Pissipissibaubau

Il 4 agosto, quando Claudio Durigon, sottosegretario leghista all’Economia, annunciò in un comizio alla presenza di Salvini che, in caso di vittoria del centrodestra a Latina, il Parco Falcone e Borsellino sarà ridedicato ad Arnaldo Mussolini, pensammo ingenuamente che quello fosse troppo persino per i Migliori. E che in poche ore il Migliore dei Migliori, SuperMario Draghi, l’avrebbe accompagnato alla porta con una dichiarazione per ricordare che nel suo governo non c’è spazio per i nostalgici del fascismo e della mafia, che Arnaldo Mussolini non era solo un fascista ma pure un tangentista, che preferirlo a Falcone e Borsellino è uno sfregio alla legalità e una captatio benevolentiae ai malavitosi che imperversano a Latina (anche nella campagna elettorale del fascioleghista). Invece non accade nulla da 22 giorni. Anzi, da Palazzo Chigi trapelano “fastidio” e “irritazione” perché M5S, Pd e varie forze di sinistra, spinti dal Fatto e dalle 160mila firme sulla nostra petizione, hanno provveduto a fare ciò che non faceva il premier: chiedere le dimissioni dell’impresentabile. Ora che Salvini e Durigon, dopo i capricci, appaiono rassegnati all’estremo sacrificio, leggiamo sul Foglio di un “lavorio di Palazzo Chigi”, che però “non apprezza le uscite tese a umiliare” Durigon.

Ma povere stelle, Draghi e Durigon: l’uno non vuole umiliare un fascista che preferisce Arnaldo Mussolini a Falcone e Borsellino; e l’altro, quello che preferisce Arnaldo Mussolini a Falcone e Borsellino, non vuole essere umiliato. Sta’ a vedere che alla fine la colpa di questo sconcio è di chi lo denuncia, cioè nostra. Due anni fa un premier, non certo dei Migliori, cacciò il sottosegretario leghista Armando Siri, coinvolto in una storiaccia di rapporti con giri di mafia e indagato per corruzione. E lo spiegò pubblicamente: “Questo è un governo che ha l’obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e ha un alto tasso di sensibilità per l’etica pubblica”. Ora invece siamo al “lavorio”, al pissipissibaubau tra il lusco e il brusco. Come per gli altri impresentabili – Gerli, Tabacci, De Carolis, Farina-Betulla – nominati dai Migliori e poi, appena smascherati (quasi sempre dal Fatto), fatti sparire alla chetichella, aumma aumma, senza uno straccio di spiegazione. Desaparecidos come nelle purghe staliniane, quando i gerarchi scomparivano dalle foto ufficiali senza motivazioni. Ma, su Durigon, la motivazione conta più della rimozione. Se Draghi non dice nulla sul suo sottosegretario che preferisce Mussolini a Falcone e Borsellino, vuol dire che gli sta bene così. E allora respinga le sue dimissioni. Tanto ormai l’han capito in tanti che quella storia dei Migliori era solo un’esca per gonzi.

Il sole torna a splendere (anche) sul cinema d’essai

Come un gatto in tangenziale davanti, e di dietro tutti quanti. Il ritorno al futuro del cinema in sala non è solo il Ritorno a Coccia di Morto di Paola Cortellesi e Antonio Albanese nel sequel di Riccardo Milani, da oggi anche il cinema di qualità, d’essai o arthouse che dir si voglia, rialza la testa con un tris di titoli da non perdere: Il gioco del destino e della fantasia di Hamaguchi Ryusuke; DAU. Natasha di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel; Josep di Aurel (evento dal 30 agosto al 1° settembre).

