Manca solo una settimana alla chiusura delle candidature per le Amministrative e ancora restano in bilico le caselle più importanti, a cominciare dai capilista, che dovrebbero essere il “traino” per le varie formazioni che sostengono gli aspiranti sindaci. Ebbene, a Roma il Pd starebbe valutando di candidare nella posizione più prestigiosa l’ex ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, non esattamente una figura di punta dei democratici: ha aderito al partito oggi guidato da Enrico Letta nel settembre 2019, dopo la nascita del secondo governo Conte, ma ha alle spalle una carriera quasi ventennale in Forza Italia, prima del passaggio con Angelino Alfano e poi con Mario Monti. Tra i nomi dei papabili capilista già circolati c’è, a sostegno di Virginia Raggi, un altro ex ministro, Alessandro Bianchi. Il titolare dei Trasporti del governo Prodi guiderà la lista “ecologista” in campo per la sindaca uscente. Non dovrebbe invece candidarsi la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, attualmente consigliera comunale in Campidoglio. A Milano, FdI avrà come volto principale quello del giornalista Vittorio Feltri. Mentre per la prima volta dopo 23 anni non si candiderà a palazzo Marino il segretario della Lega Matteo Salvini.
Rischio cappotto: la destra è favorita soltanto a Trieste
Se non è un cappotto, poco ci manca. Secondo i sondaggisti le prossime amministrative rischiano di trasformarsi in una battuta d’arresto piuttosto clamorosa per il centrodestra, specie se confrontata con i numeri nazionali, che nelle ultime settimane hanno visto alternarsi Fratelli d’Italia e Lega come primo partito.
Invece tra i sei capoluoghi di regione che eleggeranno un nuovo sindaco il 3 e 4 ottobre, le destre sono favorite soltanto nel più piccolo, Trieste, e rischiano di restare completamente a secco tra Roma, Napoli, Milano, Torino e Bologna.
“Il dubbio principale è su Torino – spiega Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing –. Per il momento il centrodestra dovrebbe essere avanti al primo turno, ma al ballottaggio è tutto da vedere”. Anche secondo Roberto Weber, presidente di Ixè, quella sabauda è l’unica partita davvero aperta: “Torino è in bilico ma credo vincerà il centrodestra, anche per la caratura, la compostezza e la sobrietà del candidato, Paolo Damilano”.
Le altre sfide sono meno difficili da interpretare. Ancora Noto: “A Milano vincerà di nuovo Giuseppe Sala (Pd), mentre a Bologna è scontata l’affermazione di Matteo Lepore (Pd) al primo turno. Roma è più complessa: Enrico Michetti (centrodestra) potrebbe anche essere avanti il 4 ottobre, ma mi sembra davvero improbabile che possa vincere al ballottaggio, dove sarà favorito il ‘superstite’ tra Roberto Gualtieri (Pd) e Virginia Raggi (M5S). A Napoli invece la situazione è più frammentata, ma un dato è chiaro: il centrosinistra unito vale il 60%, al ballottaggio credo proprio andrà a vincere Gaetano Manfredi”.
L’analisi di Weber porta agli stessi risultati: “A Roma la differenza potrebbe farla il candidato, Michetti è deboluccio. Bologna, Milano e Napoli non dovrebbero dare sorprese”.
Insomma, con Trieste al centrodestra e Torino in bilico, si va verso un 5 a 1, o un 4 a 1 per il centrosinistra (che si presenta a geometrie variabili nelle città). Secondo Livio Gigliuto, vicepresidente dell’Istituto Piepoli, “i sondaggi portano quasi tutti i capoluoghi al ballottaggio. Nemmeno Trieste sarà assegnata al primo turno, il centrodestra è relativamente tranquillo perché schiera il sindaco uscente Roberto Dipiazza, che gode di buona stima. Ma anche quella partita è da considerare aperta”. Per Gigliuto il centrodestra parte avanti, sulla carta, a Torino e Roma, ma in entrambe le città pesano le strategie al secondo turno: “Può essere decisivo che i candidati dem e 5Stelle annuncino anche formalmente il loro appoggio al candidato di centrosinistra nel ballottaggio”.
Chi gioca la partita più delicata, tra i leader di partito? Per Noto e Gigliuto le amministrative non sposteranno molto. Gigliuto concorda: “Sono elezioni a basso impatto, si giocano su un contesto molto territoriale”, sostiene il vicedirettore dell’Istituto Piepoli. “Non c’è un grande impatto sugli equilibri nazionali – concorda il direttore di Ipr –, mi pare che tutti i leader si siano tenuti sulla difensiva. Salvini, per dire, non si è messo neanche capolista a Milano, nella Lega non c’è discussione. Al massimo potrebbe risultare una sua flessione e una crescita della Meloni. A Conte potrebbe fare comodo una vittoria dei giallorossi a Napoli, sarebbe una conferma della sua strategia”. Secondo Weber invece “Salvini è in flessione, mi pare sia lui quello che ha più da perdere. Meloni farà un buon risultato anche nelle città in cui il centrodestra uscirà sconfitto. Conte sarà massacrato dai media, soprattutto se Raggi dovesse perdere Roma. Ma i numeri nazionali, malgrado non abbia simpatie grilline, dicono che il suo consenso è ancora alto a distanza di mesi dalla sua uscita da Palazzo Chigi”.
