financo stretto gli accordi di Doha. Questi poveretti non sanno che la strage imporrà più di prima il dialogo coi talebani, unico potere sul campo in grado di impedire un governo dell’Isis (che li considera dei pericolosi moderati e non è figlio delle loro guerre, ma delle nostre).

Dalla tragedia alla farsa, apprendiamo da Rep che Durigon, il fascioleghista costretto a mollare la poltrona grazie anche al Fatto e ai nostri lettori, non contento di avere riabilitato Mussolini a scapito di Falcone e Borsellino, pretende insieme a Salvini un risarcimento, una specie di riscatto: non solo la promozione a vicesegretario della Lega, ma financo “le dimissioni della Lamorgese e forse anche di Conte”. Il Corriere gli attribuisce questa frase lunare: “C’è chi vuole coprire il Viminale e Conte”. Da cosa debba mai dimettersi Conte, e perché, non è dato sapere. Idem per la Lamorgese che, diversamente da Salvini, non solo è il ministro dell’Interno, ma addirittura lo fa. A proposito di paragoni fra mele e pere, segnaliamo quello fra i nostalgici del Duce e di Rauti e un tizio di FdI che 16 anni fa andò a un party in costume nazista: possibile che nessuno distingua fra una cosa seria e una goliardata? Càpita poi che il Fatto immortali una brigata di renziani che se la spassa a Formentera mentre tenta di scippare ai poveri i 500 euro al mese di reddito di cittadinanza al grido “dovete soffrire e sudare”. La risposta degli scioperati è: “Anche Travaglio è stato a Formentera”. Già, ma non è un parlamentare, non campa di soldi pubblici e soprattutto non ha mai dato lezioni di laboriosità a chi vive in miseria. Se non capiscono la differenza, gli facciamo un disegnino.

Ti ricordi Acapulco? Le mete chic di nobili e vip oramai dimenticate

Dalla principessa Sissi a Frank Sinatra, passando per Christian Dior, Stalin ed Elvis Presley: ci sono luoghi che sono stati a lungo benedetti, mete divenute celebri per la fama dei personaggi che le frequentavano. E poi, come per la giovinezza, anch’esse sono sfumate, lasciando negli autoctoni il nostalgico ricordo del siglo de oro che fu. La metamorfosi che le ha condotte dallo splendore alla decadenza non è dissimile da quella che visse la famiglia principesca de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: i tempi cambiano, la nobiltà perde peso e denaro e i parvenu si fanno strada. Anche in questo caso sono sopraggiunte mete turistiche nuove – parvenues per l’appunto – che il turismo di massa poi ha reso sempre meno elitarie ed esclusive. Non c’è bisogno di andare troppo lontano per figurarsi uno di questi paradisi dimenticati. El Paìs ne ha tracciato una mappatura e tra le destinazioni strette nella morsa della dimenticanza ce n’è anche una italiana: è Montecatini Terme, al centro della Valdinievole in Toscana, dichiarata a giugno “patrimonio dell’umanità”. Nota in tutto il mondo per le cure termali, è stata a lungo prediletta da Christian Dior che qui morì nella notte tra il 23 e il 24 ottobre del 1957. Il Grand Hotel La Pace, dov’era solito alloggiare, gli ha reso omaggio chiamando la sua stanza “Suite Dior”. Ma Montecatini non è più quella di una volta e oggi attende una seconda chance, così come è accaduto ad altre mete. Fun in Acapulco, ad esempio, è il titolo dell’album e dell’omonimo brano di Elvis Presley, nonché colonna sonora dell’omonimo film. La città messicana all’epoca, era il 1963, aveva tutte le caratteristiche dei paradisi esotici: ambita dalle celebrità e famosa per le notti licenziose. Tuttavia quei tempi sono oramai andati: nell’immaginario collettivo Acapulco, oggi, è lo scenario di sparatorie in pieno giorno tra i cartelli della droga e la polizia, cosicché i turisti – più o meno famosi – hanno smesso di sceglierla per le proprie vacanze. L’instabilità del Paese non ha giovato nemmeno all’Isla Margarita in Venezuela, che ha subito un crollo economico. La decadenza si è impossessata anche di Kupari, vicino a Dubrovnik in Croazia: Tito fece costruire qui un’enorme villa e attorno sorsero giganteschi hotel di lusso. Dopo i bombardamenti, dagli anni 90 in poi, non restano che gli edifici fatiscenti a raccontare i lussuosi tempi perduti in attesa di una seconda possibilità.