Premiato all’ultima Berlinale con l’Orso d’argento, Wheel of Fortune and Fantasy tesse in tre capitoli (Magia, Porta spalancata, Ancora una volta) e quattro donne (Meiko, Nao, Natsuko, Nana) un minimalista, empatico e persistente apologo del caso, sondato nelle sue conseguenze esistenziali e sentimentali: un mosaico in cui è facile riconoscersi, o schermirsi. Il talentuoso giapponese Hamaguchi ha recentemente trovato a Cannes un altro riconoscimento, per la sceneggiatura, con Drive My Car, tratto da Murakami: sempre Tucker lo porterà sul grande schermo il 23 settembre. Targato Teodora, Natasha è il primo film nato dal progetto DAU: oltre 400 attori non professionisti chiamati a vivere per tre anni sul più grande set mai costruito allo scopo di ricreare la vita in Unione Sovietica tra il 1938 e il 1968. Al Lev Landau Institute, intitolato al celebre fisico russo, la cameriera Natasha (Natasha Berezhnaya, super) va a letto con uno scienziato francese, sicché il Kgb la convoca per un interrogatorio: la sinossi non tradisce l’esperienza radicale e disturbante del film, partorito da un esperimento antropologico e artistico inaudito, illuminato superbamente da Jürgen Jürges, calato in una rete psicologica che deve tanto a Cassavetes quanto alla vodka. DAU. Natasha non è per tutti, ma può essere tutto. Scritto da Jean-Louis Milesi, ispirato alla vita e alle opere del pittore, fumettista e scrittore spagnolo Josep Bartolì, l’animazione di Aurel (il francese Aurélien Froment, classe 1980) ci riporta al febbraio 1939, allorché i repubblicani spagnoli in fuga dalla dittatura franchista vengono confinati in campi di concentramento dai francesi. Tra di essi Josep Bartolì, il cui tratto grafico e irrimediabilmente umano eleva a potenza storica e insieme immaginifica un’amicizia oltre il filo spinato: premiato ai César e agli Efa, gli Oscar europei, Josep ha grazia, delicatezza e speranza.

Sì, sono un cane. Diogene. Un Socrate “uscito pazzo”

Un Socrate uscito pazzo, un nemico dell’etica e della politica, un selvaggio, un provocatore. Un cane: non solo perché simpatizzava per un filosofo (Antistene) che teneva lezione appena fuori Atene presso il ginnasio del Cinosarge (“Cane rapido”), ma perché si faceva un vanto di essere paragonato allo svergognato quadrupede – anzi, diceva di abbaiare a chi non gli dava nulla e di mordere i malvagi, e di essere uno di quei cani da caccia che tutti lodano ma con cui nessuno vuole uscire in battuta per tema della fatica da reggere. Tutto questo è Diogene, il più grande bastian contrario dell’antichità, nato a Sinope sul Mar Nero alla fine del V secolo a.C. e presto esiliato assieme al padre per aver falsificato la moneta, in greco nòmisma, la stessa parola che vuol dire anche “credenza”, “convenzione” – proprio demistificare le convenzioni (denaro, famiglia, costumi sessuali) sarebbe stato l’obiettivo quotidiano di Diogene vita natural durante.

In tempi di filosofi abbienti che sragionano da comode case, e di personaggi pubblici che razzolano malissimo, l’esempio di Diogene colpisce: a costo di risultare eccentrico, sgradevole, intollerabile, mirava alla coerenza assoluta tra pratica del pensiero e pratica di vita quotidiana, alfiere di una filosofia che, come voleva Nietzsche, non si fa gioco accademico ma sconvolge la vita. L’ideale è quello di “bastare a sé stessi” sconfiggendo tutto ciò che di norma rende schiavi gli uomini (ricchezze, gloria, sesso, potere)? Eccolo andare in giro con un mantello (da ripiegare in due per dormire sotto i portici o nell’agorà), un bastone e una bisaccia (da cui sparirà anche la ciotola per bere: più che sufficiente il cavo delle mani); basterà rigettare non tanto il desiderio in sé, quanto i meccanismi della sua soddisfazione, che creano dipendenza e inficiano la libertà dell’uomo – l’abbigliamento di lusso, gli stuoli di adulatori, i pranzi luculliani, le cortigiane che imbambolano anche gli Olimpionici più forti…

Diffidente verso chi, come Platone, faceva “infiniti discorsi” senza alcun riflesso sui comportamenti personali, Diogene credeva che tutti, come il medico e il pilota, debbano migliorare concretamente la vita propria e altrui: inutili gli indovini, bizzarri i musicisti che accordano i loro strumenti ma non i loro stati d’animo, o i grammatici che studiano le sventure di Ulisse senza badare alle proprie. Sintetizzava il suo pensiero in battute brevi e folgoranti (le cosiddette chreiai, tramandate nei secoli da eruditi e raccolte, anche in arabo), distillati di parrhesía (“dire tutto”, libertà di parola) e di un modo di vivere sempre controcorrente.