Come giocano e cosa rischiano i 4 leader
La posta racchiusa dalle urne di ottobre è alta, per tutti. Ma per alcuni dei leader vale di più, vale tutto, cioè la permanenza nel ruolo di capo, carica che di questi tempi è precaria quanto gli umori e soprattutto i voti dei cittadini. Un mistero per sondaggisti, politologi e alla fine anche per loro, per i segretari dei partiti che corrono verso le Comunali. Sopra le loro teste, hanno il governo di quel Mario Draghi che li tratta per lo più da bimbi vivaci. Davanti, lo snodo chiamato Quirinale, che potrebbe risentire anche dell’esito delle amministrative. Perché in politica contano i numeri.
Conte l’avvocato che deve fare un partito
Sta cominciando a girare l’Italia per incontrare cittadini e i famosi mondi produttivi, come promesso dopo la sospiratissima elezione a presidente dei Cinque Stelle, quelli che qualche settimana fa stava per salutare. Ma il Giuseppe Conte che sulla riviera romagnola ha fatto il pieno di selfie e strette di mano visiterà città in serie anche per edificare il suo M5S. Innanzitutto, per immaginare quei nuclei regionali su cui vuole strutturarlo. Poi per selezionare volti e curriculum per le Politiche prossime venture, perché della vecchia guardia ne terrà pochi, lo stretto indispensabile. Però ha bisogno di un po’ di tempo, Conte. E per questo potrebbe rinviare la nomina dei vicepresidenti e dell’organigramma a dopo le Comunali, sussurrano ai piani alti. Ma il tempo è una moneta che ti danno solo i risultati elettorali. Tradotto, l’avvocato è obbligato a vincere a Napoli, dove come candidato sindaco ha un contiano doc come Gaetano Manfredi, ex ministro che incarna l’unico, vero nome di sintesi tra Pd e M5S, perni di quella coalizione giallorosa che per ora resta un obiettivo. “La traiettoria è l’alleanza con i dem” ha ribadito Conte in queste ore. Ma per non sbandare deve espugnare il capoluogo, un imperativo per il M5S storicamente a trazione campana (Luigi Di Maio, Roberto Fico). Altrimenti saranno processi e crisi di nervi. Assodato che Torino è data per persa – la mancata ricandidatura di Chiara Appendino è un rimpianto, un accordo con i dem impossibile – c’è poi Roma, enigma e grana. Come nel Movimento sanno anche i sassi, tra l’ex premier e la sindaca uscente Virginia Raggi i rapporti sono di cortese gelo. E se la Raggi facesse l’impresa di guadagnarsi il bis, per l’avvocato sarebbe un trofeo, ma pure un problema. “Virginia diventerebbe enorme, l’altro leader” come riassume un big.
Letta vincere per non cadere
Enrico Letta fa uno dei mestieri più rischiosi esistenti in natura, il segretario del Pd. Però, testardo o spericolato, si è perfino candidato per il seggio per la Camera di Siena, per cui si voterà proprio a ottobre. E se dovesse inciampare nella città del Monte dei Paschi, a occhio dovrebbe svuotare la scrivania. “Però dovrebbe vincere” dicono fuori taccuino diversi dem da settimane. Matteo Renzi permettendo, perché il sostegno di Italia Viva pare una promessa scritta sull’acqua. Ma Letta ha anche altre sfide che non può sbagliare. Partendo da Roma, dove Roberto Gualtieri non era il primo nome sulla lista del Pd, con il segretario che ha tentato in ogni modo di convincere a correre Nicola Zingaretti. Ma ora l’ex ministro dell’Economia deve assolutamente vincere. Il Pd è quasi obbligato a riprendersi il Campidoglio dopo la drammatica era Marino e i cinque anni della Raggi, anche per ricollocare parte dei suoi quadri e della sua classe dirigente. Nei calcoli dei dem l’avversario nel ballottaggio sarà comunque Enrico Michetti, il nome del centrodestra. E a quel punto starà proprio all’alleato Conte fare un passo, chiedendo sostegno pubblico per Gualtieri, con le incognite del caso (cosa direbbero la Raggi e altri big?). Poi si torna a Napoli, partita delle partite per il presidente dei 5Stelle, ma tappa fondamentale pure per Letta. E l’ostacolo per entrambi è anche Antonio Bassolino, storico sindaco scuola Pci di nuovo in campo, con cui bisognerà fare letteralmente i conti. Sempre per il secondo turno, a meno di sfracelli: che per Letta farebbero rima con crisi, congresso e altri guai.