 

Quando pagai un tizio 30mila lire per tirarle una torta in faccia

Quando a metà degli anni Sessanta il mondo scopriva la minigonna (e si scandalizzava), a Roma bastava passeggiare la sera a piazza di Spagna per vedere una ragazza, stupenda, e pochi centimetri di stoffa a coprire delle gambe lunghissime. Con Marina Ripa Di Meana pure Mary Quant era in ritardo sul futuro della moda e la libertà della donna.

Marina era una certezza. Con lei in giro per noi fotografi la serata non era mai noiosa: era lei a dettare i tempi, a creare la notizia, a concentrare i riflettori su punti dell’esistenza ignoti ai più. Era lei a sorridere a imprevisti e certezze. A sedurre il prossimo e la vita. Ad assaporare i minuti come se fossero gli ultimi di un’esistenza sterminata. Non rinunciava a nulla: poteva uscire con il nobile, come con il giornalista, lo scrittore, il pittore dannato o l’imprenditore generoso.

Una sera scopro che sarebbe uscita con uno dei tanti corteggiatori, pure lui imprenditore, assurto ai ranghi di cavaliere perché le aveva regalato una pelliccia di visone costosissima. Lei in quel periodo aveva tirato un paio di torte in faccia in altrettanti programmi televisivi, così m’illumino: raggiungo il luogo della serata, trovo il parcheggiatore e lo spiazzo: “Questa è la torta, e ti do 30 mila lire se la tiri addosso a Marina Ripa”. Va bene.

Arriva, scende dall’auto, passano due secondi e il dolce la centra in pieno. Vai con le foto. E il bello è che lei sorrideva, impazzita per lo scherzo. Questo era Marina. Come quando per scandalizzare il prossimo usciva senza mutande, e aveva convinto anche le amiche: per noi erano diventate le sans-culottes. Il bello è che in un’intervista accusò un tizio di averle messo le mani addosso dentro un bagno, tanto da provare a toglierle le mutandine. Tempo dopo quest’accusa la fermai: “Marì, ma se te le mutande manco le metti!”. Anche lì rise.

Solo una volta sono realmente rimasto senza parole: davanti la sua bara. Lì l’ho appena salutata, e sono andato via senza il coraggio di fotografarla.

La guerra di Sinatra al caudillo. Perché odiava la Spagna

Settant’anni fa, nel 1951, i rotocalchi e i quotidiani di mezzo mondo dedicarono innumerevoli articoli al matrimonio fra due star americane dello spettacolo. Lei si chiamava Ava Gardner (1922- 1990), bellissima femme fatale di Hollywood; lui era “The Voice”, ovviamente Frank Sinatra (1915-1998), al secolo Francis Albert Sinatra, nato da padre siciliano e da madre ligure. Sempre in quel ‘51, in ottobre, i fan di Ava poterono ammirarla sullo schermo, accanto a James Mason, nel film Pandora di Albet Lewin, una rivisitazione della leggenda dell’Olandese Volante. Il film era stato realizzato in Spagna, a Tossa de Mar, sulla Costa Brava catalana, fra la primavera del ‘50 e l’estate del ‘51.

Durante la lavorazione di Pandora, Ava si fece vedere spesso in compagnia del torero, attore e poeta Mario Cabré, suscitando la gelosia di Sinatra. Tanto che il cantante e attore si precipitò sulla Costa Brava. Innamorato e geloso, portò dagli Stati Uniti un braccialetto di brillanti da 10 mila dollari da regalare all’attrice. Fu probabilmente anche la passione per la protagonista di celeberrime pellicole come Mogambo e La contessa scalza, e soprattutto la rivalità con il torero, a cementare in Frank il suo forte sentimento antifascista contro la Spagna di Francisco Franco e l’odio per il “Caudillo”, che non lo avrebbero mai abbandonato.

Poco noto e del tutto ignorato in quegli anni, visto il legame fra gli Usa e la Spagna anticomunista di Franco, l’episodio è stato ricordato in queste settimane da Isabelle Piquer in un lungo articolo pubblicato da Le Monde, intitolato “Ava Gardner, sirène de Catalogne”. Sinatra, ha rievocato la Piquer, “è uno dei rari attori che non nascosero la propria ostilità al regime di Franco”. Lo ha rammentato Perico Vidal, assistente alla regia di Orgoglio e passione di Stanley Kramer, del 1957, un film che “The Voice” fu costretto a girare in Spagna. “Non sopportava”, narra Vidal, “di vedere la faccia del dittatore su tutti i francobolli”. E sulle lettere che Frank spediva dalla Spagna negli Stati Uniti, “invece di firmare con il suo nome e con il suo indirizzo, scriveva: ‘Franco è un maiale’”.