Allo stesso Platone che, vedendolo intento a umili mestieri, gli diceva che se fosse stato al servizio di Dionigi di Siracusa non avrebbe lavato la verdura, egli replicò che se lui, Platone, avesse lavato la verdura, non sarebbe stato al servizio di Dionigi: un modo arguto per dare il primato alla libertà, ritorcendo l’argomento contro l’interlocutore, sospetto di ambizioni politiche. Al re di Macedonia Filippo II, curioso della sua identità dopo averlo fatto prigioniero durante la decisiva battaglia di Cheronea con cui infine conquistò la Grecia, rispose “sono l’osservatore della tua insaziabile avidità” (e il re, colpito da tanto ardire, lo liberò seduta stante). A un ricco che si faceva allacciare le scarpe da uno schiavo disse secco e macabro: “Non sarai beato finché costui non ti soffia anche il naso; e ciò accadrà quando avrai perso l’uso delle mani”. Alessandro Magno, che gli promise di esaudire un suo desiderio, si sentì rispondere: “Spostati un poco, mi fai ombra”, una replica non solo dispregiativa nei confronti del potere in quanto tale (per lui foriero di inutile angoscia e fragili illusioni), ma tesa a ribadire il piacere libero di un semplice bagno di sole.

Fiducioso nella ragione e nella libertà, Diogene a volte la sparava grossa, come quando – se le fonti non ci ingannano – sosteneva non solo l’opportunità di mangiare e accoppiarsi in pubblico (e masturbarsi: “magari bastasse sfregarsi il ventre per placare la fame!”), ma anche il cannibalismo e varie forme d’incesto: diceva in effetti d’imitare i maestri del coro, che toccano un tono più alto affinché i cantori (i suoi seguaci, o i suoi uditori) trovino quello giusto subito sotto. E se la sua vita era in fondo una forma di ascesi (nel senso greco di àskesis, esercizio: rotolarsi nella sabbia d’estate, abbracciare le statue innevate d’inverno, sopportare il dileggio degli altri), egli predicava un’etica di semplicità senza condannare il piacere, e limitandosi a contrastare le sofferenze autoindotte in suo nome. Soprattutto, l’ascesi non si svolgeva lontano dagli uomini ma nel cuore delle città, proprio là dove più frequente e veemente era lo scontro con le convenzioni sociali e con il disprezzo dei benpensanti – non a caso l’ultimo Michel Foucault prenderà le mosse proprio da Diogene per celebrare il “coraggio della verità” e quel richiamo alla “vita vera” che è per necessità una vita radicalmente “altra”.

Sarà proprio Diogene, colui che con la famosa lanterna cercava l’uomo senza trovarlo, il primo a definirsi kosmopolites, “cittadino del mondo”: non per rivendicare un’identità apolide, ma per ribadire la valenza universale dei suoi principi e delle sue idee. “I cittadini di Sinope ti hanno condannato all’esilio”, gli fu detto una volta; e lui rispose senza batter ciglio, memore del mondo che proprio grazie a quell’esilio aveva scoperto: “Ma sono io che li ho condannati a restare lì”.

“Il rock è per guerrieri e spesso suono con lo spettro di Hendrix”

Ero nel braccio della morte…

Cosa?

Un incubo, ovvio. Mi avevano comunicato che il mio giorno era arrivato. La sedia elettrica mi aspettava.

E?

Avevo diritto a un ultimo desiderio. Nella cella accanto era imprigionato il bassista Greg Cohen, compare di mille jam. Decisi che prima di morire avremmo suonato la struggente Cold cold heart di Hank Williams. Poi mi avviai pacificato alla mia fine.

Sonni agitati.

Il più bel sogno della mia vita risale a prima che mi dedicassi alla chitarra. Da sveglio prendevo lezioni di tromba. Dopo la seconda non riuscivo a tirar fuori una nota. Ma nelle mie divagazioni oniriche ero capace di soluzioni alla Miles Davis. Il che è accaduto, però cambiando strumento. Il buffo è che non ricordo la prima volta che impugnai una chitarra.