Salvini l’ex primo che teme il sorpasso
I tempi in cui era lassù, primissimo nei sondaggi, quelli in cui da ministro celebrava la chiusura dei porti, sono un ricordo già da un po’. Ora Matteo Salvini pensa quasi sempre ad altro: a inseguire Giorgia Meloni, un’ossessione più che un’avversaria, e a giurare che lui nel governo Draghi sposta e incide. Senza dimenticare che almeno metà Lega (quella di Giancarlo Giorgetti, certo) lo contesta senza bisogno di ostentarlo, ed è perfino peggio. Per questo Salvini gira la Penisola con il solito corredo di post dove alterna foto di piatti tipici con attacchi ai migranti. Però il vecchio schema di gioco è impolverato e lui non le azzecca più come prima. Per esempio il candidato che ha scelto per Milano, il medico Luca Bernardo, ha già il fiato più che grosso, dopo aver confidato di girare in ospedale con la pistola. E per il Salvini che dopo 28 anni non si candiderà in Consiglio comunale – un segno? – è stato un autogol, che potrebbe facilitare il compito al già favorito Giuseppe Sala (centrosinistra). Sarebbe brutto perdere ancora nella sua Milano, per l’ex ministro. Anche se le amministrative per lui saranno soprattutto un derby con Meloni, che il capo del Carroccio e Silvio Berlusconi vorrebbero contenere con il partito unico. “Ma per noi questa ipotesi non esiste” ha ripetuto ieri ad Affari Italiani.it il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida.
Meloni in cerca dei numeri per comandare (a destra)
Nella conta interna al centrodestra, si annida una partita che guarda già più avanti, alle Regionali del 2023. “Chi avrà i migliori numeri a Roma e a Milano punterà a imporre i candidati nel Lazio e in Lombardia” ricorda un veterano del centrodestra. E il duello è già caldo nella prima regione, dove Salvini vorrebbe candidare anche come risarcimento per il probabilissimo passo indietro il sottosegretario Claudio Durigon. Ma Meloni ha altre idee, da corroborare con altri numeri. Quelli di Roma, dove già nel 2016, quando si candidò come sindaco, FdI prese il 12 per cento (più il 3 e rotti con la lista civica della Meloni). A ottobre, con il partito che nei sondaggi sta in grande salute, l’obiettivo sarà sfondare il 20 per cento. Anche se c’è un ma bello grande, quello rappresentato da Michetti, candidato fortissimamente voluto da FdI che sta infilando gaffe tra palchi abbandonati e orazioni sulla Roma dei Cesari. Se dovesse fallire rumorosamente Lega e Forza Italia non se ne staranno certo in silenzio. Ma il primo obiettivo di Meloni resta un altro, portare avanti una campagna nazionale per attestarsi a primo partito della coalizione quasi ovunque e lanciarsi come candidata a premier. E i manifesti con il suo volto seminati innanzitutto a Roma parlano chiaro.
E a Pontinia la nipote del duce tifa Fratelli d’Italia
“Avanti tutta e forza – disegnino di un cuoricino nero – sono con voi”. Il post trasuda affetto e premura. Segnala un appuntamento: il 7 agosto “il movimento civico Progetto Pontinia Futura presenta il candidato sindaco al comune di Pontinia”. Edda Negri Mussolini vive in Romagna ma non vuole mancare, almeno con lo spirito. Già che c’è, rilancia anche la diretta: davanti a una trentina di persone sotto al sole che picchia in località Mazzocchio, Agro Pontino, il coordinatore locale di Fratelli d’Italia Massimiliano Antelmi ufficializza la sua corsa. Sarà questione di radici, la nipote del Duce vuole essergli vicino. Così ogni giorno riposta i suoi eventi elettorali: ieri tifava “Avanti tutta” per l’incontro al Bar Katy di Borgo Pasubio, il 24 tutti “alla Caffetteria del Corso per un aperitivo insieme a voi!!!”, e due giorni prima rilanciava un articolo sulla discesa in campo al suo fianco di un architetto del luogo. E così via: ogni giorno un post a sostegno.
Il candidato ringrazia e conferma: “Siamo molto amici”. Certo, da queste parti il nome di “Lui” esercita ancora una certa fascinazione, quel richiamo alle origini che Claudio Durigon ha provato a riaccendere a Latina e gli è costato il posto. Su uno dei due attuali intestatari del parco, però, donna Edda (come la chiama qualcuno sotto ai suoi post) è stata chiara: il 19 luglio, giorno della strage di via d’Amelio, ricorda “tristezza, dolore, rabbia. I corpi di Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta (…) sono tra quel fumo, quelle urla. Ma (…) i loro ricordi saranno sempre accanto a noi”. Il 23 maggio invece, data dell’uccisione di Giovanni Falcone, la figlia di Anna Maria Mussolini, quintogenita del Duce, è con Antelmi per un brindisi a Pontinia. Perché Edda torna spesso nella palude bonificata. Ha più volte presentato qui il suo libro Donna Rachele mia nonna. La moglie di Benito Mussolini (Minerva, 2015), viene anche per gli eventi di Solco Pontino
, l’associazione fondata da Antelmi. Che in foto su Fb è più volte abbracciato a Giorgia Meloni. Come il 16 luglio, giorno in cui la leader era nell’Agro. Il candidato posta la foto (“Pontinia presente!!!”), un utente commenta con una manina gialla tesa e lui risponde con un cuoricino. Ovviamente nero, nero Ventennio.