Nonostante le simpatie manifestate per Ronald Reagan, del resto, Sinatra fu a lungo un democratico impegnato. Si batté contro il razzismo, fu un grande sostenitore di John Kennedy. Durante il maccartismo aderì al Comitato per il primo emendamento, guidato da Humphrey Bogart, in difesa degli attori e degli intellettuali perseguitati perché ritenuti “comunisti”. Come ha osservato Giuliana Muscio su il manifesto qualche anno fa, “fece campagna per il presidente Franklin D. Roosevelt nel 1944 e registrò una serie di spot per il Democratic National Committe, facendo generose donazioni. (E chiamò suo figlio Franklin in onore di Fdr). Nel 1945 realizzò un cortometraggio contro l’anti-semitismo e l’intolleranza razziale, The House I Live In, scritto dallo sceneggiatore comunista Albert Maltz”, una delle vittime del maccartismo. Il “corto vinse un Oscar speciale, in riconoscimento dell’impegno politico del cantante. Nel 1956, in un’intervista con Ed Murrow, per prima cosa mostrò la foto autografa di Fdr e successivamente i suoi due Oscar, sottolineando che il primo, quello per The House I Live In, era quello che aveva amato di più. Sinatra, infatti, era davvero sensibile ai temi dell’uguaglianza e della razza”.

L’astio per il generalissimo Franco ebbe l’apice nel settembre del 1964. Accadde a Torremolinos. Stava girando alcune scene del film Il colonnello Ryan, cui partecipó una giovanissima Raffaella Carrá. Venne coinvolto in una rissa all’Hotel Pez L’Espad con un giornalista e una attrice cubana. Arrivò la polizia, tutti furono condotti in commissariato. Si racconta che Frank rispose a monosillabi agli agenti. Poi, quando tutto sembrava finito, il protagonista indimenticabile di Da qui all’eternità e di L’uomo dal braccio d’oro staccò all’improvviso una foto di Franco da una parete, e “la adornò con un tremendo escupitajo”: ci sputò sopra, insomma.

La polizia, scrissero i giornali spagnoli, “avrebbe voluto fucilarlo subito”, ma intervenne il console americano. La “gente del Gobernador Civil”, peraltro, “sapeva del prestigio di Sinatra”, perciò si chiuse con la sua immediata espulsione e 25 mila pesetas di multa. Salendo sull’aereo, Frank disse che non avrebbe mai più rimesso piede “in questo maledetto Paese”. Quando si seppe che Franco avrebbe festeggiato i 25 anni della sua dittatura, Sinatra dichiarò: “E allora che adesso muoia”.

Il “ricco” bando dei canili a Roma e le paghe d’oro dei “volontari”

È il 1997. La 34enne Monica Cirinnà, giovane delegata del sindaco di Roma, Francesco Rutelli, ottiene l’assegnazione della gestione dei canili di Roma (il più importante, quello della Muratella) a una onlus sconosciuta, la Avcpp, che sta per Associazione volontari canile di Porta Portese. Un appalto ricchissimo. L’importo è di 4 milioni di euro l’anno e non tiene conto del numero dei cani ospitati. L’affidamento procede a colpi di proroghe per quasi 20 anni e circa 80 milioni di euro erogati. A ogni tentativo di rimettere a bando il servizio, l’attuale senatrice dem e la presidente dell’Avcpp, Simona Novi – sua amica personale – lanciano petizioni pubbliche contro la “privatizzazione selvaggia dei canili”. Nel 2016, dopo una serie di inchieste giornalistiche sui quotidiani romani, arriva l’Anac, che certifica l’anomalia: la gestione dei canili romani costa tra le 3 e le 4 volte di più rispetto a Milano, fino a 12,80 euro per cane, mentre Avcpp arriva a contare oltre 100 dipendenti che guadagnano da 1.000 a 5.000 euro al mese (lordi), fra “educatori, addetti all’accoglienza, personale amministrativo, centralinisti”. Per una struttura che ospita in media 300 cani. Il tutto, escluso i veterinari, pagati a parte dal Comune. La telenovela finisce con l’arrivo in Campidoglio di Virginia Raggi, che – dopo la delibera Anac n. 759 del 13 luglio 2016 – decide di rimettere a bando i servizi.