Lei, Marc Ribot, è uno dei chitarristi più prodigiosi di sempre. Scava dentro il jazz, il punk, il noise, senza dimenticare il blues o la musica etnica. Se un marziano le chiedesse spiegazioni?

Gli direi che suono musica ad altissimo volume, anche nei brani più dolci.

Lo ha spiegato nel libro Unstrung, uscito giorni fa. Ma è vero che si piazza davanti ad amplificatori sparati al massimo per ‘intonare’ il cervello alla distorsione?

Ho esagerato, ma il concetto è quello. Lo avevo già espresso in un saggio di venti anni fa, curato da John Zorn. La maggioranza dei miei album sono di performance soliste. I compositori rock hanno la missione di immergersi in un rituale sempre rischioso, per affrontare l’Ignoto della creatività. Devi mettere in pericolo le apparecchiature, portarle al punto di rottura. È come un’altra stregoneria, quella dello sciamano che mangia funghi velenosi davanti alla tribù. Per cercare la magia devi essere disposto a morire.

Quindi lei è un guaritore.

I musicisti rock, e non solo loro, dovrebbero incanalare nell’arte la violenza della società. La sfida della prima generazione di rockers era demolire lo scenario perbenista. Il rock è per guerrieri.

Se incontrasse il fantasma di Jimi Hendrix, cosa suonereste?

Jimi è la mia massima ispirazione. Ci dialogo ogni volta che distorco la sua The wind cries Mary. Ma di fronte al suo spettro vorrei piuttosto capire cosa suona ora, dopo la morte.

Lei ha lavorato con mille stelle. Da Elvis Costello a Elton John, passando per Robert Plant, Wilson Pickett o l’avanguardia jazz. Ma è legato soprattutto a Tom Waits.

Erano gli anni 80, Tom era venuto a cercare ispirazione a New York. Ci incontravamo nella cantina dove facevo base con i Lounge Lizards, dalle parti di Washington Square. La nostra prima cosa insieme fu Auld Lang Syne in un bistrot di Manhattan. Decidemmo che avrei contribuito al suo album Rain Dogs. Da lì partì la mia storia con Waits, un bluesman capace di ‘sentire’ i poeti ubriaconi irlandesi. Anche senza bere.

Un altro sodale è Capossela. Che l’ha invitata a Calitri per lo ‘Sponz all’osso’, domani e sabato.

Il primo mio set sarà acustico, in solitaria. Non so se eseguirò alcune delle mie canzoni o se improvviserò. Di sicuro troverò un accordo con me stesso. Questa è la bellezza di far musica senza altri intorno. Il giorno dopo sarò sul palco con Vinicio e non ho la minima idea di cosa vorrà suonare. Questa è la bellezza di far musica con gli altri intorno.

Che dice di lui?

Lo conosco da tempo. Il suo festival Sponz è meritorio, riconnette il pubblico ai luoghi d’Italia meno conosciuti e tutelati. Suo padre è di Calitri. Vinicio è un genio: esplora la musica a 360 gradi, e le sue liriche affrontano i grandi mostri. Billy Budd, Moby Dick, l’Odissea, la Bibbia. È entrato nell’Inferno di Dante in maggior profondità rispetto a tanti suoi colleghi rock.

Lei, Ribot, ha rivisitato Bella Ciao in inglese.

Ero geloso dei miei amici italiani che potevano intonare i canti della Resistenza. Bella Ciao è una marcia, e un poema di morte: il protagonista saluta l’amata senza sapere che la rivedrà. Nelle manifestazioni a New York dopo l’elezione di Trump sentivo ripetere solo fiacchi slogan di tre parole, niente a che vedere con la bellezza della vostra cultura. Bella Ciao è degli anni della guerra, e ci dice che dovremmo scrivere nuove canzoni resistenziali per i diritti civili, perché il fascismo non è mai morto. Trump ne era la prova.

Ma Biden non è una delusione?

Sì, se parliamo dei passi falsi sull’Afghanistan. Biden sbaglierà molte volte, e io sono spesso in disaccordo con il suo partito, ma Trump e il movimento reazionario dietro di lui avevano ucciso la democrazia.