Durigon si scusa e si dimette (però ringrazia solo Salvini)
Matteo Salvini gli ha telefonato e lui si è dimesso. Claudio Durigon ha deciso di lasciare la poltrona da sottosegretario all’Economia del governo Draghi dopo venti giorni di polemiche provocate dalla sua proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino. Lo ha fatto ieri sera con una lunga lettera in cui ha spiegato che lui non è “un fascista” e chiedendo scusa a tutte le vittime di mafia e ai loro parenti per le sue parole. Salvini, come aveva già fatto capire martedì dal meeting di Cl a Rimini (“decideremo per il bene del governo e del partito”), ieri pomeriggio ha chiesto a Durigon di fare un passo indietro durante una lunga telefonata. Troppo ingombrante ormai la sua presenza nel governo, troppo forte la pressione di Pd e M5S per allontanarlo. Lunedì anche il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva chiesto a Salvini e al suo numero due, Giancarlo Giorgetti, di farlo dimettere e “risolvere il problema”, senza arrivare alla mozione di sfiducia di settembre, dopo le proteste delle associazioni antimafia e antifasciste. Esultano Pd, LeU e M5S: “Finalmente – ha scritto Giuseppe Conte su Facebook – Il M5S sarà sempre impegnato a mantenere alta la soglia dell’ethos pubblico”.
Ieri serail sottosegretario all’Economia, dopo giorni di durissima resistenza, ha deciso di lasciare con una lunga lettera in cui ha ammesso gli “errori” e ha chiesto scusa dicendosi pronto a “pagarne il prezzo”. In primis ha precisato di “non essere un fascista” e di essere sempre stato contro “qualunque dittatura”. Poi si è soffermato sulle accuse di aver calpestato la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “Anche se le mie intenzioni erano di segno opposto – ha continuato Durigon – mi scuso con quanti, vittime di mafia (o parenti di vittime di mafia), possono essere rimasti feriti dalle mie parole”. Per questo il leghista ha chiesto scusa soprattutto ai parenti di Falcone e Borsellino.
Nella lunga lettera Durigon ha provato anche a spiegare il “vero senso” delle sue parole dicendo di essere stato “mal interpretato”. Dopo aver ricordato la sua origine veneta e di essere figlio di coloni venuti in Lazio per bonificare l’Agro pontino, Durigon ha giustificato la sua proposta spiegando che l’intitolazione del parco ad Arnaldo Mussolini “è rimasta tale per decenni” e “fa parte della memoria della città” e spiegato di non aver mai voluto accostare i nomi di Falcone e Borsellino a quello di Mussolini. C’è spazio anche per un attacco politico a quelli che lui chiama “i professionisti della strumentalizzazione”. In particolare Pd e M5S che, secondo il leghista, lo hanno attaccato e coinvolto nella polemica per “coprire altri problemi”: i “limiti del Viminale” con i 37 mila sbarchi dall’inizio dell’anno, “le incredibili parole di Giuseppe Conte sul dialogo con i talebani” ma anche chi “nega i massacri delle foibe” e appoggia “la cancellazione dello Stato di Israele”.
Dopo gli attacchi a chi ha chiesto le sue dimissioni dal primo giorno, però, Durigon annuncia il suo passo indietro come gesto di responsabilità nei confronti della Lega e del governo Draghi: “Gli Italiani da noi e dal governo si aspettano soluzioni, non polemiche. Quindi faccio un passo a lato, per evitare che la sinistra continui a occuparsi del passato che non torna, invece di costruire il futuro che ci aspetta”. Durigon resterà comunque coordinatore regionale del Lazio alla vigilia delle elezioni comunali di Roma e Latina e responsabile Lavoro del partito (“continuerò a occuparmi di Quota 100, pensioni e rottamazione delle cartelle”). Nei prossimi giorni inoltre Durigon potrebbe essere premiato anche con un posto da vicesegretario del partito. La lettera del sottosegretario poi si conclude con un unico ringraziamento: a Matteo Salvini, unico “insostituibile” nella Lega. Una frecciata a tutti coloro, in particolare il fronte del Nord del Carroccio guidato da Giorgetti e Luca Zaia, che nei giorni scorsi non hanno speso una sola parola per difenderlo e, anzi, si sono mossi per farlo rimuovere. Ringraziamento subito ricambiato dal leader della Lega Salvini secondo cui Durigon ha lasciato “per amore del governo e dell’Italia” prima di lanciare l’ennesimo attacco alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Contiamo che questo gesto di responsabilità e generosità induca a seria riflessione altri politici, al governo e non solo, che non si stanno dimostrando all’altezza del loro ruolo”.
Salvini non chiederà le dimissioni della responsabile del Viminale, ben protetta dal Quirinale e da Palazzo Chigi, ma nelle prossime ore chiederà un incontro a tre con Draghi per ottenere “un cambio di passo”. L’obiettivo sarebbe quello di chiedere le deleghe all’immigrazione al suo Nicola Molterni. Intanto proprio dal fronte del nord arriverà il successore di Durigon: in pole c’è il padovano Massimo Bitonci, già sottosegretario del Conte-1, ma nelle ultime ore sono risalite le quotazioni di Edoardo Rixi, viceministro alle Infrastrutture del governo gialloverde che si dimise dopo la condanna in primo grado per le spese pazze in Liguria. Oggi è stato assolto e potrebbe tornare al governo.