“Dialoghiamo con i vecchi e i nuovi vertici del Paese Emergency cura tutti”

L’unica politica che seguono i camici bianchi di Gino Strada è quella del bisturi e delle bende: “Rimaniamo nel Paese da più di 20 anni, abbiamo sempre colloquiato con tutte le parti in causa: colloquiare per noi vuol dire poter curare chiunque si presenta alla nostra porta, senza obbligo di dover respingere qualcuno per motivi politici e religiosi”, spiega da Kabul la dottoressa Gina Portella, che ha raggiunto la sede di Emergency nella capitale afghana qualche giorno prima che i talebani si impossessassero della città. Dall’Afghanistan viene e va, mentre coordina le attività mediche nei teatri di crisi in cui opera l’Ong. Alle spalle l’anestesista ha molte guerre, sette anni in Sudan nel centro di cardio-chirurgia e l’organizzazione del centro per l’emergenza Ebola. Tra le sale rosse e bianche dell’ospedale non è stata ancora confermata in via ufficiale la notizia del blocco ai check point degli afghani che provano a raggiungere l’aeroporto. Se le truppe straniere hanno tempo solo fino al prossimo 31 agosto per abbandonare il Paese in cui hanno combattuto negli ultimi 20 anni, il team di Emergency rimane ed è entrato in contatto con chi adesso lo controlla.

Avete incontrato le nuove autorità di Kabul.

I membri del ministero sanitario precedente fanno ancora parte dei coordinatori, poi ci sono anche persone nuove. Non so se i precedenti vertici del dicastero verranno riconfermati, ma sono ancora presenti ai colloqui, che hanno tenuto via Zoom con tutte le Ong presenti sul territorio. Su come si struttureranno in futuro non ho informazioni. Abbiamo spiegato ai coordinatori sanitari la nostra attività, di lunga durata e distribuita in tre punti: qui a Kabul, poi a nord e sud del Paese.

Uno dei vostri ospedali è nella valle del Panshir, dove è stata rifondata l’Alleanza del Nord, resistenza armata contro i talebani.

Gli unici dati a cui possiamo guardare sono quelli dei ricoveri: nella struttura non c’è un aumento dei feriti, un incremento che faccia pensare che ci siano conflitti attivi, operazioni di contrasto o guerriglia nei dintorni. Un altro nostro ospedale è a Lashkargah, nelle zone dove ci sono stati più scontri nelle scorse settimane, ma i colleghi mi riferiscono che sono tornati a un flusso regolare. Sembra tutto nella norma, non registriamo eccezionalità rispetto al consueto.

L’Onu ha stimato ci siano già 550 mila profughi interni, molti dei quali hanno cercato rifugio nell’area della capitale. Save the Children ha riferito di migliaia di bambini soli per le strade di Kabul.

Nei giardini della città si vedono le tende delle persone che si sono mosse dalle province per arrivare qui. Se arrivano in ospedale, l’unica informazione che abbiamo è solo la zona del ferimento. Noi vediamo solo uno scorcio di città, lungo il percorso casa-ospedale e ospedale-casa. Nei giorni in cui mi sono spostata da un ospedale all’altro, la città sembrava deserta, non caotica come è di solito Kabul. Ieri non era tornato il traffico, ma un buon numero di macchine.

Anche nei momenti più difficili del conflitto siete rimasti sul territorio dove operate dal 2001 e dove avete salvato la vita a 150 mila persone.

La nostra attività è variata negli anni. Ci sono stati momenti di combattimento attivo, poi quelli degli attentati e violenze estemporanee. Nei giorni dei disordini, ci sono stati di nuovo tanti feriti da arma da fuoco. Nei giorni del caos abbiamo aumentato il numero di posti letto per i feriti gravi. Due giorni fa invece è arrivato un solo ferito dall’aeroporto, zona della città dove si verificano i disordini ed essere sicuri di cosa stia succedendo è molto difficile. Adesso la situazione in ospedale è “tranquilla”, per quel che vuol dire tranquillità qui a Emergency.