“Reazione Usa solo dopo l’evacuazione. L’Isis ha da tempo i mullah nel mirino”
“È necessario chiudere una partita, prima di poterne aprire un’altra: adesso c’è ancora caos a Kabul, disordini e gente ammassata all’aeroporto. Gli americani cercheranno di velocizzare le operazioni in corso, ma dopo il 31 agosto, quando finiranno le evacuazioni, sicuramente gli autori degli attentati saranno colpiti. Questo gli Usa lo hanno insegnato al mondo: agli attacchi si risponde sempre. Come e quando lo faranno, questo non lo sappiamo” dice il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, Pasquale Preziosa, che ricorda che “queste esplosioni non arrivano senza preavviso, americani e britannici avevano lanciato l’allarme da giorni. In America invece è scoppiata una lotta interna per la gestione operativa di questo ritiro”.
Oltre ai civili afghani, sono morti anche 12 marines nelle esplosioni ieri. Gli attentati colpiscono “il diavolo americano”, ma anche i talebani appena arrivati al potere.
L’Isis percepiva i talebani come antagonisti da molto prima e adesso ha voluto far sentire, nel momento peggiore della crisi, la sua voce, uccidendo anche gli stessi afghani. I talebani non controllano ancora in maniera capillare il territorio e avranno, credo, problemi a farlo. Non prevedo pace per il Paese: ci saranno lotte intestine tra talebani, varie tribù, signori della guerra, trafficanti di oppio. I talebani, a differenza dell’Isis, non hanno interessi oltre i confini di Afghanistan e Pakistan.
Se gli Usa non risponderanno nell’immediato all’attacco, in un Paese rimasto senza esercito regolare, chi lo farà?
Tutti al momento hanno interesse che i talebani rimangano in sella, sono interlocutori di molti Stati che non vogliono il jihadismo nei loro territori, come la Cina e Mosca, che al confine afghano, negli Stati ex sovietici, ha già spedito armi, avviato esercitazioni congiunte e fatto levare i suoi aerei alla frontiera tagika. Ma questo non impressiona i jihadisti.
Perché?
Parliamo di terrorismo globale: la sua prerogativa è che non ha confini. Anche per questo, per le grandi potenze, è un problema. Ripeto da tempo che con la fuga Usa da Kabul si apriva un vaso di pandora. Non c’è una data di fine operazioni: la lotta al terrorismo non finirà mai. È per questo che contrastarlo sta diventando un punto di convergenza tra grandi potenze: Russia, Cina, Usa. Nessuno vuole il caos della violenza sui suoi territori.
La lotta all’Isis trascinerà l’America e i suoi Alleati in nuovi conflitti?
Non possiamo saperlo, ma i corpi dell’intelligence operano in maniera puntuale. E con i droni ormai si va dappertutto, anche in Khorasan.
Ue e Nato nel panico “sperano” nei talebani (e in Russia e Cina)
La confusione e lo spaesamento che rinviano le immagini di Kabul si riflettono nel caos che domina tra le cancellerie internazionali. Quello che si temeva è avvenuto davvero e questo spiega la fretta per organizzare il rientro.
Una immagine di questa confusione la offre quanto trapela dal quartier generale Nato e reso noto dall’Ansa: “I talebani devono garantire che i terroristi internazionali non riguadagnino un punto d’appoggio in Afghanistan”. Ci si mette nelle mani dei talebani, dunque, come emerso chiaramente con l’attacco di ieri, previsto e annunciato in grande stile, senza che nessuno abbia saputo prevederlo o tamponarlo.
Per questo le operazioni di rientro sono state così affrettate e concitate. L’Italia ha annunciato che concluderà i suoi trasferimenti oggi con il volo dell’ultimo C-130. Uno sforzo, quello dei nostri militari e della nostra diplomazia, davvero notevole visto che l’Italia è il paese ad aver rimpatriato più persone dopo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Ma, diversamente dall’Italia, Francia e Germania, e anche Olanda, hanno dichiarato chiuse già ieri le loro operazioni e in particolare Parigi, che ha mantenuto l’ambasciatore sul posto fino all’ultimo – mentre l’Italia lo ha fatto rientrare non appena è stato dichiarato il ritiro degli Usa a seguito di “valutazioni operative” – ha fatto sapere di aver cominciato l’evacuazione già in primavera, giocando d’anticipo con una certa lungimiranza.
Le dichiarazioni occidentali sono unanimi nel condannare l’attentato – “spregevole” lo ha definito Angela Merkel – e nel dichiarare il proprio impegno per un’azione futura a vantaggio dei possibili profughi e rifugiati e per garantire che i rientri possano proseguire anche dopo il 31 agosto.