Biden e l’allerta attentati Addio Kabul, “Usa first”

“Afghanistan, addio!”. Joe Biden ha fretta di mettersi alle spalle questo drammatico capitolo estivo della sua presidenza: spera di farlo senza perdite e riportando a casa tutti i cittadini statunitensi che vogliano partire. Il presidente guarda alla sua agenda di politica interna, al rilancio dell’economia, alla questione migranti: ha un anno per evitare il tracollo che di solito penalizza il partito al potere nelle elezioni di midterm – 8 novembre 2022 – e confida che il sollievo per la fine della guerra prevarrà, a conti fatti, sul caos e l’approssimazione delle ultime due settimane.

I partner del G7 e gli alleati della Nato appaiono sconcertati: dopo avere seguito gli Usa in Afghanistan, devono fuggirne senza avere per tempo predisposto un piano di ritiro e di evacuazione che non sia una Caporetto. Respinte al G7 le richieste dei partner di protrarre oltre il 31 agosto il ponte aereo, Biden s’appresta a ordinare ai militari di completare l’evacuazione entro fine mese e di iniziare da subito a ridurre le forze sull’aeroporto di Kabul. Resta, tuttavia, valida la richiesta di predisporre piani di emergenza, se qualcosa non girasse per il verso giusto.

Su un punto, le intelligence Usa e russa in queste ore concordano: “La minaccia terroristica è molto alta”, a Kabul e altrove in Afghanistan, per la presenza di frange dell’Isis, che non sono talebani – e non sono neppure amici dei talebani – e non sono afghani, ma sono già stati capaci d’attacchi letali. Biden dice: “Abbiamo già portato via oltre 70 mila persone” in dieci giorni e stiamo cercando d’evacuarne il più possibile … Ci saranno altri 50 voli entro il 31 agosto … Non possiamo permetterci ulteriori rischi e quelli di attacchi terroristici sono reali”, ingigantiti dall’approssimarsi dell’anniversario degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001.

Donald Trump, il primo artefice di questo disastro, per l’intesa coi talebani fatta senza coinvolgere nel negoziato né governo né alleati, mette alla berlina il suo successore, il ‘Surrender-in-Chief’: “S’è arreso ai talebani e ha lasciato cittadini americani a morire in Afghanistan… Sarà uno dei più grandi fallimenti militari nella nostra storia”. Un anticipo della campagna per le elezioni. Biden intanto, prova a spostare l’attenzione sulla politica interna: con 220 sì e 212 no, la Camera ha varato, democratici contro repubblicani, una proposta di bilancio da 3.500 miliardi di dollari già approvata dal Senato per “trasformare l’America”, finanziando settori come la sanità, l’assistenza e l’istruzione e la lotta ai cambiamenti climatici. La copertura è assicurata dall’aumento della pressione fiscale sui contribuenti più ricchi e sulle grandi corporation. Il provvedimento si somma a quello per l’ammodernamento delle infrastrutture, da oltre mille miliardi di dollari, già varato dal Senato e al vaglio della Camera a metà settembre. Ma tensioni interne al campo democratico, fra moderati e sinistra, possono fare saltare il pacchetto.

I successi nel Congresso sono offuscati dalla sconfitta inflitta al presidente dalla Corte Suprema: Biden dovrà rispettare la scelta di Trump d’imporre ai richiedenti asilo del Centro America di attendere in Messico l’esito della pratica.

Iran, Pakistan e Tagikistan: profughi ovunque tranne in Ue

Non che qualcuno si fosse illuso che i singoli paesi dell’Unione europea avrebbero mostrato coesione e concordia a proposito della decisione collegiale da prendere circa l’entità delle quote di afghani in cerca di asilo da accogliere. Ciò che lascia sgomenti è tuttavia l’atteggiamento di paesi come l’Austria e l’Ungheria che non hanno intenzione di cancellare la disumana decisione di respingere gli afghani già sul proprio territorio che ancora non hanno ottenuto l’asilo o sono in attesa dell’esito del ricorso dopo un primo rifiuto delle autorità preposte. Se si considerano esclusivamente i numeri dei richiedenti asilo, Turchia, Germania e Grecia sono in cima alla lista, con circa 125.000, 33.000 e 20.000, rispettivamente.

Ecco cosa succede però nei paesi vicini all’Afghanistan.