Si sono mossi in questo senso il premier inglese Boris Johnson che ha parlato della necessità di un “aiuto anche dopo il 31 agosto” e il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha annunciato “iniziative a favore di ulteriori evacuazioni dopo il 31 agosto di rifugiati e sfollati”.
Di Maio, che insieme al collega Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, ha informato il Consiglio dei ministri, ha annunciato un “piano italiano per il popolo afghano” all’interno di una nuova “fase 2”: “La Farnesina è pronta ad avviare – spiega il ministro degli Esteri – un Cabina di Regia Interministeriale che coinvolga tutte le Amministrazioni interessate dall’intero arco di iniziative che vogliamo varare”. Si tratta di cinque filoni di iniziativa: quelle per ulteriori evacuazioni, “iniziative per i diritti umani; garantire opportunità di formazione, universitaria e non, in Italia a favore di giovani afghani; iniziative umanitarie e di cooperazione allo sviluppo” e poi non precisate “iniziative politico-diplomatiche”.
Qui si entra in un mondo di incognite assolute. Cosa davvero possa e voglia fare il mondo occidentale non è chiaro al momento, soprattutto se non ci sarà prima una posizione degli Stati Uniti. Sembra evidente che l’unica strada percorribile è quella di una qualche iniziativa di riconciliazione che permetta, nel quadro di un accordo complessivo, anche un’iniziativa internazionale. A differenza di dichiarazioni propagandistiche, come quella di Matteo Salvini che ieri sui social incolpava i talebani dell’attentato all’aeroporto, questi invece hanno interessi comuni con l’occidente nel confronto con il terrorismo Isis.
E così, mentre il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha convocato per lunedì i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, la presidenza di turno slovena dell’Unione europea ha convocato una riunione aggiuntiva dei 27 ambasciatori presso l’Ue (Coreper) sull’Afghanistan.
La riunione dovrebbe vertere sul tipo di rapporto che si intende instaurare con il nuovo regime a Kabul, se occorre coinvolgere seriamente anche Cina e Russia – e oggi Mario Draghi vedrà i ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ieri Di Maio ha dato un’intervista alla Tass – e come gestire i flussi di profughi e gli aiuti umanitari.
Soprattutto, si tratta di capire come gestire il funzionamento dell’aeroporto, se lasciarlo del tutto ai talebani o mantenere una qualche presenza nell’ottica della “fase 2” di cui parla Di Maio.
Reazioni comunque convulse e precipitose, segno di una situazione che ha travolto le potenze occidentali e ne ha mostrato l’assoluta impreparazione.
Santuari e sfida ai talib: i cani sciolti del terrore
Due anni fa, non oggi, l’agenzia americana per l’Afghanistan (Special Inspector General for Afghanistan Recostruction, Sigar) rispetto all’integrazione dei combattenti talebani nel nuovo Stato “democratico” di Kabul scriveva: “Se gli ex combattenti non sono in grado di reintegrarsi potrebbero essere vulnerabili al reclutamento di gruppi criminali o organizzazioni terroristiche come lo Stato Islamico Khorasan (Is-K)”. Che ieri sera ha rivendicato l’attacco all’aeroporto di Kabul. Gli accordi di Doha del febbraio 2020 tra talebani e governo Usa, esclusa la giunta afghana per volontà talebana, hanno prodotto dissensi anche tra i combattenti. Scrive ancora il Sigar nel report 2019: “Combattenti talebani potrebbero decidere di non voler partecipare a un accordo di pace”. E ancora: “I talebani arrabbiati per i negoziati con gli Stati Uniti sul ritiro delle truppe (…) si sono uniti in massa allo Stato Islamico Khorasan aumentando una forza già stimata in 14 mila combattenti in Afghanistan”.
Non solo, si legge che “membri di al-Qaeda e altri jihadisti dell’Afghanistan e del Pakistan si stanno rivolgendo all’Is-K per trovare rifugio”. Dunque non solo Daesh, ma anche altri gruppi oggi compongono un “risiko del terrore” che, spiega una fonte dei servizi italiani, “potrebbe portare a emulazioni in Europa”. In un report di pochi mesi fa il Consiglio di sicurezza dell’Onu scriveva: “L’alta dirigenza di al-Qaeda rimane presente in Afghanistan così come centinaia di operatori armati”. Oltre ai figliocci di Osama bin Laden, il “pantano” afghano è alimentato dalla “rete Haqqani”, clan familiare e nella lista Usa del terrorismo internazionale. Secondo l’Onu “i talebani si sono regolarmente consultati con al-Qaeda durante i negoziati con gli Stati Uniti e hanno offerto (ai talebani, ndr) garanzie di onorare i loro legami storici”. John Godfrey, referente americano per la missione in Afghanistan, pochi giorni fa ha spiegato: “Il gruppo Is-K costituisce una seria minaccia”. Non solo. L’Onu in una annotazione riservata spiega che “gli Stati membri riferiscono che al-Qaeda e i talebani si sono incontrati (…) per discutere (…) di rifugi sicuri all’interno dell’Afghanistan”. Di più: “Al-Qaeda è segretamente attiva in dodici province afghane”. Aggiunge il Consiglio di sicurezza: “Sebbene sia difficile essere certi del numero di combattenti in Afghanistan, la stima del gruppo monitorato è di oltre 600 armati”. A leggere poi le note dei report si scopre che “alcuni Stati membri hanno riferito che i talebani” hanno “rafforzato le relazioni con al-Qaeda (…). La regolarità degli incontri tra gli anziani (…) e i talebani ha reso qualsiasi nozione di rottura una mera finzione”. Un legame, definito dagli analisti dell’intelligence, come “una fratellanza a lungo termine”. Non deve, dunque, sorprendere l’attacco suicida di ieri a Kabul. Anche perché, secondo le Nazioni unite, “l’Is-K conserva risorse finanziarie per decine di migliaia di dollari”. Il gruppo jihadista che ieri ha rivendicato l’attacco, “ha continuato a guadagnare attraverso le estorsioni”. Conclude l’Onu nella sua relazione: “Is-K è presente oggi in Afghanistan con oltre 2 mila combattenti”. Un esercito di mujahid votati alla jihad anche in Europa e comandati oggi da “un papa straniero”, non afghano, ma probabilmente siriano o iracheno.
Biden sotto attacco. Trump lo smemorato chiede le dimissioni
Gli attentati di Kabul, anticipati, ma non evitati, dall’intelligence statunitense, con i primi caduti Usa in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani, danno la stura a un’ondata di attacchi senza precedenti dei repubblicani contro il presidente Joe Biden, accusato di essere il responsabile, perché non avrebbe garantito la sicurezza dei militari e dei civili americani rimasti in Afghanistan. Anche i talebani scaricano la responsabilità dell’accaduto sugli Stati Uniti, pur essendo loro ora in controllo della città e del Paese.
Per seguire gli eventi, Biden si chiude nella “situation room” col consiglio per la Sicurezza nazionale, il segretario di Stato Antony Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin e cancella o fa slittare gli impegni di giornata, l’incontro coi governatori e la visita del premier israeliano Naftali Bennett. Partecipa al consulto il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Mark Milley. Si valutano opzioni che vanno dalla conferma del completamento dell’evacuazione entro il 31 agosto a un’accelerazione dei tempi. Una reazione sul campo appare problematica: Kabul e l’Afghanistan sono ormai nelle mani dei talebani e individuare come obiettivi i militanti dell’Isis probabili autori della strage è estremamente difficile.
I repubblicani cavalcano lo scempio del ritiro dall’Afghanistan, tramutatosi in una rotta militare e politica, per chiedere le dimissioni di Biden e prospettare un procedimento di impeachment, ignorando che i presupposti di quanto sta accadendo li pose Donald Trump, negoziando una vera e propria resa con i talebani senza coinvolgere né il governo di Kabul né gli alleati. Proprio Trump guida la carica anti-Biden: “Deve dimettersi”, dice. E chiosa: “Non dovrebbe essere un problema, visto che non è mai stato legittimamente eletto” – la sua fissa delle elezioni truccate –. Anche un deputato, Mike Garcia, chiede le dimissioni del presidente. Il senatore Lindsay Graham, un esperto di sicurezza, vorrebbe ripristinare il controllo della base di Bagram, tenuta dai talebani – sarebbe un bagno di sangue –. Nikki Haley, ex rappresentante degli Usa di Trump all’Onu e una quotata potenziale candidata repubblicana a Usa 2024, è ironica: “Biden dovrebbe dimettersi, ma Kamala Harris – la sua vice, che diventerebbe presidente, ndr – è dieci volte peggio” (insomma, dalla padella alla brace). Nelle ultime settimane, diversi esponenti del partito repubblicano hanno ipotizzato l’impeachment di Biden, soprattutto se i repubblicani riusciranno a riconquistare il controllo di una o di entrambi i rami del Congresso alle elezioni di midterm del novembre 2022, fra 15 mesi. Gli eventi dell’Afghanistan possono però indurli ad accelerare i tempi o, almeno, ad alzare i toni.
Secondo The Hill, il giornale degli insider della politica statunitense, in questi caotici giorni si stanno soppesando diverse opzioni: dall’ipotesi di una messa in stato di accusa del presidente, a quella della rimozione con il 25° emendamento della Costituzione, che stabilisce che il vice-presidente possa assumere i poteri in caso di incapacità del presidente in carica – se n’era parlato anche per Trump, nella fase finale del suo mandato, quando il magnate farneticava sulle elezioni truccate e sobillava i suoi sostenitori contro il Congresso e le istituzioni –. “Penso che Biden dovrebbe essere messo sotto accusa e che questa sia la cosa più disonorevole che un ‘comandante in capo’ abbia fatto nei tempi moderni”, ha detto il senatore Graham a Newsmax. Al di là delle chiacchiere strumentali dei repubblicani, c’è la tragica gravità della situazione in Afghanistan. E un ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, il generale H. R. McMaster, che se ne andò in malo modo dalla Casa Bianca, non ha dubbi: l’attentato di Kabul “è solo l’inizio” ed è ciò che “succede quando ti arrendi a un’organizzazione terroristica”.