L’Iran ha allestito piccoli campi tendati in tre delle sue province che confinano con l’Afghanistan. Ma alti funzionari del ministero degli Interni iraniano hanno affermato che tutti gli afghani che sono entrati in Iran “saranno rimpatriati una volta che le condizioni saranno migliorate”. L’Iran ospita in tutto già quasi 3,5 milioni di afghani, secondo le Nazioni Unite.

Pakistan Il primo ministro Imran Khan ha dichiarato a giugno che il suo paese avrebbe sigillato il confine con l’Afghanistan se i talebani avessero preso il controllo. Tuttavia, i rapporti dicono che diverse migliaia di afghani sono entrati in Pakistan e che almeno un valico di frontiera è ancora aperto.

Tagikistan I rapporti suggeriscono che almeno diverse centinaia di afghani, compresi molti soldati dell’ex esercito nazionale sono entrati in Tagikistan negli ultimi giorni.

Uzbekistan Si stima che circa 1.500 afghani abbiano attraversato il confine Afghanistan-Uzbekistan e si siano accampati un po’ ovunque. I rapporti suggeriscono che i talebani consentono solo alle persone con visti validi di utilizzare i valichi di frontiera ufficiali.

Regno Unito Londra ha annunciato l’intenzione di accogliere 20 mila rifugiati a lungo termine. Il programma di reinsediamento dei cittadini afghani mirerà a consentire a 5 mila afghani di stabilirsi nel Regno Unito nel primo anno e si concentrerà su donne e bambini, nonché sulle minoranze religiose e di altro tipo maggiormente a rischio.

Canada Reinsediamento per 20 mila, concentrandosi su quelli in pericolo di vita, compresi i dipendenti del governo e le donne.

Germania Berlino promette di accettare alcuni afghani, ma non ha specificato i numeri. Mentre ieri la cancelliera Angela Merkel ha ribadito la necessità di dialogare con i talebani per evitare che “l’Afghanistan diventi un covo di terroristi e facilitare le evacuazioni”.

Francia Il presidente Macron ha affermato che “proteggerà coloro che sono più in pericolo”, ma ha aggiunto: “L’Europa non può affrontare da sola le conseguenze della situazione attuale”.

Austria Esclude di accogliere i profughi.

Svizzera Non accetterà grandi gruppi di rifugiati.

Turchia Erdogan ha assicurato che non sarà “il luogo di stoccaggio dei migranti in Europa”.

Macedonia del Nord, Albania e Kosovo hanno dichiarato che ospiteranno temporaneamente rispettivamente 450 e 300 rifugiati su richiesta Usa.

Usa Stanno lavorando per migliorare le condizioni degli sfollati afghani nella base statunitense di Doha, in Qatar. Riprese video mostrano profughi sono costretti a sopportare condizioni disumane: ammassati in un hangar senza servizi igienici, cibo e acqua, tanti svengono. Ignota la destinazione finale.

L’ira dei sindacati: “Ita vuole le mani libere sui contratti”

Il passaggio del testimone avverrà oggi con il caricamento delle rotte di Ita che dovrebbe decollare con i suoi primi aerei il 15 ottobre. Ma il dado non è affatto tratto per la nuova compagnia aerea. Prima di diventare completamente operativa, Ita ha diversi nodi ancora da risolvere, tra cui la questione occupazionale. La società inizierà le proprie attività con soli 2.800 dipendenti (sugli attuali 11 mila) che, secondo il piano industriale, potranno salire a 5.700 entro il 2025, con nuovi contratti meno generosi. Gli altri 8.200 dipendenti attuali di Alitalia saranno invece dichiarati in esubero negli stessi giorni in cui Roma andrà al voto per l’elezione del nuovo sindaco. Numeri inaccettabili per i sindacati, che hanno ribadito la loro contrarietà alla sforbiciata di personale (piloti, personale di volo e terra, tecnici e amministrativi) anche durante l’incontro di ieri con l’azienda. “Le distanze che abbiamo registrato sono molto importanti, anche sulla parte contrattuale Ita ha deciso di uscire da Assaereo, manifestando la volontà di negoziare al proprio interno il contratto di lavoro dei dipendenti. La società vuole le mani libere”, ha detto il segretario Uilt Claudio Tarlazzi. L’accordo per il nuovo contratto va raggiunto entro il 20 settembre. I sindacati chiedono quindi il coinvolgimento di Palazzo Chigi in una trattativa definita “molto difficile e in salita”. Oggi invieranno una lettera al governo, sollecitando un suo intervento e contemporaneamente confermano lo sciopero del trasporto aereo per il 24 settembre prossimo. “È una situazione molto complessa che però ha delle risposte obbligate. Faremo tutto il possibile per limitare i danni”, ha detto il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti. “Adesso è anche compito degli amministratori di Ita trovare, diciamo così, la via migliore possibile. Possibile però, non impossibile”, ha aggiunto auspicando “una collaborazione con Ferrovie”.

Casa delle donne, la Regione compra la sede. Salva Lucha y Siesta. Lega: “Spot elettorale”

La Casa delle donne “Lucha y Siesta” è salva. La Regione Lazio ha acquistato l’immobile di via Lucio Sestio in cui ha sede l’associazione, vincendo l’asta del 5 agosto. L’edificio, un ex deposito dell’Atac, era finito nel concordato preventivo che ha salvato la municipalizzata capitolina dei trasporti ed era stato messo in vendita. “È un giorno speciale per tutte le donne per le quali Lucha è stata casa, per le bambine e i bambini che qui sono cresciuti”, hanno esultato su Twitter le attiviste che da 10 anni gestiscono lo spazio che assiste le donne vittime di violenza. “Oggi scriviamo insieme un pezzetto di storia”. “Abbiamo salvato Lucha y Siesta”, ha commentato il governatore Nicola Zingaretti, “perché è ipocrita riempirsi la bocca delle parole diritti e solidarietà e poi assistere senza fare nulla alla chiusura dei servizi”. Ma il centrodestra in Regione promette battaglia: “Ci rivolgeremo alla Corte dei Conti per capire se può ritenersi normale un’azione di questo genere, con l’aggravante delle solite tempistiche da campagna elettorale utili a racimolare qualche voto”, attacca Laura Corrotti, consigliera della Lega.

5 medaglie: basta anche un’ala sola

Sono Daniele Cassioli, cieco dalla nascita e 25 volte campione del mondo di sci nautico. Questa disciplina non va ai giochi ma ciò non placa l’amore per le Paralimpiadi e per lo sport fatto dalle persone disabili. Da anni vivo questo meraviglioso mondo, attualmente rappresento gli atleti nella giunta nazionale del Comitato Italiano Paralimpico.

La prima giornata a Tokyo ha visto in gara una autentica garanzia per il movimento nostrano: il nuoto paralimpico. Già primi nel medagliere agli ultimi mondiali, gli azzurri ci hanno regalato ben 5 medaglie per cominciare: Francesco Bocciardo e Carlotta Gilli oro, Alessia Berra argento, Monica Boggioni e Francesco Bettella bronzo.

I due neo campioni paralimpici hanno messo anche il punto esclamativo al proprio successo: Francesco ha fatto registrare il nuovo record del mondo e Carlotta quello paralimpico delle rispettive categorie. In questa rubrica un cieco vi racconta di 5 atleti, 3 in carrozzina e due che non vedono. Sembra l’incipit di una promettente barzelletta e invece qui ci si prende gioco del destino e celebriamo 5 ragazzi straordinari che portano a casa le prime medaglie per l’Italia. Provate a pensare di nuotare senza vedere dove state andando o utilizzando quasi esclusivamente le braccia. Robe da matti, robe da atleti paralimpici!

“Tutti possono volare, anche con una sola ala”. Questo è il tema e “We have the wings” è il titolo della Cerimonia di apertura, che allude alle ali che spingono al volo il sogno paralimpico degli atleti in gara. Sono tanti anche oggi (26 agosto) gli italiani a caccia di medaglie iridate: equitazione, nuoto, scherma e tennis tavolo, nuovi terreni fertili per alimentare l’orgoglio azzurro e inondare di valori giusti un paese intero.

Pluricampione mondiale ed europeo di sci nautico, presidente ad honorem di Piramis Onlus e operativo di Real Eyes Sport