McMaster, che fu in carica fra il 2017 e il 2018, critica Biden per le modalità del ritiro, ma critica pure Trump che “si fece giocare dai talebani” con l’accordo di Doha del febbraio 2020.
Secondo McMaster, non ci sono differenze fra i terroristi dell’Isis-K, che rivendicano le esplosioni all’aeroporto, e i talebani: “È tempo di smettere d’illudersi che questi gruppi siano separati. Bisogna riconoscere che sono interconnessi”. Per McMaster, “stiamo assistendo alla creazione di uno Stato terrorista e jihadista in Afghanistan, la conseguenza sarà un rischio molto maggiore”.
La strage Isis sull’addio a Kabul “Qui è come il giudizio universale”
Almeno due esplosioni, innescate da terroristi kamikaze, fanno decine di vittime, una settantina, fra cui dei bambini e almeno dodici marines Usa, e oltre cento feriti all’esterno dell’aeroporto di Kabul, dove migliaia di disperati continuano ad accalcarsi nella speranza di salire su un ‘volo della libertà’. Nessun italiano è rimasto coinvolto. Molte persone vengono portate all’ospedale di Emergency, non lontano: alcune giungono già cadaveri. Accade quando a Kabul è già sera, in un’area detta ‘il canale’, dove le persone aspettano in fila che i loro documenti vengano controllati per entrare nello scalo. Una ragazza in contatto con la Cospe, una Ong di Firenze, racconta: “Ci sono molti morti vicino a me, il canale è diventato color sangue”. Prima esplode un’autobomba. Poi un terrorista salta in aria presso un hotel frequentato da stranieri, anche giornalisti. Il racconto dei testimoni è agghiacciante. Cumuli di cadaveri e brandelli di corpi. Un ex interprete dei marines racconta di aver visto morire tra le sue braccia una bambina di 5 anni. Le immagini e i video sui social mostrano feriti trasportati con carriole sgangherate con l’incessante ululato delle ambulanze in sottofondo. “È stato come il giorno del giudizio universale. Ho visto persone correre con il sangue sui volti e sui corpi”, ha raccontato un altro testimone. Il bilancio della strage s’aggrava di ora in ora. Le esplosioni rendono concreti gli allarmi anti-terrorismo lanciati dalle intelligence di Usa, Russia e altri Paesi. Nell’aeroporto di Kabul ci sono ancora almeno diecimila persone che sperano di salire su uno degli ultimi velivoli. Dopo l’attacco terroristico, tutti i gate sono stati chiusi, riferiscono fonti sul posto.
L’attacco è rivendicato in serata dalla frangia dell’Isis che opera in Afghanistan, l’Iskp che con Amaq, l’organo di propaganda del sedicente Stato islamico, ha pubblicato sul web l’immagine di un uomo identificato come Abdul Rehman Al-Loghri e indicandolo come il “martire” che si è fatto saltare in aria. Le prossime ore sono ritenute “estremamente rischiose”. L’ambasciatore francese in Afghanistan David Martinon ha pubblicato su Twitter un drammatico post: “Chiunque si trovi nei pressi dei cancelli dell’aeroporto si allontani e cerchi un riparo”. Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già sconsigliato ai cittadini di recarsi all’aeroporto. Dopo l’attentato, i talebani dagli altoparlanti pubblici invitano tutti a tornare a casa. I collegamenti internet sugli smartphone sono fuori uso. Il tempo per lasciare l’Afghanistan è agli sgoccioli, anche se le informazioni sono contraddittorie: Washington, che conferma la deadline del 31 agosto per la presenza delle sue truppe, e Londra dicono che le partenze continueranno anche dopo tale scadenza; per la Nato, ieri è stato l’ultimo giorno utile per l’evacuazione dei civili. Germania, Canada, Belgio, Olanda, Polonia hanno già concluso le loro operazioni, la Francia lo farà oggi. La Turchia sta ritirando le truppe inviate a garantire la sicurezza dello scalo. Pure il numero delle persone portate via e ancora da portare via è incerto: si calcola siano oltre 100 mila. Fonti russe stimano a una cinquantina i morti all’aeroporto da Ferragosto, nella calca sotto il sole senza assistenza. La notizia, smentita, di spari contro un C-130 italiano al decollo accresce allarme e tensione.
Anche sulla situazione fuori dell’aeroporto, a Kabul e nel Paese, vi sono segnali contraddittori. Dipendenti Onu raccontano di essere minacciati e percossi, mentre a Kandahar, atterra un velivolo di Medici senza frontiere, proveniente dall’Uzbekistan e autorizzato all’avvicendamento delle squadre di sanitari dell’organizzazione. Contrastano con questi apparenti gesti distensivi le dichiarazioni al New York Times del portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, secondo cui la musica sarà di nuovo vietata in Afghanistan. Nel contempo, il portavoce, nonostante le tensioni all’aeroporto di Kabul, auspica buone relazioni con la comunità internazionale e indica come aree di cooperazione possibili la lotta al terrorismo, la lotta all’oppio e la riduzione dei rifugiati in Occidente.
Intanto Mosca considera l’ascesa al potere dei talebani “un fatto compiuto”.